PARADISE LOST

Icon

1993 - Music For Nations

A CURA DI
GIANCARLO PACELLI
29/03/2018
TEMPO DI LETTURA:
10

Introduzione Recensione

In una maniera quasi certa e rassicurante, in una carriera di una qualsiasi band i dischi che la rappresentano in toto sono essenzialmente pochi, un numero esiguo affinché le geometrie di quell'artista entrino nella vita di noi appassionati di musica. Regolarmente ogni gruppo ha il suo must, il suo gioiello prezioso e sacro da mostrare all'infinito, ma sono casi in cui quell'artista ha più assi nella manica; beh, in quella situazione parliamo di casi unici e straordinari, dato che pochi possono permettersi di essere identificati con più masterpieces. "Shades of God" era stato un passo complicato ma allo stesso decisivo per i britannici Paradise Lost, inserito in un contesto molto produttivo per il quartetto di Halifax, rinvigorito dal progressivo successo di "Gothic" che di fatto li aveva posti su di un piedistallo di importanza senza eguali, considerando la loro ancor giovane carriera. Anzi, se l'ultimo platter dei nostri fu molto accerchiato da punti interrogativi, il disco comunque riscosse un notevole seguito di pubblico con un aumento della fan base dei gotici britannici. Il contesto musicale in cui il nostro combo era incanalato era il delicato 1993, in cui il metal riscontrava una disumana difficoltà nel riuscire a tirar fuori dischi di un certo spessore, nonostante il "Black Album" dei californiani Metallica fosse stato importante ma allo stesso tempo deleterio per la musica pesante: ricordiamo che in questo periodo i falchi della Sub Pop di Seattle fecero irruenza nella Billboard e nella classifiche delle più grandi chart del mondo, il fenomeno delle camicie a quadrettoni ormai era al suo massimo, in questo anno decisivo per la musica rock. I Paradise Lost, nella loro attitudine e ottica underground non volevano di certo cambiare il mondo metallico né tantomeno aprire una sorta di competizione con altre tipologie musicali, no. "Icon" rappresentava un nuovo terreno melodico in cui Holmes e company desideravano ardentemente continuare la loro ricerca dell'essere umano, nell'IO contemporaneo perso in condizioni futili e materiali, la perdita dei valori era un punto molto importante. Solitudine e sofferenza rimangono i classici cavalli di battaglia, e in effetti la vena negativa e rassegnata non cedette assolutamente il passo a un mood più positivo: oramai giunti al quarto disco in studio, sappiamo bene come sarà strutturata la tabella di marcia dei nostri. Pezzi meno lunghi e astrusi di "Shades Of God", con melodie più gotiche e meno aggressive catalogheranno "Icon" (1993), che accoglierà una nuova spinta vocale con la quasi eliminazione del caratteristico growling di Nick Holmes, tanto potente quinto influente negli ambienti metal di metà anni '90. Come fu influente anche l'approccio alla chitarra di un oscuro e sensibile mastermind come Gregor Mackintosh, attitudine da tagliagole con i suoi riff tanto melodici quando pesantemente capaci di insinuarsi nelle nostre vene. Attenzione: un diverso appiglio meno death ma piu gothic non diviene certo sinonimo dell'indirizzarsi verso un atteggiamento più morbido, tutt'altro. Il tutto risulterà lo stesso molto corrosivo, forse riuscendo ancora e di più a risultare ugualmente spietato, soprattutto per quel che concerne non propriamente il punto di vista musicale bensì quello testuale, grazie ai chiari riferimenti lirici, che ci appresteremo a scrutare, abbondantemente profondi e diretti. Non a caso i Paradise Lost hanno deciso di nominare questo platter "Icon" (Icona), erano quasi certi di essere giunti ad un livello compositivo invidiabile tanto da autodefinire il proprio lavoro una vera e propria icona della loro proposta: e se pensiamo a come il quartetto partì nella sua avventura musicale, allora intendiamo magistralmente il paletto messo in tasca dai Nostri. Dunque, "Icon" si presenta con ottimi propositi, risultando decisamente interessante, mostrando un che di accattivante, tutto da scoprire. L'ennesimo viaggio da compiersi all'interno di una discografia variegata e sempre particolarissima, mai rimasta ancorata o fossilizzata su determinati stilemi, tutt'altro. Siamo dinnanzi all'ennesima prova importante, all'ennesima situazione in cui i Paradise Lost chiamano prepotentemente in causa il proprio pubblico invitandolo a sottoporsi ad un'altra, emozionante prova: capire ancora una volta particolari risvolti musicali, scelte, sperimentazioni. Non ci rimane altro da fare che addentrarci in questa foresta dominata da musicalità e emotività... buon lettura!

