PARADISE LOST
Paradise Lost
2005 - GUN Records
GIANCARLO PACELLI
17/04/2020
Introduzione recensione
Il percorso dei britannici dei Paradise Lost è tutto tranne che facile da definire in quanto la preparazione dei musicisti ha portato ad una prima parte di discografia di un certo tipo per poi procedere verso territori ampiamente sperimentali. Prima parte discografica dominata dal metal "estremo" ma già potentemente delineato in soluzioni dal sapore gotico che hanno trovato la loro casa perenne nei dischi che ben sappiamo, in quanto considerati pilastri di un intero sottogenere musicale, ossia "Gothic", "Icon" e "Draconian Times". A conti fatti però la band di Halifax vede complicata anche la classificazione di questi tre lavori, che sono simili da una prospettiva ma differenti da altri punti di vista. Il primo ancora marchiato da rimembranze del debutto "Lost Paradise" ma già indirizzato nel gothic-doom di stampo britannico; mentre invece "Icon" e "Draconian Times" possono essere inquadrati secondo una prospettiva direttamente gothic, e non a caso proprio questi due platter hanno fatto la scuola del genere. Quando la carriera dei britannici poteva proseguire secondo i canoni sonori profusi da "Draconian Times" del 1995 ecco che la sapiente, ma anche pericolosa, mano della carovana britannica compie una svolta decisiva, una deviazione clamorosa proponendo ora un suono assolutamente non metal ma eccessivamente derivativo e attaccato ai pilastri del pop sintetizzato degli anni Ottanta. La svolta è clamorosa: la band appare irriconoscibile, la pesantezza di chiara derivazione doom lascia spazio a tastiere e a refrain dal gusto ineccepibile. Da "One Second" fino a "Symbol Of Life", passando per "Host" e "Believe In Nothing" il passo è breve: Holmes da addio alla sua preponderanza vocale, Mackintosh abbandona la sua capacità solistica, il basso di Edmonson ora si deve prestare a giochi semplicistici e minimalisti. Ma anche qui come nel primo blocco dei lavori della band, i quattro dischi della cosiddetta era dei "Depeche Lost" (in cui ovviamente si prendono in considerazione i Depeche Mode, innegabile ispirazione in questa delicata fase) sono altamente differenti in quando giostrano la materia elettronica secondo diversissime ottiche musicali. "Symbol Of Life" del 1999 tra questi era quello che più ci aveva fatto toccare con mano quell'autentico sapore metal e di retrogusto rumoroso che tanto ci era stato lontano nei dischi precedenti, che nel loro selciato sonoro mostravano pur sempre una band unica, principalmente dal punto di vista del songwriting in quando la penna dei nostri viaggiava secondo ritmi a dir poco eccezionali, nonostante la mancanza del classico vigore doom-death metal dei primi dischi. I Paradise Lost erano pronti a sorprendere ancora con il nuovo lavoro, successore di un "Symbol Of Life" che puntava a canzoni forti e dall'impatto decisivo lungo il collidere delle sezioni di basso e chitarra, motori pulsanti di un'intesa rinnovata che stava compiendo passi dall'innegabile grandezza. I camaleonti della terra albionica non si limitano mai al compitino, cercano di dare forma a tutte le idee musicali che risiedono nella loro mente scattante, e proprio questa capacità ha permesso una sorta di sopravvivenza della band, che dopo un cosi' radicale cambio di stile non poteva certo essere tranquilla e serena. Allora, lasciandosi da parte queste illazioni che sappiamo essere necessarie quando si parla di istrioni del calibro di Nick Holmes e Gregor Mackintosh, iniziamo a scrutare l'omonimo album (Paradise Lost) uscito nel 2005 per la GUN Records. Se ricordate bene questo è l'ennesimo cambio di label del quartetto, e questo parametro certamente andò ad influire come lo è stato in passato. Questo omonimo vede l'addio definitivo di Lee Morris, come già avevamo accennato nella descrizione di "Symbol Of Life", sostituito da uno scalpitante Jeff Singer che non vedeva l'ora di sedersi dietro le pelli della band. La traslazione verso una nuova produzione andrà ovviamente a farsi sentire nell'impatto delle tracce che nella loro uniformità danno sfogo alla tensione metallica che vibrava nelle mani dei nostri: obiettivo unanime era andare avanti nel percorso iniziato con i platter precedenti, tentando di cementificare un riffing forte e compatto, a discapito di rimembranze fin troppo sintetiche o elettroniche. Di se' per se' intitolare un album a proprio nome significava mostra le proprie carte vincenti, soprattutto dal punto di vista compositivo. Il recuperare la classica forma-canzone di natura metallica girovagava nella mente di Mackintosh e compagni ed è proprio questo l'obiettivo del decimo album in studio. Una piccola descrizione a parte la merita la copertina, disegnata da Spiros "Seth" Antoniou dei symphonic death metallers ellenici SepticFlesh: una forma quasi angelica, speculare che si innesta rigogliosa in un gioco di colori azzurrini e chiari.
