PARADISE LOST
Lost Paradise
1990 - Peaceville Records
GIANCARLO PACELLI
24/11/2017
Introduzione Recensione
"Meglio regnare all'Inferno, che servire in Paradiso"
Così sentenziava eroicamente una delle penne più importanti del seicento inglese, John Milton, regalando al mondo poetico un'opera fondamentale della letteratura europea, intitolata "Il Paradiso Perduto" (in lingua originale, "Paradise Lost"). John Milton è di certo tra i più noti e interessanti scrittori della letteratura inglese del 1600. È altresì il più celebre poeta inglese dopo William Shakespeare, nonché autore di svariate opere che hanno lasciato un segno nella cultura britannica e non solo. Un'eredità che riecheggiò nel tempo e continua tutt'oggi a suscitare fascino ed interesse, in persone d'ogni estrazione sociale e culturale. Sempre rimanendo in Inghilterra, secoli dopo l'epopea del "Paradiso...", ad Halifax (contea del West Yorkshire) troviamo giustappunto due ragazzi rimasti scottati e piacevolmente colpiti dall'immaginario poetico di Milton: parliamo di Nick Holmes e Gregor Mackintosh, i quali cominciarono ad ammassare fra di loro spunti ed idee, forti di una notevole cultura musicale e non solo. Libri, band seguite da entrambi, amore per determinati sound e modi di esprimere la propria arte... inutile dire che di lì a poco ebbero un'idea comunissima per l'epoca, ossia formare un gruppo metal. Entrambi, come già detto, condividevano la passione per tante sfumature musicali, dalle più estreme alle più alternative: voraci esploratori dei territori dark tipici di band come Bauhaus o The Sisters Of Mercy e mangiatori di varie forme metalliche come per esempio il devastante death floridiano targato Obituary e Death. Due menti che nonostante la giovane età presentavano in corpo già costruzioni mentali chiarissime, quella che inizialmente era solo un'idea si trasformò ben presto in assoluta concretezza. Formare un gruppo che negli anni a venire, in qualche modo, andò a mescolare l'dea di base di questi generi tanto affascinanti quanto discordanti non fu assolutamente da tutti, risiedé proprio in questa peculiarità la grandezza dei Paradise Lost. Così, nel 1990, stipulato un contratto con la ben nota "Peaceville Records" (Katatonia, Darkhtrone, Autopsy, My Dying Bride), e reclutati il batterista Matthew Archer e Steve Edmonson al basso, venne lanciato questo "Lost Paradise", in debito maggiormente nei riguardi di una fascia estrema (la scena floridiana ma anche band seminali come gli svizzeri Celtic Frost) a cui Nick Holmes e compagni erano tanto devoti. Lo stesso Holmes, dotato di qualità vocali abnormi, renderà questo nascente genere (in seguito ribattezzato Death Doom) molto celebre. Brutale nelle vocals e ossessivo nei giri armonici, questa branca fondamentale dell'estremo novantiano troverà proprio nei Paradise Lost (assieme ai connazionali Anathema e My Dying Bride) i suoi più grandi teorici ed artefici. Il death/doom intriso di doppio pedale e atmosfere depresse, in un certo senso, parte proprio qui, da questa uscita discografica che all'inizio riservava solo una grossa incognita. Questo ibrido, che per la musica estrema rappresenterà per sempre un definitivo punto di partenza, ispirazione di molte uscite epocali, fu anche e soprattutto di fondamentale aggancio per la nascita di un'altra forma di metal, decisamente innovativa: il Gothic, reso definitivamente celebre proprio dai nostri Paradise Lost nella loro seconda uscita discografica (intitolata come il genere, appunto). Proprio le tematiche (prettamente legate alla decadente letteratura inglese) ed il riffing massiccio saranno di stampo per migliaia di band che cavalcheranno l'idea gotica, altamente espressiva ed ipnotica. Esattamente questa malinconia, forte di una elevata espressività, renderà il Death Doom un genere particolarmente apprezzato da una fascia specifica di amanti dell'estremo metallico. Quindi, questo "Lost Paradise", nel suo stampo old school, nelle sue melodie molto acerbe, riserva tutt'oggi momenti assolutamente di livello grazie soprattutto al duo di chitarre Greg Mackintosh/Aaron Aedy, i quali duellano all'impazzata tessendo numerosi riff colorati di nera decadenza. Negli anni i Paradise Lost sperimenteranno come non mai, raggiungendo un picco di popolarità che scavalcherà i confini britannici; eppure, non perderanno mai quel lustro iniziale e senza pretese degli inizi anonimi.Con questa uscita, i giovani ed ancora inesperti Nick Holmes e compagni porgeranno un piccolo mattoncino su cui poi costruire le fondamenta di un'ala musicale dal forte piglio sperimentale. Brutale nelle composizioni, arcigno negli arrangiamenti... il Paradiso Perduto ci ha presentato un ricchissimo e graditissimo piatto dal quale cominciare. Buon ascolto, e tenetevi pronti per il viaggio nel polveroso esordio del "Paradiso perduto". Cercate di non perdervi, fra cotanta oscurità.
