PARADISE LOST
Symbol Of Life
2002 - GUN Records
GIANCARLO PACELLI
19/10/2019
Introduzione recensione
Nel mondo della musica, e più in particolare in quello del musicista, è difficile dare freno a quella forza interiore che ti cerca di spingere sempre oltre i confini. Il musicista di per sé è un esploratore, un avido ricercatore dei suoni più disparati, che mirano nel loro intento quasi fisiologico al dare forma alla propria arte, che solo in apparenza può sembrare come un prodotto anonimo e "senza sudore", ma che invece è la perfetta espressione dell'intento artistico stesso. Se c'è un gruppo che ha sempre dato la propria impronta nonostante un "voltafaccia" clamoroso negli ambienti metal dopo un decennio (o giù di lì) di lavori fondamentali, erano di sicuro i Paradise Lost, che possono essere tranquillamente etichettati con il prototipo dell'artista "lottatore" che abbiamo descritto in precedenza. Di certo i pericoli nel mutare così radicalmente la propria essenza ritmica erano elevatissimi, il più lieve di tutti era la perdita degli storici supporters; ma il tutto verosimilmente poteva essere bilanciato con l'arrivo di una nuova sezione di ascoltatori forse avversi all'impasto sonoro lento e oscuro dei primi lavori, e avvezzi invece all'easy-listening dei Paradise Lost della fine secolo del secolo scorso. Il cambiamento dopo "One Second" (1997) fu viscerale, devastante: si passò con rigore da assoli tagliagole sfornati dalla chitarra principale ad una leggerezza ritmica che invece doveva necessariamente allontanare la complessità dei fraseggi solisti al fine di costruire suoni armonici e melodici, opportunamente indirizzati verso un tipo di pubblico. Ma attenzione, non è un modo per proporsi come cibo dell'audience commerciale, assolutamente no; è giusto dire che i cambiamenti dell'etichetta discografica furono influenti, ma la cosa più importante era la volontà stessa della band di non essere ancorata in un unico apparato musicale, ma sperimentare, sperimentare a più non posso, accettando anche il fatto di poter perdere tantissime cose, tra cui ovviamente anche una fetta di pubblico. Ci eravamo lasciati nel 2001 con un discreto "Believe In Nothing", lasciandoci con il desiderio di assaporare una nuova evoluzione pragmatica con il suono del successivo platter; non era un caso, che al di sotto di un mutamento cosi' incessante, vi era un'evoluzione studiata, una statuaria volontà del combo di far emergere sempre di più il vecchio stile del paradiso perduto, imboscato in questa foresta fatta di rovi manageriali e detrattori, di speculatori che non si erano risparmiati nel giudicare la band di Halifax come un gruppo in grado soltanto di far riemergere mode al fine di aumentare il loro grado di "rockstar". Tutto questo è sbagliato: Gregor Mackintosh e Nick Holmes, le due menti principali, erano al corrente del percorso intrapreso e dei rischi da cui ne derivano, il loro estro stilistico non era minimamente cambiato sin dai tempi da "cantina" di "Lost Paradise" e di certo non cambierà mai. Il successore designato dopo "Believe In Nothing", fu "Symbol Of Life" che si portava in spalla il ruolo di dover sorprendere ancora una volta il mondo musicale, che non era minimamente pronto, come nei tempi precedenti, ad ogni uscita discografica dei nostri tanto che questi ultimi, ad ogni disco pubblicato, davano sfoggio a costanti cambi di personalità. Simbolo della vita? I padrini del suono lento e assalitore, ora si mettono a parlare dei valori positivi dell'esistenza umana? Niente di più sbagliato, il percorso in bilico tra il dissacrante e il malinconico proseguirà anche in questo album, che ospiterà per l'ultima volta dietro le pelli Lee Morris (batterista che aveva preso il posto di Mattew Archer dopo "Icon"). Un rinnovato terreno sonoro che avrà anche ospitate di un certo calibro in alcune tracce: il prolifico canadese Devin Townsend noto per gli Strapping Young Lad, il fondatore dei fondamentali doomster Cathedral Lee Dorrian (colui che aveva anche preso parte alle prime release dei Napalm Death, il rivoluzionario "Scum" e il potentissimo "From Enslaved To Obliteration") e l'eterea voce femminile di Johanna Stevens, un modo ulteriore per infarcire il "gothic background" della band.
Isolate
A inaugurare "Symbol Of Life" è il primo singolo, che la band britannica ha lanciato prima del rilascio del full-lenght. Gli sprazzi derivati dall'esperienza sintetizzata di "Host" prendono la loro essenza anche qui, nei primi scorci in cui una nube elettronica viene soggiogata da tastiere dalle ampie vedute; proprio queste ultime sono indubbiamente il piatto forte di questa "Isolate", si dimostrano infatti propedeutiche per il primo sfarzoso intruglio di chitarra, ritmato da una solidissima batteria, che attraverso dinamiche rapide detta i tempi delle schegge iniziali. La rapidità di esecuzione contrasta invece con l'intento narrativo che la band vuole mettere dinanzi agli occhi di noi ascoltatori; non serve un'analisi attentissima nel ribadire che l'isolamento è una delle condizioni più amare a cui ogni essere umano può andare incontro durante il suo cammino. L'essere abbandonato da tutti è immedesimato in un processo dalla non facile uscita, il guardare al futuro non con speranza ma con paura, in queste condizione, diventa la normalità. "I'm sent for elimination /To where i cannot know, but i'm lost without a chance in hell / And i'm lost with doubts i can avoid this come feel the fire burn i'll slowly drift away / A victim of the future my mind and soul decayed" (Sono stato mandato per l'eliminazione / Per dove non posso sapere, ma sono perso senza una possibilità all'inferno / E sono perso con i dubbi che potevo evitare, sento il fuoco che brucia lentamente, andrò via alla deriva / Una vittima del futuro, la mia mente e la mia anima sono decadute). La base tematica affonda il suo coltello con maniacale predisposizione, e in tutto questo la colonna sonora è un drumming veloce, impastato con un riffing a tratti impetuoso e preciso, capace di dettare le regole strategiche dell'economia del suono. Un sound vivace e corpulento che fa della distorsione un ripieno fondamentale per il fluire melodico delle vocals di Nick Holmes; qui il performer subentra con grinta e determinazione, seguendo le partitura di questa "Isolate". Il rettilineo percorso delle due chitarre sembra abbattersi su di un asfalto sicuro, ma nonostante la semplificazione del gettito strumentale, ricamano soluzioni dirette e ammassate con il lavoro altrettanto essenziale delle tastiere. "Isolate" macina terreno, corre con la sua grintosa sezione ritmica che trova il suo punto impeccabile nel fortunato chorus. Non mancano cambi di tempo, stop ritmici che dal secondo minuto donano un sano brio occasionalmente aggrovigliato dalla ottima attitudine dei nostri musicisti. Musicisti che fanno vedere le loro doti soprattutto in passaggi solistici, come avviene, negli inizi del secondo minuto, con un assolo di tastiere di un noto session man chiamato dai Paradise Lost per la sua perizia tecnica, Jamie Muhoberac. Questa Isolate si rivela come un brano abbondantemente melodico, in cui però non mancano parti più "rabbiose" regalate dal discreto Nick Holmes al microfono.