Embers Fire

Un'incisione musicale dalle rimembranze sinfoniche si impone nelle nostre orecchie permettendoci una completa immedesimazione nell'oscurità del paradiso perduto, nel brano d'esordio "Embers Fire" (Fuoco di brace), accompagnato anche da un video proposto dalla "Music For The Nation". Tutto questo per pochi istanti dato che gli strumenti distruggono l'aura mistica creatasi aumentando di una certa intensità: il pellame di Matthew Archer e il basso di Edmonson si pongono fondamentali per le scale precise delle chitarre di Mackintosh e di Aedy, che subito indirizzano il brano verso sentieri lugubri e oscuri. Strade che si fanno leggermente impastate di nera e sana incomprensibilità in cui i protagonisti di questa triste camminata verso l'ignoto potremo essere noi, i quali ci apprestiamo a raggiungere un obbiettivo anche se il sentimento della paura ci divora. Siamo persi nella nebbia e non riusciamo a fronteggiare il dolore, questo perché lo vediamo come un qualcosa di estraneo, con il quale dovremmo invece familiarizzare. Solo conoscendo la sofferenza, solo riducendosi in cenere rinascendo poi come una fenice, potremo allora dire di aver sconfitto la vita nel suo stesso gioco. Per aspera ad astra. Gli strumenti con il passare del minutaggio si mostrano quasi ipnotici come la voce di Holmes che esordia nel brano quasi silenziosamente, la chioma inglese (come è ben messa in mostra nel decadente video ufficiale) da un taglio diverso al pezzo nonostante il comparto tecnico guidato magistralmente dalla lead guitar è maggiormente messo in luce. Soprattutto nei momenti in cui l'emotività di "Embers Fire" cresce con le vocals di Nick, queste ultime di modellano e cambiano forma, diventando urla compresse di una creatura dalla voce profonda, profonda come è la tonalità del calore del fuoco che consuma le carni. L'impronta non più doom o death ma sinuosamente gotica è molto presente, tant'è che la voce del nostro non si pone più con tonalità infernali e urlate ma semplicemente si manifesta alle nostre orecchie impregnata di una melodia tipica del sound gotico. Nei momenti melodici in cui la chitarra rintaglia assoli, il brano permette la creazione di un saliscendi emozionale di grande caratura, e quel "Oh yeah" di Holmes (che anticipa il gioco di corde solistico) viene impresso nelle nostre percezioni. La struttura chorus- strofa- assolo di ripete costantemente nei quasi cinque minuti del brano, ma a differenza di un approccio quasi meccanico questa tattica dei nostri rende ancor più "pesante" il pezzo che sfocia in assoli indimenticabili come quello presente nella metà del terzo minuto, capace di inebriarci la mente per poi ricondurci nella voce di Holmes, nuovamente performante secondo latitudini basse e eteree. IL brano co chiude con tanta epicità e soprattutto emotività che i nostri ci hanno fatto assaggiare nell'opener track del disco.

Remembrance

A differenza dell'oscura malignità che accoglieva i primi strascichi di "Embers Fire", la seconda e massiccia "Remembrance" (Ricordo) è decisa e tagliente sin dai primissimi istanti grazie ad una pavimentazione sonora tesa a tessere un riffing ondulante e penetrante, cui si aggiungono i patterns di Archer, poliedrici e sintetici e i rotondi giri di basso di Edmonson. Tutto scorre impetuosamente, anche quando Holmes impone la sua ugola di ferro nelle linee del sound, rendendolo ancor più oscuro, oscuro come la catarsi che si crea nel suddetto pezzo: sofferenza mista a disillusione, una vita sfiancata e inutile (I'll leave your pointless life undone ; Lascerò la tua inutile vita annullata), che non ha bisogno di nulla se non essere vissuta in una maniera vuota. Un ciclo o un percorso che semplicemente non ha senso di essere né per te né per chi ti circonda, girarsi e correre a più non posso la risulta essere l'unica soluzione per sfuggire alle tenaglie di una sofferenza che nolente o volente si impone nel tuo essere. E proprio qui interviene il ricordo, che ha nel suo essere tale una funzione di alleggerimento rispetto al buco nero che ci attende come esseri umani. In queste linee selvagge e nichiliste, le vocals pulite e vigorose si impongono e viaggiano in ogni nota del brano, anche quando le asce impennano verso lidi più pesanti e vibranti. Cosa che sorprende sempre del paradise perduto è sfornare melodie fresche nonostante il giro armonico di accordi non varia di molto, soprattutto agli inizi, questo se vogliamo definirlo cosi, è "uno degli assi" della manica di Gregor e company. E proprio Mackintosh guida sia il basso di Edmonson che la ritmica di Aedy, che i toni vocali verso importanti selciati melodici. Non a caso la melodia forgiata dai Nostri in "Icon", è più semplice e impattante rispetto ai brani vorticosi e complicati come abbiamo visto in "Shades Of God". Ma una cosa non è cambiata dall'esordio, l'abilità di Gregor di rendersi in un modo o nell'altro assolutamente fondamentale con i suoi ingegneristici assoli, come accade attorno al secondo minuto abbondante, il tutto poi si conclude con frecciatine in stile growl, Holmes vuole in qualche modo impastare questo stile, nonostante l'armonia impone su di lui una cadenza non aggressiva ma squisitamente melodica e pulita.

