PARADISE LOST
Shades of God
1992 - Music For Nations
GIANCARLO PACELLI
28/02/2018
Introduzione Recensione
Come ben sappiamo, all'interno del nostro raggio d'azione / analisi il lavoro compositivo risulta da sempre il punto cardine per intendere l'azione musicale di quell'artista/band, la capacità stessa di interloquire con il proprio pubblico attraverso appunto composizioni di un certo livello, rendendo il tutto più affascinante. Ogni passo è un punto in più; e nonostante si arrivi ad una sorta di stabilità musicale, si è sempre pronti a scavalcare questa situazione tentando di creare un qualcosa di imprevedibile e allo stesso tempo innovativo, che sappia sempre come accontentare tutti: dai più affamati di novità ai più tradizionalisti, sperando che il pubblico più oltranzista (in un certo senso) possa accettare l'invito dell'Arte ad andare oltre i propri confini, a valutare seriamente la possibilità di attuare lo sforzo di comprendere, capire, accettare un qualcosa che - prima di allora - mai avrebbe potuto entrare in contatto con la nostra vita. In questa circostanza inseriamo i Paradise Lost, i quattro gothic metallers di Halifax (Regno Unito). Una compagine che, di fatto, aveva insegnato al mondo il significato del termine "sperimentazione". Come appunto fosse stato possibile spostarsi da un sottogenere ad un altro senza però mai perdere la propria attitudine musicale. Un disco essenziale, rigonfio di liricità e armonia come "Gothic" era stato molto importante in questo senso, divenuto in seguito caro (se non fondamentale) a/per migliaia di band. La definitiva teorizzazione del come intendere questo oscuro sottobosco musicale; non solo, questo full-length era stato contemporaneamente un tassello decisivo per il mondo Metal tutto, poiché dimostrò in maniera calorosa e clamorosa la rapidità con cui si potesse produrre un capolavoro, distaccandosi in maniera rapida e repentina dagli "ingenui" inizi. Nel 1992 i Paradise Lost, passando dal roster della rinomata "Peaceville Records" sotto l'ala della "Music For the Nations", diedero una nuova svolta alla propria carriera: e già dietro questa affermazione si può nasconde tanto, in quanto la resa "produttiva" rappresenta forse il punto più delicato (soprattutto in tempi come gli anni '90) circa la "catalogazione" della qualità di un prodotto discografico. Dicevamo, i nostri entrarono in studio con un piglio diverso, chiaramente ispirati e alquanto movimentati, dato che l'occhio vigile del panorama heavy metal mondiale aveva sicuramente notato il fatto che Nick Holmes e company fossero una formazione da monitorare, in grado di poter dire ancora molto. Tenendo conto di tutti questi fattori, "Shades Of God" si poneva quindi come un disco di transizione, un platter di livello che rese ancor più unica la carriera degli inglesi, un disco che fu di ricamo per la futura doppietta discografica ("Icon" e "Draconian Times", che assieme al già citato "Gothic" sono considerati i picchi compositivi della band) la quale sancì il definitivo successo della nostra compagine. Dallo stile delle chitarre più epico e lungimirante passando per le linee canore del buon Nick Holmes, vedremo molte differenze stilistiche con la seminale release precedente. "Shades Of God", però, nascondeva al contempo anche una sinuosa macchinosità "costruttiva" nelle sue strutture melodiche, con un songwriting più ispirato: l'impatto di ogni brano non è istantaneo, riserverà per le nostre attente orecchie sensazioni diverse rispetto ai pezzi più "brevi" e fulminei di "Gothic". Su quest'ultimo infatti, musicalmente la band aveva adottato una distinzione insolitamente severa tra chitarre ritmiche e soliste, in contrasto con il debutto, che si concentrava più sulle linee armoniche a due chitarre e sul riffage unisono. Lo stile, tuttavia, non aveva ancora avuto il tempo di svilupparsi pienamente (ricordiamoci che era passato solo un misero anno tra le due uscite), e fu mantenuto semplice, forse per mantenere le cose "sotto controllo", per così dire. In questa circostanza, invece, le due chitarre lavorano insieme per tessere modelli di melodia e pesantezza che sono quasi perfetti; si potrebbe dire che ora la coppia d'attacco Mackintosh/Aedy abbia imparato come utilizzare sia la chitarra solistache la ritmica al massimo del proprio potenziale. Di conseguenza, le canzoni sono diventate più lunghe, di natura più epica, cosicché ogni riff sparato dall'ascia principale di Gregor Mackintosh, coadiuvato dall'esperto Aaron Aedy, sappia come arrangiarsi nel costruire melodie che andranno a parare più verso i classici territori doom/death che verso linee squisitamente gotiche. Ecco una differenza essenziale: su questa nuova release, accentuata anche da una produzione ben più calibrata e riuscita della "Peaceville...", troveremo non più arrangiamenti gotici misti a sequenze orchestrali (le quali - assieme alla voce femminile - erano stati i punti essenziali per intendere il platter precedente a questo "Shades Of God"), ma venature rimiche che si rifacciano più al classico doom, cioè a quei territori e stilemi cui i Paradise Lost erano devoti sin dagli estremi esordi. Questo fatto di voler sempre "sorprendere", tentando un nuovo balzo musicale (fallendo o avendo successo non importa) rendeva la band ancor più unica. Non perdiamoci in chiacchiere! Dopo queste positive premesse, possiamo addentrarci nel terzo disco dei Paradise Lost, "Shades Of God".
