Paradise Lost
Obsidian
2020 - Nuclear Blast Records
GIANCARLO PACELLI
14/09/2020
Introduzione recensione
L'ossidiana è una pietra vulcanica. Nera e densa, composta da ioni silicato che nella loro disposizione caotica non riescono a adattarsi in uno specifico punto. Particelle impazzite, estrose, che non si "accontentano" di un luogo ma che spaziano l'inesorabile per trovare il loro posto nell'universo. Le molecole dell'ossidiana sono quindi l'archetipo di chi non si accontenta, di chi spalleggia le avversità al fine di acciuffare un suo spazio. Di chi ha fame e convinzione che quello che fa vuole portarlo avanti a tutti i costi. Proprio come gli inglesi Paradise Lost, anche se da almeno 15 anni hanno trovato un loro ben specifico asset musicale. La band di Halifax ha abbandonato la spregiudicatezza sperimentale di fine anni 90' per continuare a proporre doom death metal liquido, nero come l'ossidiana più splendente, la cui provenienza vulcanica simula i membri stessi del paradiso perduto, consci di essere autentici maestri di un modo di suonare. Il precedente" Medusa", complice di una produzione sporca, analogica e volutamente retrò ha raccolto opinioni tutto sommato positive. Non è che la band inglese, padre di un genere a sé stante, avesse bisogno di racimolare critiche positive o addirittura eccelse nel 2020. A Nick Holmes e Gregor Mackintosh interessa soltanto proseguire il proprio cammino artistico, solo questo. Un cammino senza alcun dubbio complesso. Ricco, anche. Ma l'aspetto che non deve mancare ai seguaci di John Milton è la voglia e la motivazione, in tempi decisamente difficili per il mondo dell'arte, e della musica. Idealmente collocato nei meandri della pandemia mondiale, i Paradise Lost anticipano la sofferenza che l'umanità sta vivendo per mettere di nuovo in sesto un album convincente, intitolato appunto come quella pietra tanto affascinante quanto misteriosa menzionata all'inizio. Nick Holmes stesso ha definito sedicesimo come "uno dei dischi più eclettici che abbiamo realizzato da diverso tempo a questa parte, con canzoni deprimenti, canzoni tristi, canzoni lente e canzoni più veloci". Si sa che non è lecito fidarsi dei musicisti, soprattutto in sede promozionale dei loro album, ma noi del buon vecchio Nick ci fidiamo, eccome se ci fidiamo. "Obsidian" è proprio così, un coacervo di negatività, un mucchio di pessimismo, stracolmo di negligenza e di una non capacità di comprendere le dinamiche del nostro mondo; come sempre complesso per noi anime pie che vediamo i costrutti attorno a noi troppo artificiosi per essere compresi in tutte le loro infinite sfumature. Un mondo ora come mai solitario, che il distanziamento sociale ha reso ancora più esplicito e di difficile cura. Un mondo che i Paradise Lost, quasi come dei veggenti, disegnano a dovere, con la solita dose di massiccia esperienza, ma vestita di fibre di umiltà care a pochissime band in circolazione. Soprattutto perché, nonostante il panorama doom death metal si è evoluto numericamente in maniera allucinante, con band che sbucano letteralmente come funghi, i nostri rimangono coloro che meglio esprimono questo linguaggio musicale. Gregor Mackintosh proviene da un ottimo debutto con gli Strigoi, in cui ha liberato la sua anima estrema, e quindi può ritenersi bello carico nell'affrontare un nuovo disco, magari aggiornando l'inventario di riff memorabili che si porta sul groppone dagli anni 90'. Nick Holmes è invece "fermo" al 2018, quando cantò in "The Arrow of Satan Is Drawn" dei Bloodbath, esplicitamente irrorato di putrida violenza. Due progetti che in un certo senso accomunano la poliedricità di due personaggi, anzi due santoni del metal, che non smettono di insegnare alle nuove leve come comporre, suonare e rendere unico un prodotto musicale. Quindi, armandoci di curiosità diamo ormai all'ascolto al nuovo parto dei veterani del metal, che giungono ad un traguardo caro a poche band, quello del sedicesimo album.