Don't Belong
A dare l'avvio di questo omonimo ci pensa una delle tracce più note dell'intero disco, essendo stato scelto come singolo di lancio. Il mondo plumbeo e cavernoso del combo britannico non può sgocciolare paranoia e sentimento mortifero, l'autocommiserazione impera nello scalciare qualsiasi riferimento positivo. Con i Paradise Lost si entra in un mondo lirico con l'ampia probabilità di rimanere intrappolati per l'eternità. Il primo brano, oltre che gran successo, è l'amara Don't Belong (Non Appartenere). Cari lettori, il titolo già è di se' per se abbastanza indicativo al fine di costruire il paesaggio lirico che andremo a toccare con mano, a stringerlo con forza e ad assaporarlo con delicatezza nonostante la sua ombra risulti mortifera. Ma allontanandoci dal classico stile dei miltoniani, l'introduzione viene egregiamente affidata a tetre tastiere di radice gotica che coprono i primi squarci iniziali in cui cenni sinfonici non smettono di aumentare di peso e di potenza. il flusso torrenziale delle note che fungono da battesimo di questa traccia non perde magia col passare dei minuti, anzi più questa "Don't Belong" aumenta di minutaggio e più siamo curiosi nel conoscere come la band approccerà a modificarla. Passati quaranta secondi Nick Holmes irrompe nella partitura con estrema leggerezza, diventando alfiere di quel complesso dolore nel non essere capiti, nel non essere aiutati ad affrontare le intemperie che si possono incontrare. La fragranza vocale del nostro performer più che comportarsi come elemento sovrastante alla sezione ritmica, si adagia al comparto strumentale diventando estremamente connessa con le effusioni semplicistiche di accenni di batteria e di chitarra. Tutte metriche perdurano fino all'irrompere del chorus, dove da spumosa e dolce la voce diventa più tarata e decisa, soprattutto durante la corsa per raggiungere i passaggi di Mackintosh, assolutamente delicati nonostante alcuni momenti aggressivi. Un comportamento bipolare, cosi come quello che deve essere perseguito da chiunque cerchi serenità e pace in questo mondo: da una parte secondo i nostri, è bene avere un carattere forte e tenace ma da un'altra prospettiva non bisogna mai perdere quella dolcezza interiore, che a lungo andare diventa una peculiarità fondamentale per la nostra essenza. "Need a little understanding for all I've done / In another situation I don't belong (belong)" (Ho bisogno di un po 'di comprensione per tutto ciò che ho fatto / In un'altra situazione non appartengo (appartiene). Ecco come si crogiola il pensiero dei nostri, c'è bisogno di una comprensione sia per le cose passate, quelle che abbiamo fatto e sono relegate nei cassetti della nostra memoria, che per le azioni future che, per essere fruttuose e ottimamente funzionali alla nostra pace interiore, devono essere mirate e sincere. Insomma, l'altro che ci da' consigli e ci avvisa su fatti e situazioni è cosa più che buona, ma poi sta noi decidere della nostra vita, del nostro futuro. In tutto questo mare tematico, Gregor impone una ritrovata essenza solistica dopo la fine della riproposizione dell'efficace refrain, costruendo un solo importante che valorizza ancora di più questo brano, che si chiude con un Holmes pimpante e ispirato nel dare il giusto peso alle effusioni melodiche finali, dotate di tanto estro.
Close Your Eyes
Come secondo tassello percepiamo nuovamente l'ormai più che stabile stile gloomy della band. Anche se Close Your Eyes (Chiudi i tuoi occhi) è differente, si manifesta come un brano luminoso, chiaro e semplice. Basta chiudere le palpebre degli occhi per abbandonare questo mondo, una landa desolante e sempre più oppressiva, per giungere ad una situazione differente, equilibrata, dove ogni cosa riflette di una sua luminosa luce. Tutti questi buoni propositi cozzano invece con la potenza del riffage della band: difatti le due chitarre stracciano qualunque tentativo elettronico dei lavori precedenti, per affilare le composizioni con un lavoro di base più mirato. Nei primi secondi il battito di Jeff Singer, in grado di sfoderare una prestazione più che solida, prepara il terreno per le due asce, le quali attendono una coltre gotica di innegabile fascino. Questa si adagia sul forte impianto ritmico riuscendo a donare quel benedetto stile catchy che aveva fatto la fortuna delle casse della band inglese, ma si intravede la propensione a metalizzare il tutto nonostante la scelta vocale pop di Nick Holmes, la quale prende il sopravvento soprattutto durante il refrain. I fraseggi serrati e i break, che si intervallano matematicamente anche durante la voce filtrata di Holmes, sorreggono questa "Close Your Eyes" che trasmuta in un crescendo fino al sopracitato ritornello. Assolutamente d'impatto e scenicamente perfetto, soprattutto se nelle intenzioni del quartetto era miscelare chiare intenzioni radiofoniche con scelte di vecchia data. Dicevamo prima di quel mondo che si materializza appena chiusi gli occhi, ma anche in questo caso la verità rimane ancora un punto debolissimo, permane un sogno che nemmeno il nostro mondo interiore riesce a rendere pratico. Riprendendo il discorso del ritornello, le chitarre tuonano all'occorrenza senza strafare del tutto in modo da non intaccare quell'equilibrio che si è venuto a creare. Nel trentaseiesimo secondo del secondo minuto ci viene ricordato il motivo per cui Gregor Mackintosh è un grande chitarrista: il suo solo, sposato ed immesso in un clima quasi ambient, permette di nuovo a Holmes di tornare in grande stile, decantando il semplicissimo ritornello. Semplice si, ma non per forza scontato ed immedesimato nel contesto di questa song.