Mortals Watch the Day
La morte è sempre un tema particolare, poiché tocca incommensurabilmente le nostre vite, chiunque noi possiamo essere. Ricchi, poveri, coraggiosi, codardi... nessuno può sfuggire alla morte la quale, purtroppo, riuscirà sempre a farla franca, a posare la sua falce sul nostro capo, quando sarà scoccata la nostra ora. Cosa possiamo fare noi mortali, dunque, se non guardare il giorno che passa, con una lacrima sul viso... perché la vita, lo sappiamo, qualora volesse saprebbe essere spietata come il più accademico serial killer. "Mortals Watch the Day" ("Il mortale che guarda il giorno") è il modo semplicemente perfetto per addentrarci nelle tristi ma emozionanti premesse che i Paradise Lost ci hanno donato. L'inizio non poteva non ricalcare il più lento e ferreo doom/death, con le calde plettrate delle chitarre ampiamente riconoscibili anche a kilometri di distanza; ecco un altro vantaggio: il costruirsi un'identità ritmica rende una band ancora più matura e di maturità, i Nostri, stanno dimostrando di averne a bizzeffe. Dopo circa 15 secondi di puro e stiloso gioco chitarristico, l'aura del brano si surriscalda a più non posso grazie all'aumento distorsivo delle chitarre, le quali riescono ad introdurre il buon vecchio stile di Nick Holmes. Il quale, senza pietà, sganascia note capaci di penetrare sin nel midollo. Mackintosh riesce ad essere pesantemente protagonista in ogni momento "vuoto", disegnando fraseggi stilosi fino a che il brano si eleva a più non posso al ridosso del chorus, in cui i grugniti vocali di Holmes riescono a sopraelevarsi verso note alte. "While mortals watch the day/Our fear will pave the way/Hidden until the end" (Mentre i mortali guardano il giorno/La nostra paura aprirà la strada/...nascosti fino alla fine): non possiamo far altro che nasconderci, sperando di farla franca... ma l'abile falce, prima o poi, ci raggiungerà. Cosa buona è approfittare di ogni momento, di assaporare la luce del giorno ogni secondo della nostra esistenza, prima del trapasso definitivo. La sezione ritmica riprende più grinta nonostante si ripetano le geometrie iniziali, Holmes conduce la sua attitudine da lupo mannaro fino a che un rallentamento, scandito dalle 4 corde di Edmonson al basso, ci segnala che i ritmi da lì a breve muteranno considerevolmente. Questo interludio molto saporito spacca il brano: Mackintosh prende le redini e conduce la sua ascia verso un rinomato assolo, reso tale anche grazie alle pelli di Archer e alle abilità alla ritmica di Aedy. L'indole di tecnico del suo strumento esce fuori inesorabilmente, questo fraseggio geniale ci fa viaggiare in terre lontane, dove forse l'incubo della morte non è presente. Non è comunque finita, perché i nostri ci regalano un altro squisito momento melodico strumentale ancora dominato dalla ingegneristica lead guitar. Il momento in questione dura tuttavia poco, dato che le corde vocali di Holmes prendono il sopravvento e tra un acceleramento e un altro, con una batteria prima calibrata poi scatenata, la traccia si spegne nella maniera più soave possibile, grazie alla sezione ritmica che invece di scemare nel finale mostra ancora tanta grinta. Facendo i conti finali, "Mortals Watch The Day" è un modo perfetto per iniziare questo cammino.
