Paradise Lost

Tragic Idol

2012 - Century Media Records

A CURA DI
GIANCARLO PACELLI
10/10/2021
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione recensione

Diciamolo chiaramente: nel variegato e complesso mondo della musica sono pochi i gruppi i cosiddetti coerenti ossia in grado di tenere testa al tempo riuscendo a non invecchiare nonostante il tempo inesorabile che passa. Questi gruppi hanno in dotazione qualità artistiche talmente elevate che sarebbero in grado di produrre musica in ogni situazione e contesti. Sono gruppi ovviamente in via di estinzione, oggi si cerca solo il successo e quando arriva lo si cavalca fino a che l'onda mediatica ti supporta. Una volta finita la foga del pubblico spasimante, abituato alla musica usa e getta, rimani relegato in un angolo ad ammuffire per l'eternità rischiando addirittura di essere dimenticato. Cosa orribile per qualunque forma artistica. Oggi però non vogliamo parlare di un gruppo cosiddetto modaiolo di questo tipo ma usiamo la nostra curiosità musicale per scoprire un disco che è rimasto vivo negli anni nonostante gli anni che passano nonostante non possiamo definirlo come il capolavoro massimo della band. Parliamo di Tragic Idol dei Paradise Lost, una delle più grandi band britanniche in grado di codificare un vero e proprio verbo musicale. Cosa non da poco, visto che parecchi gruppi storici invece di andare avanti compiendo passi artistici importanti cercano di sfruttare al meglio il loro passato. Insomma, la band di Nick Holmes  Gregor Mackintosh nonostante quella fase artistica tanto criticata di fine anni 90' inizio anni 2000, può definirsi coerente con il proprio stile musicale, ossia un metal profondo e malinconico in grado di toccare le corde dell'anime e spingere l'ascoltatore a pensare. Cosa direi molto importante in un periodo in cui la musica invece di seguire il motivo per cui è nata, ossia stimolare l'attività cerebrale ed emotiva dell'ascoltatore, cerca di virare verso strade torbide, contraddistinte da una logica commerciale. Tornando ai Paradise Lost, questo disco riesce mediante le giuste intuizioni artistiche a fare sfoggio di una qualità che sembra rimasta immutata nel tempo, gli inglesi hanno fermato il tempo e con la consueta parsimonia esecutiva hanno dato vita ad un altro disco che oserei dire vincente. I motivi non tanto banali quanto importanti da definire: i brani non perdono nulla di quell'effetto malinconico che caratterizza il gruppo dando a vita a paesaggi sonori, sensazioni mistiche, effluvi musicali degni di una grande opera, che merita ovviamente di essere vivisezionata in maniera precisa, vivisezionata con i migliori strumenti intellettuali. Tragic Idoli prosegue anche il curioso filone del gruppo ossia cambiare cronicamente il batterista: in questo episodio dietro le pelli ci sarà Adrian Erlandsson degli At the Gates, insomma un vero asso delle bacchette che al tempo collaborava con Mackintosh nel progetto, poi accantonato, dei Vallenfyre. E il disco, sebbene non presenti chissà quale stravolgimento sonoro, comunque ci permette di valutare appieno un grande percorso sonoro, che nel 2'012 poteva ritenersi già maturo. Vedremo infatti tracce equilibrate, ben costruite, poggiate su guizzi sonori a tratti oscuri ma mai fin troppo oppressivi. Insomma, la cifra stilistica della band viene qui messa in bella luce senza che siano stravolti quei connotati che li hanno resi i padroni, mi si conceda il termine, di un intero sottogenere musicale, espressione a sua volta di un nutrito numero di gruppi rappresentanti un umore, una passione.

