PARADISE LOST

One Second

1997 - Music For Nations

A CURA DI
GIANCARLO PACELLI
27/06/2018
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione Recensione

Nel percorso di una band la parola "sperimentazione" si trova sempre lì, nascosta dietro l'angolo. È tanto attraente quanto deleteria: non tutti sono pronti a questo passo, l'audacia nel compiere questo step è elevata e richiede da sempre un altro prezzo da pagare. I fan si aspettano sempre grandi lavori, e un passo sbagliato può significare tante cose. I Paradise Lost, sin dagli estremi e anonimi esordi, hanno dimostrato che il "cambiare", se fatto con criterio può portare a grossi risultati. Risulta difficile pensare che la band che ha sfornato lo sfavillante "Draconian Times" è la stessa dell'oscuro e incerto "Lost Paradise". Anzi, ha proprio dell'incredibile riflettere e capire come il combo di Halifax sia riuscito a mutare forma senza però mai cambiare l'approccio alla materia oscura. Ecco, ciò che augurò una nuova fase della carriera dei britannici era proprio l'approccio differente: le chitarre devastanti e potenti lasciano spazio a fragorose e meccaniche melodie, e Nick Holmes muta radicalmente il suo modo di utilizzare le sue corde vocali. "One Second" creò sgomento e non poco. Cambiare faccia cosi all'improvviso risultò quasi impressionante. Il gothic e l'ondata del dark rock alla The Cure e Bauhaus prese il vivo sopravvento lungo le linee sensoriali che le corde dei Paradise Lost imposero lungo il corredo dei brani. La sperimentazione si unisce con tracce organolettiche ben delineate da una sana costruzione sonora: non parliamo di una riproposizione fredda e quadrata di ciò che fu la darkwave ottantiana, ma abbiamo di fronte una band estremamente matura, capace di mescolare con torrenziale intelligenza la loro base di ispirazione metallica con spunti elettronici e sintetizzati. Le tastiere dominano, diventano le vere portabandiera del nuovo fondamento melodico su cui Holmes e soci si affidarono, sfiorando quasi quel mainstream che già con il platter precedente avevano assaporato, avevano vissuto a pieno. "One second" si pone come disco inaugurale di una fase controversia della carriera degli inglesi, che a differenza delle altre realtà doom/gothic (basti pensare ai Moonspell di "Sin Pecado") sbalordirono e non poco. Sbalordirono ovviamente in "negativo"proprio perché fu una svolta del sound cosi magistrale da distruggere una grossa fetta della loro fan base, ma anche in "positivo" dato che non fu intaccata la qualità, la melanconia che da sempre caratterizza ogni nota della band. Ma nonostante tutto una enorme spaccatura si creò tra i fans, anche tra quelli più accaniti. "Draconian Times" era entrato direttamente nelle orecchie degli ascoltatori tanto da quasi "non far sopportare" un abbandono cosi radicale del metal, fu agli inizi inconcepibile un cambiamento di sound così pesante: ma questo non è un indice negativo se pensiamo all'agilità dei Paradise Lost nello sganciarsi e saltare da un sound dall'altro con una facilità oserei dire completa. Sembrava quasi paradossale un abbandono delle sonorità del capolavoro precedente, che aveva contribuito ad indirizzare l'oscuro quadro sonoro dei nostri verso una perenne consacrazione. Un approccio cosi morbido e rock era quasi inconcepibile per un collettivo che pochi anni prima devastava i palchi con potentissime chitarre e un growling da cineteca. In "One Second" pezzi orecchiabili e si susseguono con refrain suggestivi, talvolta agevolati da inserti corali che ne vanno ad impreziosire il contenuto. Un risultato che nella sua totalità e nella sua essenza generale lascia qualcosa, nonostante sul nome della copertina ci sia scritto Paradise Lost e non Depeche Mode o The Systers Of Mercy. La band britannica era consapevole di ciò e con un salto nel buio del genere ha certamente dimostrato un mare di carattere, coraggio invidiabile a dir poco. Non tanti sarebbero stati capaci di prendere per mano la propria carriera, compiendo un relativo salto nel buio, senza sapere quanto sarebbe stato profondo il fondale; i Nostri hanno dunque mostrato come si fa, raggruppando tutto il proprio ardire e tuffandosi, affidandosi al naturale istinto di sbattere le ali quando appunto la situazione di pericolo lo richiede. Il volo è stato spiccato... ma non tutti lo hanno ammirato. Tant'è, quel che ci ritroviamo fra le mani è comunque un disco dei Paradise Lost, ansioso di essere scoperto nota dopo nota, traccia dopo traccia. Non possiamo infatti discriminare nessun episodio a prescindere, basandoci sulla critica o sull'opinione pubblica... troppo spesso eccessivamente crudele e di parte, diciamolo pure.