Crying for Etenity
Le atmosfere decadenti e truculente di un monastero arroccato in una collina non cederanno a spiragli di positività, la vena compositiva inizia a ruggire anche nel secondo tassello del disco, "Crying for Etenity" ("Piangendo per l'eternità"). Il titolo abbastanza "pesante" che fa capo al brano è già di per sé tutto un programma: il dolore è un sentimento che prima o poi tutti noi proveremo, è un sentiero funesto che quasi è tatuato nel nostro destino. Una strada da percorrere volenti o nolenti, sarebbe impossibile ed anche innaturale vivere una vita non provando alcun tipo di dolore. Come se stesse preannunciando un qualcosa di terrificante, il pellame di Archer inizia a carburare, fino a che Mackintosh, infilandosi in ogni succoso pattern del nostro batterista, inizia a sgomitolare linee tristemente delicate, piccoli assoli introduttivi che iniziano a gelarci la mente. L'intento è proprio questo, renderci partecipi del circuito canoro dove l'emotività è presente al primo posto. Questa sinistra tranquillità melodica è interrotta magistralmente da Holmes, il quale rompe il ghiaccio menandoci di dosso le prime freddi frasi del testo. La batteria riesce energicamente a tenere i ritmi che l'impronta vocale di Holmes dona, e questo non è poco, dato che sappiamo bene su che livello si adagi la velocità di esecuzione del nostro leader/cantante. Il basso di Edmonson non è da meno e risulta ampiamente messo in rilievo grazie all'ottima produzione, soprattutto dopo la conclusione del primo blocco lirico: le corde di basso scandiscono dolcemente un rallentamento sia musicale che canoro dell'intera ciurma, Holmes difatti pone il freno a mano, e con elegante nera maestria torna a prendere le linee vocali. Sempre pregne di sofferenza oltre ogni immaginazione, dato sì che il protagonista delle liriche sta effettivamente piangendo per l'eternità. Un infinito mare di lacrime, costruito da ogni singola goccia rilasciata dai nostri occhi. Mille spade infuocate trafiggono contemporaneamente il nostro cuore, rendendoci soli, doloranti, privi di difese e voglia di reagire. Proprio per questo la protagonista è proprio la rassegnazione, una cosa ovvia per gli spiriti deboli, i quali ovviamente sono sempre i primi a essere sottoposti alla distruzione che un pianto può provocare. Il pezzo continua a mo' di cascata, ogni tanto ci sono guizzi eccellenti creati a dovere dalle due chitare, che tessono situazioni interessanti. Verso il trentesimo secondo del secondo minuto un silenzio strumentale (intervallato soltanto da leggerissimi colpi di batteria) ci illude, come ci si illude quando si prova una felicità che contiene invece al suo interno sfondi frivoli. Allegoricamente sembra che ogni sezione del brano simboleggi un diverso stato emotivo di un qualunque essere umano. Il clima distorsivo delle chitarre permette a Mackintosh di separarsi e di effettuare un solo niente male, preludio di un nuovo svisceramento vocale di Holmes (aiutato in piccolissimi frangenti da cori interessanti posti in background), che mette a dura prova le sue corde vocali. Come stiamo notando, i notevoli cambi di tempo e sezioni incastonati in flussi oscillatori rendono questo secondo tassello di "Shades Of God" un pezzo impegnativo e sicuramente di difficile assimilazione, ma affascinante ed estremamente emotivo come i temi che tocca.