Intro
Come c'era da aspettarsi, non facciamo nemmeno il tempo ad allacciarci le cinture che già veniamo catapultati in un clima funereo, un'intro densa di malignità, arricchita soltanto da un rumore assimilabile ad un motore incallito, quasi costruito con macchinari a noi sconosciuti; uno strana sensazione ci sta porgendo la mano, per invitarci a compiere il definitivo passo. Tutto ad un tratto, in sottofondo, notiamo delle risate di pinkloydiana memoria che quasi ci sbeffeggiano: l'aria si fa funesta, una nebbia maligna ci assale fino a che, all'improvviso, udiamo dei versi sinistri, indecifrabili, emessi dal nostro frontman Nick Holmes. Un piccolo segnale di ciò che accadrà a breve.
Deadly Inner Sense
Come da preavviso, i Nostri non badano ad andarci piano; ed in men che non si dica ci siamo già addentrati in una foresta, un luogo oscuro ricolmo di frustrazione. Il riffing che rompe il ghiaccio in "Deadly Inner Sense" (Senso di Morte interiore) è cosi muscolare da farci rendere conto di un fatto fondamentale: quel che stiamo udendo non poteva essere sentito, all'epoca, da nessun'altra parte. Le corde del duo Mackintosh/Aedy vibrano in una maniera terrificante, in perfetto "doom style" e tali accordature, rese ancora più incisive dal doppio pedale delle pelli di Matthew Archer, sono pane per i denti insanguinati di Nick Holmes, che come un avvoltoio si aggrappa alle note incandescenti scandagliate dai due mattatori alla chitarra. Dopo un urlo malefico di introduzione il buon Nick non si risparmia e con una superbia disumana, dopo vari agganci interessanti tra basso e chitarre, sfodera un growl non di questo pianeta. Le qualità vocali di Holmes, che come vedremo negli anni raggiungeranno livelli melodici unici, qui sono ancora molto acerbe e prendono ovviamente spunto dai vocalist delle band marchiate dal death floridiano. E proprio quest'ultimo stilema si nota nell'aria malefica proposta dai nostri inglesi, un fitto clima underground in cui è impossibile non percepire molti riff corposi che prendono spunto da band come Possessed ed Obituary. Ma i Paradise Lost, sin dagli inizi, dimostravano intelligenza fuori dal comune, sono stati sempre ottimi arrangiatori, astuti nell'apprendere la classe estrema di quelle band molto incisive in quegli anni. Verso la fine del minuto, difatti, un cambio di tempo molto interessante e accelerato velocizza ancora di più il pezzo. Questo però per pochissimi secondi, poiché la decadenza chitarristica torna all'attacco. Tutto l'amalgama terremotante del sound riflette le liriche aggressive e arcigne, si parla della morte nel senso più ampio possibile e in ogni giro malato di chitarra notiamo la presenza allegorica di un uomo nero dalla faccia anonima, che ci costringe a correre per il troppo terrore. I pensieri si fanno affannosi, facciamo noi stessi fatica a respirare fino a che non possiamo tornare indietro, ormai siamo smarriti dentro un tifone di riff contorti e patologici i quali non accennano a risparmiarci da questa sofferenza interiore. La struttura degli inizi riprende da dove si era fermata: Holmes, dopo aver ripreso fiato per quei pochi secondi torna a scatarrarci questo agghiacciante versetto "These mindless thoughtless fools/Corrupted in mind/Crying out for the death/Innocence they find" (Questi stupidi, privi di pensieri e privi di cervello /Corrotti in mente/Piangono per la morte/Cercando l'innocenza). Insomma, quel leggero momento melodico è durato molto poco, come c'era da aspettarsi. Machintosh/Aedy però non accennano a fermarsi, regalandoci assoli tipici del death/doom, rivelandosi per di più ottimi nell'intervallarli con le urla maestose del nostro frontman che non accennano minimamente scendere di livello. Gli ultimi battiti dei quattro minuti pesanti della nostro primo tassello non accennano a diminuire di intensità, anzi crescono fino a che il comparto tecnico dei Paradise Lost prende il sopravvento e spegne il tutto. Non si poteva nemmeno lontanamente immaginare un inizio così, ma come ben sappiamo i nostri sono pieni di sorprese. A sorprenderci, per il momento, è quell'uomo nero tanto ostinato nell'inseguirci. Gli umani sono sciocchi, temono un processo naturale ed inevitabile come la Morte: cercano di esorcizzarla in ogni modo possibile ed immaginabile, non sapendo ch'essa è dietro l'angolo pronta a colpire, in qualsiasi momento. Proviamo angoscia e non sappiamo da dove derivi la nostra inquietitudine. Notti insonni, di puro terrore... ed una figura oscura, che ci spia dagli angoli più bui della nostra casa, intenta a ridere, indicandoci il cimitero.