Darker Thoughts
Un'introduzione acustica ci accudisce dolcemente nel primo episodio di questo Obsidian. La classica tempra catacombale della band si spalma lungo il clean di Nick Holmes, mentre il resto del gruppo al momento tace. Il silenzio in Darker Thoughts (Pensieri più oscuri) è la parola chiave, l'anima frammentata il peso da sopportare. Sembra che stiamo trattando di un brano unico nel repertorio dei nostri, ma dopo alcuni secondi di immersione acustica, il clima elettrico inizia a bussare forte alla porta del nostro cuore. La passeggiata amareggiata di Nick nel video ufficiale ben si sposa con il tema affrontato. Quello della solitudine, della sofferenza; quello inerente al vivere una vita al limite e all'insegna del dubbio. L'attesa fine dell'intro acustica e la conseguente esplosione rabbiosa del cantante inglese si ammanta nei pressi del minuto due, appena le chitarre, il basso e la batteria puntellano di sane rimembranze doom il tessuto della traccia. La rabbia profusa dall'ugola sempreverde di Nick sprigiona desiderio di rinnovamento e voglia di voltare la pagina. Ma a discapito di questi presupposti, c'è solo un mantello di sofferenza a coprire i nostri volti. Non ascoltiamo nemmeno le direttive del nostro Dio (God asks not to kill / God asks not to kill / God asks not), o meglio, della nostra mente che cerca di spronarci. Dopo una prima riproposizione del depresso chorus, il drumming diventa più complesso abbracciando tempi differenti mente le note di Mackintosh si fanno più oscure e pesanti. Ma Holmes cammina ancora, in un bosco sperduto, desideroso di trovare quella luce che va cercando da sempre, ma che invece fatica a scrutare. A dare manforte alle linee vocali del cantante ci pensano cori e voci supplementari, quasi atte a raffigurare che qui il problema non è un caso unico ma tristemente collettivo. A splendere è di nuovo il clean vincente che si sposa a meraviglia con la sezione ritmica scoppiettante e ricca di inventiva. Siamo lontani dalle registrazioni lo-fi di Medusa, qui i Paradise Lost iniettano una sana dose di melodia che non guasta assolutamente nella valutazione finale del brano apripista. L'official video prosegue mostrano solo la bocca di Nick immersa in un background che sa di notte e di desolazione, di rabbia e di sofferenza.
Fall from Grace
Seguendo il feeling della prima traccia, anche la seconda Fall from Grace si mostra piena di sentimento. La band puntella un brano efficace e fresco, senza ripescare riff fin troppo utilizzati. Gregor Mackintosh innesta alla perfezione una introduzione di chitarra dolce ma al contempo violenta. Il basso brulica di iniziativa senza eccedere troppo, mentre il drumming è secco e poco strutturato. All'appello manca Nick Holmes, che qui mette in mostra subito un ruggito dei suoi, scavando e mettendo in primo piano le intenzioni del brano. Cadere dalla grazia, tre parole che evidenziano quanto il fallimento sia una situazione comune a tutti gli esseri umani. Tocchiamo con le mani la morte (And we touch death's hand too soon) senza renderci nemmeno conto della crudezza della vita. Nick personifica il sofferente, un'anima solitaria che vaga nelle periferie delle città, senza nessuna speranza di redenzione o di migliorare la propria esistenza costellata da malanni e dalla solitudine. Proprio quest'ultima viene evidenziata a più riprese nel ritornello, la cui nascita viene improntata sul clean di Nick. La malleabilità del nostro vocalist sembra essere esterna, gli anni non hanno assolutamente intaccato le sue vocali che viaggiano con un pathos al limite del raggelante. Dopo un alternarsi di growl e pulito, Mackintosh prende le redini del brano disegnando un assolo dei suoi, forse fin troppo scontato ma è questo in fin dei conti ciò che un fan dei Paradise Lost vorrebbe ascoltare. Fino a che il refrain ci ricorda l'obiettivo delle liriche: "We are all alone", esclama con forza Nick. Piccoli fantasmi alla ricerca di quella fantomatica felicità che viene tanto decantata, quando poi la felicità nasce da noi stessi, dalla nostra volontà di accettarci per come siamo, con tutti i nostri pregi e difetti. Grandi e avidi cercatori di chissà quale appagamento esteriore, quando poi ciò che conta lo abbiamo tutto dentro. La brillantezza, o meglio l'oscurità del brano, continua a tartassarci ancora per un po'. La ripresa della lead di Gregor fomenta ancora di più l'impalcatura di un brano che sembra non avere fine ultimo se non la morte. E non azzardatevi a pronunciare la parola Dio: nessuno può tenderci la mano, nessuno ci salverà da questo incubo infinito.