Embraced
Lo abbiamo ben capito dai primissimi due brani: ormai ci stiamo lentamente addentrando nella foschia malinconica, un deserto di melanconia e sofferenza, un luogo indecifrabile ma allo stesso tempo appassionante. "Pain... is what we are waiting for" ("Il dolore è ciò che stiamo aspettando") battezza il micidiale intruglio lirico che con poche parole ha già messo su carta l'intento dei nostri songwriter. Il dolore, come una soffocante cintura, ti tiene stretto in una morsa agghiacciante, una situazione complicata poiché le vie per uscire sono veramente poche, la speranza per i Paradise Lost non esiste. "Embraced" ("Abbracciato") ad un primo impatto poteva lasciar trasparire un qualcosa di positivo, ma nell'ottica dei nostri quattro inglesi, l'abbraccio allude ad un contatto stretto, quasi mortale con entità spirituali come il dolore e la solitudine. Solitudine intesa non come un qualcosa di personale ma invece colorata da un significato generale. Prima dell'entrata in gioco dell'elettrizzante assetto da guerra composto da basso e chitarra, l'introduzione è affidata ai piccoli colpetti di batteria che scandiscono il tutto come farebbe un metronomo... ma non preoccupatevi cari lettori: la ciurma gotica dei Lost entra subito all'attacco attraverso una sontuosa distorsione delle chitarre che introduce un Holmes motivato e carico di emotività, la sua voce riesce a penetrarci dentro come un ago molto affilato. Il suo cantato ha raggiunto una colorata maturità e questo si nota da come riesce abilmente ad arrampicarsi su ogni nota di batteria, di chitarra e soprattutto di basso (messo molto in rilievo in fase di mastering), le quali tendono ad accelerare in alcuni punti. La cascata di malinconia non si ferma, ed inseriti in un clima aspramente doom non ci resta che ammirare tutto questo accoltellamento emotivo, il quale crea in noi non solo emozioni negative. Anzi, ci porta a riflettere: una caratteristica essenziale dei nostri è il far pensare, sembra una cosa molto scontata, una mansione da "tutti i giorni", ma in fondo non lo è. Il brano prosegue seguendo strade lisce con riff che si fanno taglienti come rasoi, ma non vanno a compromettere la "leggerezza" di fondo che comunque è molto presente. Le pelli di Archer sono le protagoniste del finale, le quali si incastonano (seppur con qualche piccolissima difficoltà) con le due chitarre, ancora belle impastate, che accompagnano Nick Holmes a sputare le ultime note conclusive di questa "Embraced", la quale si dimostra un pezzo accattivante e ben riuscito.
Daylight Torn
Nella letteratura gotica la negatività e la poca speranza sono stati sempre elementi molto affascinanti, checché se ne dica nascondono all'interno una inusuale e "positiva" voglia di chiudersi in sé stessi, una sorta di aumento del bagaglio introspettivo. Come ben sappiamo i Paradise Lost, nei loro intenti lirici, hanno voluto sempre occuparsi delle fragilità dell'uomo nei confronti della vita, vista come un qualcosa di astruso, una chimera assatanata che divora tutto e tutti. "Daylight Torn" ("Giorno squartato") si inalbera in queste delicate tematiche. La psicologia dell'essere umano, sin dalla notte dei tempi, è stata un rebus quasi irrisolvibile, un velo pietoso ha sempre coperto quella minima possibilità di scrutare la luce del sole, vista simbolicamente come la luce della speranza. La nostra quarta traccia carbura malinconicamente, con un riff delicato che agguanta tutta la nostra attenzione facendoci chiudere gli occhi: dopo brevi accenni introduttivi l'aura generale aumenta, creando l'apposito terreno in cui Nick Holmes sputa addosso a noi le difficoltà di questa vita, considerata meramente come un gioco ("Helping me tread on your life/Life is the game; Aiutami a calpestare la vita/La vita è il gioco"). L'introduzione prima lenta poi massiccia costringe a tutto il resto della band ad accelerare con i suoni, l'esplosione del sound dei Paradise Lost avviene nel consueto ritmo a cui siamo abituati. Le chitarre ben impastate girano e si accodano ad ogni pesante pattern di Mattew Archer, furbo e perspicace nell'insinuarsi nei vari soli di Mackintosh, distribuiti nei sette minuti abbondanti di "Daylight Torn". Il pezzo corre spedito ma si percepisce comunque nell'aria un cambiamento: non a caso, dopo un verso come "Life is your quest/Erase your quest" ("La vita è la tua ricerca/Cancella la tua ricerca") sparato passionalmente dal nostro singer, intorno alla metà del secondo minuto, le ritmiche sono radicalmente rallentate e con loro anche la voce. Il doom si impadronisce della sezione proposta dai nostri, le chitarre rumorose e soprattutto il basso scandiscono al metronomo ogni nuova dolorosa sillaba che non può non cozzare contro le nostre percezioni emozionali. Il buio più nero pervade oramai tutto il sound, e la luce densa e positiva viene spintonata da un clima fatto di oscurità perenne. In tutto questo oceano spicca l'assolo sempre geometrico, il quale fora quella nebbia fitta che ormai ricopre tutto. E non solo: in questa sezione abbiamo di fronte anche un Aaron Aedy alternativo, che impugna la sua acustica donandoci più di dieci secondi di pura emozione, secondi che quasi costringono noi ascoltatori a riflettere. Il mare, dopo aver passato un secondo di pace, torna ad essere tormentato, seppur colorato da un nuovo gioco solistico di Mackintosh che non fa altro che preparare il nostro Nick nella scatarrata finale, donandoci ancora bei momenti.