Grey
Ciò che potremo notare nella terza traccia di questo omonimo è probabilmente in cui la strumentazione assume sembianze molto pop. Del resto, i Paradise Lost di questa fase di transizione potevano definirsi tutto tranne che metal al cento per cento. Questo non significa ovviamente che abbiamo a che fare con un brano flebile e debole, nonostante l'aura assai semplicistica, come vedremo fra poco, che pervade questa Grey (Grigio). Il ritmo basico sprigiona la propria leggerezza, anzi equilibrio, sin dai primi secondi dove un riff abbastanza canonico rompe il ghiaccio. Aaron Aedy e Gregor Mackintosh si dividono i ruoli permettendo alle note iniziali di elevarsi a dovere. Successivamente subentra l'elegante, e filtrata, voce di Nick Holmes che da un mondo esterno ci ricorda ancora una volta che una voce come la sua nasce ogni 50 anni. E non esagero: come ben si ode nel pezzo il proprio range si sposa perfettamente con l'apparente pesantezza delle chitarre, le quali si destreggiano sul filo di un equilibrio costante. Qui emerge, anzi è emerso, lo stile del paradiso perduto dopo i capolavori di inizio/metà anni 90': ossia una predisposizione ad un lirismo depresso, con una forza motrice rockeggiante e ovviamente ricca di pathos. La prima strofa di questa Grey trabocca di solitudine e di una non capacità di raggiungere la forza psicologica necessaria per combattere il grigio della vita. "Lo sto facendo da solo / Non qualcun altro / Lo sto facendo da solo": cosa c'è di più peggio che combattere le battaglie dell'esistenza da solo, senza nessun sostegno né fisico né psicologico? Qui la band dimostra inoltre di aver ancora una dose di lirismo oscuro e densissimo. Nei pressi del ritornello esplode la tendenza corale di Nick, che supportato da ritocchi in studio, oltre che dal drumming oculato e stentoreo di Singer, crea una mistura di tristezza e sentimento degno di una hit. Ripreso il temperamento dei pochi secondi non notiamo nessun cambiamento o un mutamento di tono: solo una coltre di fumo grigio, solo tanta tristezza si ammanta appena Grey ci abbraccia con un gesto oscuro e lontano da trasparire qualunque forma di sorriso. Il cambiamento a cui facevamo cenno prima avviene negli sgoccioli del brano appena Nick abbassa i toni ancora di più, riuscendo a rendere malleabile il cantato basso che si sovrappone ottimamente alla ripresa del ritornello, che ormai difficilmente riusciremo a dimenticare.
Redshift
La quarta traccia che ci aspetta non è altro che un riuscitissimo ibrido tra passato e presente, tra una voglia oltraggiosa di ritornare ad essere metallari e una tendenza a non dimenticare la breccia elettronica, che comunque una traccia ha lasciato. Ed infatti Redshift (letteralmente "spostamento verso il rosso") ricalca la sua origine scientifica, unendosi al magma lirico portato avanti dal paradiso perduto: questa volta imperniato sulla singolarità del nostro essere, sulla specificità magnifica che traspare da ognuno di noi. Il brano quindi celebra la disomogeneità, abbagliandoci con un rosso vivo come ben si evince dal titolo. La base elettronica tuona colpendoci alle spalle, con la voce del solito elegantissimo Nick Holmes a fare da contorno. Il basso è un po' nascosto dalla coltre fumosa dei sequencer, mentre le tastiere luccicano elegantemente scrollandosi di dosso, per il momento, delle roboanti distorsioni chitarristiche. Quel "per il momento" da poco evocato difatti viene centrato e colpito violentemente con il riffing di Gregor Mackintosh e Aaron Aedy, con il primo come al solito magniloquente nello scandagliare note su note, questa volta saporite da un retrogusto gotico. "There's something in the air that greets me / There's something in the air / I don't know where I belong, or where does it go from here" (C'è qualcosa nell'aria che mi saluta / C'è qualcosa nell'aria / Non so dove appartengo o dove vada da qui). Ciò che viene evidenziato è quindi la non appartenenza e capacità di inserirsi in una società, smentendo la nota concezione aristotelica che ci vede come "animali sociali che senza la comunione civile saremo destinati alla scomparsa". Bene, tutto questo viene messo da parte ed invece si evidenzia come nel mondo dei sogni, invece è possibile vivere con la propria coscienza, con i soli occhi di altre persone a facci compagnia: "Vedi i miei sogni; non sono come quelli di nessuno / C'è qualcosa nel tuo sguardo che mi saluta". Tali linee si sposano perfettamente con il chorus, ricamato a dovere con repentini breakdown ad accordatura bassa. Ma "Redshift" nasconde anche un cuore elettronico che difficilmente può essere sopito, anche con quintali di chitarre elettriche. Pochi secondi dopo irrompono le tastiere, con il charleston del drum set a colorare il tutto, danno l'incipit per la ripresa vocale di Holmes, che non soffre le tonalità alte della traccia. Un classicissimo solo di Mackintosh cala il sipario a questa traccia, che come la precedente, viene presentata come rigonfia di sublime melodia.