Ghosts
Dopo "Fall from Grace" passiamo al secondo singolo pubblicato dalla band, Ghosts (Fantasmi). Il motivo di batteria iniziale ci fa immediatamente capire che la caratura del brano è del tutto differente rispetto ai primi due. La chiave di volta sembra essere l'utilizzo di stilemi tipicamente post-punk, delineati dal drumming che ricorda i migliori Sisters of Mercy (quelli di Floodland per intenderci). Il basso si addensa subito dopo gocciolando atmosfera, mentre i rintocchi di chitarra sembrano puntare, come detto, su metriche del tutto immerse negli anni 80': quindi ripetitività e ossessione nella scansione degli accordi. "Ghosts" è un tappeto questa volta indirizzato a tematiche come la lussuria e la guerra, due elementi che sbriciolano l'anima umana in migliaia di pezzettini difficilmente distinguibili; due elementi sempre attuali che accompagnano l'esistenza umana praticamente da sempre. Quella sensazione di essere e di remare contro il mondo e il suo creato sono terrificanti; per questo motivo Nick evoca la figura di Cristo (For Jesus Christ) come tentativo di scusare l'intera umanità, caduta ormai in basso. Nel frattempo, la trama del brano non presenta dei notevoli stravolgimenti tecnici o tentativi di cambiare marcia: il pellame di Waltteri Väyrynen primeggia assolutamente rendendo ora secondari gli altri strumenti, mente la voce di Nick è completamente immersa nel tributo a Andrew Eldritch, voce sepolcrale dei già citati Sisters of Mercy. Ma non trattiamo di un tentativo di scopiazzarlo: l'intenzione dei Paradise Lost è probabilmente quella di rendere omaggio ad una delle band più influenti per la loro musica, pilastro inamovibile di un intero movimento dark che tanto aveva affascinato quei ragazzini inglesi. La meraviglia di questa composizione sta nel presentarci questi fantasmi, evocati sin dal titolo, come simboli della nostra personalità. Quella sì che non cambia, rimane con noi fino alla fine dei nostri giorni. Il brano cambia colore alle soglie del minuto tre, appena il set di batteria e la chitarra di Gregor stoppa per un millisecondo la sua forza. Il basso di Steve Edmonson sbuca dalle macerie liriche esemplificando al meglio i territori oscuri della traccia. Nick dopo aver cantato maggiormente in tonalità basse sfoggia finalmente il suo caratteristico ruggito vocale, metallizando tutto il brano e mettendo da parte le poderose tracce della corrente dark di trent'anni fa.
The Devil Embraced
Più melodrammatica delle altre è sicuramente "The Devil Embraced" (L'abbraccio del Diavolo), tortuoso percorso nella mente dell'essere umano, colpito e segnato da una esistenza fragile e sottomessa. Viene disegnato un uomo che è stanco di sognare; un uomo che vive nelle mani della morte consapevole di essere solo un fantasma insoddisfatto. La morte sembra essere sempre più vicina, più scaltra nell'abbracciarci e richiamare il diavolo pronto a divorarci. Qui i Paradise Lost non badano a spese riuscendo a dare vita ad un quadro sonoro che aderisce alle liriche trattate in maniera semplicemente perfetta. Temi mortiferi, in cui fiducia e la speranza vengono spazzate via da una tempesta infernale. Gli agganci melodici iniziali creano il perfetto soundscape su cui costruire il tutto. Gregor impreziosisce l'atmosfera di un color smeraldo, mentre il basso di Edmonson non è mai stato così tetro e magniloquente. La prima strofa, di cui abbiamo accennato all'inizio, è il buio totale: Nick procede lentamente, adagiandosi sui teneri accordi come un pattinatore danza sul ghiaccio, senza risultare fin troppo invadente nei confronti dei pattern chitarristici. "The Devil Embraced" in effetti è il pezzo necessario per richiamare l'attenzione dell'ascoltatore, ogni spunto di chitarra e ricamatura batteristica è azzeccata nel creare le giuste atmosfere che si imbastardiscono al secondo minuto, quando Nick sfodera un growl da far tremare i muri. Ma la tempesta dura poco, il clean di Holmes torna a decorare l'impianto della traccia, che viene travolta da una calma apparente. Notiamo più variazioni rispetto alla classica forma canzone dei miltoniani, si cercano di disegnare note sempre differenti in ogni strofa con guizzi di chitarra ora violenti ora soffici. La differenza la fa come sempre il comparto vocale, un vero e proprio strumento aggiuntivo al servizio dell'emozione, che sembra aumentare quando accenni di organi intervengono. E poi al quarto minuto un nuovo stravolgimento sonoro: un assolo di chitarra magistrale, quasi neoclassico, che si spalma lungo i decibel di Old Nick (nomignolo di Holmes nei Bloodbath). Un arazzo in continuo movimento, un insieme di tasselli matematicamente armonici che consentono a creare un alto tasso melodia a discapito delle tonalità basse, colmati dai ruggiti vocali e dalle distorsioni degli strumenti elettrici. Questa quarta traccia è effettivamente una delle migliori di tutto Obsidian.