Paradise Lost
L'enorme impatto emozionale del primo tassello (tenendo escluso l'Intro) ha già mostrato una gran percentuale di pasta musicale che i nostri sono in grado di sfoderare. La durezza di "Lost Paradise", come vedremo, non scenderà nemmeno di un millesimo, di un centimetro, la coerenza melodica di chiara ispirazione estrema non cederà certo il passo a brani strutturalmente meno elaborati secondo i canoni precisi della miscela di generi qui proposta. Il death metal di fondo è talmente vivo da renderci appunto leggermente disorientati, e questo punto caratteristico è da inquadrare in una maniera più che buona; dopo tutto, imparare dagli altri un tipico sound e renderlo personale è un percorso non semplice. Un intro che rasenta il chitarrismo dei Death, è il primo brivido malefico che proviamo sulla nostra pelle sin dai primi vagiti del secondo pezzo, "Paradise Lost" (Paradiso Perduto). Niente momenti palpitanti di attesa, il bombardamento sonoro ci viene scaraventato addosso in men che non si dica, in pochissime frazioni di secondo: gli assoli del lead guitarist Greg Mackintosh sfiorano un ampio utilizzo di stilemi shred solos dall'ampio respiro tecnico, tesi a dimostrare il suo visionario talento (Greg inoltre si occuperà delle tastiere nei successivi lavori del gruppo). Dopo questa parentesi tecnica dalla durata di circa trenta secondi, siamo tutti in trepida attesa per Nick Holmes, che in uno stile alla John Tardy degli Obituary zittisce tutti grazie al suo possente utilizzo del growling. Growl che sembra incastrarsi magicamente con i pesanti colpi di cassa di Matthew Archer, il quale non accenna a smettere di aumentare la nostra soglia di paura: "Claws of death, grips my life/Empty my mind and my knowledge is deceased/ Mindless and dumb, instinct gone" (Artigli della morte, impugnate la mia vita/ la mia mente è vuota e la mia conoscenza è deceduta/irragionevole e silente, l'istinto è ormai perduto), sono le truculente note di rassegnazione, di compianto e di resa che sono scisse dal comprensibile growling, in questi accenni semantici lo spirito decadente dei nostri fuoriesce nella maniera più affannosa possibile. Parole dure di chi ha perso il senno, di chi ha perso ogni speranza e non riesce più a recuperare la sua grama esistenza, ridotta ad un cumulo di macerie. La Morte è ormai sopraggiunta a lenire i dolori di una vita fatta di oscurità e depressione. La mente ormai si rifiuta di pensare, il protagonista è talmente rassegnato da non riuscire nemmeno a provare gioia o paura per il sopraggiunto trapasso. Tutto resta fermo, immobile, come un limbo. Conoscenza ed istinto cessano la loro guerra, non c'è più niente per cui valga la pena combattere. Tutto è perduto, tutto è ammantato di nera nebbia. Dopo questa scansione cosi dolorosa dei primi versi, con un rallentamento generale del ritmo, verso la metà del primo minuto un riff abrasivo e contorto permette al ritorno assatanato di Holmes che ormai si trova a suo agio nell'abbiente annebbiato di questa "Paradise Lost". Ma nel mezzo delle ritmiche infernali sembrano materializzarsi linee strumentali assai particolari, che saranno la base del sound futuro proposto dai menestrelli di Halifax. Questa parentesi dal sapore gotico viene all'improvviso messa da parte dalla ripresa del ritmo primordiale del pezzo. Le due chitarre proseguono con assoli sparati al millimetro, con Holmes a fare da illustre accompagnatore, tutto questo fino ai muniti finali in cui le asce lasciano spazio a leggerissime linee melodiche."Paradise Lost" è da considerarsi il continuo logico della traccia d'apertura del nostro full-lenght.