Forging Sympathy

Il mondo in rovina e una porta che si chiude in faccia, il sentimento timoroso di una fine certa rigonfia le paure di noi, poveri sfortunati che viviamo sotto le stelle di un mondo sporco, impregnato di ipocrisia. Il dolce inferno ("my sweet hell"/il mio dolce inferno) è l'unica soluzione per farla finita, in una maniera quasi liberatoria. Sentimenti negativi, a volte molto diretti ed espliciti, si inalberano nelle menti dei songwriters, dotati di una visione apocalittica che esplora diverse vicende del contorto essere umano. "Forging Sympathy" (Forgiare la simpatia, ove "simpatia" non deve forse essere intesa nel significato comune, ovvero quello di "far ridere" o sorridere; più che altro, andrebbe considerato il senso greco del termine, "condividere emozioni") si apre secondo lo stile di amalgama sonoro di qualche brano di "Shades Of God", ritmi cadenzati, batteria compatta e chitarra subito geometrica, cui si aggiunge una stesura di basso ben messa in evidenza. Prima dell'aggiunta delle vocals, il pezzo rallenta il passo di qualche millimetro per poi guadagnare di ampiezza con l'entrata di Holmes, col suo solito fervore british ma senza la cattiveria che il mastermind proponeva nei capitoli precedenti. Con un ben tono di fondo, il pezzo si muove tra sprazzi doom con forti incisioni gotiche, con Mackintosh solito mattatore dato che condiziona anche la tonalità della voce. Caratteristica è l'impronta di Nick che a coda di ogni riff alza di un certo livello la sua tonalità. Alla conclusione del terzo minuto, abbandonato il fondamentale e usuale assolo magistrale della lead guitar, la batteria rallenta, e con lei progressivamente ogni strumento, disegnando un'atmosfera degna del miglior album doom. Tutto cio è dimostrato dal cantato che non tende pià a sforare i decibel in altezza, ma si pone abbastanza piatto e basso, una sorta di parlato a faccia e faccia, dove Nick ci spiega in una maniera rotonda di mandare "all' inferno" chi ci logora all'interno (You'll wait for 'your' hell/ I wish you hell; Aspetterete il vostro inferno/ Ti auguro l'inferno). Il senso di questo brano richiama ad una schiettezza corrosiva di fondo attraverso una semplicità nei contenuti proposti, semplicità ovviamente apparente dato che il grado di difficoltà che i nostri ci vogliono proporre è sempre non banale. Holmes torna a scatenarsi dopo questa parentesi particolare, accelerando e rendendo "Forging Sympathy" incisiva, soprattutto nelle parti dove la chitarra viene sovrastata dalla voce, magistrale e acuta che si dimostra uno dei punti forte di questa bella traccia, senza alcun dubbio molto sottovalutata.