Forsaken
Forse non esiste sensazione peggiore che l'essere dimenticati. Non avere più un occhio di riguardo o una mano a cui affidarti è terribile. Il mondo ti crolla addosso e tu non puoi farci niente. I Paradise Lost, da bravi analisti dell'essere, inquadrano questi concetti nella quinta Forsaken, abbandonato. L'introduzione è affidata ad una sezione corale, la quale diventa un tutt'uno con i successivi accordi che strizzano l'occhio al gothic metal di fine anni 90'/inizio anni 2000. Nick si sposa alla perfezione con i leggeri spruzzi strumentali coniati dalle accordature degli strumenti, non invadendo la composizione ma arricchendola con strascichii vocali che sembrano provenire dall'aldilà. Ma i toni spietati della traccia, per non dire mortiferi, vengono sterzati da un riffing che via via diventa sempre più corposo, più solido per dare manforte alle pause che vengono poi colmate da Holmes. L'andamento melodico non mette da parte l'aria opprimente che la chitarra di Mackintosh spara a tutto volume, con assoli sezionati ed eleganti, per mettere in chiaro il clima che si respira quando si è tristemente abbandonati al proprio destino. Tra una scelta tonale ed un'altra quel We are forsaken, rimbomba tra le pareti del nostro cervello sguazzando tra miseria e desolazione. Rintona come una campana da morto che non smette mai di ricordarci che la vita non è infinita ma ha una durata breve e da sfruttare. Interessanti sono gli accorpamenti di pianoforte che soddisfano le nostre aspettative di una traccia complessa e potente allo stesso tempo. Gregor Mackintosh prende di nuovo l'ascia da guerra al minuto tre cucendo nuovi assoli e mettendo in risalto ancora una volta l'odore della tristezza e la durezza del dolore (Await the call of sorrow). Le abilità del chitarrista albionico sembrano essere atemporali, non hanno un minimo di differenza rispetto a quelle che ben conosciamo degli innumerevoli dischi precedenti. Staticità? Forse, ma non vorrei definirla con questi termini, il chitarrista semplicemente continua a fare il suo mestiere, quello di essere un grande chitarrista heavy metal. La potenza della traccia scende leggermente nel finale, quando le lacrime sembrano colare dagli strumenti e dal microfono, quando nelle pelli di Väyrynen persiste la volontà di accompagnare il corpo inerme al giudizio finale.