Our Saviour
Intro con spruzzi di chitarra che mirano alla letalità dei Possessed e una batteria al cardiopalma che fa della compostezza esecutiva il suo punto migliore... e siamo già completamente immedesimati nel successivo nonché distruttivo piatto che i Nostri ci offrono volentieri. Zero spazi melodici nella qui presente "Our Saviour" (Nostro salvatore), il cui tono immancabilmente segue i passi del complesso lirico collezionato da Holmes/Mackhintosh, che verte sull'inutilità della religione, causa della discordia degli uomini. Nessuno spiraglio di positività, siamo immersi in un buio totale e la nostra via di scampo sembra essere a migliaia di chilometri da noi, se non totalmente persa ed irragiungibile. Batteria che con pochi ma violenti colpi può definirsi la chiave di lettura dei primi rapidissimi secondi, a cui logicamente si allaccia il vocione tetro di Holmes, il quale non usa mezzi termini, il suo piglio death è chiaro come la luce del sole. I giri di basso di Edmonson sono tirati al massimo tanto essere parte integrante come tutto l'apparato ritmico, nonostante quei limiti imposti da una produzione non sufficientemente adeguata. Le accelerazioni iniziali con le due asce da guerra a fare da portavoce sono intervallate dal growl, frangente in cui si scandiscono a fatica i messaggi dialettici dei Paradise Lost, i quali disegnano un tifone infernale fatto solo di morte e disperazione. Questo cavalcavia sonoro è fermato da una crudele strofa portatrice di un verso emblematico: "Where is your god now as you're dying alone" (Dove è il tuo Dio, proprio adesso che stai morendo da solo), situazione che fa da trampolino di lancio ai colpi potentissimi di cassa da parte di Archer, i quali seguono Holmes alla velocità della luce. Dov'è dunque Dio? Che fine ha fatto? Come suo figlio morente in croce, solleviamo uno sguardo piangente al cielo, chiedendoci come mai ci abbia abbandonati. A differenza di Cristo, noi non risorgeremo. La notte, l'oscurità perpetua... quello è il nostro destino. Rabbiosi e tristi urliamo e malediciamo il nome del Signore, quel Signore che avrebbe dovuto proteggerci ed invece ci ha lasciati soli, gettati miseramente in pasto ad un triste destino. Da qui in poi, il caos costruttivo (secondo la lettura dei Paradise Lost) regnerà sovrano, a parte qualche velata intromissione di stampo gotico. Sia la pesantezza del doom che la claustrofobia del "Floridian Death Metal" dominano i pochi minuti restanti, che imperterriti sfoderano una classe estrema degna dei più grandi nomi del passato... e perché no, anche del presente (all'epoca) metallico. I Paradise Lost dimostrano coerenza e tanta lucidità nell'affrontare un salto nel buio, proponendo una commistione molto omogenea di sound. "Our Saviour" nella sua totalità è un pezzo da considerarsi estremamente ben riuscito. Un'ode contro il salvatore... che alla fin fine, nessuno ha mai salvato. E nessuno mai salverà, nonostante la sua fama di redentore e buon pastore.