Solitary One

Non poteva non essere la solitudine, l'introversione, la prima tematica affrontata dai Paradise Lost nella traccia Solitary One. Non sarebbe una novità, tuttavia ogni qualvolta la band tocca temi del genere dà il meglio di sé, dimostrando la propria tenacia compositiva e la propria qualità nell'espressione intrinseca dei concetti che vuole portare avanti. Dopo pochi secondi dall'inizio della canzone, due sono le cose che balzano al nostro sguardo: la profondità della chitarra di Gregor Mackintosh, in grado di dare in pochi istanti lezioni a qualunque doomers, e la voce altrettanto cavernosa di Nick Holmes. Sembra provenire da lontano, bussa la porta alla nostra coscienza e ci dona quelle emozioni ormai indispensabili. Il solo solitario è un altro affresco che da sfoggio della capacità della band di dare credito alla propria nomea di band oscura. Il solitario, protagonista, sembra duellare con una persona invece dotata di un carattere completamente opposto. Le due si combattono, non si riescono a mettere d'accordo. L'intreccio semantico scelto dal paradiso perduta fa comunque ritenere colui considerato un lupo solitario come uno che influisce negativamente su quello aperto e spensierato. Il duello tra i due prosegue, la band affonda con un modus operandi ora raffinato ora inquietante. La chitarra di Mackintosh trasuda di rabbia per la profondità che emana ma al contempo riesce a sposarsi con un growl accennato di Holmes. Ma il cantato, al posto di risultare monotono e stantio, riesce a evolversi, a crescere fino ad arrivare a punti emozionali. I Paradise Lost, in poco più di quattro minuti fanno quello che molte band odierne non riescono nemmeno ad immaginare, ossia comporre un brano ricolmo di melodia ed in grado di colpire nel segno. Il tutto poi viene colorato da quelle tastiere emozionanti che non si vedevano usate così frequentemente dai tempi di Draconian Times, ossia in tempo dove il gothic metal stava esplodendo definitivamente. Con Solitary One, traccia comunque poco conosciuta o esaltata rispetto ad altre composizioni dei Nostri, Holmes e compagni mettono a segno un colpo eccezionale. 

Crucify

Altro pezzo da novanta che ben si sposa con il resto del disco è "Crucify" (crocifiggere). Il titolo è già tutto un programma, viene esemplificato quello che è un po' lo stile notturno dei Paradise Lost: una triste metafora esistenziale che diventa la norma essendo assorbito dalle menti. Una valutazione psicologica viene effettuato con la solita verve, con la grinta vocale di Nick Holmes che si incrocia con la chitarra di Gregor Mackintosh diventa prima profonda e poi si manifesta più leggera. Crucify possiede ricamatura melodiche abbastanza definite che rendono la struttura generale solo in apparenza molle. In realtà, il gusto melodico, perpetrato soprattutto dalla chitarra e dagli affondi di batteria, diventa in alcuni spazi aggressiva e vincente. Ciò, dunque, permette al pezzo di crescere a dismisura fino ad esplodere nel ritornello: qui Nick si chiede se sta sognando, se sta realmente vivendo in un mondo reale o quello che percepisce è da incorniciare in un contesto puramente immaginifico, poco reale. "Crucify" è, per sfortuna di Nick, la realtà triste e sconsolata in cui è costretto a respirare. Si intravede, si respira un'aria molto triste, evidenziata dalla tendenza del gruppo a rendere drammatico ogni frammento. Insomma, lo stile degli inglesi, ormai più che maturo e pronto a solidificarsi definitivamente, fuoriesce in questa traccia. I momenti duri, al pari di quelli morbidi e vellutati, sono arricchiti da sprazzi di pura geometria sonora, alla cui base vi è la cura maniacale dei dettagli, coordinata da Mackintosh. E proprio qui risiede la particolarità della band, ossia avere in ogni componente un elemento fondamentale nel creare il giusto equilibrio sonoro e l'impasto tra gli strumenti che si viene a creare straborda di emotività. Crucify non cambia considerevolmente durante tutto il suo breve, e sostanzioso minutaggio, i nostri vanno sul sicuro mettendo a segno l'ennesimo colpo di genio, in un disco contraddistinto da numerose chicche di questo tipo, alcune ottime altre eccellenti, come vedremo durante il nostro percorso sensoriale di questo disco dei Paradise Lost.