Forever After
Ed ora passiamo a quello che probabilmente è il pezzo che balena alla mente di ogni fan dei Paradise Lost quando si nomina questo disco. Forever After (Per Sempre Dopo) esplode in sordina, come era di moda ad un certo gothic metal di stampo finlandese (HIM, ultimi Sentenced): tastiere pompose, linee di chitarra efficaci, batteria monolitica e voce ovviamente pulitissima e pronta ad ogni minimo di totalità. Del resto, ben conosciamo che ciò che principalmente fa la differenza in questo discusso periodo è proprio Nick Holmes, che alla soglia dei 34 anni proseguiva la sua carriera canora da leader indiscusso. Il brano inoltre è uno dei singoli del disco, quindi ben si capisce quando gli inglesi tenessero a fare bella figura con la nuova etichetta discografica puntando all'essenziale. Le tastiere summenzionate sfumano in aura a dir poco epica, cadenzata da schiamazzi di matrice femminile sullo sfondo, mentre gorgoglii di chitarre fanno breccia alle nostre orecchie. Lo stile, il modus operandi, portato avanti dal duo non si distanzia dagli altri brani: si sceglie una progressione di accordi abbastanza lineare e gonfiata dal clima magniloquente del supporto ritmico. Ma qui il punto più che musicale è quello lirico, testuale. Difatti il testo di "Forever After" è uno dei migliori e oscuri, non tanto per il ritornello, abbastanza scontato, ma per il senso che il quartetto intende dare. Si evidenzia come il sogno, tema già citato nelle precedenti tracce, sia appunto un'illusione destinata ad essere tale. Nessun impegno, nemmeno la fortuna: il desiderio che vorresti materializzare è destinato a rimanere in un angolo buio dell'inconscio (Se solo potessimo vedere e vivere il sogno / Se solo potessimo ancora credere al sogno), che fa si' che ogni sforzo messo in atto sia vano. Prima del citato ritornello la voce di Nick si presenta filtrata e intaccata di una discreta dose di elettronica; quest'ultima però scende di livello e permette alla strumentazione classica della band (due chitarre, batteria e basso) di spingere i tasselli della traccia al loro posto del puzzle musicale. L'aspetto interessante è la rapidità con cui tutti gli ingredienti del paradiso perduto si miscelano a dovere: depressione, melodia, malinconia, sinfonie e catarsi sensoriale. Il tutto poi tange livelli di eccellenza nella costruzione vocale, che tralasciando la fase prima del chorus, non ha subito fin troppi rintocchi in studio. Nel finale un leggero cambio di ritmo da parte del pellame di Jeff Singer e di un basso più distorsivo dona a "Forever After" quella corretta spolverata di sinfonia, che più di pochi secondi prima si rivela azzeccata.