One Second

Intraprendiamo il nostro viaggio sonoro con nientemeno che la title track, "One Second" (Un secondo). Il tempo, dall'inizio dell'umanità è una chimera insaziabile, un parametro inscindibile per la vita di ogni essere umano che ha palpato il suolo terrestre. Il tempo non conosce antidoti. Basti pensare a Marcel Proust che nel romanzo "Alla ricerca del tempo perduto"ne faceva un elemento destabilizzante. L'uomo è una vittima perché consegnato a un'infelicità senza scampo, prigioniero in quanto avvolto da una spirale che ha chiuso tutti i varchi possibili. In sé per sé è impossibile resistere al fluire incessante del tempo, un meccanismo che si muove in pochi secondi, anzi un secondo. La band intende rappresentare quest'alone di rassegnazione iniziando a colorare l'introduzione in una maniera soave, adottando appunto un approccio relativamente rivoluzionario che è in pratica la base di tutta la release. Il doom/gothic di "Draconian Times" è solo un tenero ricordo, per la prima volta una pesantissima tastiera si inserisce per battezzare un brano del paradiso perduto. A battezzare il tutto è Gregor Mackintosh che si dimostra un valente polistrumentista. Il tastierismo permette di farci rimembrare i fasti del goth rock ottantiano traslato però in un altro contesto musicale. One second parte ampiamente impregnata di melodia. Melodia confermata dal clean chiaroscurale di Holmes, che sembra quasi saltellare dal buio creatosi nei primi sintetizzati secondi. L'impatto è leggerissimo, è un petalo di rosa che volteggia riuscendo a districarsi in una maniera eccellente tra il virtuoso tastierismo di Gregor. Ma questo però dura poco: difatti nei pressi del chorus, subentrata anche la batteria di Lee Morris, il sound subisce un impennata e il rumore del tempo si fa sempre piu pesante. Basta un secondo per condizionare un'esistenza, in bene o in male non conta. I vocalizzi angelici si impregnano piu di forza nel ritornello. Qui, con la base strumentale ben improntata, con tastiere soffici e una chitarra composta nel suo minimalismo, il pezzo procede. Ogni sussulto vocale è un messaggio, è una lettera a noi spedita: cosa fare di questo tempo, talmente furbo e fugace? Bisogna sfruttarlo nel migliore dei modi, anche se ci porta in mente cose passate che ancora pesano nella nostra coscienza e nel nostro cuore. Pesanti non sono di certo le vocals del nostro che in un certo senso prolunga ciò che di buono aveva proposto nel precedente lavoro. Non c'è più quel chitarrismo incessante di Gregor: la sua ascia assieme a quella di Archer centra l'obiettivo di creare un letto soffice su cui le tastiere e i patterns di batteria possano poggiare. Giunti alla conclusione del ritornello l'atmosfera surreale di matrice darkwave prende il controllo, ma tutto viene spento dal ritorno di Holmes. Tematiche oscure, cosi come il sound, che da una parte prende quel classico groovecentrismo ma da una parte acquista in materia di atmosfera, una materia che i nostri sono stati ben capaci di mostrare in questa orecchiabile ma caratteristica title track.

Say Just Words

Il platter degli inglesi ha inaugurato il suo percorso con una title track, che nella sua semplicità di assimilazione, rende ancora più semplice il passaggio al secondo brano, "Say Just Words" (Solo parole). Il secondo anello del disco è anche un singolo, che sin dal lancio di "One Second" ha riscosso grandi numeri di consenso. A partire dal titolo ben percepiamo il flusso semantico su cui il combo di Halifax ha voluto girare. La parola, un mezzo necessario per noi esseri umani. Un motivo per vivere, con le parole si può fare semplicemente di tutto. È la base della sana convivialità: ma se le stesse parole risultano stancanti e inesorabilmente ossessive? In quel caso da messo chiarificatore diventano elementi destabilizzanti, proprio per a loro eccessiva ruvidezza che mette in gioco i nostri pensieri. Il brano inizia musicalmente con una tastiera ben messa in mostra da una eccellente produzione, che ricalca selciati sonori ancora più dark con l'innesto del groove a sfondo elettronico di Morris. L'entrata dell'oscuro e leggiadro drumming rende il livello del brano ancora più interessante. Mackintosh esordisce anche lui con la sua chitarra che colora una base ritmica ben improntata secondo canoni squisitamente stile gothic rock,a cui Nick e company sono molto devoti sin dai tempi di Lost Paradise. Come è new wave il cantato di Nick Holmes. Il nostro singer appare nel video della Music For Nations, ricalcando il vestiario dei classici performer dell'ondata britannica della new wave. Per approccio abbiamo di fronte un nuovo modo di concepire il sound dei Paradise Lost e il modo di comportarsi dei singoli membri è rilevante proprio come la musica proposta. Il tono sempre tetro e gotico di Nick rimanda uno stile vocale alla Dave Gahan dei Depeche Mode, certo ci risulta difficile che è lo stesso cantante di Pity The Sadness o di Gothic. I tempi per gli inglesi sono cambiati. Un tappeto altamente melodico con chitarre essenzialmente minimaliste ma ancora impregnate di ritmi drammatici e riflessivi, ricopre questa Say Just Words. É nera, è una traccia che mette in condizioni complicate l'ascoltatore proprio perchè il clima sintetizzato di ogni accordo e di ogni passaggio ritmico tocca livelli raggelanti. Giungendo nei pressi del ritornello, che come una chioccia si chiude mettendo in un terreno poco ariosa le nostre percezioni emotive, l'assetto strumentale assume una colorazione essenzialmente differente. "So say just words to me, unreal what your hate's providing/ Say just words to me, your talk is always contradiction/Say just words to me, you won't feel the warmth of friends around you/Say just words to me, is it true that there/is worth inside/So say just words to me" (Quindi dimmi solo parole, irreali, che cosa sta fornendo il tuo odio/Dì solo parole per me, il tuo discorso è sempre contraddittorio/Dì solo parole per me, non sentirai il calore degli amici intorno a te/Dì solo parole per me, è vero che ne vale la pena dentro/Quindi dimmi solo parole): questo ritornello ben delineato dall'ugola di Holmes mette a nudo l'intento lirico del nostro brano. È una polemica è una lotta contro chi si riempie di parole, a volte vuote, solo per avere un minimo di riconoscenza. E ascoltando l'irruenza delle backing vocals e di Nick stesso questo senso di meschinità sembra camminare sul serio tra di noi. Dopo il chorus un chiaro arrotondamento strumentale si pone immettendo di nuovo Holmes nel ruolo di assalitore, nel video il nostro si gira e si rigira in una stanza futuristica dove ci spiattella tutto l'amaro che ha dentro il cuore. A dimostrazione di tutto ciò il video ufficiale mostra scene, anzi scatti cadenzati che quasi seguono l'andamento chiaramente tastieristico di "Say Just Words", che si conclude con ritornello che riprende di nuovo vita.