Rotting Misery
L'utilizzo delle tastiere, nella branca estrema, è sempre stato fortemente stigmatizzato e confinato a piccolissimi intermezzi. Esse sono state sempre una lontanissima illusione... impossibile, inserire la leggerezza derivante da quei dolci tasti, nell'inferno di quel sound: eppure, questo pregiudizio venne fortunatamente smontato grazie ad un disco e grazie ad una band fin troppo messa da parte, che fece dell'utilizzo delle tastiere il suo cavallo di battaglia. In pratica, i non troppo celebrati Nocturnus hanno sdoganato le tastiere nella musica estrema. La band in questione, con il suo "The Key" del 1990, spiazzò tutti con una rivoluzione decisiva dell'extreme metal, prima di loro era impossibile pensare ad una cosa del genere. Perché parlare dei floridiani, vi chiederete? Sicuramente perché il loro tocco compositivo fu essenziale anche per l'idea musicale dei nostri Paradise Lost, specialmente in alcuni pezzi. "Rotting Misery" (Miseria Putrescente) è uno di questi: difatti, noteremo nel corpo centrale di questo episodio una grossa influenza esercitata proprio da quell'album pocanzi citato; anche se, prima di udire ciò, dovremo pazientare giusto un attimo. Proprio perché all'inizio, con lo schioccare dei primi rintocchi di un'inquietante campana, siamo sopraffatti da un ampio tono di chitarre/ basso/batteria che aprono le porte per lo spirito doom, che dominerà nel successivi secondi. Chitarre sempre tirate al massimo, le plettrate della coppia offensiva Mackintosh/Aedy sfondano le porte creando un muro sonoro pazzesco in cui a tessere intervengono le vocals arcigne di Nick Holmes, che raggiungono un apice gutturale veramente malefico. Le note basse del nostro singer diventeranno infatti il punto forte di questo debut e proprio questi vocalizzi sono straordinariamente adatti a rappresentare uno scorcio lirico violento e senza pretese. Nei passaggi rapidissimi, in cui Holmes spalma il suo growl fino all'estremo, ecco intervenire gloriose tastiere, le quali si insinuano egregiamente tra una nota e l'altra. Tastiere che hanno il compito sublime di rendere più appetibile un pezzo che si presenta ovviamente molto duro e granitico. L'atmosfera si fa asfissiante, non riusciamo a vedere la luce tra le mille note malinconiche sparate con estrema cattiveria. Nemmeno l'utilizzo (accennato in precedenza) di tastiere riesce a scalfire questo sound che graffia sia il death che il doom. Ma ecco che quando meno che ce lo aspettiamo i Paradise Lost sfoggiano tutta la loro bravura grazie all'ascia di Machintosh, il quale dà alla luce una stupendo assolo centrale, che marchia a fuoco una prova da 10 e lode. "Realtà imbrattate/Ci ha portato davanti/Le loro vite inutili/Come tutta la loro fede è persa": versi che non lasciano ampio spazio all'immaginazione e ci mettono davanti alla miseria dell'esistenza umana. Cerchiamo di appigliarci alla fede, eppure quest'ultima risulta persa e dispersa sotto i colpi della rassegnazione. Realtà imbrattate, perché coperte da una strana patina di menzogne e bugie, atte a non farci rendere conto di ciò che realmente l'esistenza è: una miseria continua, destinata alla putrefazione passo dopo passo, giorno dopo giorno. Non possiamo che perire sotto i colpi del tempo che scorre inesorabile, devastando i nostri animi, smarrendo ogni traccia di luce nelle nostre vite. La notte ci ghermirà e ci porterà via con sé. Ce ne accorgeremo quando sarà troppo tardi e non vedremo più nulla attorno a noi. Né facce amiche né amore... solo uno spesso, impenetrabile banco di nebbia nera come la notte... come la morte. Così, con queste note al veleno ricolme di rassegnazione, Holmes riprende a sopraffarci dal punto di vista vocale; la violenza sonora di cui è capace raggiungerà l'apice nei minuti finali, dominati letteralmente dalla chitarra che disegna riff duri e caratteristici coadiuvati anche da un gioco di pelli atletici recanti ancora più brio a questa possente "Rotting Misery".