Pity The Sadness
Proseguiamo con la prossima irruenta track, la quale sin dalla semplice lettura del titolo fa capire a noi il vortice emozionale in cui siamo immessi. "Pity The Sadness" ("Peccato per la tristezza") graffia i nostri padiglioni auricolari sin dai primissimi inizi, il basso accentuato colora ogni "debole" riff iniziale della chitarra principale impugnata da Gregor Mackintosh, il quale non fa altro che aumentare a dismisura il clima grigio che ci circonda. Se le ultime due tracce parlavano di un leopardiano pessimismo di fragilità interiore e tristezza, questa quinta traccia aumenta in maniera più nuda e cruda un già di per sé alto tasso di dolore, dovuto come al solito alle tante difficoltà della vita, sempre vista come una sorta di tiranna nei nostri riguardi, un'entità malvagia volta alla sofferenza della sua infinita prole, e nulla più. Il dolore, nell'ottica dei quattro musicisti inglesi, non può non mancare nelle nostre futili vite, "arricchite" soltanto da beni materiali, i quali però invece ingannano le nostre coscienze. I primi amalgami di chitarra, basso e batteria sembrano parlarci addosso, nonostante qualche piccola incertezza iniziale; dopo che l'intero team acquisisce un temperamento maggiore, esordisce il latrato fulmineo di Nick Holmes, che con la prima frase, "Sadness lives after we die" ("La tristezza vive dopo la morte") irrompe impregnando di malinconia. Ecco cosa è la tristezza, un qualcosa di imperituro e di perenne che nemmeno la morte riesce a sconfiggere, un qualcosa di inaccessibile che pittura di nero pece tutto e tutti. "Pity the Sadness" corre spedita, intervallata magistralmente da piccoli assoletti, con il solito stile dei Paradise Lost. Ovviamente gli stilosi e classici rallentamenti non possono mancare, anzi sono propedeutici per scatenare in noi un flusso incontenibile di emozioni negative, che è in pratica l'intento dei nostri. La seconda sezione del pezzo riprende le cadenze del prima, con accelerazioni improvvise e "shred solos", come quello che gustiamo verso la metà del terzo minuto e che in pratica costringe Holmes a latrare e a condurci nei tempestosi secondi finali, scanditi come sempre da commiserazione e introspezione.
No Forgiveness
Una chitarra acustica sapientemente guidata da Aaron Aedy si dimostra la colonna sonora del silenzio, perfetta per condurci idealmente nel seguente tassello dei nostri, "No Forgiveness" ("Nessun Perdono"). Il chitarrismo acustico continua, procede elegantemente, mostrando una faccia diversa dei duri Paradise Lost. Un minuto abbondante ci risulta più che necessario affinché il metal si impadronisca letteralmente del brano. Le due chitarre impongono un crescendo decisivo che tocca livelli distorsivi niente male: qui si insinua il nostro singer, che finalmente si trova a suo agio nei primi minuti di questo brano. Gonfio di disperazione ci dispone note di sofferenza; anzi, più che sofferenza, sono parole piene di una scarsa voglia di combattere contro le varie chimere che si mostrano durante il nostro percorso evolutivo. Una rassegnazione emotiva, nei confronti di un qualcosa di più grande di noi. Ma la coppia - in sede di scrittura - Holmes/Mackintosh non vuole spudoratamente sequenziare una situazione pressoché irraggiungibile, al contrario: vuole semplicemente dimostrare che la nostra psiche è un terreno aspro e contorto, infimo nei confronti situazioni troppo grandi per noi. Non a caso le linee semantiche ricalcano parole scarne e vuote, diciamo molto catastrofiste e nichiliste. Le tematiche spiattellate addosso a noi sono importanti, figlie di un lavoro lirico maturo, fondamentali e chiaramente molto vicine alle nostre esperienze. La traccia procede spedita, con ritmi incessanti e gonfi di armonia, possente quasi come non mai, sezioni strumentale potenti e deflagranti. Un quadro degno nel rappresentare la pesantezza testuale, la quale esce fuori in maniera molto evidente. I Paradise Lost riescono ad alleggerire tale situazione sonora con intermezzi virtuosistici sapientemente ricamati dalla coppia d'asce; in particolare quella principale, che attorno alla metà del quarto minuto ci delizia con ben due minuti di fraseggi solistici, i quali non fanno altro che farci capire quanto la chiave di volta per intendere tutto il marasma del sound sia la chitarra guidata dall'astuto songwriter Gregor Mackintosh, cresciuto veramente molto nell'arco di poco tempo. Molto interessante è anche l'assolo di batteria di Mattew Archer, molto grintoso e veloce nell'introdurre per una seconda volta Holmes, che dopo aver acquisito potenza vocale durante il dominio della parte strumentale, ci dona le ultime note. In conclusione, questa "No Forgiveness" si dimostra un pezzo veramente riuscito.