Erased
Come abbiamo accennato nella nostra introduzione, il tastierismo organico dei Paradise Lost ricopre ancora un ruolo più che importante nella chimica sonora proposta; il corrodere dei tocchi di tastiera ricopre non solo un ruolo propedeutico per il corposo drumming di Lee Morris, ma rilascia anche una fragranza che si incastona con il mood trascinante e oscuro del moniker Paradise Lost. La differenza dell'uso delle tastiere, come vedremo, sta infatti nelle loro capacità di addentrarsi nell'impianto ritmico; quindi le tastiere non sono più concepite come un arma al fine di dare vita a costrutti sintetizzati, ma la loro essenza viene appositamente amalgamata in un corredo di sound ora più pesante e tendente ad un groove che si può definire "deciso". Le summenzionate tastiere, guidate dal chitarrista Gregor Mackintosh, amministrano il suono della seconda Erased (Cancellato), traccia facente parte del terzetto dei singoli promozionali, in cui domina un clima dall'ampio respiro gotico; la melodia è intima e vera, pone la sua basilare genesi su una timidissima sezione ritmica in cui non si fanno mancare spruzzi elettronici. "Erased" carbura nei suoi primi istanti, è un motore floreale che sta innestando la marcia giusta, grazia anche ad una decisa distorsione, la quale stralcia una nube che si stava ammassando su se stessa, creando uno strato impenetrabile; qui le corda ruggenti di Mackintosh usufruiscono del loro potenziale ritmico che viene infarcita con grinta grazie a linee di basso abbastanza decise. Il drumming, partito lento e cadenzato, ha progressivamente abbracciato anche lui il clima arroventato, scuro di "Erased". La traccia danza su specifici stilemi atmosferici, abbastanza decadenti e tipicamente pitturati dal quel sapore distruttivo ma al contempo romantico della band britannica; tutto è pronto a trasformarsi in un affilato coltello, tutto ciò che ti circonda può essere la tua condanna, quindi è meglio sparire, essere cancellati per evitare sofferenze che ti attanagliano. Il temperamento freddo e poco positivo dei nostri scalfisce anche ciò che di buono abbiamo udito nelle prime escursioni iniziali, in cui tutto il suono è gonfio di melodia tanto da implodere su se stesso, e qui il ruolo primario è ricoperto da Lee Dorrian. "How cold is this poor life / Lay ashes at my grave" (Quanto è fredda questa povera vita / Cenere sulla mia tomba); cari lettori che cosa si può aggiungere dopo aver letto queste due frasi? Assolutamente nulla, la capacità di dare vita a tali lande desolate rimembra il solido background della band, quello gotico di matrice britannica, ossia spettrale e spietato. I duelli tra basso e batteria segnano i solchi del brano che viene ulteriormente agitato dalle vocals elettrizzanti di Nick Holmes, che pongono la loro massima caratura nel ritornello in cui ad accompagnare il cantante è un ospite femminile (Johanna Stevens ), che fa si che l'atmosfera riesca ad essere ancora più solida e tridimensionale. La seria condanna alla religione è una delle spinte del lirismo di "Erased", mentre quel "cherish my religion" pronunciato dalla singer, è il tentantivo di un terzo interlocutore di spronarci a farci tornare nel misticismo religioso; ma noi non cambiamo idea in quanto capiamo che questa, invece di essere la nostra ancora di salvezza, è la nostra condanna. Il forte territorio lirico non intacca con la composizione che si mostra assai gradevole e dinamica nella sua apparentemente struttura semplicistica. Una forte essenza strumentale riesce a premere nel finale in cui una forte distorsione ricamata da un discreto break ci prepara per una nuova riproposizione del chorus, ripetuto con forza e con grinta dalle nostre due voci.
Two Worlds
Assaggiati i primi due brani, nonchè singoli del nostro album, non ci resta che scrutare, con la curiosità sempre a portata di mano, la terza traccia, Two Worlds (Due Mondi). Un terreno lirico che subito subentra con le sue rigogliose sembianze gotiche a partire dal semplice titolo, ossia due mondi; nella mente dei nostri songwriter, il mondo che noi percepiamo in ogni istante della nostra vita, è casa per quelle ombre nemiche che in modo o nell'altro sembrano circumnavigare la nostra essenza, fino a colpire con forza. I brusii iniziali della traccia entrano nella funzione sistematica del brano, ammantando precise sensazioni, giostrando una oculata atmosfera che si sta formando, al limite del surreale. Forse in questa "Two Worlds" subentra il vero significato del platter, ossia simbolo della vita. Quale può essere il sentimento che marchia a fuoco l'esistenza di ogni essere umano? Ovviamente il sentimento del fallimento è la nostra risposta, a cui si aggancia la sensazione di prigionia, il voler compiere azioni, magari pure erronee o azzardate, ma inserite in un contesto immobile in cui le percezioni sembrano congelate. I Paradise Lost disegnano con una nera matita un universo assai complicato, in cui persino le persone più care sembrano volerti male, ma non un male fisico, un male che si trasmuta in dolore che colpisce l'anima; sguardi attenti, attimi fuggenti che corrono all'impazzata, e poi il sentimento del rimorso, che circonda il tutto. Cari lettori, i Paradise Lost hanno l'anima che ribolle in ogni minimo granello lirico, con quei schiamazzi iniziali che subito si trasformano in ritmati colpi di pellame e in una chitarra presente, che impone con prepotenza la sua corrosività. Una volta partito il brano, le sensazioni immesse sul pentagramma si girano e si rigirano tramite la velocità con cui Mackintosh ha nello scalare di note e colpire con discrete armonizzazioni; proprio queste ultime diminuiscono di mordente proprio quando Nick Holmes entra nel terreno di gioco, coadiuvato da una registrazione che va a valorizzare quell'aura da storyteller vissuto e romantico, un'anima britannica in tutto il suo aspetto estremamente malinconico. Entra Holmes e "Two worlds" subisce una marcia in più, vuoi per la sua presenza altamente scenica o per la semplice commistione della sua impronta vocale con la sezione strumentale, ma il brano si fa carico di melodie abbastanza convincenti. Ma non è finita qui: nel ritornello, che prosegue l'asse musicale appena descritto, interviene uno degli ospiti del disco, ossia il canadese Devin Townsend che amalgama il suo range vocale nei picchi del chorus, in cui anche le vocals di Holmes puntano discretamente in alto: "And i've never seen my hands / And i couldn't walk away / Two worlds are the same tomorrow / Still i must not complain" (E non ho mai visto le mie mani / E non potevo andarmene / Due mondi sono gli stessi domani / Ancora non devo lamentarmi). Il tuo corpo subisce pesanti ritorsioni in questo famelico mondo immaginario in cui le mani, il simbolo dell'operosità e della diligenza, non esistono; non si può agire, è una condanna a cui tu anima sei sottoposta. L'apocalisse sonora di matrice lirica sembra andare a braccetto con la musica dei miltoniani, assai introspettiva e profonda, anche nella riproposizione della parte iniziale; qui alcune partiture elettroniche fanno sentire la loro presenza in un sound tendente al metal ma non tipicamente figlio della musica pesante. Il rebus sul quale genere incasellare la proposta musicale continua attraverso una trascinante sezioni ritmica, con la chitarra principale protagonista assieme a spruzzi sintetizzati che danno un discreto tocco all'arazzo ritmico che nel finale, tra uno stop improvviso e un altro, arricchisce questa traccia dai toni molto malinconici.