Serenity
Da come stiamo procedendo nel percorso di Obsidian una cosa è ormai acclarata: tra le note cammina un fervente non auto citazionismo. La band indisturbatamente sta dimostrando la varietà del materiale composto ed elaborato, a cui si aggiunge la minuziosità degli intarsi chitarristici. In Serenity (Serenità), in particolare, si evidenzia un animo "vestito di death ma profumato di gothic". La nota operazione contrasto, animo estremo versus animo levigato, permette ai nostri di sfuggire alle norme e alle convenzioni. La traccia, la sesta del lotto, esplode subito con giochi strumentali a dir poco pirotecnici, ed una melodia più che azzeccata. Sembra di essere al cospetto del brano da ricordare nel disco, e in effetti appena Nick apre bocca ci rendiamo di conto che stiamo vicini al traguardo. La ruvidezza vocale contrasta a meraviglia con la sezione ritmica che cerca di presentarsi cattiva e spietata. Gli stop and go della chitarra, gli uh di Holmes e la batteria, la quale alterna tom e rullante magistralmente, ci permette di toccare con mano la serenità. Un sospiro di sollievo, starete pensando. Dopo tracce su tracce di malinconia, grigiore e morbosità finalmente i nostri aprono il cuore alle cose belle. Non esattamente: la serenità viene qui disegnata come un obiettivo irraggiungibile, solo sfiorata dopo la caduta del regno (Till the last kingdom falls / To a shelter repressed by a long loneliness), probabilmente quello umano. Ecco, di nuovo gli inglesi puntano il dito contro la razza umana, l'unica responsabile della propria misera condizione. Nemmeno la solitudine, tradizionalmente il luogo interiore in cui ci si rifugia dalla mondanità, sembrerebbe essere la risposta, il disordine è l'unica parola chiara. Dopo la conclusione del bridge, il refrain capita al momento giusto, evidenziando il disprezzo per questo mondo e per chi lo ha ridotto in questi problemi. Ancora una volta i nostri azzeccano le armonie, difatti non è possibile essere disattenti durante l'ascolto, durante ogni minimo passaggio. Il growl del ultraquarantenne Nick sgorga violenza, ma non mancano momenti di pausa in cui ci cerca di ricaricare le pile. Come alla metà del secondo minuto quando la chitarra mette in gioco un'anima acustica e edulcorata che conclude al meglio questo sesto brano del disco.
Ending Days
Un'introduzione acustica e malinconica c accompagna anche nel settimo sigillo di Obsidian. La sofferenza è possibile toccarla con mano, l'amarezza di uno sguardo triste è stampato nella nostra mente. Con un andamento molto melodico questa Ending Days, titolo abbastanza chiaro, ci permette di addentrarci nell'universo degli inglesi, in cui lo spettro di John Milton è tappezzata sulle pareti. Il quadro strumentale punta inizialmente ad un minimalismo abbastanza accentuato, udiamo solo il fluire della chitarra di Gregor Mackintosh. Ci accompagna mano per mano, diventando la figura intellettuale di Virgilio in una sorta di inferno dantesco. La fine dei giorni è lì, è un orologio dell'Ottocento che scandisce i secondi con una suspence chiara ed intellegibile. Qui le parole non bastano per descrivere la precaria situazione interiore di noi esseri umani, soffriamo (Maladjusted, I suffer / Maladjusted, I suffer), ci teniamo tutto dentro fino ad esplodere. Gli intarsi strumentali come detto sono soffici e non troppo invadenti; la batteria colpisce con gentilezza, mescolandosi ad un basso incisivo che fa da contraltare alla spumosità del resto. Nick, come è noto, incarna la sconfitta, la depressione. Colora il brano di un nero denso, questa volta senza utilizzare stratagemmi estremi: la sostanza della sua voce è semplicemente l'urlo silenzioso del sofferente. Ending Days non è un brano banale sebbene la tematica in questione è pressappoco il cavallo di battaglia dei Paradise Lost. Ma ha quel retrogusto gotico che la rende unica e difficilmente replicabile in altri contesti. La grazia degli arrangiamenti, gli archi e le cadenze romantiche, spingono sull'acceleratore dell'abisso. Molto interessante è l'assolo di Mackintosh, una vera e propria fonte di sapere per chi si approccia allo strumento. Quel momento solista magicamente si innesta col resto degli strumenti, calcando ritmiche differenti rispetto ai 4/4 messi in campo all'inizio. Non è una questione di tempi o di note, qui ogni elemento si connette alla perfezione con l'altro, riuscendo a mettere ordine alla mente confusionaria dell'essere umano triste. Ending Days ha quell'appeal melodico che si necessitava in questa parte del disco, era l'anello di congiunzione tra i momenti aggressivi delle tracce precedenti agli altri che tra poco vedremo. Un brano destinato a diventare un classico della band? Questo non lo sappiamo, possiamo solo dire che ancora una volta gli inglesi hanno azzeccato la formula, lirica e musicale.