Fear of Impending Hell

La personificazione della morte non è un tema strano ai Paradise Lost. La band utilizza spesso la signora con la falce per personificare un momento che è un passo naturale della vita e non un aspetto negativo. Questa visione, senza alcun dubbio lucida e razionale, lascia intravedere la capacità di ragionamento del gruppo che non si fa eccessivamente lasciar trasportare dalle emozioni. Tuttavia, qui in "Honesty in Death", onestamente nella morte, i Paradise Lost trattano il tema della morte in maniera particolare, considerandola praticamente l'unica cosa che è sensata e che da senso a questo percorso, che se visto da una prospettiva non è altro che un mero camminare nell'incertezza. Questo i Paradise Lost lo sanno ma aggiungono altri parametri importanti, come ad esempio la follia che pervade la civiltà contemporanea. Tanto è grande la follia che chi riesce a formulare ragionamenti razionali, è considerato come un essere incapace. Ma in realtà incapace è colui che si lascia imbambolare dalle presunte bellezze della vita e si lascia trasportare in un turbinio non sempre positivo. L'intro del pezzo è melodico e sopraffino, l'impianto vocale è invece ruggente e cavernoso. Nick Holmes torna ad un certo grugnito, abbastanza old school, per disegnare traiettorie vocali che vengono alimentate dalle chitarre, dal basso e dalla batteria. Sebbene le ritmiche ad incastro siano meno accentuate, il tappeto sonoro in "Honesty in Death" lascia intravedere un certo lavoro dietro, fatto di session e di sudate dietro a note e partiture. Il duro lavoro compositivo, da sempre un fiore all'occhiello della band inglese, è chiaramente la base interpretativa per capire al cento per cento le intenzioni sia melodiche che tematiche che il gruppo vuole donare ai propri affezionati ascoltatori. E anche nei momenti cosiddetti di stanca, le asce del paradiso perduto non mollano interpretando un ruolo essenziale nel dare giustizia al doom metal, che negli anni 10' del 2000 viveva un periodo non proprio brillante dal punto di vista delle uscite, se non per band come i Paradise Lost che dall'alto della loro abilità, della loro capacità di dare vita a paesaggi sonori impeccabili, continuano a sfornare brani importanti.

Honesty in Death

Da un brano prettamente gothic passiamo ad un altro altrettanto oscuro ma molto più criptico. In "Fear of Impeding Hell" - la paura di impedire l'inferno - la band da una sua personalissima interpretazione dell'inferno e delle sue conseguenze. La paura, lo sconforto gettano le nostre anime in quel luogo in cui albergano solo gli spiriti maligni, che nella loro vita hanno passato il loro tempo a fare del male agli altri. E i Paradise Lost, la cui origine miltoniana ci dà anche un aiuto nell'interpretazione di questi eventi, descrivono la paura nello sprofondare in quel luogo. "Non ho mai visto la luce, non so dove scappare / Da quella paura dell'inferno imminente / Ora ho visto il luce, la mia anima messa a nudo / Per abbandonare quella paura dell'inferno imminente": decanta un Nick Holmes sconsolato e anche impaurito in quanto ciò che gli attende è circondato da una sinistra coltre di incertezza. Ritmicamente, pochi agganci melodici inaugurano l'impalcatura sonora che segue le metriche classiche della band, quindi impregnate di doom e gothic ma anche di una forte impronta progressiva. Lo si vede nell'uso della chitarra di Gregor Mackintosh che prima dell'esordio di Nick Holmes sciorina ottimi riff che si sposano perfettamente con il clima pseudo apocalittico. In "Fear of Impeding Hel"l a farla da padrone è anche l'eleganza vocale di Nick Holmes, che come sempre dà il massimo con il microfono in mano. Sì, eleganza. Perché il nostro cantante riesce sistematicamente a regalare momenti quasi ipnotici, in cui le corde vocali sembrano non finire mai il loro percorso sonoro. Eleganza che mette in risalto anche lo smalto degli strumenti a corda, mentre la batteria segue un suo binario prestabilito, come del resto da sempre quando si immedesima in questi momenti sonori. In questo brano ancora una volta viene evidenziata la qualità del paradiso perduto di formulare ottimi ritornelli, i quali invece di ristagnare in una prevedibile e melensa ripetitività, appaiono sempre freschi e dinamici.