Pray Nightfall
La mente è uno dei terreni più inesplorati in assoluto nel campo delle scienze, ed è, al pari dell'universo stellato, uno degli aspetti più misteriosi a cui l'uomo abbiamo messo mano; secondo il filosofo Cartesio è inutile adoperare un pensiero critico al fine di risolvere la matassa che corrisponde ai circuiti cognitivi, dato che è un concetto circondato da una finitudine assoluta che l'uomo non potrà mai risolvere a suo favore. Ma non addentriamoci troppo in aspetti filosofici, sebbene siano molto interessanti, e intendiamo ora il concetto mente all'interno del mondo moderno cosi come i Paradise Lost sono intenzionati a disegnarlo: secondo i nostri la mente viaggia, non è statica dentro alla nostra testa , li ci sono tutte le domande con tutte le risposte correlate. La mente è un elemento cardine, assoluto nel percorso intellettivo a cui i grandi pensatori del passato sono devoti, anche i nostri, nel "loro piccolo" tendono parlarne. Ecco che mattoncino dopo mattoncino arriviamo al punto nevralgico del discorso dei nostri miltoniani che con la loro Pray Nightfall (Pregare la notte) innescano un quadro filosofico dalle innumerevoli sfaccettature; ma a discapito del senso lirico che andremo ad affrontare, la quarta traccia inizia decisa, con un temperamento discreto e sincero. Un colpo alle pelli e contemporaneamente il charleston fanno la loro figura, fino a che il meccanismo sonoro corra per inerzia per poi scontrarsi con i sospiri di Nick Holmes che fa subito percepire la sua essenza canora nonostante il brano sia ancora alla sua fase squisitamente embrionale. Il gusto rock primeggia nelle strutture iniziali grazie ad un guitar working dosato e intelligentemente immesso nel processo iniziale a cui Nick Holmes a breve darà il suo contributo. Sedici secondi fumosi e splendenti nelle partiture sin troppo semplicistiche in cui ogni elemento primeggia con il minimo indispensabile, che però è decisamente perspicace nello giostrare il giusto suono con un corretto modus operandi; quest'ultimo subisce una torsione decisiva quando Holmes infligge con una spada dialettica il suo cupo e ancestrale modo vocale che impatta molto bene con il lavoro di chitarra principale, innescato su lidi ora ancora più leggeri rispetto agli impulsi elettrici di qualche secondo fa. "In my head this all is in my head this all is / In my head this all is in my head this all is / In my head" (Nella mia testa tutto questo è nella mia testa, tutto qui / Nella mia testa tutto questo è nella mia testa, tutto qui / Nella mia testa). La testa, ossia più generalmente la mente, è la chiave di volta per intendere il modo con cui ci approcciamo col mondo, e come i Paradise Lost ripetono più volte: "è tutto li". "Pray Nightfall" ci accarezza nonostante l'alta caratura con cui sono gestite le vocals di Nick, inserite in una catarsi con la strumentazioni tesa a sottolineare il carattere del brano, dove la certezza è che noi siamo solo punti inseriti in un contesti ampio. Col passare dei secondi, la chitarra scema di profondità e si dota di una minore presenza in una funzione unicamente atmosferica, in cui alcune tracce elettroniche viaggiano e si scontrano con la voce ora ribassata di Holmes prima di risistemarsi in un angolo appena la prima strofa dei britannici è stata archiviata; qui il profondo chorus punta ogni minimo aspetto tecnico verso ambientazioni alte e sommariamente relegate in un pacchetto dove spiccano le doti vocali di Nick, assolutamente intoccabili nel loro appeal dark. I cori sullo sfondo entrano quasi in punta di piedi per non alterare troppo la struttura principale, prima che il tutto venga amalgamato e indirizzato verso la prima sezione del brano che abbraccia alcuni canoni sinfonici. Prima del gran finale, alcuni stop ritmici fanno si che le corde vocali del singer britannico siano ancora più predisposte nel loro seminale intento di spronarci e farci immergere nel buio della notte. A conti fatti "Pray Nightfall" è un brano vincente, diretto; in fin dei conti sembra strano che il combo di Halifax non abbia proprio scelto questo brano per eleggerlo come singolo, aveva tutte le carte in regola per adempire a questo ruolo.
Primal
L'attitudine alla rassegnazione, al rimorso, al devasto dell'idea che ogni ora ti erode una parte del proprio essere, è il punto costante del pacchetto lirico della band britannica. Il meccanismo mentale che abbiamo cercato di inquadrare nella traccia numero quattro "Pray Nightfall" tende a rimaterializzarsi anche nella quinta canzone del lotto, Primal (Primitivo). Primitiva è la carne umana, di primitiva concezione è la selezione naturale di eventi e di fatti che ha portato a produrre la mente, specchio di un universo interiore dall'immane grandezza, non fisica ma prettamente sensoriale. L'uomo non ha le capacità pratiche di conoscere cosa sia la mente, in quanto si presenta come un circuito cognitivo complesso; "Primal" non può snocciolare i primi tumulti atmosferici seghettando l'armonia con una calma tale da farci salire la curiosità sul come la band andrà a costruire il proprio quinto brano; quest'ultimo inizia con rimembranze femminili dell'ospite Johanna Stevens che ammalia le nostre orecchie con brevi accenni corali, immersi in un quadrante rigoglioso. Ma ecco che, dopo pochi secondi, la sezione ritmica inizia a scalciare interponendosi tra i leggiadri spruzzi vocali che vengono fermati dall'impetuoso lavoro di batteria iniziale; il drumming a sua volta si impasta col lavoro di chitarra di Gregor Mackintosh, lieve ma preponderante nella costruzione del sound, spiccatamente più distorto rispetto alle precedenti track analizzate. "Primal" esordisce con un sonoro "It's deep in the mind" (è profondo nella mente), che ci fa percepire il clima lucido e avanzato della traccia, in cui si mette a fuoco la profondità della mente e la incapacità di proseguire affondo nella ricerca delle peculiarità di quest'ultima. Proprio la mente è sede delle nostre emozioni, dei nostri pensieri che combattono tra di loro procurando un affanno alla nostra essenza. Il vivere diventa difficile, cosi come il guardare il futuro con occhi speranzosi; tutto ciò che passa sotto l'abbagliante torcia del combo di Halifax si affievolisce e diventa tetro. Buie sono sicuramente anche le vocals di Holmes che ,come ben immaginavamo, si mescolano a dovere con la melodia iniziale, non fruibile e liscia, ma distorta e spigolosa. L'innesto del vocalist annienta la rovente imprimitura heavy iniziale per disporre questa "Primal" in lidi più melodici e soffici; ma anche quando le vocals di Nick rompono l'ottima catarsi iniziale, la presenza di ogni strumento compie il proprio ruolo, soprattutto il basso, che ora come ora diventa l'alfiere della traccia; in primis quando l'ascia principale viene posta in un "dietro le quinte" verso la metà del primo minuti per poi ricomporsi attraverso guizzi melodici rigorosi. E il nostro vocalist come si pone? Ovviamente segue l'andamento della sezione ritmica stilosamente, abbassando il suo range vocale con alcuni accenni verso note alte. La batteria scandisce i tempi, soprattutto quando il riffing si dilata fino al massimo nel ritornello, ampiamente armonioso e aperto verso nuovi varchi interpretativi; qui la distorsione delle due asce diventa propedeutica per la costruzione del corpo centrale del suono di questa "Primal", che sta dimostrando tutta la sua validità. Il chorus è ampiamente costruito su interessanti contrasti tra toni alti e bassi, in cui proprio la nostra voce si impone a meraviglia. Dopo la seconda riproposizione del chorus, in cui quel "Don't let me down (Don't let me down) " (non deludermi) viene ripetuto con una grazia unica e alquanto disperata, ecco che la traccia subisce di un cambio di tempo. La chitarra diviene più concentrata, ammaestrando toni decisamente alternative, prima di esplodere di nuovo con il ritornello, introdotto dall'ottimo Lee Morris.