Joy The Empyness

Magnetico, etereo, oscuro e malinconico, un laccio di emotività che ci circonda il bacino: pochi aggettivi ma necessari per mettere subito in chiaro le intenzioni sonoro nei primi passi del nuovo brano, il quarto della nostra rigogliosa Icona, "Joy The Empyness" (Gioia nel vuoto). Ciò che per le persone normali è un mistero oscuro, il vuoto per alcuni pone questo senso di incertezza come chiave di volta per trovare le tanto agognate risposte, sul perché della vita o sui motivi di questa sofferenza interiore che ci scalfisce come il più fragile dei cristalli. E come un tizio sconosciuto osserva il vuoto, cosi l'introduzione di questo pezzo si impone nelle nostre orecchie. Fluttuante, lento e dominante: bastano pochi accordi di Gregor subito per mettere su carta le intenzioni. Holmes è sognante, il suo profondo growl ci appare come un ricordo lontano, in questa nuova veste riesce ad essere aderente in ogni sua piccola sfumatura. Quell' "Internally bleeding" (Sanguinamento interiore) pronunciato dal nostro ci mette subito sull'attenti, ci pare chiaro che le sofferenze che ci logorano all'interno sono mille volte più doloranti di una qualunque ferita superficiale, la mente o il nostro spirito se viene scalfito rimane cosi per sempre.  L'impostazione ritmica doom, lascia lo spazio per piccoli assoli che riempiono gli spazi vuoti, accompagnati anche dalla batteria e dai fraseggi di base della rithym di Aarin Aedy, in particolare le pelli con colpi rapidi e sequenziali pone le basi per una melodia unica che sfocia in un benessere dato che il tono impostato dai britannici è una completa immersione in contesti si bui, ma a che abbastanza caldi. Le note della chitarra sono rapide e accolgono ora ad un cantato di Nick, che mano mano si fa più espositivo e colloquiale, prettamente adatto a rappresentare la decadenza delle dolci note gettate con una emotiva dolcezza dalla chitarra di Mackintosh. Non ci sono tanti cambiamenti di ritmi, gli inglesi optano nel pavimentarci la medesima intensa melodia che non fa altro che istallarci nei nostri circuiti cognitivi.

Dying Freedom

Con questo quarto album abbiamo capito che i Paradise Lost non ne vogliono più sapere di arrangiamenti orchestrali o di sinfonie pompose, però scrutando i primi minuti di "Dying Freedom" (Libertà morente) notiamo uno sfarzoso intro che ricorda qualche brano scintillante di Gothic: ecco qui, il paradiso perduto nonostante volesse in un certo senso progredire musicalmente, non riesce a dire di no a scelte che li avevano resi quel che erano diventati, ossia una delle band metal più influenti degli anni 90. "Dying Freedom" si impone soavemente fino a che duri pattern di batteria di Archer distruggono il clima sinfonico creatosi, e dopo alcuni secondi Nick e la sua pulitissima e armonica attitudine ci disegna lo stile classico che qui in Icon trova il meglio. In concomitanza della batteria anche Mackintosh e la sua arma da fuoco, corrono velocissime soprattutto nelle sezioni ritmiche colorata da una "volenza moderata" delle vocals di Holmes. Intrugli vocali che tagliano e provocano ferite all'interno di noi, una visione catastrofica e buia come il nichilismo che qui ci divora totalmente: "Happiness is wasted, wasted blood and tears" (La felicità è sprecata, il sangue che scorre e le lacrime... si sprecano anch'essi), una frase che da sola racchiude un bel po' di concetti senza dubbio di un certo rilievo. La felicità non esiste, o se esiste è solo una trasparente emozione, che una volta andata via lascia lo spazio solo a gelide lacrime notturne. La notte è l'unico momento in cui ascoltare la musica del paradiso perduto, solo quel momento cronologico la musica assume sembianze diverse, tagliandoti in due. Se vogliamo, un'interpretazione quasi foscoliana del tutto: la notte simile alla morte, un momento in grado di poterci far assaporare qualche ora di riposo eterno, prima di svegliarci riprendendo a soffrire. La melodia è sempre onnipresente, in ogni stesura nel riffing c'è l'approccio classico dei nostri che ormai è divenuto marchio di fabbrica. Come è diventato classico l'assolo spezza ritmo di Gregor, che intona forse un piccolo ma significativo cenno di positività in questa cascata perenne di negatività, pilastro lirico e fondamentale. Dopo la ripresa del refrain la nostra voce si impone ancora più aggressiva, dimostrando non solo le capacità eloquenti del nostro, ma anche una forza dirompente che non cessa mai nell'arco dei minuti del brano. "Dying Freedom" pone su di noi una macchia indelebile, una melodia che difficilmente ci abbandonerà lungo il nostro cammino.