Hopes Dies Young
Solo quattro minuti costellano l'ottava Hopes Dies Young, le speranze muoiono giovani. L'intercalare gotico in questa traccia è molto forte, quasi dominante se vogliamo. L'intruglio strumentale per questo motivo si aggancia sin dall'inizio ad una catarsi spiritica emozionalmente elevata. Nick sgancia il meglio del suo cantato pulito, a suo parere è inutile sporcare" le intenzioni riposte nella traccia con scaglie gutturali. E dobbiamo dire che questo aspetto si sposa con le liriche, come sempre spietate e amare al contempo. Basta l'interessante ossimoro utilizzato poco prima del refrain, Obscure the light of day (Oscura la luce del giorno), ad incanalarci nei significati articolati della band (anzi dei due songwriters). Come fa la luce del mattino, simbolo del risveglio dell'anima, ad essere oscura? Di sè per sè questo ragionamento non trova un fondamento, ma appena capiremo globalmente le intenzioni messe in campo avremo più facilità a comprendere. La frase sta nel titolo "Le speranze muoiono presto". Non ci sarà mai la luce se prima non è attiva la speranza che accende quella luce. Per la band le cose reali non avranno possibilità di esistere se prima non c'è la volontà di renderli manifesti. Tutto nasce da dentro e tutto morirà dentro. Dal punto di vista musicale la traccia non è stratificata o complessa come le precedenti. La chitarra di Gregor Mackintosh fa il minimo indispensabile per creare i propri varchi mentre il drumming si impone con più decisione. Lo spettro della melodia facile aleggia sul brano, ma non è possibile definirla negativamente: il cantato gentile di Nick Holmes, che muta leggermente di aspetto nel ritornello e nelle parti successive, rende anche le armonie più orecchiabili qualcosa di ricercato, qualcosa di costruito. Azzeccato è sicuramente l'humus sensoriale che sta alla base della traccia, addolcito dai tocchi di Gregor che sanno come inserirsi nello spettro musicale. Ma se dobbiamo sottolineare il miglior momento, possiamo dire che il crescendo del post ritornello è sensazionale, nonostante sia riproposto lo stesso amalgama già sperimentato in precedenza. Giunti quasi alla fine di questo percorso, i maestri gotici dimostrano di essere superiori a tanti gruppi novelli che fanno del metal gotico la loro ragione di vita.
Ravenghast
Non poteva mancare un romantico pianoforte ad annerire la situazione. Ma lungi dall'essere l'ennesimo tassello gotico del disco, Ravenghast riaccoglie un Nick Holmes cupo come la notte e pronto a cibarsi di noi povere anime. Lo spirito doom/death è di nuovo vivo e vegeto nella band, lo schema musicale, in parole povere riprende, i clichè dei Paradise Lost degli anni 90': domina quindi la lentezza e la distruttività interiore. Una lentezza quasi lacerante, in grado di perforarci lo stomaco e il cuore. Se negli episodi precedenti l'abbondanza di melodia poteva far storcere il naso, qui i Nostri puntano sul loro pezzo forte, narrando della morte e del regno eterno (riferimento al cristianesimo, tema centrale nei primi e giovani Paradise Lost). Ricordandoci che nella vita si è destinati a perdere, nonostante mettiamo tutto noi stessi in quel che facciamo. Il pessimismo cosmico degli inglesi non molla un millimetro della sua forza, ed è gratificante pensare come il lirismo sia sempre e comunque fondamentale per inquadrare globalmente il tutto. Questa è anche una delle tracce in cui Waltteri Väyrynen è maggiormente protagonista, non solo per la forza dei suoi tocchi batteristici ma anche per la capacità di scandire la sofferenza in maniera sublime. Questo lo si sente specialmente nel refrain, una parte del brano che ci fa sprofondare nell'angolo più buio di una caverna solitaria; che ci fa pietrificare nella consapevolezza dell'inutilità dei precetti cristiani. alle soglie della metà del terzo minuto Gregor sfodera un suo solo, senza distaccarsi dal modus operandi adoperati negli altri brani, anzi rafforzando la cattiveria di Nick Holmes che come un lupo mannaro non molla un millimetro per raggiungere la sua preda. La forza luciferina della sua voce scatena in noi quella voglia di ribellione, quella volontà sacra di rompere le catene della caverna platonica e di vivere. Probabilmente una delle cose più difficile da fare in un mondo in cui il dogma della religione domina in lungo e in largo. È giusto quindi ritrovare se stessi, capire la propria natura ed affrontare le difficoltà senza promesse celesti, come la prima strofa ci fa capire (Your eternal kingdom dead).