Perfect Mask
Una chitarra ampiamente, stilizzata verso territori atmosferici, sfuma con una vibrante corposità per poi agganciarsi all'incedere frammentato del drum working di Lee Morris che, adagiandosi sulla chitarra principale posta in background, si compatta velocemente. Le prime battute di questa Perfect Mask (Maschera perfetta) sembrano trascendere l'aspetto musicale e prendere forma invece verso un indirizzo cinematografico: il protagonista della scena proposta dal paradiso perduto è un killer spietato, animato da nessun sentimento di redenzione; è sempre pronto ad infliggere il colpo di grazia a chi lo ostacola senza preoccuparsi del lato umano di chi ha di fronte. Vive con una "maschera perfetta", talmente posta sul suo viso tanto da assumere una importanza fondamentale e da condizionargli le azioni. I ritmi della traccia sono assai veloci, soprattutto se visioniamo la sezione del drumming che sembra assumere sembianze di una macchina; e in questo mare sonoro le vocals di Nick Holmes esordiscono appositamente disconnesse e filtrate, amalgamandosi con il rapido lavoro di chitarra di Matthew Archer che interpone la sua performance con la lead guitar, che si pone invece attiva e perspicace nel mettere ordine alle vocals. Vocalizzi abbastanza confusionari, che mettono in pratica le emozioni malsane del sanguinante killer che non si fa problemi a distribuire il male nei solchi in cui cammina; Nicholas assume sembianze canore differenti, distorte e estremizzate in alcuni punti mentre profonde in altre parti, una malleabilità che va a giovare all'economia di questo brano che non smette di accelerare e rallentare secondo tempistiche ben precise. Accenni solistici della chitarra principale cercano di porsi tra il lavoro organico di basso di Edmonson e quello essenziale della seconda chitarra, creando il giusto territorio sonoro. Forse proprio qui emerge l'intenzione di ibridare le lievi rimembranze elettroniche, sebbene non siano copiosamente inserite nel contesto sonoro, con le staffilate delle due chitarre che si intrecciano a sufficienza per dare vita ad una sezione ritmica abbastanza compatta. "Help me... I dare say theres no other way / Help me... I dare say theres no other way to go" (Aiutami ... oserei dire che non esiste altro modo / Aiutami ... oserei dire che non c'è altro modo di andare). È il momento del perdono? Il killer con le mani sporche di sangue sta cercando di trovare aiuto? Da una certa prospettiva un assassino spietato non avrà mai le capacità per voltare pagina, ma i Paradise Lost donano un filo di fiducia e danno al protagonista della track un ruolo elastico e perchè no anche intaccato da peculiarità speranzose. L'ariosità delle due asce fa si che il clima da oscuro e maleodorante dei primi secondi diventi leggermente più ottimista; mentre il chorus si propone accogliente abbracciando una nuova faccia delle vocals di Nick, che premono sempre di più adottando una volontà di sopraelevarsi verso vette di un certo calibro, prima che la sezione rumorosa del brano si impossessi di quest'ultimo. Tutto questo verso gli sgoccioli del secondo minuto in cui riverberi e vocals in loop si sovrappongono in un marasma di suoni, a tratti lisci e asciutti mentre in altri distorti e impiantati verso un groove dall'indubbio tocco atmosferico. Una traccia che assume mille forme, dove convergono molti elementi dei Paradise Lost attraverso una costruzione dei suoni molto particolare.
Mystify
Mystify (Mistificare) si impianta lungo la base del platter con molta energia, in quanto sono abbandonate le soluzioni dal sapore doom a servizio di un riffing dark e implementato in un territorio abbastanza privo di avversità, e per questo favorevole alle gesta della nostra band. Attitudine aggressiva, immessa in uno stile assai rockeggiante che strizza l'occhio ad un gusto alternativo, in cui alcune plettrate fulminee segnano un suono che punta ad ammassarsi, con tutte le proprie energie a disposizione; un brano appunto che si presenta passionale e a tratti sulfureo, impiantato in un mood lirico che segue il quadro strumentale. Chi meglio della nostra band può sbandierare il concetto di cambiamento? Nessuno meglio dei Paradise Lost sa cosa significa cambiare e incontrare una marea che gli va incontro; il mondo che viene squadrato in questa traccia segue un "prima" e un "dopo. Vi è quindi un chiaro riferimento alla storia della band? Questa "Mystify" si concentra proprio su questi termini, scolpendo un'atmosfera a tratti aggressiva, mentre in altre sezioni trabocca di malinconia: è lo stile del paradiso perduto che si pone come un collante tra varie schegge, apparentemente discordanti, che trovano il loro punto d'unione decisivo nel riffing dinamico delle due asce, in cui spicca la lead guitar di Mackintosh ,motore e fautrice dello scandire il fulminante drumming oscillante di Lee Morris; quest'ultimo con una sana attitudine rock, corrompe il sound con una torrenziale capacità ritmica. I Paradise Lost sono dei narratori della loro condizione, ma in una maniera inconsapevole servono sul piatto d'argento il modo di vivere dell'essere umano nella sua "intimità" più profonda. Nei frammenti iniziali Holmes, con non poche difficoltà, impone il suo range con toni pianificati su ritmi goth rock; un clima in cui le staffilate chitarristiche, ampiamente ragionate anche se apparentemente disconnesse tra di loro, dominano e scemano il loro caldo stile a seconda dei vari "alti e bassi" tonali del vocalist. Nello sviluppo del brano come sempre un ruolo decisivo lo svolge il chorus, proprio perchè riesce a convergere tutta la forza dei Paradise Lost in pochissimi secondi; in questa sezione il ruolo di co-vocalist va di nuovo a Johanna Stevens, la cui voce sembra essere nata proprio per agganciarsi al range di Nicholas. Il colpo di scena che va ad arricchire il brano è l'assolo di Gregor Mackintosh, che ridisegna soluzioni brevi e concise, basilari nel prosieguo del brano; riverberi, alcune sequenze in loop, le chitarre appositamente rumorose, voci filtrate che si incastrano a dovere: sono tutti tratti stilistici che ammassano il loro potenziale con una schietta armonia. "Mystify" trasuda di sincerità, di melodie decise anche se appositamente sgretolate per apprezzarne ancora di più la loro valenza dark, oscura fino al midollo. E in tutto questo un ruolo di discreta rilevanza sono alcune partiture elettroniche che sono create e inserite nel rettangolo musicale per valorizzare sia lo stile dietro le pelli di Morris, secco e deciso, che la decadenza di Nick Holmes, la cui veemenza esplode con una catarsi sensoriale nei battiti finali.