Your Hand In Mine
Giunti ormai agli ultimi atti di questo sfrigolante lavoro, non ci resta altro da fare che restare seduti e assaporare i nuovi pezzi che i nostri ci hanno preparato. Pezzi ostici e mai banali, con un retrogusto colorato da una voglia di reagire ai selvaggi ruggiti del prossimo ma allo stesso tempo rendersi conto di essere solo entità destinate al trasformarsi in un cumulo di polvere. In particolare, se durante un percorso incontri situazioni capaci di marchiarti con ferite laceranti, in grado letteralmente di trapassarti lo spirito, sei più predisposto a mollare, occultato dalla nebbia della sofferenza la quale nasconde nelle proprie corde una immane voglia di lacerare le carni. "I can't go on/I'm hurt now" ("Sono ferito ora/Non mi va di andare avanti..."), verso presente nel cuore di "Your Hand In Mine" ("La tua mano nella mia"), simboleggia l'aria che affannosamente respiriamo, aria che si trasforma in un qualcosa di rarefatto direttamente dall'inizio, quando le due chitarre in un lento stiloso incominciano a propagare la loro essenza. Sound cupo, scandito dalle pelli rigorose di Archer, le quali non fanno altro che alzare il tasso di ansiogenità. Gioco che dura ancora per un momento, finché un basso accecante ci illumina la via, dando la possibilità di un inserimento vocale che allontana il canonico growl di Holmes, ponendo una modulazione vocale quasi corale. La voce ci appare come un ululato a distanza di kilometri, ma in realtà il nostro singer sta sussurrando qualcosa vicino alle nostre orecchie. Forse per la prima volta assistiamo al cantato pulito del frontman, che però con il passare dei secondi si lascia andare aumentando il suo range. La sezione è rumorosamente lenta, con il basso che come abbiamo già detto in precedenza è messo molto in rilievo. Come se ogni frase emessa ci scavasse all'interno, la capacità esaustiva del team gotico è perforante e intelligente, le doti di scrivere di musica erano cresciute in maniera esponenziale, rendendo cosi il piccolo "limite" dei nostri solo un ricordo. Non c'è modo miglior,e per augurare una nuova linfa ritmica, di un assolo breve e conciso di Gregor Mackintosh, il quale si porta addosso la responsabilità di aumentare la velocità esecutiva del quartetto. E perché no, si dimostra anche sapiente nell'indirizzare i vocalizzi di Holmes, che assumono tonicità e elasticità assimilabili agli altri pezzi sopra descritti. Il riffing si fa tagliente, perforante e magnetico al punto giusto, armonioso nell'accogliere sia i toni bassi che i toni alti; il tutto rigorosamente controllato dalla batteria, l'orologio e il cervello del sound in questa parte del brano. Il tutto, che stava diventando quasi "aggressivo", si spegne improvvisamente verso lo scoccare del quinto minuto. Le corde di basso bisticciano con la batteria che simula una parata militare, per quanto è precisa e canonica, creando di nuovo il terreno fertile per la chitarra d Gregor, astuta e matematica, che raggiuge il suo picco strumentale per poi lasciare il testimone a Holmes, che ci devasta le orecchie come suo solito fare.