Sun Fading
Sun Fading (Sole sbiadente) ci dà il benvenuto con una introduzione questa volta ammiccante all'ambient, con un drumming subito oculato e filiforme da parte di Jeff Singer, integrato a meraviglia nel carrozzone, e a delle timide tastiere. Ma a colpire positivamente è l'approccio quasi matematico della chitarra di Gregor Mackintosh che subito si immedesima in mini assoli sezionati a dovere e immersi nel classico sound della band albionica. È proprio il riffing scultoreo a colpire, assieme al gran gusto batteristico proposto, a sposarsi a meraviglia con il tono vocale di Nick Holmes, come sempre più che adeguato al contesto gotico di matrice rocckeggiante. Lo scheletro della song rimanda ai greci Rotting Christ (Genesis, album del 2002), grazie proprio alla stesura delle note rivestite quasi di un tremolo picking di natura black. Ma "Sun Fading" è un fiume gotico che non conosce sosta, con un letto lirico che si rivernicia della difficoltà di essere sè stessi e dell'altrettanta complicanza a comunicare con l'altro, visto come l'ennesimo nemico da combattere e non come fonte di amicizia. Il paradiso perduto tuona con un lirismo si mortifero ma anche oscuro e macabro, in cui la luce del sole, simbolo della chiarezza, è progressivamente sottoposto ad un processo di sbiadimento. Nel mentre il brano ricalca lo stile rock gotico che ci si può aspettare da questi Paradise Lost, che non si smentiscono nemmeno nei momenti più "aperti" in cui le ottave di Nick viaggiano vorticosamente. La decadenza e la tristezza mai come ora diventano reali e concrete, tanta è la qualità del combo di rappresentare la sofferenza in tutte le sue sfaccettature. È immane la chirurgica attenzione alla melodia ma se vogliamo quest'ultima è l'ultima cosa che ci sovviene ascoltando il chorus del brano, dove l'ensemble inglese sfoggia il meglio delle proprie qualità, riuscendo a smentire anche i tantissimi detrattori degli anni precedenti alla release di questo disco. "Sun Fading" conosce i migliori momenti, colmi di vibrazioni positive, nel corpo centrale dove Mackintosh elabora i medesimi assoli iniziale e Singer fa da corollario ad una sostanza musicale che questa volta ricorda i migliori Paradise Lost anni 90'.
Laws of Cause
Una forte vena metallica la troviamo anche nella successiva Laws of Cause (Leggi della causa). Qui i Paradise Lost giocano con un certo minimalismo elettronico per poi darci dentro a suon di decibel, con entrambe le chitarre mattatrici. L'effettistica delle due asce sembra più coesa rispetto agli episodi precedenti, mentre gli arrangiamenti crepuscolari rimangono intatti, almeno per quanto riguarda tutto l'insieme. Nick si scatena come al suo solito mostrando delle corde vocali d'acciaio, mentre declama la solita litania contro gli spettri della depressione dovuti alla mancanza di contatto con l'altro (All this was the cause / All this was because you rose). La causa dello stato d'animo del protagonista, che potremo identificare con Holmes stesso, è da trovare ad un poco coraggio di mostrare i propri sentimenti nel momento giusto (All that's moved across / Was meaningless you show). Il ritornello si scatena con tutta la sua potenza, ed orecchiabilità, ben prima rispetto agli altri brani, con un midtempo furioso ed adrenalinico che praticamente ci abbraccia pochi secondi dall'inizio della traccia. Nick esplora la sua più candida destrezza vocale tentando di dimenticare in fretta e furia quel Dave Gahan che tanto lo aveva ispirato nella parentesi elettronico di fine anni 90'. Ma non solo il cantante, tutto l'ensemble brilla a più non posso con l'obiettivo di recuperare gli "anni perduti" in modo da stabilire un nuovo rapporto con i fans di vecchia data. Dopo la fine del refrain "Laws of Cause" si cimenta riproponendo ora un temperamento anche acustico, aggiunto nel mixaggio da Mackintosh stesso. A partire dal decimo secondo del secondo minuto, la batteria di Jeff Singer si dimentica la canonicità dei primi tocchi per abbracciare un nuovo ritmo, una nuova time signature che indirizza la traccia in territori molto densi ed aspri. Ad accompagnare lo shuffle del neo-batterista dei Paradise Lost ci pensa Gregor Mackintosh che inizia a giostrare tocchi ora più complessi. Tutto questo per poco meno di dieci secondi appena sgancia ora un assolo vecchia maniera (arricchito anche dalla chitarra acustico suonata sempre da Mackintosh stesso) per poi agganciarsi a Nick Holmes che ripete con forza anco il chorus.
All You Leave Behind
Consuete tastiere si intrecciano nei secondi iniziali di All You Leave Behind (Tutti quello che lasci dietro), ma le tematiche soft rock presenti riconducono di nuovo i Paradise Lost a condurre una nave di metallo. Il riffing delle due chitarre è di nuovo affilato, le successioni di accordi sono lineari e poco cervellotici dato il loro incastrarsi con gli intarsi batteristici di Jeff Singer. "All You Leave Behind", come è facile capire, tratta ora di tematiche riferite al rimorso, a quel sentimento lancinante che in un bel giorno spensierato d'estate ti riconduce ad una sofferenza mentale. È appunto il rimorso: Holmes e Mackintosh lo interpretano nella maniera più catastrofica, sotto una pioggia perenne che addirittura nasconde il Sole (On and on it rains / On and on no shelter / On and on it rains / The sun has gone forever; Continua a piovere / Su e su nessun riparo / Continua a piovere). Il sole è andato per sempre). Dal punto di vista strumentale qui i Paradise Lost giocano sul sicuro, con una conduzione ritmica "in your face", quindi manieristica ed efficace. Le tastiere proseguono il loro cammino gotico fino all'innesco vocale di Nick Holmes, qui in grado di sostenere delle vocals molto più basse e per questo notturne. Il ritornello è efficace, costruito su un doppio impianto vocale, portato avanti da Holmes stesso, che carica ottimamente questa "All You Leave Behind". Gregor è posto abbastanza in sordina nel primo minuto, ma la sua presenza si rivela assolutamente fondamentale le tempistiche di un pezzo che comunque tende fin troppo all'umore catchy. Col passare dei secondi, la traccia si evolve "al contrario" rallentando prima di partire di nuovo: è tutto uno stato mentale che ti ingabbia in una situazione paradossale densa di rimorso e di martellamento psichico (It's all a state of mind /For all you leave behind; È tutto uno stato d'animo / Per tutto ciò che ti lasci alle spalle). Ma è uno stato mentale non movibile e perenne se non emerge la piena consapevolezza che per vivere serenamente è giusto pensare al futuro e non al passato.