Lydia

Terminata la leggerezza dell'acclamatissima "Say Just Words", il buio torna a regnare con il prossimo pezzo. Lydia, terzo brano dei nostri è un misto di luce ed effetti ombrali, una commistione di tetro gothic con linee melodiche soffuse ma decise. Ecco ciò che contraddistingue questo singolare pezzo dagli altri: ha una buona base spinta da un rifferama dal sapore heavy metal, ma fra poco ci arriviamo. Il brano, secondo Gregor e Nick in un'intervista ad alcune riviste musicali, prende forma durante le numerose riunioni in sede di registrazione. "Lydia", un personaggio, un fantoccio. Un nostro amico o lontano parente. È un flusso di una serie di immagini: esiste solo nella nostra coscienza, prende vita nel nostro apparato emotivo/percettivo. Incarna le sensazioni umane più disparate, dall'odio alla perseveranza. Gregor e Nick come sempre sono molto astuti nel porre il giusto carico emozionale che si sposa soavemente con le line estremamente melodiche che compongono Lydia. Lydia che parte subito con un incidere altamente atmosferico in cui un alone elettronico volteggia in ogni minimo movimento strumentale. Gli innesti campionati misti alla rigidezza delle tastiere di Mackintosh subito corrodono il sound assieme ai patterns di battera, fedelmente indirizzati a rigonfiare di spiritismo new wave. Pochi colpi di batteria, una chitarra presocchè inesistente e sprazzi elettronici creano una melodia che nella sua freddezza riesce a farci rendere participi del buono ma ancora statico sound. Il paradiso perduto riesce a forgiare giochi interessanti ma ancora abbastanza anonimi. Serve la chitarra di Gregor, che dopo una partenza molto basilare ricalca sonorità più classiche, ponendosi da ancora nelle vocals di Holmes. Il nostro singer, cupo e a testa bassa, riesce a propinarci una serie di linee vocali molto basse. I vocalizzi rasentano quello che abbiamo intravisto anche in "Say Just Words" ma in una maniera ancora più teatrale e vampiresca. I toni bassi nonostante non siano immessi nel classico temperamento doom dei lavori precedenti, riescono a farci drizzare le antenne con la loro profondità. E quando l'ascia di Mackintosh riesce ad essere più pesante le stesse vocals di Nick subiscono una importante variazione verso lidi clean. Un pulito che il nostro nelle precedenti release aveva sperimentato raramente, ora invece si pongono come unica chiave di accesso per capire il nuovo volto dei nostro inglesi. Tutto ciò è ben percettibile dopo il primo minuto, in cui una sferzata sintetizzata fa sbocciare l'anima quieta di Holmes, il quale viaggia nel timido quadro strumentale coadiuvato anche da backing vocals femminili. Terminato il ritornello lo stesso clima, lontano anni luce da un probabile distorsione ritmica, ci accoglie facendoci capire ancora di più che questa Lydia è in realtà il nostro alter ego. "Sei a bocca aperta per la tua mascherata stanca" ("You're hollow cold display your tired masque rade"), questa frase ben sillabata da Holmes ci fa capire che ognuno di noi ha una maschera che ci copre il viso. Il sorriso a volte cela dietro di se un'anima stanca e perennemente desolata da ogni lacerante pugnalata che la vita ci offre. Come ben vediamo i nostri non hanno perso la vena nichilista e realista che li caratterizzava. Dopo la ripresa del chorus non ci sono elementi importanti, "Lydia" si chiude cosi, senza cambi eccessivi di tempo, ricalcando ciò che ha mostrato nella prima parte.

Mercy

Di temi perennemente introspettivi e schematizzati nel delineare l'aspetto del multi-sfaccettato animo umano ne abbiamo visti a bizzeffe nell'attività lirica dei nostri. Ciò che invece non è mai stato sperimentato è l'abbandono della fede nell'altro, ossia quella situazione in cui amaramente il confronto con il tuo simile porta alla distruzione. "Mercy" (Misericordia) verte su queste tematiche, tematiche di abbandono spirituale nei confronti di un animo che nella sua difficoltà di integrazione non riesce a combattere le tante trappole che gli si mettono davanti. È una sconfitta persa a prescindere. Temi cuoi ondeggiano nei primi secondi in cui la voce di Holmes, ben impiantata secondo un tono basso degno di nota, combatte con una minimale orchestrazione posta per dare l'incipit al brano. Il resto si muove discretamente con una batteria abbastanza cadenzata che sembra ricalcare le oscure trame liriche che la voce cerca di buttarci addosso ma non solo: i sintetizzatori e le tastiere si pongono come assoluti marcatori nei confronti delle due chitarre, troppo nascoste nel mare elettronico che il paradiso perduto ci offre. Il sentimento di perdizione, di svuotamento spirituale viaggia all'unisono in ogni passaggio meccanico del brano e la voce, a volte filtrata e a volte pulita, danza dignitosamente soprattutto quando spicca con giunture vocali dense e alte che mostrano la perizia esecutiva e la pulizia sonora che riempie tutto il disco. Ci aspetta un ritornello molto breve, in cui come abbiamo esplicitamente detto pocanzi, il range vocale del nostro raggiunge uno spirito in clean degno di nota. Riprese le tempistiche e metriche iniziali, rese ancora più nere dalla forte presenza delle tastiere di Gregor Mackintosh, che colorano a dovere e si innestano molto bene sia nel filtrato che nel cantato dolcemente quadrato di Nick. Mercy viaggia ormai su queste prospettive, ed è giusto cosi proprio perché con questi sapori riesce ad incasellare a dovere quella situazione che abbiamo mostrato all'inizio. I punti bassi mostrano proprio quella difficoltà, che può accadere ad ognuno di noi, di ascoltare  l'altro. Situazione che porta ad un momento di riflessione alla fine del secondo minuto in cui dopo un stallo strumentale subentra nella nebbia sintetizzata Holmes, che dona un buon impulso ai ritmi finali. Mercy si pone come gli altri come un brano abbastanza orecchiabile, in cui le clean vocals di Holmes sono le assolute protagoniste. Negli anni questo brano ha vissuto di una giusta popolarità tant'è che ha ricevuto alcuni rifacimenti da parte di band illustri, tra i quali accenniamo agli israeliani Orphaned Land che ne hanno fatto una cover presente nella limited edition de loro "Mabool" (2004).