Conclusioni
Con una incredibile fragranza di suoni i Paradise Lost non snaturano la loro faccia. Il suono è assimilabile alle ultime uscite, con un netto miglioramento per quanto riguarda la produzione rispetto al precedente Medusa, volutamente reso al pari di un ammasso analogico. Obsidian nasconde i "soliti" pezzi vincenti alla Paradise Lost in un lotto di brani bello sostanzioso e generalmente privo di ripetizioni o tentennamenti. Già questo potrebbe immettere Obsidian nel top di questo travagliato 2020. Già i primi pezzi bastano per inondare questo mortifero anno con un nuovo almanacco di emozioni, necessarie per rincarare la dose di tristezza. Ma è una tristezza positiva, perdonatemi l'uscita ossimorica, che scaccia dalla mente gli elementi destabilizzanti dall'esterno e permette di connetterci con noi stessi, come mai non abbiamo fatto. L'opus dei miltoniani di certo non raggiunge i fasti targati anni 90', quando la band del West Yorkshire assieme agli altri compari della Peaceville Records (Anathema e My Dying Bride), distribuiva sensibilità ed espressività a profusione, nel meglio della tradizione dei progenitori dark e post punk che hanno permesso la creazione stessa dei Paradise Lost. Nick Holmes non sembra aver fin troppo marcito la sua voce dopo l'esperienza gutturale con i Bloodbath, mentre l'altro elemento portante della band, Gregor Mackintosh, dopo i sussulti extreme metal con gli Strigoi (di cui consiglio l'ascolto di Abando All Faith, Nuclear Blast, uscito nel 2019), ha abbassato i ritmi delle chitarre tornando a snocciolare riff tristissimi e per questo vincenti. In questo Obsidian c'è tutto quello che un fan della musica doom/death metal vorrebbe: chitarre sanguinolente, batteria oculata e basso atletico, in un tutt'uno che danza a ritmo di poesia decadente, come è lecito da aspettarsi da musicisti del genere che compongono in questo modo da circa tre decadi. Da un certo punto di vista si potrebbe intuire un certo pilota automatico della band da oltre 15 anni, ma sfiderei chiunque a trovare un carrozzone di questo calibro che semplicemente scrive pezzi di natura superiore in grado di colpire il proprio obiettivo; in grado di emozionare a suon di passaggi melodrammatici e di rimanere in palla nei momenti clou. Certo, non si può dire che i britannici siano straripanti di idee e di tentativi di discostarsi dalla loro natura primordiale, ma in un periodo in cui l'alienazione contemporanea è ai limiti del sopportabile è bene rintanarsi in un porto sicuro, in un suono sicuro, quello in cui si crede con tutto il loro cuore. E in questo la band inglese non è seconda a nessuno. I Paradise Lost credono nel loro suono perché sanno che è l'espressione massima della propria sensibilità. Del resto, c'è da dire che poche teste pensanti avrebbero scommesso un penny sul futuro della band dopo gli strafalcioni sperimentali di fine anni 90'. Ed invece da vent'anni narriamo di un combo ormai maturo e storicamente al pari di altre leggende metalliche, con sedici (SEDICI) album da mettere in saccoccia e vantarseli come se fossero delle pepite d'oro, in faccia ai tantissimi detrattori che hanno colpito la band in passato, accusandola di voltafaccia e di poca inventiva (anche lecitamente). Obisidian è quindi un mattone musicale dedicato proprio a loro, a quelli che con un paraocchi ascoltano musica ma giudicano solo l'immagine e non la sostanza. Questa ossidiana, caratterizzata da un artwork a dir poco complesso e multistrato, va ascoltata e assorbita: trovare un pezzo migliore di un altro è un'attività difficoltosa, che lascio volentieri ad altri. Ciò che si può fare è solo un grande applauso alla genuinità musicale del quartetto di Halifax, che probabilmente anche tra trent'anni ci tuonerà nel cuore come solo lui sa fare.
2) Fall from Grace
3) Ghosts
4) The Devil Embraced
5) Forsaken
6) Serenity
7) Ending Days
8) Hopes Dies Young
9) Ravenghast