No Celebration
Sopraffini arrangiamenti si prospettano nella traccia numero otto di un lavoro che ci sta regalando ottimi momenti; ma come vedremo, con la prossima song, abbiamo di fronte il meglio della produzione di questi Paradise Lost. No Celebration (Nessuna celebrazione): un'espressione caricaturale della fine negligenza dei miltoniani di Halifax, la quale subentra nel lotto delle tracce spodestando alcuni paletti importanti e gettando un nuovo universo sonoro che ribolle al di sotto dei nostri attenti occhi, forse oscurati da cotanto temperamento notturno. I sensi sotto l'ottica degli inglesi assumono torsioni differenti perdendo il loro brio primordiale; la situazione cardine delle capacità liriche dei nostri sta nel capovolgere un evento felice e spensierato e renderlo un'autentica tragedia, che consta di una serie di minuti palpitanti che si susseguono l'un l'altro, senza un attimo di respiro. Nemmeno il festeggiamento del nuovo anno(nel caso specifico di questa traccia), che nei paesi occidentali e un po in tutto il globo, è sempre stato considerato come evento speranzoso, riesce ad attecchire la violenza che trasuda dalla penna di Nick Holmes e Gregor Mackintosh. Il nuovo anno, al contrario, è simbolo di pesantezza, è un macigno da sopportare; un macigno che contribuisce ad aumentare la depressione, un tema mai trattato esplicitamente dal nostro combo ma ha preso sempre parte del backgound lirico. Eh già la depressione, sentimento imperante del mondo moderno, un incudine legato con forza alla coscienza di chi l'ha conosciuta e di chi la conosce ancora. Nessuno ti cerca, sei solo e dal canto tuo non desideri nessun aiuto da parte di coloro che secondo la tua visione sono responsabili del tuo male di vivere. A questo proposito, a brano iniziato colpisce quel "you just don't care" (non te ne importa), che non necessita di tantissime spiegazioni al fine di essere inteso. È l'atteggiamento di chi è consapevole di soffrire ma al contempo prende di mira chi intende aiutarlo; la traccia ribolle, tocca un tema assai delicato ma questo però non va a smantellare le ottime proposte che ci siamo posti all'inizio. Appena siamo partiti con la traccia notiamo subito un flusso dai tratti sinfonici che colora discretamente l'atmosfera; nulla sembra ammaccare quest'ariosa spinta di matrice sinfonica, e a questo proposito le tastiere abbondano la loro presenza costruendo essenziali note che si installano mano mano che il fluire dei primi arrangiamenti prende più campo nelle partiture. "No Celebration" accoglie un groove pesante cosi come l'aria che sembra trapassare nei primi minuti appena visionati; i colpi secchi di Lee Morris dietro le pelli squadrano e squarciano il suono delicato dei primi secondi mentre la coppia Aaedy/ Mackintosh, entrambi resi indispensabili dato il loro ruolo di chitarristi/forgiatori del suono dei nostri, donano una sana e decisa attitudine, impostata su chiare dinamiche. Prima degli innesti vocali di Holmes non mancano intromissioni soliste che si sganciano dal classico stilema chitarristico di Gregor , tessendo il consueto abbassamento di ritmo, in modo da permettere l'entrata sublime e ragionata di Nicholas. La sezione ritmica fa il suo lavoro dimostrandosi un'ottima soundtrack delle lamentose vocals di un Holmes ispirato e a tratti tagliente grazie al suo stile canoro assai variegato, che non si limita al compitino ma cerca di mostrarsi nella sua veste più colorata e alta possibile soprattutto nel ritornello. Proprio quest'ultimo accoglie un'orecchiabile ed essenziale ammasso sonoro, che cerca di mostrarsi nella sua natura più essenziale non puntando solo a raggiungere una discreta soglia di orecchiabilità ma alimenta il groove proposto dalla pavimentazione sonora presa in esame che trabocca di essenza metallica. Nemmeno le tastiere presenti nel finale, prima della riproposizione del ritornello, rompono l'ottimo mood creato dalle due asce, sempre presenti e importanti nel sound di questa "No Celebration".