Frozen Illusion
Sulla scia di "Rotting Misery", proseguiamo il nostro percorso nell'esordio dirompente e nascosto dei quattro menestrelli inglesi di Halifax, subito arcigni e decisi nel mostrare il loro carattere. Due colpi di bacchette e si parte all'attacco grazie ad un intro ricolmo di riff taglienti, con una batteria al fulmicotone che quasi scherza con le due asce da guerra sempre pronte a scagliare elettrizzanti scariche metalliche. In questa "Frozen Illusion" (Illusione congelata), dovremo pazientare una trentina di secondi per attendere l'urlo agghiacciante di Nick Holmes, ormai vero marchio di fabbrica, che come al solito spezza il gioco con base chitarra/basso sempre efficace nel sound dei nostri. Voce che nelle sue modulazioni ricalca un po' l'intento semantico che la coppia addetta al songwriting (Holmes/Makhintosh) vuole trasmettere: un paesaggio desolato, cupo e triste dove un personaggio ignoto si trova riverso in una mordente oscurità che lo ferisce, scavando e colpendo negli abissi più profondi della sua anima. "I lay in the darkest room/The door is locked at chains. I grasp/The chill runs through my bones/In panic I grief. Oh please help me die ("Mi trovavo nella stanza più oscura/La porta è bloccata, chiusa a chiave/Il freddo attraversa le mie ossa/Sono nel panico, immerso nella tristezza /Oh, per favore, aiutami a morire"). Una vera e propria richiesta d'aiuto, l'urlo disperato proveniente da una persona immersa nei meandri della depressione più nera e totale. Tutto è congelato, come un immenso Cocito nel quale siamo bloccati. Le nostre lacrime non trovano spazio, si riversano sulla lastra di gelo e si accumulano sino a rendere i nostri occhi delle dolorose sacche di disperazione. Talmente affranti che non desideriamo altro che la morte, anelata e cercata, desiderata. Speriamo di morire quanto prima, per salvarci da questa infausta condanna, da questo status di dolore accecante quanto straziante. A dar man forte al comparto lirico intervengono dunque queste note fredde e strazianti, le quali non fanno altro che aumentare l'aria grigia che si respira in questa track. Atmosfera che si adagia egregiamente su di un ensemble strumentale di prim'ordine, tra riff solidissimi sia di chitarra che sapienti parti di batteria, un susseguirsi che si aggroviglia rendendo ancora più straziante il growl malefico di Holmes, capace in questo episodio in particolare di toccare altissimi livelli di inquietudine, al limite della sofferenza fisica. Durante un buon stacco di batteria alla fine del secondo minuto, le due chitarre iniziano ad accelerare sfornando un massiccio numero di riff ben squadrati, i quali rendono ancora più personale questa traccia, la sesta di questo "Lost Paradise". In un mare di riff attorniati da una palpitante e rigorosa distorsione di fondo (che un po' caratterizza l'intero disco) ci sentiamo smarriti con la sola ombra che ci fa compagnia, il pezzo si conclude con ampi rallentamenti, con tutto il comparto tecnico che si spegne progressivamente.
Breeding Fear
La settima track, "Breeding Fear" (Paura proliferante) dei nostri non poteva non aprirsi con un intro dal sapore apocalittico innestato dalla coppia di chitarre, sempre grezze e dirompenti; asce che tessono note decise e pesanti. A ciò si aggiunge la batteria, anzi: più che uno strumento, un vero e proprio macigno che riesce a stare dietro alla rapidità dei nostri due chitarristi. Chitarre altrettanto furbe tanto da entrare subito in contatto con le solite vocals malefiche di Nick Holmes, che in questo platter non scendono di un grammo di violenza, anzi; le qualità del nostro sono talmente visibili da superare egregiamente, per tecnica, un gran numero di vocalist di stampo death americano ben più blasonati di lui. L'aria sulfurea della traccia si addice al clima funereo che affannosamente ci sta oscurando la vista: né il nostro subconscio né la nostra anima, nulla ci può aiutare, abbiamo dinnanzi agli occhi solo la falce della morte, pronta a trafiggerci lo spirito; sinistra spada di Damocle desiderosa quanto prima di strappare il nostro cuore al regno dei vivi "No room to panic or move/I pray my death will come soon" ("Non c'è modo o tempo di provare panico o muoversi/prego che la morte arrivi subito"). Una visione nichilista e oscura, in cui la figura nera della morte viene vista come l'unica ancora di salvezza, ancora una volta, esattamente come accadeva nel brano precedente. La nostra traccia prosegue a mo' di cascata, fila liscia come una colata d'olio nero lasciando solo una scia di distruzione dietro di sé, esattamente come la cupa mietitrice, seguita a ruota da un coro d'anime dannate, da spedire presto nei più reconditi anfratti dell'aldilà. Ad un certo punto (precisamente verso la metà del secondo minuto) il grande talento di Gregor Mackintosh ci regala un assolo da cineteca, intervallato da micidiali colpi di cassa di Archer, con in secondo piano gli strascichi vocali di Holmes a completare l'atmosfera maligna e piena d'odio per la vita. Lo stesso Holmes violentemente rientra all'attacco, rallentando l'atmosfera che si stava arricchendo di passaggi elevati. La nostra traccia, per la sua compattezza e per la sua magniloquente espressività, risulta una delle più riuscite di questo esordio. Una vera e propria discesa verso gli Inferi più bui. Quelli in cui nemmeno il calore delle fiamme riesce più ad ardere, lasciando per questo sterminate lande prive di luce. Ghiaccio e vento battono la nostra anima, la sferzano sino a farla sanguinare, lasciandoci in balia di tristi eventi. Ancora una volta, desideriamo morire piuttosto che andare avanti. Abbiamo paura, una paura che cresce all'unisono con la track, che segue ogni nota emessa. Una paura la quale raggiunge il suo culmine alla fine del brano. Troveremo mai, la tanto agognata pace?