Soul Courageous

Terminata la penetrante "Mercy" continuiamo nel percorso pezzo dopo pezzo del nostro platter. Un disco che come abbiamo visto propone buone cose nonostante la netta differenza con i Paradise Lost che abbiamo conosciuto sin dall'esordio. Il pezzo seguente come il suo corrispettivo precedente cerca di sradicare alcune sensazioni cogliendo sempre particolari aspetti del tormentato animo umano. Una raffigurazione, un ritratto che conosciamo bene: la band si è sempre voluta porre come porta bandiera dell'insensatezza che ricopre ogni minima azione umana. Un'angoscia ossessiva quasi insostenibile, una "tune sorrow" (meodia del dolore) che on ogni sprazzo musicale del nostro quartetto viene fuori con una sana forza. Rispetto ai brani precedenti udiamo, all'inizio della quinta traccia "Soul Courageous" (Anima coraggiosa), con una certa insistenza la chitarra principale di Mackintosh che disegna un riff abbastanza distorto, il quale bisticcia con l'andamento elettronico che ormai abbiamo ben capito. Il gusto incessante della chitarra viene seguito dall'irruenza poliedrica di Morris, il quale sulla sua batteria colpisce duro indirizzando la melodia ariosa del pezzo verso lidi molto heavy. Atmosfere che rimebrano i vecchi tempi logicamente spezzati dalla forte e massiccia vena gotico/elettronica che pone la sua mano in ogni minimo passo. A scandagliare tutto è la voce assai filtrata di Nick Holmess, che subentra in una maniera non perfetta ma capace a dare una nuova linfa. Il sound apparentemente arioso e classico ricalca sempre un tema caro ai nostri: quello della non gioia e della non pratica capacità di dare un senso alle proprie azioni. Ma Soul Courageous presente nelle sue corde uno spirito quasi positivista dato che cerca di trovare una soluzione a questa situazione in cui un anima si trova incatenata in un marasma pulsionale di specifico spessore. La soluzione è semplicemente quella di vivere l'attimo, di non tralasciare ogni istante che ci passa dinanzi gli occhi. Un attimo non torna più. È una battaglia secolare in cui l'angoscia domina ma con una certa visione positiva tutto si può riparare. Tornando al nostro brano, Holmes benedice il pezzo con una voce altamente oscura e chiara al contempo. Una velocità di esecuzione contraddistingue le vocals rispetto ai brani precedenti, una rapidità che ovviamente costringe tutto lo scheletro strumentale a dare fuoco alla propria grinta. Nonostante questo, Soul Courageous, non trabocca di una orecchiabilità come le tracks precedenti proprio perché preme sul circondare la materia oscura con troppi inserti tastieristici che quasi coprono la voce di Holmes, messa qui appositamente filtrata proprio per dare più incisività alla sua performance. Ma in fin dei conti questa traccia presenta punti decisivi, come una maggiore distorsione delle chitarre che vanno ad aumentare il livello che alla fine si pone buono.

Another Day

Il giorno e la notte si susseguono ininterrottamente lasciando nei cuori di noi esseri viventi gioie o disgrazie, sorrisi o volti tristi. L'incorruttibilità della vita è un fulgido dato di fatto da tenere in mente, da portare nella coscienza. I dolori e la felicità si inalberano di giorno in giorno, di ora in ora. Tutto è un ciclo che semplicemente non avrà fine. Nulla è sicuro, e proprio qui, in questa chiara e devastante insicurezza generale, facciamo i nostri conti con i ricordi che ci affondano nei meandri più oscuri e nascosti del cuore. Il ricordo è un tassello fondamentale, che nemmeno uno sguardo a sangue freddo riuscirà a toglierci. Mai nessuno ci toglierà l'amarezza o la gioia di un giorno felice o di un evento triste. E la musica si pone anche qui come un buon metodo che permette il raffiorarsi dei nostri ricordi. Il brano seguente della carovana Paradise Lost, "Another Day" (Un altro giorno) racchiude essenzialmente queste emozioni e, tale brano ,non poteva non aprirsi con una timida tastiera incanalata come sempre tra un vaporoso synth e un altro, in cui la riflessione sulla rigogliosità dell'istante e sulla potenza dissacrante dell'attesa la fa da padrone. Pochi secondi, anche abbastanza gonfi di armonia, ci aspettano prima che Holmes possa intervenire donando un differente sapore a questa "Another Day".Traccia che ribolle di alte aperture melodiche, ben messe in evidenza da un basso assai pizzicato e manieristico. Il sound creatosi è ottimo per dare appoggio e valorizzare le vocals di Nick, a volte basse e a volte alte, come nel caso del ritornello in cui  una forte e impetuosa melodia è incastrata. Il cambiamento della band sta anche in queste piccole ma decisive accortezze: la forte e aspra lentezza del doom delle release precedenti in un certo senso impediva al nostro combo di procedere con una ariosa tonalità che aveva nel suo cuore una decisa armonia, ma ora con un assetto strumentale rigorosamente cambiato la band può permettersi di costruire trame rock colorate e intricanti, anche se ovviamente sono sempre dominate da quel misterioso profumo dark. Proprio l'animo dark domina i fraseggi di tastiere e i buoni tocchi di chitarra anche se quest'ultima, come ben sappiamo, non ha un ruolo di primaria importanza nelle intenzioni sonore di questo "One Second". Terminato il primo ritornello, subito il nostro capo si cala pronto a dare vita agli incessanti pensieri che popolano le nostre percezioni. L'intento musicale sarà cambiato ma la forza espressiva dei nostri è sempre la stessa, la capacità de quartetto di immetterti in una situazione scomoda fa si che tu ascoltatore possa dare il meglio di te e concentrarti. La musica di questo brano intona una melodia assai appetibile in cui il filtrato di Holmes possiede una chiara e decisa vaporosità nell'immettersi nel nostri tessuto uditivo. Come abbiamo detto, terminato il chorus, il clima iniziale ben scandito dal basso di Edmonson torna a colorarci di emozioni oscure. Emotività mista a passione si può ben intercettare nel clima altamente tastieristico, in cui ormai Mackintosh sembra aver trovato una sua nuova dimensione da musicista. Questa Another Day si presenta improntata su ritmi assai lenti, in cui alcuni spazi vuoti prendono e provocano il caricarsi del grrove della band che da vita, verso i minuti conclusivi, ad un buon assolo se vogliamo assai rivoluzionario dato che è inserito in un quadro in cui predomina un taglio elettronico. Another Day non sarà sicuramente il miglior brano dei Parsdise Lost ma inserito nel contesto di questo lavoro ci appare quella in cui è ben percepibile quel passato che si scontra con quella voglia incessante di sperimentare.