Theories from Another World

"Theories of Another World", il brano più lungo del lotto, si basa su un modello che non segue un gothic nudo e crudo ma ha a che fare con un heavy metal. Metal ovviamente sempre caratterizzato dalla patina notturna e sconsolato della band ma questa volta mette in primo piano la velocità dell'esecuzione, sia canora che strumentale. Nick Holmes non sfoggia il suo lato melodico e corre dietro all'impalcatura con la solita verve, la strumentazione viaggia a ritmi spediti e questa volta riesce anche a diversificarsi e a diventare più imprevedibile: lo notiamo ascoltando la parte che succede al primo ritornello, che invece di tornare su binari prestabiliti cerca di dire altro. Ed ecco che qui notiamo lo straordinario talento dei nostri, basato sul non fare mai le cose a caso, ma tutto come sempre si basa su grande ragionamento di fondo. La canzone, dal punto di vista lirico, è abbastanza criptica e difficile da spiegare. In poche parole, con le teorie di altri mondi, i Paradise Lost disegnano un percorso spirituale ed esoterico, in cui viene messa da parte la religione tradizionale. I Paradise Lost sembrano avvicinarsi alle religioni orientali e da una parte sembrano rinnegare la religione cristiana: la frase "Weary, fall on mother earth, call your other saviour / We don't adhere to fascination" è abbastanza emblematica e fa capire che è giunto il momento di chiudere con il cristianesimo che per loro è sempre stata fonte di malanni. Abbiamo bisogno di un nuovo salvatore, che ci faccia realmente apprezzare questa dimensione terrena. E per farlo dobbiamo rinnegare i precetti millenari di pochi sacerdoti e abbracciare un nuovo sistema di credenze. Dal punto di vista musicale, dal minuti 3.41 qualcosa cambia: la canzone rallenta, gli strumenti sembrano ricompattarsi in un unico vortice sonoro. Nick smette di cantare per pochi millisecondi, prima di caricarsi e tornare con più forza. Questo brano è interessante per due aspetti: da una parte rinfresca l'apparato lirico del gruppo, che spesso va a braccetto con tematiche trattate anche negli anni precedenti; dall'altra cerca di offrire una canzone più strutturata, non banale e sempre ottime nel centrare le richieste dell'ascoltatore.

In This We Dwell

Marcato da un incedere quasi martellante, In This Dweel riesce a coniugare al meglio tendenze metal con quelle tipicamente gothic. Anche se dobbiamo subito dire che l'impostazione canora di Nick sembra ricalcare solchi perlopiù heavy metal, con sfumatura che progressivamente diventano sempre più spesse ed esaltanti. Il modus operandi dei nostri, nonostante la brevità della traccia, non viene intaccato. Ciò che emerge è un impasto sonoro esaltante, che non conosce stop, che continua imperterrito nel suo messaggio quasi apocalittico. Già perché in In This Dwell viene concesso uno spaccato dantesco, fatto di anime ululanti e di esseri luciferini che corrono con le loro forche alla ricerca delle anime da catturare. Emergono poi aggettivi verbi molto forti, a cui la band tiene molto: adattare, lottare, paralizzati. Insomma, ciò che viene messo in evidenza è uno scenario biblico, l'apocalisse di San Giovanni che preconizza la fine di tutto e di tutti. Con anime impazzite, torri che bruciano, campane che suonano a morto. Nick, per l'ambiente in cui è inserito, si adatta con toni molto forti, urla a squarciagola contro questo inferno incombente, indirizza le anime buone e giuste in luoghi lontano da quelli descritti dagli avidi diavoli presenti sulla Terra. Il brano non subisce fin troppo variazioni umorali, viene perseguito più o meno il medesimo tema musicale, il quale varia solo in alcuni frangenti, come ad esempio appena la chitarra di Gregor Mackintosh si prende il palcoscenico disegnando un assolo in grado da solo di ripristinare una normalità che per le povere anima sembrava tumulata per sempre. Al pari di un sacerdote che guida le sue anime, Gregor riesce a trasportare le anime meritevoli di salvezza in un luogo sicuro, lontano dalla situazione impervia. In this Dweel nonostante non possa definirsi il miglior brano del lotto, cosa non facile da fare in quanto la qualità e la sostanza di ciò che viene proposto è realmente elevata, riesce ad incollare l'ascoltatore e a fargli vivere una vera e propria esperienza sonora, fatta di pochi slanci melodici e di tanta.