Lost Paradise
Dopo il burrascoso finale di "Breeding Fear", meglio non slacciarci la cintura... poiché Holmes e compagnia non hanno affatto intenzione di fermarsi. Difatti, dopo la conclusione della precedente track, i Nostri hanno deciso di confezionarci su misura una breve ma efficace strumentale dalla durata di due minuti, intitolata "Lost Paradise". Un duetto astuto, in cui le chitarre dei nostri sanno come amalgamare le atmosfere che solo il death-doom riesce ad orchestrare. In questi due minuti, che fungono da cuscinetto, ne fuoriesce un gioco strumentale veramente interessante, nonostante l'apparente banalità che potrebbe saltare subito all'occhio. Un pezzo che non aggiunge nulla di nuovo a quanto già udito pur risultando molto valido, degno preludio ed intro a quello che sarà il gran finale.
Internal Torment II
Il viaggio nei tormenti interiori, da un emisfero emotivo ad un altr,o sta quasi per concludersi: in questo senso, "Internal Torment II" (Tormento Interno) assurge a proverbiale ciliegina sulla torta estrema preparata dai Paradise Lost, un'autentica mazzata finale, una chiusura efficace e definitiva. Traccia che, come facile intuire sin dal titolo, tratta dei devastanti tormenti interiori, i quali lacerano la nostra coscienza: "The streams of frozen mist are shattered by the sun/Travel through the uncaring skies" (I flussi di nebbia congelata vengono frantumati dal sole/Viaggiate attraverso i cieli incolori), zero speranza e nessuna voglia di ribalta, l'oscurità ci sta divorando lentamente. Un nero sole brilla prepotente, rendendo il cielo mesto e cupo, plumbeo, talmente triste da rasentare la più totale apatia. Non riusciamo nemmeno a provare tristezza, tanto la nostra anima è ormai assuefatta al grigio, al monotono, allo Spleen qui ridotto a ragione d'esistenza. Una noia divorante, lacerante, che assale il nostro cuore e lo catapulta in uno stato di apparente calma. Né gioia né miseria, né luce né oscurità. Solo... il nulla. Il nulla più totale, il vuoto, l'assenza totale di sentimenti. Non poteva non essere un grandioso intro gelido come il ghiaccio a darci il benvenuto in questo nono e ultimo tassello che funge da raccordo per questo mosaico apocalittico dal sapore infernale. Se l'inizio sembra sciapito e monocolore, dal trentesimo secondo in poi, ci rendiamo conto che quello che pochi secondi prima era solo un esercizio di riscaldamento, si trasforma in un qualcosa di molto serio. Il clima death-doom si sta impossessando della traccia grazie anche ai vocalizzi di Holmes che, rispetto alle altre tracce, sopraggiungono creando il panico più totale: una delle prove più malate del nostro granitico frontman, che dimostra ancora una volta di possedere corde vocali di acciaio puro. La chitarra dai tocchi granulosi di Mackintosh raggiunge anch'essa una soglia elevata di intensità attraverso passaggi magistralmente decisi, i quali si incastonano alla grande tra un colpo di pelle e l'altro. Le note, scandagliate dal nostro performer, sono una coltellata dietro l'altra, non esitano a rallentare anzi aumentano di rapidezza come il duo chitarristico che, dal termine del primo devastante minuto, ci regala momenti di puro tecnicismo. Distorsione a mille che si accorda perfettamente con la potenza vocale di Holmes, ma che recupera di eleganza sfornando assoli eccellenti che danno un leggero tocco melodico a questa turbolenta traccia. La quale procede all'impazzata, e nel caos generale creatosi con chitarre serrate ed "estreme", arriva ai suoi sgoccioli con le urla dissacranti di Holmes che chiudono il tutto. E' finita, non siamo più neanche umani. Solo esseri sospesi nel vuoto, fluttuanti, annoiati. Chi mai potrà piangere la nostra sorte, se noi stessi sembriamo averla ormai accettata, privi della minima capacità d'empatia?