Widow

Accompagnata anche da un video opaco e melanconico, la successiva "Widow" (Vedova) si apre mostrando un'ampia ventata melodica, solida, formulata dalla sezione chitarra-basso-battieria. L'introduzione dura circa venti secondi, e prima che Holmes entri in gioco, la chitarra principale guidata maestosamente da Gregor Mackintosh ruggisce ancor di più. Sotto una pioggia incessante, come si può ben scorgere nel video ufficiale, Holmes impone le sue vocals sul resto della band, risultando come sempre colui che guida il sound del paradiso perduto. Combo che a differenza della gonfia melodia che propone in questa traccia, ci spedisce sempre in quel mondo in cui scovare una verde speranza è una missione che non potrà mai essere compiuta a pieno. La finestra del nostro animo si affaccia in un mondo che ha le sembianze di una chimera demolitrice, cui unico obiettivo è condurci alla morte, e proprio questa si presente come l'unica occasione papabile per noi. Dopo l'esordio del vocalist il brano prende di incisività diventando prorompente e disegnato di grafie musicali sempre uniche e riconoscibili: ecco dove sta il segreto dei nostri, comporre melodie personali e mai banali capace di entrarti dentro senza se e senza ma. La pioggia continua, incessante e pesante, capace di infiltrarti e di trasformarti, Holmes e tutto il resto del combo britannico continuano imperterriti, addolciti solo da percussioni melodiche che sono riscontrabili in alcuni punti specifici della struttura del brano. Verso la quasi metà del secondo minuto, dopo l'ennesimo strascico vocale di Nick, intervengono solo la distorsione della chitarra principale che assieme au colpi precisi di cassa di Archer, pone il cuscinetto morbido per l'immancabile gioco solistico di Gregor, mattatore decisivo nei minuti finali del brano, che termini con fortissime plettrate dello stesso Gregor. Widow, nonostante duri molto poco, si mostra un pezzo stimolante e subito ben orecchiabile, in fondo l'obiettivo di ogni musicista è creare un qualcosa di unico, e bene i nostri britannici ci sono riusciti alla grande. Chissà se la nostra anima si affaccerà da quella finestra in un mondo sognante e rigoroso? Nessuno lo saprà mai.

Colossal Rains

La pioggia non è solo protagonista del videclip della traccia precedente, ma è parte integrante della seguente track, "Colossal Rains" (Piogge Colossali). Non una pioggia ma molte di più, quasi a rappresentare che nella nostra vita le cose che ci attanagliano sono sempre più di una. La pioggia colossale ha la valenza di simboleggiare quell'immane spirito nero che in una maniera molto silenziosa ci insegue, con passi lenti e tenebrosi. Lento invece è un aggettivo che non si può attribuire all'introduzione del brano suddetto, che si mostra incalzante e grintosa, una corsa sotto un clima che si pone come se fosse infestato da chissà quale divinità malefica. La sezione ritmica rimane altamente goticizzata ma la batteria di Archer tocca livelli di fraseggi abbastanza rapidi, tutto l'apparato strumentale è comunque ben impostato con un assetto quasi battagliero. Nonostante il forte nichilismo comunque il nostro paradiso perduto vuole porre una speranza che viene ricalcata da scelte stilistiche che a volte vanno idealmente contro il liricismo prodotto, e questa "Colossal Rains" ne è la dimostrazione. Agli inizi udiamo una voce distorta non tanto in lontananza, ma comunque ci appare abbastanza vicina nella sua forma quasi atipica. Il temperamento riman lo stesso nell'arco dello scarso minuti iniziale, ma verso la fine di quest'ultimo, scorgiamo una diversa impostazione sonora, evidenziata da passaggi più cadenza e ritmati. Mackintosh disegna importanti riff sulla pavimentazione ritmica costruita molto bene dall'ascia di Aaron Aedy, e non dovremo attendere molto per accorgersi dell'entrata in azione dello spirito decadente della voce del nostro Nick, il quale si infila in ogni nota emotiva sparata dalla lead. "You'll never walk again" (Tu non camminerai mai più, non ancora) detta geometricamente dal nostro per ben quattro volte, è pronunciata appositamente in un modo assai profondo, quasi come se volessero avvisarci del fatto, che una volta colpito da questa incessante pioggia nera, non sarai più lo stesso, la tua anima ne risentirà per il resto del tuo cammino. Secondo i canoni classici dei nostri inglesi, terminata questa fase molto ma molto emotiva, il riffing, prima duro poi morbido della lead accompagnata dalla ritmica, torna a cronometrare i tempi di Holmes, che ci scatarra addosso note decisive con la ripresa del refrain, rendendo cosi ancor piu nebbiosa la ritmica generale che agli sgoccioli si fa  meravigliosamente quadrata.