The Sufferer

Un uomo solo in una stanza, fissa il muro con occhi lacerati da una sofferenza interiore senza pari. È circondato da tante persone ma nessuna ha capito il suo contorto stato d'animo. La sofferenza sembra ondeggiare il suo magro corpo, non si sa quale sia la causa: un alone di mistero aggroviglia questa astrusa e triste situazione. Il sofferente urla ma nessuno lo sente, piange ma nessuno assapora le sue lacrime. Un destino segnato da una nociva voglia di riversare male dentro se stesso. Non ha più orgoglio, non ha più vergogna. Il prossimo tassello di "One Second" descrive la situazione narrata pocanzi. Ogni sussulto elettronico che subentra nello scheletro del nostro brano, "The Sufferer" (Il sofferente) è un grido, è un lamento profondo che squarcia la nostra anima. Tutto viene potenziato dall'ingresso di Holmes, che sfodera passaggi vocali di alta caratura energica: chissà forse il nostro Nick si è messo nei panni del sofferente e può far altro che dare sfogo a ciò che gi logora all'interno. Ecco il sofferente viaggia in questo mondo all'insegna dell'introspezione, di quella volontà penetrante di guardare solo l'essenza della propria anima. Il sound ricalca le intenzioni altamente psicologiche che la nostra band vuole immettere nel circuito musicale in cui "The Sufferer" viaggia con una forte velocità ritmica, resa stabile sono da bruschi stop, come accade nel minuto verso la metà del primo minuto. Tutto si ferma, tutto si blocca. La voce di Holmes è in una fase rigenerante e dopo una serie di toni altissimi, accompagnato da un tappeto sonoro ben campionato, sfodera un sussurrato che in un crescendo si trasforma in un acido schiamazzo. Qui la sezione ritmica scalpita, raggiungendo un picco sonoro ben rilevante, nonostante la semplicità della base chitarristica delle due asce e del drumming abbastanza statico di Lee Morris. Il ritmo ben incalzante del ritornello riprende vita conducendo verso una buona progressione tutta la traccia. Le lacrime, quelle schegge che colorano il viso dell'anima sofferente, grondano in ogni impulso sonoro che sia un urlo di Holmes o un rintocco tastieristico di Mackintosh. I Paradise Lost centrano sempre quell'obiettivo semplice ma al contempo difficile: rendere partecipia gli ascoltatori della forte sensibilità che viaggia all'unisono col sound proposto, che seppur freddo e meccanico presenta quei brividi essenziali. Brividi che la voce di Holmes forgiano in una maniera molto coinvolgente sebbene il brano non sia straordinario da un mero punto di vista complessivo. I quattro minuti di "The Sufferer" proseguono secondo geometrie elettroniche con riverberi importanti, e soprattutto con una voce assai filtrata del nostro cantante, che può essere definito quasi un tutt'uno col sound proposto. Gli ultimi solchi del brano sono pietrificati su tonalità alte e pimpanti, forse assai ripetitive ma al contempo di dimostrano incisive nel descrivere la potenza gotica dei nostri.

This Cold Life

Nella stesura lirica e musicale di questo One Second, mano mano che procediamo, ci accorgiamo dell'importanza della copertina. L'artwork ha sempre una importantissima funzione nell'inviarci importanti messaggi sul quadro emozionale del platter. Occhi chiusi, un viso anziano quasi morto e prossimo ad abbandonare questa vita. Un volto affranto che non ispira sentimenti positivi ma al contrario mette in luce una situazione in cui sin dallo sguardo si percepisce la situazione. La vita e vuole sa essere meschina, ha le capacità di capovolgere in negativo. Una vita fredda appunto, un'esistenza che in un certo senso è già indirizzata verso una fine certa. L'introduzione depechemodiana, ben calibrata secondo un tappeto elettronico/campionato ci da il benvenuto. È la perfetta colonna sonora per descrivere quel volto presente sulla copertina a cui abbiamo accennato all'inizio: nessuno spiraglio di ariosità, è tutto fermo e bloccato in una spirale priva sia di mordente che di una eccessiva apertura melodica. Suoni campionati ed artificiali si impossessano delle nostre orecchie, quasi in una maniera normale se comparata all'andamento dei brani precedenti, ma qui tutto è ancora più gelido. "This Cold Life" (Questa vita fredda) presenta uno spirito altamente decadente, e nemmeno l'ingresso delle leggerissime e quasi trasparenti vocald di Nick Holmes permettono un mutamento del brano. Holmes parla, non canta. La sua voce caratteristica è impigliata in una situazione che quasi marca la descrizione di un corpo morente. Non c'è nessuna speranza di luminosità, e il bassissimo range vocale ce lo fa capire appieno. Nessuno degli altri membri sono chiamati in causa, questo fino alla soglia del minuto secondo qui le tastiere, seppur velate iniziano a premere. Il clima emerge e finalmente mostra una chiara musicalità e un groove deciso. La sezione ritmica esplode nella metà del primo minuto. Morris è ottimo, cosi come Mackintosh, che abbandonato il ruolo di tastierista, prende in braccio la sua chitarra incidendo sulla linea strumentale. Il brano decolla, anche se negli spazi vuoti ed elettronici il pulito di Nick ci porta ipoteticamente nella situazione degli inizi. La intraprendenza apparente dell chitarra, la quale sembra ricalcare uno spirito altamente positivo, non va ovviamente ad intaccare il mood depresso e eclissante del brano. Nessuna melodia può intaccare l'incessante potenza emotiva che il brano, nella sua sinuosità sintetizzata, ci offre. Brano nonostante alcuni cenni di banalità ,corre con una velocità diversa viaggiando tra vaghe distorsioni e linee campionate e delicate. Come è delicata la voce di Holmes nella parte finale ripete"In this cold life" per ben sedici volte (parte finale aiutata anche da delle backing vocals) che non fanno altro che incidere sulle sensazioni che i Paradise Lost vogliono imporci, grazie al loro stile. This Cold Life presenta tutti gli ingredienti del nuovo assetto musicale. Una track interessante che però pecca di elementi indimenticabili.