Accept The Pain
Accettare il dolore e dimenticare il passato è un compito decisamente difficile, adatto solo a poche persone. Non basta la volontà: quando il dolore investe ogni tessuto della tua anima c'è poco fare se non accettarlo, con la consapevolezza che una ferita si è aperta nell'inconscio. I Paradise Lost giocano ancora con tematiche complesse alla soglia della nona traccia, Accept The Pain (Accettare il Dolore). Tre minuti abbondanti composti da vigore strumentale e da una fitta destrezza vocale. Abbiamo dinanzi una delle tracce migliori dell'intero lotto in quanto contiene tutti gli elementi che questi Paradise Lost cercarono di condensare al meglio nel loro lavoro. L'introduzione è affidata curiosamente al basso di Edmonson, protagonista raro nelle canzoni dei nostri. Le corde di basso emanano il giusto leitmotiv su cui si innestano sia le palpitanti escursioni batteristiche di Singer che la chitarra principale di Mackintosh in un connubio che si fa progressivamente più artificioso col passare dei secondi. La vita non è altro che un cerchio che si interseca con altri cerchi, in un marasma infinito di situazione e di condizioni dove l'anima perde il proprio antico vigore (Like a drop in the ocean / Life's a drop in the ocean; Come una goccia nell'oceano / La vita è una goccia nell'oceano). Se da una parte l'anima perde i propri connotati, dall'altra il dolore diviene sempre più mastodontico, fino a divorarci del tutto. La traccia prosegue con leggeri guizzi strumentali alternati a momenti più aggressivi, coronati dalla voce sempreverde di Nick Holmes; il tono pulito del cantante è ciò che eleva questa descrizione del dolore ad un racconto quasi positivo, vestito di un capo colmo di illusione. Le chitarre fanno il loro sporco lavoro, a tratti minimalista, appena si giunge al chorus (Accept the pain, for all who ever tried), che inaugura una fase in un certo senso più pulita e meno carica di groove. Nel corpo centrale il consueto lavoro solistico di Mackintosh si propone come un urlo disperato di chi prova dolore ma non può ammetterlo; di chi ha paura ma vive nel buio per il timore di apparire debole dinanzi agli occhi degli altri. Tutto questo è "Accept the Pain" una traccia strabordante di epicità e per questo assai sottovalutata nell'ampio repertorio del paradiso perduto.
Shine
Un nuovo abbraccio tastieristico, codificato secondo coordinate stavolta sinfoniche, ci viene a bussare la porta del cuore. Shine (Splendente) è già vincente dai primi secondi; è perché, direte voi. Non serve un apparato acustico sensibilissimo per intercettare che alla decima traccia la band di Sua Maestà ha decisa di lasciarsi andare scovando dai loro archivi il plico con su scritto "melodia". Ed infatti la composizione splende e riflette una luce quasi accecante, coincidenze col titolo? Le chitarre operano nella loro specificità, riuscendo a far evidenziare i tratti salienti dell'impianto vocale di Nick Holmes; il basso sembra più pungente, mentre i charleston del drum seti di Jeff Singer si pongono questa volta propedeutici per la costruzione che evidentemente i nostri fiutavano. La decima traccia dell'omonimo nasconde ancora assi musicali ben precisi, i quali si destreggiano lungo un reticolato pop di innegabile efficacia. A discapito della splendente luce che Shine emana, dal punto di visto lirico è tutta una pura, e magnifica, illusione: c'è la luce ma non la vedrai mai, se non mascherata da una lugubre maschera scura (But you'll never see the light behind an open door/Ma non vedrai mai la luce dietro una porta aperta). È inutile quindi concentrarsi e 11trovare uno stratagemma teso a frantumare questo rompicapo, un giochetto che la carovana albionica immette sempre sotto una luce positiva quando in realtà emana solo disperazione. L'aspetto centrale è l'alternarsi sistematico di flussi eterei e rallentati, con altri leggermente più slabbrati e sporchi. Holmes gioca a carte con le due chitarre che a turno si sedimentano in riff stoppati grondanti di miseria, chiudendo dignitosamente il cerchio ogni volta che una strofa cala il sipario. I Paradise Lost danno il loro meglio, come è facile intuire ascoltando e riascoltando tutte le dodici tracce, nei ritornelli; brevi, schematici ma dannatamente efficaci, come mai era stato prima del rilascio del disco. L'aspetto curioso è che proprio i ritornelli sono i testimoni di una durezza di fondo sempre più stratificata e radicata; pena un rallentamento troppo eccessivo che va a sminuire l'impalcatura globale proposta. Ma non è questo il caso: giunti quasi alla fine, quando una band "normale" si adagerebbe si di un letto di piume proponendo temi più scarni, i nostri affondano ancora il coltello, consapevoli della pelle spessa che devono forare.