Weeping Words

Un invito a non girarsi a scrutare un passato buio e repellente, triste, forse dettato da violenze non tanto superficiali ma interiori da parte di chi ti ha accudito. Dimenticare cio che è stato non è facile, ma l'unica cosa corretta è guardare ciò che sarà. Un giorno tu persona che hai sofferto riceverai in cambio tutto cio che ti è stato sottratto. Le parole che ora tu pronunci ora sono gonfie di lacrime ma un giorno di sole quelle lacrime muteranno in riscatto: l'importante è non guardare in dietro per non riassaporare quelle lacrime. "Weeping Words" (Parole piangenti) si impone all'ascoltatore in una maniera che si può semplicisticamente definire "forse", un consiglio, anzi un invito a vivere con testa alta; sembra strano che in questo nuovo brano non ci si imbatta nel solito nero e cupo buio semantico, a cui gli inglesi sono devoti e ci hanno rigorosamente abituato in questi anni di carriera, ma è molto interessante scrutare un'altra faccia della medaglia del combo britannico. State pur tranquilli che la musica proposta non cederà al passo a melodie strane per i nostri,  anzi il  buio sin dagli inizi di "Weeping Words" è ben presente. Chitarre taglienti affondano, assieme ai pestoni di batteria, furbi e completi che snocciolano il mood targato Paradise Lost. Un senso di ordinaria freddezza ci pervade, anche dopo l'entrata di Nick, che da buon vocalist, impone il suo tono british all'interno dell'impasto nei primi movimentati minuti. Minuti segnati da toni ben  puliti ad altri ben profondi, come accade alla  soglia del primo minuto. La chitarra principale è abbindolante, riesce ad immedesimarsi nelle vocals caratteristiche di Holmes, rigorose e sensibili. Weeping Words procede spedita, con ritmi che giacciono a cascata, monotoni in alcuni punti ma caratterisstici in altri, soprattutto quando la pavimentazione creta dal pellame subisce drastici mutamente nella sua forma. E sulla soglia della fine proprio questo accade, i fraseggi di batteria diventano rilevanti e perfettamente intrecciati nella distorsione dell'arma impattante di Gregor, che ci da la mano nei successivi minuti fino a che rispunta la profondità vocale di Holmes. 

Poison

Marchiata a fuoco da un'inebriante introduzione, "Poison" (Veleno) si impone meravigliosamente alle nostre orecchie. Dignitosamente gotica negli intrecci iniziali, con un tono delle due asce veramente messo in rilievo dalla puntigliosa produzione: Holmes si aggancia a meraviglia e non ha nessuna difficoltà nel porre il suo timbro riconoscibilissimo ormai, sul terreno di questo nuovo attraente brano. Una boccetta di veleno, forse mascherata da una buona bevanda, rappresenta simbolicamente un invito ad assaporare l'odio. Odio che in un mondo come quello moderno, è tentacolare e attivo in ogni mansione quotidiana. Quello "Spit on the laws that I made for you" (Sputa sulle leggi che ho fatto per te) ci rimbomba nelle orecchie e ci avvisa di risparmiare un sentimento negativo, ch potrebbe risultare come un pretesto per danneggiare qualcuno, a discapito di vivere la vita in una maniera gioiosa, dato che si presenta breve e in alcuni casi, malvagia. C'è qualcosa nella morte che in un certo qual modo ci spinge a rivederci in essa? Il tragico trapasso è forse uno dei nostri più reconditi e nascosti desideri? Forse, alla fin fine, il veleno non è solo una metafora ma anche l'invito definitivo: abbeverarsi ad una fonte maledetta per poter finalmente lasciar l'odio scorrere nelle nostre vene, morendo passo dopo passo, distruggendo quanto di positivo esista in noi. L'ostilità dei nostri di spiattellarci un panorama apocalittico, nonostante qualche nota positiva di fondo, non passerà mai. Eloquentemente il brano precede, con stacci strumentali di pregievole fattura, dato che non solo creano una vasta gamma melodica, ma sono adempiente per i vocalizzi di Nick, che si rigenerano in ogni momento "vuoto". Mackintosh cala il  sipario giocando abilmente con il suo strumento, rendendo ancor più spiccatamente deliziosa questa song, breve ma emozionante.