Conclusioni
Come non valutare positivamente questo debutto? Come non risultare capaci di considerare "Lost Paradise" una tappa fondamentale, un inizio importante, un vero e proprio archetipo per un genere il quale solo successivamente troverà la sua definitiva consacrazione e teorizzazione? Come parlare di questo platter non avendo la consapevolezza di trovarsi dinnanzi ad un piccolo tassello, uno scalpitante pezzettino di un mosaico che nella sua "ignoranza" e genuinità ha impostato (seppur in forma molto acerba) nuovi canoni su cui disegnare un nuovo sottogenere estremo? Impossibile asserire il contrario di quanto io abbia sino ad ora detto, amici lettori. Impossibile non rimanere stupefatti, dinnanzi a tanta fondamentalità. Certo non ancora un lavoro rasentante la perfezione assoluta, ma decisamente spiazzante, nel senso più che positivo del termine. Un disco ben congeniato, un avvio di carriera incoraggiante nonché buonissimo. I Paradise Lost mostravano sin da subito i loro intenti, dichiarando il loro apprezzamento per i maestri seppur non parodiandone gli stilemi, non risultando mere fotocopie ma anzi veri e propri depositari di genuina personalità. L'ho ripetuto più volte, nel corso dell'articolo: le influenze captate, dal mondo dark di Bauhaus e Clan Of Xymox fino allo spietato panorama Floridian Death Metal con band sanguigne come Death ed Obituary, sono molto evidenti da più punti di vista. Tuttavia, la cosa che risalta subito all'orecchio è proprio la maestria con cui esse sono amalgamate, in un sound che poi si evolverà segnando profondamente il metal di metà anni novanta. Diciottenni scapestrati che dopo svariate demo e prove generali erano finalmente riusciti nel nobile intento di dire la loro; nella sua ancora sostanziale "immaturità", in questo "Lost Paradise" c'è davvero tanto, dietro. Dai vocalizzi agghiaccianti e a tratti arcigni di Nick Holmes fino alla complessità strumentale tessuta da un giovane Gregor Mackintosh, che sin dalla sua infanzia chitarristica era in grado di comporre riff fuori dal canonico, risultando in questo senso uno dei chitarristi più particolarmente eclettici e sperimentatori del suo panorama. I pezzi si susseguono, camminano da soli, la cosa che colpisce di più è l'enorme caparbietà da parte dei nostri di non perdere la lucidità, di essere costanti nell'arrangiare tracks che hanno una grossa incisività intrinseca, la quale viene definitivamente fuori quando uniamo ogni tessera del collage, ascoltando il disco tutto d'un fiato. Se proprio volessimo essere "cattivi" e notare un piccolo neo, potremmo giudicare i testi (a differenza della musica) leggermente scontati, ancora forse troppo ancorati ai soliti cliché di determinati panorami, Metal e non: morte, assenza di un Dio, anti-religione... trame che si susseguono in maniera non troppo elaborata, aiutate però da sussulti sonori infernali i quali riescono a farci rabbrividire, e nemmen poco. Se vogliamo dirla tutta la capacità di songwriter (affidate alle mani della coppia offensiva Holmes/Mackintosh) non sono ancora brillanti a causa della ovvia giovane età che in un modo o nell'altro è causa di perdite dal punto di vista della stesura dei testi. Stesura che forse gli altri componenti del trittico death/doom britannico (Anathema e My Dying Bride) erano già in grado di curare meglio, risultando leggermente avanti da questo punto di vista. I Paradise Lost negli anni cresceranno, molto; tant'è che spazzeranno i leggeri dubbi aleggianti su questo debut con dischi fondamentali, imprescindibili, pesanti chiavi per intendere un sottogenere che merita solamente tanto rispetto. Come i primi vagiti di un neonato, anche questi giovanissimi Paradise Lost inconsciamente stavano creando delle geometrie uniche di cui poi si arrampicheranno tante realtà metal desiderose di navigare e di esplorare questi territori tanto oscuri quanto evocativi. In definitiva, un ascolto di questo disco trovo sia fondamentale, non tanto per la qualità in sé comunque alta, anche se un po' derivativa; proprio perché "Lost Paradise" rimane a distanza ventennale dalla pubblicazione una delle basi su cui si è sviluppato un nuovo stile di concepire, suonare e interpretare la musica Heavy Metal.
2) Deadly Inner Sense
3) Paradise Lost
4) Our Saviour
5) Rotting Misery
6) Frozen Illusion
7) Breeding Fear
8) Lost Paradise
9) Internal Torment II