The Word Made Flesh
Di sensazioni non positive ne abbiamo trovate, nelle sette tracce passate, ognuna di loro ci ha fatto capire la pasta lirica densa e oscura che il combo inglese ha cucinato per noi. Il penultimo tassello ovviamente non di discosta minimamente dalle altre tracce, anche se qui assistiamo ad una vena molto più "violenta". Liricamente infatti, emerge una sintassi che utilizza una terminologia molto più succube e diabolica: si parla sempre di noi come esseri fragili, ma questa fragilità è dovuta alla presenza attorno a noi di esseri immaginari, i quali come demoni ci logorano lentamente, facendoci perdere la nostra essenza. Quel "From within, worn away" ("Dall'interno, logoro") presente nel cuore della prossima "The Word Made Flesh"("La parola fatta carne") è come una mattonata contro la positività, che nel sound dei nostri non emerge mai. Il brano inizia in una maniera molto lenta col basso di Edmonson e le due chitarre ben ponderate ma ruvide, che col passare degli istanti accolgono il growling di Holmes, che evapora improvvisamente, stoppato solo da un piccolo assolo magistrale di Mackintosh il quale si pone nell'intermezzo delle vocals, ricalcanti - come abbiamo detto - terreni aspri e duri, dove non esiste tranquillità e pace ("The hour of peace is gone; L'ora della pace è finita"). La ruvidità della voce è semplicemente perfetta per permettere l'avanzo di una totale negligenza. Il tono rabbioso aumenta col passare dei secondi, intervallato sia dalle chitarre che alleggeriscono considerevolmente tutto il nostro approccio sonoro che dalla batteria ben quadrata e furba nell'insinuarsi nelle note dal sapore doom. Gli scream, a differenza di altre tracce, spuntano fuori dalla voce Nick in diversi punti, dimostrando ancora una volta di cosa sono capaci le corde vocali del singer inglese. Verso la metà del terzo minuto, supportato da Mackintosh e Aaedy, il pezzo cambia tabella di marcia, diventando più spigoloso e meno apatico, veloci come una scheggia sono i virtuosismi della lead guitar, con noi praticamente fino alla fine. In via di conclusione, questa "The Word Made Flesh" si dimostra una track molto buona.
As I Die
"As I Die"("Ecco che muoio"). Tre parole, un solo significato: morte. La morte, un tema trattato sempre in maniera molto approfondita dal combo britannico, trova in questa ultima traccia una delle sue più rarefatte versioni. Immaginiamo di trovarci in una stanza buia, assalita dall'ombra: è presente dinanzi a noi un soggetto ormai perso in un mare di pulsazioni negative, quest'anima a noi sconosciuta trova ormai sollievo soltanto autocommiserandosi, nulla ha assolutamente più senso. La morte diventa l'unica soluzione, una soluzione forse alquanto disperata ma necessaria per dimenticare questa vita complicata. Ombre che agiscono come tenaglie assalgono l'intro puramente gotico, una serie di voci corali sussurrate accolgono la batteria di Mattew Archer, che non fa altro che scandire quei momenti di terrore. I Paradise Lost rilasciarono, in un tuonante bianco e nero, un video ufficiale per questo pezzo; tale azione fu un passo decisamente importante per la loro carriera. Le vocals di Holmes attendono giusto qualche secondo prima di intervenire, spezzando l'aura gotica creatosi all'inizio e aumentando potenzialmente i toni già istaurati dalla forte distorsione delle due chitarre. "As I Die" è scandita da urla fitte del performer che si insinuano sottopelle creando il caos. Melodie vertiginose ci conducono verso una pausa illusoria, che viene rotta quando Nick, accompagnato da un basso importante, riprende di nuovo il timone con una ripresa vocale. Il pezzo è un saliscendi emozionale, dato che "As I Die" è uno dei pezzi più complessi dei nostri per l'utilizzo di innesti corali che aumentano la luminosità delle composizioni. Giunti quasi alla metà del primo minuto gli schemi iniziali riprendono vita, ponendo di nuovo sotto una luce positiva le capacità di Holmes di tornare a sganasciare vocals poderose e prettamente "gotiche" che mettono in luce le due chitarre, che esplodono di armonia creando duetti divinamente più riusciti. Difatti, la coppia Mackintosh/Aedy non solo è necessaria ritmicamente parlando ma è decisiva anche per innestare fragorose sezioni squisitamente gothic/doom, che fungono sempre da cuscinetto ritmico per la voce. E che voce, in questo caso il singer riesce a donarci qualche assaggio delle sue future performance vocali con i Paradise Lost, notiamo salti mortali positivi rispetto agli altri due full-lengt hprecedenti. Non c'era miglior modo di concludere un disco delicato, un lavoro che valeva un'intera carriera artistica. "As I Die" racchiude tutta la poesia malinconica che il quartetto inglese ha voluto sempre mettere in note.