True Belief

Un reticolato di pensieri, emozioni e parole inverdiscono la nostra mente ogni istante della nostra esistenza. La stessa percezione sensoriale è delimitata dal nostro umore che può essere tanto positivo tanto distruttivo. Bene i nostri britannici  analizzano  una situazione in cui a farla da padrone sono pensieri negativi e rassegnati, i quali in una maniera quasi impercettibile ci consumano come gli avvoltoi più rapaci. "True Belief" (Vera credenza) è a conti fatti uno dei pezzi più riusciti del nostro platter, un pezzo che cela dietro di se intriganti caratteristiche tanto da renderlo particolare. Iniziamo, la nave gotica subito si destreggia con traiettorie degne di nota e il capitano Gregor Mackintosh inizia a introdurre il tono magniloquente della  sua ascia. Introduzione doom, nella concezione classica del genere, atmosfericamente il brano prende il volo, ogni secondo è necessario per costruire mattone su mattone il pezzo. Ogni groove di batteria serve per scrivere geometricamente il territorio su cui la coppia Aedy/Mackintosh deve organizzarsi a suon di note. Bastano trenta secondi per impennare le plettrate della lead e permettere l'ingresso cupo e sinistro di Holmes, che in alcuni punti si concede a toccare vette discretamente alte, fino a perforare le nostre menti nel momento della pronuncia di "All I want is the same, a true belief " (Tutto quello che voglio è lo stesso, una vera credenza), malinconica ma leggera, si insinua perfettamente nelle nostre corde, disegna molto bene la condizione di colui  che vive nel panico e per evitare problematiche passa la sua vita senza emozioni particolari, pennellando ogni sua attività in una striscia bianca e anonima. True Belief ovviamente cerca di seguire il gusto sintattico dei nostri songwriters e si impreziosisce ogni secondo di piu, non perdendo smalto nel lungo (per i canoni di Icon) minutaggio in cui è sottoposta. Holmes è magistrale, mai abbiamo assistito ad una prova vocale,e non solo , qui il  performer ci inebria con cambi ti tempo nella modularità della sua preziosa voce, capace ci sterzare poi fermarsi e pi di nuovo partire all'impazzata concedendo emozioni. Dopo la ripresa del refrain ( chiamiamolo ritornello ma in realtà è una parte del brano non differente dalle altre, in effetti i nostri qui si sono limitati nell'utilizzo di ritornelli), ben cadenzato pone nuovi "ostacoli" alla voce che però si disimpegna alla  grande. Durante gli sgoccioli finali, l'Holmes  cupo che pronuncia "all I want is the same, true belief" ci divora di nuovo, ponendo un breve interludio strumentale che che chiude questo brano-capolavoro.

Shallow Seasons

Piccoli  rintagli atmosferici e solenni si innestano nella penultima traccia del nostro lavoro, "Shallow Seasons" (Stagioni suerficiali). Non ci vuole certo un genio per capire questo brano tocca il mondo moderno, superficiale ed egoista, abbagliato dalla luce del successo facile. Holmes quasi come un predicatore, si pone subito in una maniera insolita, dato che siamo molto abituati al suo classico attacco dirompente e quadrato. Nero e malinconico, nei primi secondi scanditi da una chitarra con tinture rockeggianti,  la voce è di una tonalità rassegnata quasi pronta a scomparire. Ma quando meno ce lo aspettiamo, col proseguire della traccia, Nick torna su sui canonici binari, sfoderando il suo vocalismo un po' grezzo e un meodico. Tutto la parte strumentale abbandona il doom degli inizi, per abbracciare una aggressività  precisa, se vogliamo una tonalità adatta alle sentenze che il paradiso perduto vuole propinarci: l'uomo cadrà per le troppe malefatte, pagherà per l'essere qualunquista che è. Ci colpisce soprattutto "You're lost forever unable to see yourself" ( Sei perso per sempre, incapace di vedere te stesso), in cui con pochi e semplice parole ci sovviene in mente l'arida  sensazioni del nostro tempo, grigio e inconcludente. Nelle note distorte questo fragore negativo, questa voglia di sputare in faccia la realtà senza mezzi termini è molto viva. Verso metà del primo minuto, un breve interludio strumentale reintroduce do nuovo Nick, piu ispirato e meno violento, ma questo dura per poco dato che ritorna ad essere essenziale. L'intreccio tra chitarre e basso  è ben impostato, con la batteria che su tutte padroneggia lo scacchiere ritmico. Ad un minuto dal termine il gioco si fa più leggero e trascinante, con il solito Gregor che da grande chitarrista quale è segna il punto esclamativo.