To the Darkness

Molto più gotica ma meno laboriosa è To the Darkness. Già dal titolo emergono le intenzioni del gruppo, che in questo episodio sonda il terreno dell'oscurità. Tematica, che come ben sappiamo, fa già parte del corredo genomico della band. Ma, com'è da tradizione, anche le tematiche che apparentemente sono più tranquille diventano fonti di sofferenza. Già perché per i Paradise Lost il destino dell'uomo non è legato al paradiso biblico ma ad un contesta drammatico, in cui le fiamme dell'inferno ardono come mai e i diavoli sono pronti ad inforcare chiunque osi intralciare il proprio cammino. Anche la chitarra di Gregor Mackintosh arde, con somma violenza e capacità di intercettare il vocione di Nick Holmes, che in questo caso parte con addosso una inconsueta qualità. Ciò che il cantante vuole trasmetterci è proprio una sensazione da film horror, dove nulla è scontato e tutto può accadere. Le anime sono impantanate in un contesto spiacevole, le nuvole diventano scure, i sorrisi di un tempo sono solo un mero ricordo. Tuttavia, l'impianto musicale cerca di rasserenare il tutto con un ritmo abbastanza piacevole. Ma è Nick improvvisamente a cambiare appena la canzone spinge verso terreni più oscuri: finalmente il doom insito nelle corde melodrammatiche di Gregor Mackintosh diventa più espressivo, fino a diventare un macigno degno di gruppi ben più "pesanti" dei nostri. Qui To the Darkness adempie nettamente al suo ruolo, quello di portarci per mano in un universo nuovo, inesplorato e dominato da una grande incognita. I corpi che intravediamo con i nostri occhi sono inermi al solo pensiero di affrontare un vasto territorio incognito, ma ciò che ci rassicura è la melodia che sprizza non solo dalla chitarra di Gregor ma anche dalla batteria, meno geometrica del solito ma sempre consona ad una tematica comunque relativo all'universo complesso e immaginifico del doom metal. Altro pezzo da novanta, pochi dubbi. In questo caso la band dimostra anche di saper impostare a proprio piacimento le tematiche che sono già state masticate, sia in passato, quindi nel momento più doom metal, sia nel presente, ossia dopo la parentesi elettronica e discussa a cui la band aderito a partire dall'inizio del nuovo secolo.

Tragic Idol

La chitarra di Gregor Mackintosh ci accoglie nella straordinaria "Tragic Idol", traccia che dà il titolo al nostro lavoro. Già dai primi sussulti capiamo il livello della pasta sonora che abbiamo dinanzi: la lead sfavillante di Gregor disegna i giusti passi melodici in cui sia il basso che la batteria si uniscono in un unico coro, creando una vera e propria magia, un incastro dannatamente riuscito. Nel mentre Nick Holmes entra in scena con il suo solito mood dark e completamente immedesimato nello scenario di questa canzone. Canzone assolutamente in linea con il modus operandi della band, del suo spirito nichilista duro come la pietra. Nemmeno quelle briciole di melodie lasciano spazio al nero che si staglia alla base della struttura sonora, la quale agitandosi permette ai nostri quattro di assorbire il giusto quantitativo di energia. Nero che ovviamente evidenza metaforicamente l'amore che i nostri hanno per la morte, impersonificata in quel momento in cui le anime fanno i conti con il loro vissuto. La terra rimane la salvezza, l'anima tende a sfuggire dal tragico idolo, che per i nostri ha una valenza speciale. Rimbombano in questo scenario solo parole, considerate fragili che provengono da un universo parallelo. La simbologia di questo pezzo lo rende speciale in ogni suo passaggio, dal punto di vista armonico e testuale. Nel primo caso è incredibile la capacità della band di confermarsi come artefice di un suo personalissimo stile musicale; nel secondo caso si intravedono altre influenze letterarie, che vanno da Edgar Allan Poe allo stesso John Milton, autore caro alla band perché da lui proviene il nome Paradise Lost, e una puntina di esoterismo che non guasta mai. In conclusione, l'idolo tragico degli inglesi si staglia dinanzi alle nostre anime, anche nel giorno del giudizio che tutte le religioni paventano come decisivo per le sorti dell'animo umano, riuscendo nel suo pio intento, ossia farci vivere al meglio il passaggio che ci vede dopo la nostra vita terrena. Il brano è semplicemente ben riuscito e a distanza di anni riscuote tantissimo successo tra i beniamini del gruppo.