Blood Of Another

La ruvidezza e la cattiveria di un coltello che attraversa la carne. Una luce che da splendente diventa, attraverso un processo di negazione assoluta dell'essere, inesistente. Un clima gelato che con una forza incredibile si impossessa di ogni cellula del nostro corpo. Ferite che non si rimarginano, il sangue rimane impegnato sul palmo delle nostre mani per sempre. Il crescendo iniziale del brano numero nove "Blood Of Another" (Sangue di un altro) rappresenta appieno il clima maligno e oscuro. Ogni nota abbastanza tarata della sezione ritmica è ricolma di sangue, la chitarra stranamente ben impregnata di pesantezza dirige i primi secondi. Spruzzi iniziali che vedono il nostro vocalist intervenire prendendo in mano tutto il corredo ritmico, condizionato principalmente dai toni bassissimi, dalla chitarra ondulante di Gregor che disegnano traiettorie in cui ogni traccia di bellezza e di purezza vengono colpiti a sangue. Il taglio elettronico è sempre vivo ma nella nostra "Blood Of Another" è quasi messo in secondo piano. Le tastiere sono convincenti ma non invadensti e fanno si che le vocals di Holmes possano evolversi toccando lidi differenti. E cosi accade: nei secondo che fanno da preparazione al ritornello tutto la ban si muiove in funzione della forza vocale di Nick che forse propone la sua migliore performance per qualità e per quantità. Il chorus riaccoglie flussi vocali nerissimi, cupi e truculenti. E le chitarre taglienti di Mackintosh e Aedy non stanno certamente ad osservare, trovano linfa vitale in questa parte effettiva che colora la traccia. Un clima affascinante nella sinuosità elettronica, e vivo dello spirito metallico. "Blood Of Another" è catalogabile come un brano che unisce due facce dei Paradise Lost: quello annebbiato dalla influenza ottantiana del post-punk/darkwave e dallo spirito metallico dei dischi precedenti grazie a chitarra che da mere accompagnatrici diventano perlomeno protagoniste. Terminato il secondo ritornello, uno squarcio del brano si crea. Tutto si ferma, tutto è in silenzio. Si d riescono a percepire voci offuscate e suoni simili a campane che intonano un dolce colpo melodico. Un momento che si può definire riflessivo, amaro. Un pensiero, uno dei tanti che affolla la nostra mente, che incide sulla nostra stessa personalità. Un taglio che nel brano riesce a immettere una nuova situazione, che ci accompagna nella volata finale di questo brano convincente.

Disappear

Una introduzione lenta e gonfia di melodia, grazie alle potenti tastiere, ci aggrazia leggermente nei primissimi secondi della prossima "Disappear" (Sparire). È inutile premere molto sul significato della traccia, si intende subito il binario retorico su cui si muove questo brano. Buio e assenza di positività. È il manifesto della vita al suo limite, è il suono di un dolore soffocato da chissà quale forza interiore. Proprio l'interiorità è la giusta chiave d'accesso per intendere e inquadrare questa traccia assai particolare per il suo chiaro messaggio, per la netta capacità di subentrare nei nostri circuiti sensoriale e creare un giusto appiglio semantico. Sparizione che non è vista come una caratteristica negativa ma al contrario è una soluzione finale l'opzione estrema a cui l'anima logorante cerca di aderire. Le tastiere fanno il loro effetto manieristico, si immedesimano nel quadro strumentale che cerca nei suoi "limiti" di graffiare e creare un solco ritmico. E nella nube sonora proposta sai Paradise Lost non emerge il vocione di Holmes ben radiante nella sua nera negligenza ma bensì predisposta verso canoni stilistici differenti grazie ad un filtrato quasi impercettibile. La chitarra leggerissima, che lascia spazio alla nube elettronica, è legata alla voce di Nick quasi da un laccio magico. Voce che emerge in un profondissimo clean col procedere viaggiando sulla già instaurata melodia. Questa "Disappear" riflette il clima iconico che nel bene e nel male il paradiso perduto ha voluto sempre esprimere. Un vuoto pulsionale che non trova nessuna speranza, nessuno spirito colorato. Il nero domina ma c'è sempre una piccolissima speranza: quando quelle tastiere elegantissime guidate da Mackintosh ribollono di iniziativa, la voce del nostro muta per qualche secondo decantando un pulito meraviglioso. Ma la nebbia è densa e un piccola luce di certo non va a modificare il mood della traccia che si dimostra altatamente decadente e quasi alienante. La capacità del songwriting dei nostri è molto potente tanto da riuscire a farci immedesimare nella condizione descritta. La scrittura malinconica e struggente sembra andare quasi in contrasto con la melodia che viene emanata dal quartetto, ma è solo un'impressione: i raggelanti versi trovano la loro corrispondente musicale in quei momenti vuoti, o nella stessa capacità di Holmes di cambiare nettamente registro vocale. Ripreso il chorus la traccia sembra cadere ancora di più nell'oblio tanto è penetrante la voce di Holmes che nel finale si ferma bruscamente per fare spazio al drumming lento ma efficace di Morris e dal contorno strumentale ben arricchito di orchestrazioni e di cori.