Self-Obsessed
La celebrazione di se stessi, delle proprie peculiari caratteristiche, è una specifica situazione profusa sin dall'antichità. È stato ad esempio pane per le narrazioni di Ovidio con l'esemplare personaggio Narciso, ma non solo: ha influenzato anche i grandi uomini della storia che facevano della glorificazione della loro persona il loro cavallo di battaglia. Nel loro piccolo anche i Paradise Lost hanno intenzione di immettere tale disegno nel loro brano numero nove, e a discapito di alcune effusioni atmosferiche iniziali, mettono il giusto mordente sin dall'inizio. Un modo imperante nello gettare questa traccia, intitolata appunto Self-Obsessed (Ossessionato da se stesso), nel clima guerrigliero che merita. La voce di Nick Holmes non proviene da una introduzione dal sapore strumentale ma rompe gli equilibri con astuta velocità, una rapidità che innesca subito l'apparato ritmico che costruisce uno scheletro sonoro accattivante e rock in ogni suo tentativo di gittata. Mackintosh preme con la sua arma, Aedy gli sta dietro con non poca fatica mentre Morris allunga le sue bacchette con determinazione modulando ottimamente suoni, ancora permeati da quella sottile stratificazione di rock con qualche spruzzo di sinfonia. Sono i Paradise Lost che oramai abbiamo capito appieno, e l'andamento delle vocals diventano paladine del gusto malsano della traccia, in cui sembra ergersi un uomo scuro e scaltro che respira alla vita a suon di autocompiacimento. Il clima cupo delle due chitarre impatta con la viscerale interpretazione di Nicholas, a suo agio quando l'ambiente sonoro circostante impone alle sue corde vocali, altamente malleabili, di scalare su diverse note con una facilità pazzesca; se poi confrontiamo il Nick funereo e ossessivo dei primi lavori interpretiamo molto bene le capacità del vocalist albionico. Tornando al brano, i pattern di batteria miscelati a colpi repentini di rullante arrotondano la sezione ritmica di un brano che non spicca solo di "efficienza sonora" essendo impostato su di un asse orecchiabile, ma con le sue escursioni si dimostra raggiante nelle sue melodie. "Self Obsessed" a discapito del suo titolo abbastanza indicativo, colpisce a colpi di armonie ben incasellate nel lotto del brano, in cui un rifferrama insistente sembra essere attorniato da uno strato fisso di melodia che non sembra smuoversi. L'atteggiamento irremovibile di chi fa della sua personalità come una gabbia spessa che ha come risultato una netta esclusione dal mondo esterno. "Persevere, I could live without this" (Perseverando, potrei vivere senza questo): è inutile perseverare, è altrettanto inutile aprire la bocca e sparare sentenze. Si può vivere tranquillamente anche con una maschera in faccia e uno schermo dinanzi agli occhi, ma quel vivere non corrisponde appieno al concetto essenziale della vita stessa. Insomma i Paradise Lost cercano di mettere in cattiva luce questa particolare fascia di persone, perchè calcano questa terra non vivendo dato che spendono troppi giorni e anni a glorificare la loro persona dimenticandosi che c'è un mondo da vivere, in cui perchè no è anche lecito combattere e soffrire. La lucidità ritmica di Nick e compagni prosegue con alcune scosse nella parte dei primi minuti in cui le due chitarre cercano di far sentire la loro presenza con non poca potenza, scaraventata a servizio dei vocalizzi accattivanti di Holmes, attore principale di questa ottava traccia di "Symbol Of LIfe". E cosa c'è di meglio che scaraventare un gustoso assolo nell'esatto corpo centrale in memoria dei vecchi tempi metallari? Assolutamente no, Gregor adempie a tale desiderio facendo ciò che sa fare, con una grande attitudine impostando un solo caratteristico, che danza sulla sull'apparato strumentale restante, ben mantenuto dalla seconda chitarra e dai colpi cadenzati di Lee Morris, che in questa sua ultima prova con gli inglesi sta lasciando il segno. L'assolo spedisce il brano secondo diversi geometriche, ma la ripresa del microfono del performer Nick permette a questa "Self Obsessed" di ritornare a calcare i primi ritmi ben cementati nella prima sezione del brano.
Symbol Of Life
Proseguiamo con la nostra disamina iniziando a perlustrare la traccia numero dieci, la title track di questo lavoro che sta mostrando il combo britannico immerso in un discreto sentiero di riffing e groove degno di nota. Symbol Of Life (Simbolo della vita) inizia a mostrarsi con furbi arpeggi introduttivi e leggerissimi colpi di charleston che adempiono ad ingrigire il sound del paradiso perduto; l'atmosfera è arricchita da archi e da tocchi dolcissimi di pianoforte dell'ospite Chris Elliot, che, col passare dei secondi, ingigantisce la sua presenza. Quell'arpeggio iniziale della chitarra principale assume un ruolo ancor più "pesante" e caratteristico fino ad assumere un ruolo cardine per le successive sequenze sonore; i Paradise Lost hanno ingranato la marcia con la title track che tendenzialmente rappresenta lo spirito che circumnaviga l'intero platter. A discapito del titolo dall'appeal positivista, questo simbolo della vita è tutto tranne che essere un manifesto speranzoso della vita stessa, in quanto le effusioni liriche contenute qui sono potentemente indirizzate a valorizzare invece il lato oscuro dell'esistenza, che è da sempre il più grande nucleo tematico della band di Halifax. Quelle tetre geometrie di pianoforte del buon Elliot, che circondano il sound, sono come ombre che inneggiano all'odio e alla disfatta, al rancore e perchè no anche alla violenza. Una violenza però contenuta, vissuta nella solitudine più profonda che la prima rotonda strofa sembra sbatterci addosso con quel: "All alone beside myself / All alone beside myself / And I've troubles on my mind" (Tutto solo al mio fianco / Tutto solo al mio fianco / E ho problemi per la testa). Condizione di annichilimento e di introversione che ci permette di addentrare al meglio nel corpus che la band ha preparato, sempre spietato e poco ritmato da passi dal piglio speranzoso; la speranza non è sinonimo di Paradise Lost, in quanto i nostri adempiono al loro ruolo di portavoce della sofferenza umana. La traccia cammina veloce scandendo con parsimonia le potenzialità rock che possiede nelle vene e scolpendo il suono dei nostri a partire da ottimi agganci del pellame di Morris, rapace nel premere nelle situazioni ritmate e scemare invece nei momenti cupi in cui la chitarra di Mackintosh oscilla con precisione verso tonalità più adatte per i guizzi vocali di Nick Holmes; proprio quest'ultimo si aggancia con il resto della combriccola con il suo solito nero chiarore, un mood che ormai sembra scandirci la vera sofferenza che proviene da quella odiata solitudine che compromette la nostra vita; e la nostra testa non agisce, anche se vorrebbe farlo in quanto troppo alto è il fardello da portare avanti. La staticità dei vocalizzi si agguanta ai timidi tentativi di imporre un crescendo lungo le note profuse, ed è proprio qui che alcune tracce sinfoniche colorano il mood con una parsimonia direi quasi matematica. Ma la nostra title-track non manca di momento carichi di mordente e di adrenalina, sequenza dettate dall'innalzamento delle vocals di Nick che si impossessano di un range quasi sporco e arcigno, nonostante la pulizia generale del suono che tende verso un rock abbastanza tarato. Questi sono gli ingredienti che permettono di addentrarci nel ritornello in cui le due asce sganasciano attitudine e melodia; queste ultime sono incastonate in un muro ritmico dai candidi orizzonti gotici, che subiscono un'ulteriore torsione nel momento delle intrusioni solistiche di Mackintosh. Nei momenti in cui il range di Holmes diventa più opprimente e lugubre, emergono con forza quelle ombre che ci aggrovigliano il capo, quelle ombre sature di malignità. In questo clima tempestoso assistiamo ad una ripresa delle armonie dei primi due minuti del brano in cui il mordente di tutta la band prende ad unghiate l'apparato ritmico. Tra scariche di vocalizzi in loop e strascichi chitarristici, ci avviciniamo verso la chiusura di questa title-track.