Conclusioni
I dischi di transito sono sempre molto complicati da delineare, nascondono nelle loro corde un qualcosa di innovativo ma allo stesso tempo di misterioso. Di solito, il terzo disco è il lavoro della conferma, quello che per una buona volta fa capire cosa una band voglia proporre e in che proporzioni sonore. I Paradise Lost, sotto un sole cocente e sfavillante di luglio, quasi in contrasto con il sapore della musica proposta,stavano scrivendo un altro passo importante della loro carriera e come nel precedente disco, avevano atteso soltanto un misero anno nell'impacchettare un nuovo lavoro, anzi un capitolo glorioso come "Gothic" fu un risultato inaspettato, potentemente influente come pochi nei selciati estremi di quegli anni decisivi dal punto di vista discografico. E se allora siamo certi, cari lettori, che "Gothic" fu un platter necessario e di base per i nostri quattro inglesi... come possiamo, in sostanza, classificare musicalmente questo terzo tassello chiamato "Shades Of God"? Beh, anche questo lavoro che abbiamo appena finito di raschiare affondo, soprattutto dal punto di vista tonale (in primis nel differente uso di effettistica e chitarre) migliorò i piccoli difetti, ponendo fondamenta ancora più sicure e rigide su cui costruire i due futuri "iconici" dischi, che forse più di "Gothic" getteranno nella storia questa band, la quale si trovò dal primo ringhioso "Lost Paradise" alla massima espressione di un discorso musicalmente assai più impegnato e particolareggiato. Gestire le influenze provenienti da più suggestioni fra loro differenti oramai era divenuta un'azione quasi normale, un'opzione semplice nell'ottica de nostri, quasi scontata dato che i gothic metallers di Halifax (Regno Unito) avevano costruito un'identità vocale e soprattutto strumentale. Le vocals del mastermind/singer Nick Holmes appunto, se negli altri lavori erano ancora sollecitate negativamente da una resa produttiva purtroppo scarsa, qui raggiungono picchi vocali veramente validi, forse ancora non perfette al centro per cento, ma ogni frase sofferta e nichilista tiene in corpo quella morbosità adatta alla descrizione delle tragedie umane. I Paradise Lost hanno in questa occasione raggiunto - nonostante la non perfezione totale - livelli di songwriting molto ma molto importanti. Anzi: per la prima volta potevano reggere il confronto con una compagine regina da questo punto di vista, come i My Dyng Bride, loro "colleghi" dello Yorkshire. Una teatralità emotiva che si incrosta sinuosamente nei nove pezzi, che compongono così un'armonia generale,un qualcosa di innovativo forse non cosi sinfonico come in "Gothic", ma lo stesso si raggiunge una solidità emozionale. E strumentalmente? Anche da questo succoso punto di vista i livelli di basso si dimostrano pungenti in ogni tratto e con lui anche l'assetto di guerra formato dalla coppia chitarra / batteria, le quali lavorano all'unisono allontanando le leggere sbavature che comunque avevamo incontrato. Gregor Mackintosh si autonomina il padrone indiscusso, come del resto lo è sempre stato; senza di lui i Paradise Lost non esisterebbero nemmeno. Sotto quel sole del 14 Luglio del 1992 una nuova oscurità si abbatteva sui grigi celi inglesi, con questo ricco e succulento "Shades Of God", disco il quale merita senz'altro molta attenzione accompagnata da tanti ascolti. Un prodotto di certo non immediatissimo e nemmeno troppo "semplice", ma proprio per questo terribilmente affascinante. Un buon modo che la band ebbe per metterci alla prova, testare (proprio come dicevamo in apertura) il nostro modo di andare oltre, provare a valicare confini solidi senza paura alcuna. Una volta trovato il coraggio, una volta riusciti in questo intento, state pur certi che riuscirete senza problemi a godervi un platter di tale portata. Un disco che merita assolutamente la nostra considerazione, il quale sarebbe un peccato relegare nell'angolo come "semplice lavoro di transizione". Sono qui presenti tutte le peculiarità che in seguito verranno sviluppate in maniera ottimale, rendendo la carriera dei Paradise Lost unica nel suo genere.
2) Crying for Etenity
3) Embraced
4) Daylight Torn
5) Pity The Sadness
6) No Forgiveness
7) Your Hand In Mine
8) The Word Made Flesh
9) As I Die