Spirit
Il tema dello spirito, quella energia intrinseca in noi stessi, non è un tema clou dei due songwriter Holmes e Mackintosh, ma nell'undicesima traccia si un'eccezione. Spirit si inquadra in un discorso in cui l'intera umanità presenta gli stessi colori, pensieri, e umori; non c'è spazio per la diversità, per la disomogeneità. Tutto è piatto e omologo, ma solo una cosa riesce a rimanere come quella di un tempo ossia l'anima, lo spirito. Ecco che ora i Paradise Lost prendono una piega quasi intellettuale in cui si indaga quanto lo spirito e il dolore siano due aspetti forti ed indistruttibili come il miglior diamante. Un'accordatura n chiave minore ci dà il benvenuto, sembra sentire qualche gruppo post-grunge di quegli anni, ma la scarica di adrenalina marchiata di gotica intacca il percorso iniziale inciso dalle due chitarre. La strumentazione alza l'asticella del ritmo, la batteria preme a sufficienza e le vocals spingono a dovere scorrendo lungo estensioni eteree che si attorcigliano con le due asce. Non si poteva immaginare un inizio di canzone più strutturato di cosi, dato a sorpresa si è cercato di dimenticare il modo con si dà al via alla più classica forma canzone. Spirit punge sin dall'inizio, ricordando a noi ascoltatori, spettatori della realtà immaginata; They say spirit always stays / They're all the same (Dicono che lo spirito rimanga sempre / Sono tutti uguali): sono dei soldatini uguali e coesi al tono severo del loro comandante, uguali come gocce d'acqua ma nonostante tutto hanno lo spirito che li contraddistingue. Nick preme ora su vocals più pulite, aiutandosi con voci addizionali aggiunge in studio. Il ritornello ha la forma che ci si potrebbe aspettare da ogni ritornello: quindi si cerca di dare uno spazio alla melodia con le leggere distorsioni di fondo che fanno da definito contorno. Nei pressi del ventesimo secondo del secondo minutio Gregor si sgancia dal resto della sezione ritmica per il consueto assolo; questa volta si pone in maniera abbastanza scolastica giocando sulle sue grandissime conoscenze tecniche. Una volta terminato l'assolo, di nuovo le progressioni d'accordi iniziale si rifà viva accogliendo anche i vocalizzi filtrati di Nick, che comunque si sposano con il clima costruito dal quartetto.
Over the Madness
I nostri mettono alla fine del loro lavoro il brano più lungo, Over the Madness (Oltre la pazzia). Brano più meditato e rallentato rispetto alle tracce precedenti, arricchito da tastiere ed effluvi sognanti che ne arricchiscono il peso emotivo. Il cantato introverso e dimesso di Nick Holmes non può far da corollario a tematiche rilassanti; si prende in esame la tristezza e tutte le conseguenze che ne comporta. Le mani sono legate e il cervello è costantemente impanato in uno strato di autocommiserazione praticamente infinito. Gregor per questo motivo mette da parte la velocità per abbracciare ritmiche più intellegibili e per questo connesse direttamente col passato. Il tema musicale scelto è per questo dotato di una rara capacità di entranti sottopelle e di trasportarti nelle desolazioni che i Paradise Lost mettevano su carta in quei dolorosi anni 90'. Il riff iniziale scodella la giusta impalcatura per tocco in 4/4 di Jeff Singer, ma per poco dato che l'oscurità di Over The Madness indirizza il proprio tiro in differenti tempistiche. "I've fallen down there once before (x2) / I'm always down there rest assured" (x2): sono caduto ma non mi sono rialzato, ho sbattuto contro il destino e barcollo nel buio con la mia amica solitudine a farmi da compagnia; ho solo la musica che mi da una mano a sopravvivere in questo mondo che definire ingiusto è un eufemismo. Il gusto oculato delle vocals, melodiche al punto giusto, impiantano la via maestra del resto del brano, colorato da diteggiature di basso finalmente decisive. I colpi di rullante poi donano a questa Over the Madness quella ricchezza che ha bisogno per sopravvivere negli anni, e speriamo, nei decenni. Nick personifica come sempre la rassegnazione, è come se è proprio la tristezza a trasformarsi in motore per permettere a tutti gli strumenti di pungere a dovere. E difatti, l'assolo meraviglioso di Gregor Mackintosh, uno dei suoi più sottovalutati, prende il sopravvento scavalcando anche le gerarchie, rendendo i vocalizzi di Holmes secondari. Lo spettacolo solistico di Gregor inizia alle soglie del quarto minuto, dopo un breve riscaldamento aiutato dai colpi di Jeff Singer. Non potevamo aspettarci chiusura migliore, qui il chitarrista e compositore dà come si suole dire il colpo di genio necessario per reintrodurre i Paradise Lost tra le grazie dei fans più intransigenti.