Worth Fighting For

Come penultima traccia affrontiamo l'ennesimo viaggio nel lugubre universo dei nostri. Nick Holmes non ci dà dentro con il solito vocione cavernoso, eclettico e proveniente dall'oltretomba, ma sceglie una tattica diversa: un clean affascinante e ben coerente con le due chitarre. Worth Fighting for è un monito a lottare, a non perdere la speranza, a rischiare anche di fallire. Perché sì il fallimento in un certo senso è una condizione pur sempre dignitosa, significa dare tutto te stesso per una causa a cui tu credi. Musicalmente i nostri danzano con scelte melodiche eccellenti, accentuate in alcuni punti in modo da gestire la massa musicale a proprio favore, come è in effetti lo stile della band. Qui si vedono le inesauribili qualità compositive dei songwriters,, che invece di stagnare sui tre o quattro stilemi che conosce a memoria, cerca di spiazzare in positivo l'ascoltatore. Quest'ultimo si trova in un universo parallelo, quasi magico. Ogni frammento sonora sembra abbracciarlo, mentre anche i momenti duri, in questa canzone comunque rari, si dimostrano eccezionalmente creati. Questi quattro minuti scarsi racchiudono da soli le intenzioni che i Paradise Lost si erano proposti all'inizio: colpire l'ascoltatore in maniera positiva, con guizzi artistici degni di nota e mai scontati. Protagonista è, come al solito, sia la voce di Nick Holmes che un po' ricorda il menestrello gotico di metà anni 90, sia la chitarra di Gregor Mackintosh che non affonda mai in metriche del tutto doom ma offre anche sprazzi artistici perlopiù leggeri e dinamici allo stesso tempo. Discreta è anche la prova di Adrian Erlandsson alla batteria, il nuovo arrivato in questo disco: il suo pellame tiene giusti tempi prima di muoversi più rapidamente sia nei bridge che nelle sezioni post ritornello. Insomma, l'ennesimo bel brano dei nostri non dimostra nulla di eccezionale rispetto al valore della band, ma conferma la profondità del talento.

The Glorious End

"The Glorious End" è dotata del titolo adatto per concludere questo disco. Sin dall'inizio ben si intuisce che la qualità è elevatissima. Lo si nota nell'intercalare cavernoso di Nick Holmes, lo si evince dalla strumentazione criptica e lenta che annuisce molto al gothic (motore pulsante delle composizioni anche nei momenti più "metallici", in vari sprazzi emozionali tipici del genere. I rallentamenti a cui accennavamo agli inizi invece di dare spazio ad altri modi di intendere il ritmo e la melodia, spingono questa traccia verso lidia ancora più profondi. Con la morte in primo piano praticamente in ogni frase, sia musicale che ritmica. Si intravedono poi passaggi nettamente sabbathiani, dunque inseriti in un contesto che annuisce ai primi anni 70', costruiti dall'ascia di Gregor Mackintosh che gioca a fare il Tony Iommi della situazione con risultati a dir poco eccezionali. Poi, una volta accantonata la netta influenza dei quattro di Birmingham, la band torna sui suoi passi personalissimi. Fatti di riff ipnotici e di assoli lunghi, che si innestano nell'impianto vocale di Nick, in questo episodio molto ispirato in ogni frammento. Il suo modo di cantare rende questa descrizione della morte, intesa come gloriosa e dunque importante, assai appetibile. Solo una band come i Paradise Lost riesce a maneggiare tematiche del genere, spesso considerate un tabù, in un modo così facile, tanto da rimanere sbalorditi. Allo stesso modo si rimane sorpresi dalla semplicità di Gregor di intervallare le frasi del cantante con la sua chitarra (in questo senso la lezione del maestro Tony Iommi gli è servita parecchio), cupa in alcuni punti mentre in altri tenta di abbracciare una melodia particolare, ma sempre rivestita di quell'abito scuro tipico della signora morte con la falce in mano. Insomma, è il brano perfetto per concludere questo sostanzioso viaggio, che a conti fatti non poteva finire meglio di così..