Channel for the Pain
A confermare la durezza gotica della band è il percorso disillusorio e "anti-speranzoso" che prende vita nelle corde vocali di Nick e nelle gesta chitarristiche di Gregor nella traccia che succede alla title-track. I due protagonisti dei Paradise Lost quando devono affondare il coltello non tergiversano ma vanno fino in fondo, fino a che l'ultima goccia di sangue schizzi fuori dal corpo martoriato. Dopo dieci tracce abbastanza nichiliste il percorso tematico non si ferma qui, anzi procede con ancora più caparbietà e parsimonia; la penna dei nostri ora cerca di dare una geometria corposa ad un tema abbastanza profondo che mette in primo piano la persona, l'attore che percorre questa vita fatta di ostacoli e di buio: il dolore. Di certo tale argomento non è una novità, anzi il concetto di dolore lungo la carriera, in una maniera diretta o indiretta, ha inciso il percorso lirico in un modo altamente decisivo. Non esiste una via d'uscita, o meglio esiste ma nessuno ha l'intenzione di spiegarcela in dettaglio. E proprio questa non risposta alla nostra domanda si trasmuta in una gabbia composta da fibre metalliche chiamate "dubbio", ci attanaglia fino a non respirare. Il risultato di questa condizione è l'undicesima traccia che non va troppo a mascherandosi con chissà quale intruglio lirico chiamandosi Channel For The Pain (Canale per il dolore); tale traccia innesca il motore dei britannici in una maniera più che discreta arroventando l'atmosfera con soavi vocalizzi femminili che si innalzano contribuendo alla costruzione del sound, all'inizio assolutamente scuro e spettrale. Necessitiamo della sezione ritmica dei nostri per rompere questo quadro sonoro al finire di costruirne un altro, con una cavalcata improvvisa del partente Lee Morris e della chitarra calda di Mackintosh, la quale con pochi accordi permette l'aumento della potenza della traccia. Le partiture di "Channel Of The Pain" visibilmente aumentano di peso poco dopo che l'altra chitarra di Aaron Aedy mette in marcia le proprie vibrazioni giocando ad incastro con la lead di Gregor; il risultato è un ottimo impianto sonoro che non smette di accogliere anche tracce elettroniche, presenti qua e la nel mare degli arrangiamenti. Proprio questi ultimi spiccano per loro duttilità nel porsi con le debuttanti vocals di Nick Holmes, che teatralizzando la loro viscerale catarsi, permette una seria rappresentazione fisica del dolore. La traccia corre, anzi scatta una volta che i pattern di Morris premono ancora di più, stilizzando l'atmosfera che abbraccia ora il rock più diretto e discreto. Le due chitarre accolgono le parti vocali con non poca armonia, in quanto colorano ancor di più quella patina rumorosa che si materializza tra le note di questa traccia assai introversa e minacciosa. Il riffing stoppato e poi riavviato è discretamente incisivo in quanto non va a depotenziare l'attitudine di Nicholas ,ma implementa ancora di più il nero impasto vocale che fuoriesce dall'ugola del menestrello britannico, teso a regalarci una performance differente proprio perchè abbraccia più stili. Da schegge vocali di natura notturna, si passa con tranquillità a sezioni più pulite e meno disperate nella loro fattura; in tutto questo le tastiere fanno il loro gioco di duellare con il resto dell'inventario, riuscendo con forza e con grinta a dare vita a tappeti caratterizzati da rimembranze sintetiche, ma assolutamente passionali e cariche di feeling. Questa "Channel For The Pain" è ricca di cambi di tempo, in quanto la marcia ritmica riesce in pochi istanti a variare di faccia risultando a tratti assolutamente melodiosa in cui sono udibili strascichi di chitarra che sembrano assemblare delle urla incessanti, magari le urla di chi è nella condizione di quel dolore che accennavamo all'inizio, ad altre più accelerate e rabbiose. Non esiste un vero refrain in questa song, proprio perchè è discreta la capacità dei nostri di giocare su paletti differenti dal canonico, mettendo sul campo soluzioni mai troppo statiche.
Xavier
Inserita nella Limited Edition di "Symbol Of Life", la dodicesima traccia Xavier racchiude tutto l'estro sopraffino della band britannica capace di accettare una sfida clamorosa come riproporre un brano dei Dead Can Dance. Il progetto di Lisa Gerrard e Brendan Perry, che con il terzo album in studio "Within the Realm of a Dying Sun" ha viaggiato su canoni dark-wave e gothic rock, ha rappresentato un ottimo banco di prova per la band albionica, in quanto è facile notare che replicare un brano del genere è essenzialmente un lavoro che implica parecchi rischi. Ma come ben sappiamo ai nostri piace giocare con le proprie peculiarità e con pochi dubbi hanno deciso con personalità di comporre una cover di questa traccia, "Xavier", che si innesta nelle battute finali di questo platter. A discapito dell'originale dell'istrionico duo anglo-australiano, il brano fa piazza pulita con una netta impronta rockeggiante che si dilata nei secondi iniziali accompagnando le auliche sfumature vocali di Nick Holmes e di Johanna Stevens, singer dal gran talento che come ben sappiamo ha offerto la sua ugola in alcuni brani di questo nono disco in studio ("Erased", "Primal" e "Mystify"). Alcune tracce elettroniche si accorpano ai primi cenni distorsivi della chitarra principale, tesi a mascherare l'impronta pop che cala in picchiata sugli arrangiamenti di queste prime sezioni del brano; le massicce rimembranze sintetizzate si innestano al partire dall'entrata in scena di un Nick Holmes, consapevole di replicare lo stampo vocale di Brendan Perry dei Dead Can Dance. Nick cerca di districarsi dalle partiture elettroniche nel momento in cui la batteria di Morris pesta con più convinzione lungo il percorso della traccia: l'abbondante presenza di atmosfere pop e tastiere rallenta i tempi in modo che la peculiarità canora del nostro cerchi il più preso possibile di far faville; anzi, più il brano procede spedito verso un groove degno di nota e più le effusioni vocali del nostro si ammantano di chiarore sopraffino, aumentando di volume e di elasticità. La riproposizione di questa "Xavier", giunta ormai agli sgoccioli del terzo minuto, si sta discostando molto dalla eterea versione originale dei Dead Can Dance in quanto quell'appeal di derivazione heavy metal stravolge le atmosfere e le partiture dell'originale. L'ugola di Nick Holmes non si scompone di un millimetro lungo l'asse sonoro, anzi acquisisce più tono e grinta ogni secondo che passa, riuscendo dare man forte alla materia compositiva dell'originale, perennemente ancorata su quel gusto che ha reso unico il convoglio guidato da Lisa Gerrard e Brendan Perry. Le tastiere, già accennate in precedenza, si ammassano lungo il riffing che pone dei varchi interessanti in quando riescono a contenere l'enfasi vocale del nostri, che con questa "Xavier" raggiunge forse l'apice sia per la sua caratura dark, perennemente accentuata in ogni guizzo del brano, che nei momenti solistici di Gregor Mackintosh; soprattutto nella parte finale sembrano necessari per chiudere degnamente questa cover.