Conclusioni
L'omonimo dei Paradise Lost è un disco discreto, capace di attirare subito l'attenzione grazie alla copertina eccezionale di colori bianco-azzurri, come detto frutti della creatività di Seth dei Septicflesh; offre notevoli spunti su cui riflettere, un guitar-work sicuramente più complesso ed elaborato e canzoni che, nonostante siano permeate da un animo squisitamente catchy e che ammiccano al classico ritornello che ti si stampa in testa, riescono ad incidere. Ad incidere sicuramente sono anche alcuni tagli chitarristici del duo in azione composto da Aaron Aedy e Gregor Makintosh; tagli ben messi in luce essendo essenziali soprattutto quando vengono inquadrati dal punto di vista delle prestazioni solistiche, tese a guadagnarsi i loro spazi soprattutto nei momenti clou delle tracce, come ad esempio nel cuore o nei minuti finali della composizione. L'intesa ritrovata delle chitarre ravviva anche il resto della sezione ritmica, che punta a sfornare partiture più che ottime per i vocalismi in clean del sempre ispirato Nick Holmes, una voce che in tutti gli impasti armonici dei Paradise Lost, tanti e variegati come ben sappiamo, ha concesso sempre prestazioni di altissimo livello. E questo non era affatto cosa scontata, anzi: c'era da aspettarsi di tutto da una band del genere che ha faticato sempre ad essere racchiusa in un'unica capsula musicale, anche se, come ben sappiamo, è additata come esponente principale di un movimento che affonda le sue radici nei primi anni Novanta, anni di sperimentazioni e cambiamenti; anni che necessitavano menti come quelle di Gregor Mackintosh e Nicholas Holmes, per dare ulteriori sfumature a suoni di matrice sia estrema che malinconi figli dell'Inghilterra industriale. Un omonimo quindi che a conti fatti scalcia qualunque effusione di matrice elettronica, anche se non mancano riferimenti del periodo, per abbracciare un suono più pulito, in bilico tra gothic-rock e tracce evidenti di metal; ed è questo il punto essenziale per comprendere il valore effettivo di questo lavoro, che funge da ponte tra la parentesi elettronica, composta da quadrature strumentali ricche di addobbi in studio, e quella del ritorno a sonorità più pesanti e, se vogliamo, doom. L'intenzione era essenzialmente tornare al suono dei primordi, soprattutto perché quelle sperimentazioni, sebbene siano state utili per permettere al quartetto di spaziare e di maneggiare sonorità lontane miglia nautiche dal metal, non hanno portato a frutti che sperarono. "Host", per fare un esempio, fu un flop commerciale, cosi come i successivi e i precedenti lavori che assolutamente non portarono soddisfazioni ai musicisti dal punto di vista del prestigio; nonostante il supporto di etichette gloriose come la EMI, che puntarono essenzialmente al combo di Halifax dopo il successo commerciale di "Draconian Times"(1995), con pezzi estratti da questo ultimo che viaggiavano in heavy rotation su piattaforme seguitissime come MTV. Quindi il tentativo di riabbracciare le ritmiche degli anni addietro può essere interpretato anche da questo punto di vista, ossia ristabilizzare il proprio ruolo anche, e soprattutto, dal punto di vista discografico, tornando a richiamare i cuori fumanti dei metallari che sicuramente digerirono malamente il cambiamento di rotta dopo il summenzionato " Draconian Times". Musicalmente quindi la band ha fatto vedere di portare a casa risultati degni di nota dal punto dell'attitudine, imponendo il proprio stile su partiture apparentemente semplici, non avendo freni, raggirando suoni di differente estrazione con una facilità quasi sequenziale e matematica. In conclusione, con questo omonimo la band dirà il suo addio definitivo a questa parentesi durata tre dischi per ritornare ad addentare schemi musicali finalmente mutuati e annacquati di magnificenza ritmica e di velocità esecutive, non più ovattate da armonie minimaliste ed essenziali, ma da un chiaro fragore strumentale in grado di sezionare la nostra coscienza.
2) Close Your Eyes
3) Grey
4) Redshift
5) Forever After
6) Sun Fading
7) Laws of Cause
8) All You Leave Behind
9) Accept The Pain
10) Shine
11) Spirit
12) Over the Madness