Conclusioni

Conclusosi il viaggio di questo disco, Tragic Idol, possiamo constatare alcuni aspetti importanti ai fini dell'analisi. Anzitutto la solita imponente impalcatura sonora la quale prende corpo praticamente in ogni sussulto sonoro, anche in quei brani che non hanno retto alle leggi del tempo (cosa che capita a tutti i gruppi, anche quelli dotati tecnicamente e con esperienza alle spalle). E il fatto cronologico è fondamentale per compiere un ulteriore considerazione: a prescindere dalla "novità" sonora proposta, quante altre band datate sono in grado di offrire ancora tantissimi spunti sonori, mai scontati sebbene siano comunque perimetrati in un contesto specifico, fatto di chitarre pesanti e ululati lupeschi? Insomma, i Paradise Lost sanno quello che bisogna fare per scrivere un disco vincente, sono ancora quel grande gruppo che magari una fetta di uditorio aveva fin da subito bollato come traditore in quel momento in cui cambiarono casacca, sposando un modus operandi elettronico e ammiccante agli anni Ottanta. Ma invece anche loro sono costretti a ricredersi: dalla misteriosa "Solitary One", a parere di chi vi scrive una delle tracce migliori dell'ultima "fase" della band di Halifax per quel suo incedere morbido e a tratti violento, fino alla title-track passando per l'ultima e incisiva "The Glorious End" che suggella poi il finale perfetto di un tutto un composto sonoro già prima sfavillante. Da notare è anche la presenza meno preponderante del chitarrista solista, e ricordiamo anche tastierista e principale compositore dei brani. Gregor Mackintosh: quest'ultimo in questo periodo ha dato sfoggio di una spiccata volontà di diventare il pilastro non solo chitarristico ma anche del resto degli strumenti. Un vero e saggio direttore di orchestra in grado di indirizzare con sapienza ed esperienza tutto l'amalgama che progressivamente ha preso vita. Basti vedere la qualità dei ritornelli che invece di rappresentare la sezione sonora più scontata, come nell'ossatura principale dei pezzi heavy metal, alzano il livello di tutto il brano: e qui ecco che si manifesta in tutta la sua grandezza, nonostante gli anni sul groppone, la voce possente di Nick Holmes, che diciamolo nella sua specialità e perizia potrebbe veramente fare quel che vuole, anche reggere da solo un brano senza l'ausilio magari di un solo di chitarra o di un colpo di batteria millimetrato. È lui, come da più vent'anni, la stella su cui gli altri strumentisti viaggiano con quella stessa delicatezza con cui anni prima avevano scritto veri e propri capolavori, ancora oggi giustamente celebrati e amati sia dal pubblico più intransigente, magari amante della fase più metal del gruppo, sia da quelli che invece hanno scoperto il gruppo nei complessi dischi di fine anni Novanta. Ma tutto questo, in fin dei conti, non importa: parlare dei Paradise Lost significa dare credito ad un grande ventaglio di suoni e di suggestioni, le quali invece di cozzare diventano un unico paradigma che poi si manifesta sempre più corposo e, per questo, sostanzioso ed invitante da ascoltare. E, nonostante siano passati anni dalla pubblicazione, il disco Tragic Idol è stato pubblicato nel "lontano" 2012, rimane assolutamente un disco vivo e vincente, a dimostrazione che quando la musica è composta con una certa ratio e quando chi la maneggia sa cosa fare, non ci sono anni o tendenze, anzi mode, che tengano: la musica di qualità rimane tale anche se dovessero passare decine e decine di anni. Insomma, in conclusione, che siate o no dei fans dei Paradise Lost, o che amiate o no la loro musica, il consiglio è quello di ascoltare questo disco, non una ma più molte, in modo da assorbire al meglio le traiettorie e le suggestioni sonore che contiene.

1) Solitary One
2) Crucify
3) Fear of Impending Hell
4) Honesty in Death
5) Theories from Another World
6) In This We Dwell
7) To the Darkness
8) Tragic Idol
9) Worth Fighting For
10) The Glorious End
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