Sane

Conclusasi "Disappear" il nostro disco corre macinando traccia dopo traccia brani comunque convincenti. La prossima track che ci aspetta è "Sane" (Sano). Sane, rispetto all'andamento retorico dimostrato nei brani precedenti, rispecchia un mood, uno stato d'animo che pone le sue fondamenta sul riscatto. Una parola che ha un potere dietro di se eccezionale, è un'arma che il nostro intelletto usufruisce nei momenti più bui o negativi. Se vogliamo contrasta con l'intento narrativo del classico modo di porsi dei nostri, ma va a parare in lidi semantici altamente interessanti. Il confronto con l'altro è una delle chiavi della convivialità ma cosa accade quando uno, animato da uno spirito animalesco, cerca di schiacciare l'altro? In questo caso subentra il riscatto, quella voglia dissacrante di ogni nostra cellula di tentare di opporsi. Sei "sano" appunto, hai le carte in regola per dimostrare ciò chi sei a chi ti sta intorno o a chi ti contrasta. Cacciare le unghie e non farti sopraffare: questo è l'insolito messaggio che viene perpetrato nelle nostre orecchie. E l'introduzione non può non essere cadenzata e ben scandita dalle due chitarre che disegnano, con un elegante leggerezza di fondo, il piatto su cui Holmes finalmente potrà riversare il suo pulito caratteristico. Un utilizzo meno aggressivo della tagliente soluzione elettronica, e questo fa si che la sezione ritmica possa concedersi di esplodere in alcuni punti e di portare tranquillità in altri. La batteria, inserita nello scacchiere strumentale, è agilissima nell'avere il timone sonoro, cosi come le due chitarre di Aedy/Mackintosh. Tutt'altro discorso è la caratura del basso, assolutamente anonimo in questa e in altre tracce, ma questa "mancanza" viene quasi mascherata dall forte abilità strumentale dei nostri musicisti che sanno come creare un sound nel complesso assai appetibile. Il ritornello fa tornare alla mente l'importanza della chitarra di Mackintosh, il quale propone un assolo timido che viaggia lungo le linee vocali di Nick, in stato di grazie nella parte del ritornello. Sane è un punto bianco in uno sfondo nero dato che dimostra la vena ancora molto heavy metal della nostra band che non rinuncia a momenti solisti, in cui le abilità che ben conosciamo di ogni membro escono fuori con tanta forza. Proprio una fioritura strumentale disegna una melodia convincente che mette Sane su livelli importanti. Da segnalare un Nick Holmes in forma smagliante.

Take Me Down

Quando chi ci circonda cambia faccia e diventa ossessivo nei nostri confronti tutto diventa aggressivo, noi stessi diventiamo ciò che odiamo. Quel sentimento di rabbia mista a rancore  verso chi ci ha tradito non ha eguali, ci copre tutto il corpo tanto da modificare il nostro atteggiamento verso tutto ciò che ci circonda. Il tradimento è  una forma di mancanza verso la parola data, riflette l'animo di chi non ha rispetto nei confronti dell'altro. Ecco, la mancanza di rispetto tanto da andare a modificare la relazione che abbiamo con gli altri. Il brano che ora andiamo a dipingere, "Take Me Down" (Lasciami), è squisitamente inquadrato in un contesto in cui immaginiamo due persone che per un disguido ora non si parlano più come una volta. Il sentimento del tradimento oramai contraddistingue il corpo effervescente di queste due entità che desiderano soltanto voler vedere l'altro cadere e soccombere. Il clima instauratasi nei primi palpitanti minuti di Take Me Down sono una perenne apnea in cui il nostro capo è sottoposto. È come se una presenza inquietante ci prende la mano e ci porta nell'ombra più assoluta. Un motivo, quello iniziale, ben impolpato di tastiere che pitturano soavemente l'atmosfera con un nero brillante, riescono come negli altri brani a creare netti presupposti per l'esordio mimico/vocale di Nick Holmes che stende un tappeto vocale di grande bellezza. Timide distorsione si inalberano nell'enorme e vaporoso mondo vocale che le vocals disegnano. Grandiosa è l'attitudine clean di Holmes, non poteva mostrarsi più decisivo se non con questo range vocale accattivante e penetrante. Take Me Down è una grande traccia perché cerca di far tornare l'heavy metal del paradiso perduto e mescolarlo con sapienza assieme a synth, sampler e tastiere truculente. Il sound che ascoltiamo è definibile come "soffocante", non c'è uno spiraglio in cui passa l'aria, tranne forse quando Nick alza la scala vocale delle sue corde approcciandosi in maniera leggermente rispetto all'altro. Da sottolineare è il corposo aiuto di alcuni cori femminili, angelici e spettacolari. Aiutano a creare una nuvola sonora accattivante e avvolgente. E come se non bastasse il clima, già epico e profondo di se, viene reso ancora iù magistrale da un gran bel gioco solista di Gregor Mackintosh che sfrutta con grande consapevolezza dei propri mezzi questa opportunità di dare sfogo alla sua vena chitarristica. Questo assolo impatta benissimo con il resto del marasma sonoro, anzi lo valorizza ancora di più facendo risaltare punti prima ancora oscurati. Ma questo bell'arioso assolo non va a deturpare l'atmosfera maligna e lugubre che abbiamo annusato sin dagli inizi di questo brano: quel ritmo confusionario, che diventa attivo subito dopo l'azione di Mackintosh, fa capire di come un atto spregevole che sia tradimento o altro, non possa essere dimenticato all'istante. Anzi rimane ancora più annidato nei luoghi più bui della nostra coscienza pronto ad esplodere in un momento o in un altro. I Paradise Lost, hanno la capacità di fotografare una situazione e di mostrarla in tutti i modi possibili quanto è contorta la nostra mente.