Smalltown Boy
Ad infarcire le sorprese finali del disco, i Paradise Lost hanno pensato diligentemente di immettere una gustosa cover, proposta come ben ricorderete nel lotto dei singoli. Smalltown Boy (Ragazzo di cittadina) è ben lungi da essere un brano heavy o una ammasso di suoni che ispira alla musica pesante; è una cover-chicca che la band ha voluto proporre, nonostante come ben sappiamo che il disegnare riproposizioni di altre bands non fa parte del genoma dei Paradise Lost. Ma poche chiacchiere e partiamo con l'analisi di un brano di gran successo nel pieno degli anni 80, esordio dei britannici Bronski Beat, duo inglese dotato di ottimo carisma e astuto nel cavalcare con diligenza le spinose onde del successo. Le movenze di chiarissima matrice pop, soprattutto nell'incedere deciso delle tastiere di sintetizzata radice, impongono una linea primaria di pensiero che vede il nostro convoglio ridisegnare con prudenza ciò che il duo fece, ma come vedremo fra qualche minuto tutto questo verrà stravolto. Le tastiere impongono sui giusti canali musicali questo autentico inno al rispetto delle varie differenze che si installano nelle relazioni umane: da quelle sessuali fino a quelle religiose; un brano nobile che la band di Halifax non vuole di certo storpiare a proprio piacere, anzi l'inizio morbido e atmosferico costruito dalle tastiere ci fanno pensare proprio a ciò. Dopo pochi secondi di rotonde staffilate elettroniche, colpi di charleston creano il terreno per l'ingresso del drumming corpulento prima e successivamente della chitarra principale; e non mancano in questo esordio del brano cori e porzioni vocali che si ammassano con il profilarsi delle note cadenzate delle due asce: un terreno di coltura squisitamente rock, fino a che un Nick Holmes, ancora investito in un travestimento di "depechemodiana" memoria, interviene, sghignazzando la parte di "Small Town Boy" e condurla verso canoni ancora più elettrici. Alcune partiture synth sono sempre presenti, ma sono funzionali alla costruzione di questa cover che raggiunge il suo apice espressivo nel notissimo chorus, che si installa nella mente con il suo ritmo dilatato e ben ritmato da docili arrangiamenti odoranti di goth elettronico e notturno, con una evidente base rock. Holmes non perde lustro nello sferrare le suo doti vocali, non eccessivamente sforzate all'inverosimile ma lussuriose nel loro danzare tra la musica del paradiso perduto; non mancano cenni distorsivi nel calderone sonoro, con un background che lascia spazio alle capacità canore del nostro, come si nota bene nel ripetersi della sezione pre-ritornello. In quest'ultimo la potenza armonica di questa cover esplode ancora di più, aprendoci la mente per l'ottimo assolo di chitarra, teso e costruito per ricordare la chiara base heavy della band inglese. Il finale di quest'ottima cover è un tripudio di cori, sezioni elettroniche, infiammanti riff di chitarra, vocalizzi collocati in un quadro che si muove secondo le proprie caratteristiche più congeniali ed efficaci.
Conclusioni
Possiamo certamente giungere a conclusione che "Symbol Of Life" è un album che odora di passato, di ritmiche che sembravano tumulate per sempre , di sensazioni tese a creare ragnatele emozionali uniche nella loro gestione. È un ulteriore passo in avanti di una discografia estremamente singolare, mi sovviene inutile porgere al vostro udito paragoni di altre compagini che hanno desiderato sfoderare sempre con più forza l'anima melodica in dotazione. Tutto inutile. I Paradise Lost dimostrano (e confermano) la loro unicità, mettendo in porto un album discretamente buono che segue il già indicato rettilineo tracciato in "Believe In Nothing", disco che già aveva in rampa di lancio un discreto groove e una dose di riff abbastanza decisi. Melodie dirette e costantemente ammalianti, in cui la lezione della parentesi elettronica ha giovato al lirismo e al quadro musicale; non è possibile ascoltare il disco appena disaminato non prendendo come esempio i lavori da "One Second" in poi. Una cesura netta con il passato non era possibile, anzi la band ha trovato il giusto compromesso tra i due territori esplorati nella loro carriera; le onde metalliche prima o poi sarebbero tornati a collidere con la parete mentale, altamente flessibile, dei nostri musicisti, immedesimati in un processo che solo da un punto di vista esterno era fossilizzato in un non ritorno. E invece, imbracciata la chitarra, Gregor Mackintosh rifinisce il suono degli oscuri britannici con una pesantezza che nella sua economia era stata relativamente persa, e questo dà un ulteriore tocco in più agli inserti strumentali del disco; inserti che si aggrovigliano nei brani, lanciando da una parte un ottimo e scenico groove, mentre da un'altra prospettiva conservano gelosamente alcuni riferimenti musicali agli album precedenti (le tastiere, per esempio, nonostante non abbiano la stessa diligenza e importanza rispetto a dischi come il già citato "One Second" e "Host", sono sempre presenti). Ma attenzione: "Symbol Of Life" non è un platter catalogabile volgarmente metal, ha si rifinito il sound dei nostri che sembrava perso per sempre in una caverna tappezzata da sintetizzatori, ma trattiamo ancora di un rock fin troppo "eighties", a volte semplicistico da un punto di vista strutturale; mentre in alcuni punti la band cerca di rattoppare il proprio suono con discreti cambi di tempo e mutamenti di atmosfera. Non urliamo al tanto sperato ritorno verso i lidi doom degli inizi, anche se in alcune sezioni di molti brani vi è questa sensazione; infatti, cari lettori, per assistere al ritrovamento imperante di un involucro tipicamente metallico, dovremmo attendere ancora un po. C'è da dire però che la presenza di musicisti della caratura di Devin Townsend e Lee Dorrian fanno si che i brani rispecchino quelle tablature heavy, ma è ancora troppo precoce sbandierare un faticoso ritorno al temperamento che fu, nonostante l'impegno generale di imporre lungo l'asse delle tracks più mordente possibile. Il lirismo in "Symbol Of Life" gioca un ruolo fondamentale, il nero della copertina, rappresentante la parte buia, quasi malata e diabolica di ognuno di noi, è trapassato a mò di frecce da una strana forma dal colore rosso sangue, che invece avvisa spudoratamente che esiste una speranza. Nick Holmes, come sempre del resto, fà della sua voce un mezzo espressivo, che si muove, anzi danza con eleganza verso anche lidi più estremizzati e meno ancorati sul classico range che si può avere quando si ha a che fare con pezzi rock nella loro più classica articolazione. Il valore vocale del nostro si mostra ancora più chiaro nelle parte dei brani in cui il mordente della chitarra cessa con i suoi riverberi, con il testimone che passa proprio verso il sempre diligente Holmes che guida con sapienza ed estro il suono dei Paradise Lost.
2) Erased
3) Two Worlds
4) Pray Nightfall
5) Primal
6) Perfect Mask
7) Mystify
8) No Celebration
9) Self-Obsessed
10) Symbol Of Life
11) Channel for the Pain
12) Xavier
13) Smalltown Boy