BONUS TRACK: I Despair

Con questa "Take Me Down" abbiamo solo graffiato la fine del nostro platter. "One Second" continua con un'altra traccia, inserita nella versione digipack del disco. "I Despair" (Io dispero) si riallaccia con i toni drammatici e soffocanti della linea lirica che abbiamo assaporato nei brani precedenti. Basti pensare al titolo "Io dispero": è un moniker di un sentimento costante e lancinante, corrode il tuo animo nel profondo e non porta ad una papabile soluzione. Quella disperazione ormai si è appropriata del tuo corredo sentimentale, ha intaccato ogni area del tuo corpo. È un processo nero, messo in luce da un problema viscerale di fondo, problema a noi sconosciuto, che può considerarsi la radice della nascita di questo stato emozionale. Emozioni forti si susseguono in ogni brano della nostra band. Non c'è mai una banalità di fondo, quella catarsi che mira all'autodistruzione riecheggia sempre. Talmente dolorosa è questa condizione che la morte è vista come una soluzione abbordabile per dare un freno a questo male interiore che sembra non avere una netta conclusione. L'intro di questa bonus track è digitale e quasi confusionario, sembra quasi riflettere, con grandissima maestria, ciò che frulla nella mente di colui che si trova ad un passo dalla morte, di quella persona che non si fida di nessuno perché nel suo cammino ha ricevuto troppe coltellate. La matrice dark del sound del combo britannico come sempre prende appieno le emozioni della situazione e li immette in una chiave musicale, proponendo un sound che ha la riflessione come il suo cavallo di battaglia. Ecco riflettere, per molti la cosa più scontata al mondo da fare, per altro invece rappresenta uno scoglio dato che le vicissitudini della vita ti stringono fino a farti scoppiare. Quell'introduzione non ben definita, che abbiamo accennato prima, viene indirizzata verso una soluzione chitarristica di Mackintosh che snoda un passaggio strumentale degno di nota. Il sapore doom, nella sua lentezza e nella sua epicità, si sente e come: chitarra basso e batteria lavorano assieme costruendo pezzo per pezzo un giusto canale strumentale. Quel sapore doom metal è altamente percettibile nonostante quella nube elettronica incombe su di noi, sulle nostre percezioni emotive. Ed ecco l'illusione di assaporare le geometrie del doom sono completamente smorzate sin da quando Nick entra in gioco nello scacchiere del pezzo: le sue vocals sono agghiaccianti e allo stesso tempo sembrano implodere su se stesse. Tanta è la rabbia nel non agire nei confronti di questa condizione psico-fisica perennemente disagiata. Quella sua voce filtrata è la fotografia perfetta di ciò che i Paradise Lost vogliono mettere in gioco sia da un punto di vista umano che da quello strumentale. Quest'ultima ha un suo punto di forza in questa traccia, soprattutto grazie alla batteria di Morris ben assortita, sicura e netta nei passaggi. Nei pressi del chorus aumenta di carico energetico principalmente quando Holmes aumenta il suo tono vocale, ammaestrando le nostre orecchie in un grande ritornello che una volta terminato vede di nuovo l'assetto strumentale prendere il possesso della situazione. Nick continua a dare il suo meglio, a porre le sue linee vocali potenti in una struttura melodica ben assortita. In conclusione "I Despair" è una traccia molto adeguata per calare il sipario. Dotata di quell'inconfondibile refrain, si incasella come una traccia molto riuscita.

Conclusioni

Spento in alcune parti, accecante in altre. Definire "One Second" non è affatto semplice. È un lavoro che ha creato immediatamente un divario totale tra i sostenitori del quartetto di Halifax: c'è chi sostenne che fosse un lavoro riuscito proprio nel suo intento di sorprendere e invece c'è chi lo denunciò come un disco che una band importante come i Paradise Lost, verso la fine anni novanta, non poteva permettersi. Il sound complessivo adottato da Holmes e compagni è un risultato di un degno di tributo ad una corrente come la darkwave, che però indirettamente la band inglese aveva già utilizzato nei dischi precedenti, ma in maniera meno esplicita. Il sound chiuso e rigorosamente doom di "Draconian Times" ha trovato una nuova dimensione attraverso arrangiamenti campionati, ad una batteria elettronica e ad un utilizzo quasi marginale della chitarra. Lo stesso Gregor Mackintosh dovette bruscamente cambiare il suo modo di interagire con la band, trasformandosi principalmente in un ottimo tastierista. La tastiera greve e oscura è la chiave essenziale per capire questi "nuovi" Paradse Lost. La chitarra appunto, elemento portante e decisivo di tutte le metal bands che si rispettino, ora era stata declassata a strumento accompagnatore. Proprio questi aspetti, seppur minimi, fecero alzare le perplessità dei milioni di supporter dei Paradise Lost. La peculiarità che fuoriesce dall'ascolto delle tredici tracce è principalmente ancorata in un rapporto melodia-minutaggio molto equilibrato, quest'arma ha fatto si di creare brani brevi e incisivi nella loro potenza elettronica. Brani nel complesso affascinanti, che quasi fanno dimenticare che abbiamo a che fare con una band che si è evoluto tanto dagli incerti inizi, fino a rappresentare il doom metal mondiale. Nonostante il quasi palese mutamento stilistico non mancano momenti "duri" in cui lo spirito dei dischi precedenti sembra tentare di fuoriuscire. Basti pensare a "This Cold Life",  "Another Day" o a "Mercy" in cui la sezioni ritmica cerca dignitosamente di ricamare situazioni dove la pesantezza del metallo cerca di emergere. Pochi momenti heavy ovviamente non vanno a minare l'intera composizione, che viaggia su prospettive elettronico-maliconiche, su un territorio sonoro squisitamente dominato da suoni campionati e sampler che infarciscono ancora di più le tematiche tristi e raggelanti dei Nostri. Un umore, che seppure molto differente dalle release precedenti, è comunque dominato da quel nichilismo di fondo. Cosi come lo stesso Holmes sembra essere pressappoco il Dave Gahan di fine secolo. Nick riesce sempre ad essere quell'ottimo storyteller a cui siamo molto abituati: il suo abito oscuro e wave è rivoluzionario e eccezionale, il suo clean maestoso e epico non da solo un apporto vocale ma quasi si comporta come uno strumento in più. La rivoluzione più grande è insignita anche nell'assenza totale di momenti solisti e di situazioni in cui l'ascia di Mackintosh uscisse fuori: eliminato il virtuosismo a Gregor non è restato altro che essere l'accompagnatore di Holmes in ogni pezzo. "One second" è un album che ha spiazzato gran parte della comunità metal mondiale. Cambiare sound non è da tutti, ci vuole un coraggio disarmante soprattutto quando sei una delle migliori metal band della tua generazione. Inventiva e coraggio; queste due parole appieno rappresentano lo scoglio che i britannici Paradise Lost hanno cercato di superare nel loro "One Second".

1) One Second
2) Say Just Words
3) Lydia
4) Mercy
5) Soul Courageous
6) Another Day
7) The Sufferer
8) This Cold Life
9) Blood Of Another
10) Disappear
11) Sane
12) Take Me Down
13) BONUS TRACK: I Despair
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