Christendom

Dai temi religiosi, i nostri sono sempre stati molto lontani, non è proprio nella  vena del paradiso perduto narrare o avere a che fare con l'apparato religioso. Ma alla  nostra compagine piace sorprendere e ci serve nell'ultimo brano di questo lavoro, un pezzo che può essere definito pessimista e negativo, ma arricchito da alcuni spunti e riferimenti religiosi,  in questo caso cristiani. "Christendom", termine inglese per definire una comunità cristiana, viene subito snocciolato da una introduzione che ricorda un suono compresso di un organo da chiesa.  L'introduzione riesce a catturare l'osservatore in una maniera oserei dire magnetica, e non facciamo in tempo per assaporare la geometria creatasi che tutto viene stravolto e arricchito da una bellissima e profonda voce femminile (ricordiamo una delle caratteristiche peculiari per il successo di "Gothic"). Il drumming è accennato e minimale, dato che sotto ogni vocalizzo si dimostra fondamentale la tastiera occasionale, utilizzata solo in questa traccia. Quando le vocals  incominciano ad incidere sotto si pone un Holmes più nero e furioso, forse si presta come il portavoce, il narratore simbolico che ci mette in regola, dicendo che il miracolo cristiano è del tutto illusorio, la morte non conosce nessuna barriera. Uno sguardo acuto, in regola ai canoni lirici che conosciamo. Il brano sembrerebbe ricalcare gli intenti di John Milton (uno degli ispiratori della band), il quale era noto per i suoi scritti, ampiamente contrastanti con la visione della chiesa cattolica. Tornando al brano, l'aura che si installa con la sovrapposizione delle due voci è mistica, particolare se pensiamo agli altri brani di Icon. Nonostante ciò Gregor con la sua chitarra riesce a subordinare le tastiere. Holmes, finalmente verso la metà del brano. si mostra il sacro singer che è, e dopo una ripresa della struttura iniziale (voce femminile sottoposta al tono magniloquente oscuro di Holmes), Mackintosh torna a dirigere il  tutto verso una decisa conclusione, dinamica e esattamente opposta a come è cominciata. "Christendom" è stata posta di proposito alla fine, è senza alcun dubbio la traccia più particolare di questo grande disco, ricca di pathos e armonia.

Deus Misereatur

Per concludere al meglio questo viaggio la band ci regala un'altra emozionante perla, che nonostante sia rigorosamente strumentale ci dona molteplici sensazioni ugualmente. "Deus Misereatur" si pone subito misteriosa, è governata da ampi tocchi ti tamburo che si alternano a semplici  colpi dei piatti. L'intensità, nonostante lo scarso minutaggio, aumenta decisamente: se prima i tocchi di tamburo e charleston erano solitari,  ora una chitarra minimale e sapiente si aggancia silenziosamente. L'atmosfera è lugubre, ma diversi archi e una bellissima tastiera occasionale, la rendono meno oscura e più scintillante. Il minutaggio, seppur scarso, è regolato magistralmente da tutto il comparto strumentale, che procede spedito indirizzato sia  dalle tastiere che da una pavimentazione ritmica comandata dall'ascia di Gregor. Due minuti importanti e non assolutamente banali, possono essere considerati una bellissima ciliegina sulla  torta del nostro Icon, che si conclude egregiamente.

Conclusioni

Un'icona rappresenta un must da perseguire, un esempio per chiunque si voglia di approcciare ad una qualsivoglia d'arte. Le icone possono essere materiali o viventi, mostrano ciò che si vuole raggiungere, dal sorriso soddisfatto si una celebrità di Hollywood fino ad una tela religiosa. L'icona fotografa una immagine che rappresenta fedelmente la realtà, una certezza, un archetipo definitivo in grado di creare ampi proseliti: seguire l'esempio posto dinnanzi ai nostri occhi è uno dei primi passi per stimolare una creatività che certamente prenderà il volo verso altri lidi, pur comunque rimanendo fedele a quella situazione di partenza, in grado di ispirare, folgorandoci sulla via di Damasco e riuscendo quindi a smuovere un qualcosa, dentro di noi. Questa, è la realtà dei fatti. Realtà che i Paradise Lost erano consapevoli di vivere e modificare, dato che dagli estremi inizi di "Lost Paradise", passando tra le geometrie sinfoniche di "Gothic" e l'ampollosità di "Shades Of God", siamo giunti ad una svolta musicale e non. "Icon" è un modo perfetto per riuscire a centrare la nuova spinta melodica che colpi' il combo britannico nel 1993, una nuova eccelsa capacità di differenziarsi da altre compagini, Holmes e compagnia partirono proprio da qui a forgiare la loro carriera che in due anni passo da tanti fronti. Ai Paradise Lost piace sondare il terreno, scrutare nuove possibilità di concepire la materia musicale evitando una stagnazione ritmica, e questa peculiarità in fondo è ben presente solo nelle migliori band, crescere e a motivarsi non è certamente da tutti. Inoltre un eventuale appiattimento nella proposta, soprattutto dopo un già non facilissimo Shades Of God, significava fare un deciso e fermo passo indietro: per fortuna non è stato cosi, al quarto disco gli inglesi hanno gettato negli annali della musica pesante i loro semi, che frutteranno nei giorni, mesi e anni futuri. Melodie calde, ritmate e gloriosamente accattivanti sono il punto d'eccellenza di "Icon", e accanto a ciò non si può non dimenticare il nuovo approccio vocale del mastermind Nick Holmes, che in un anno dovette dire addio ai suoi grugniti per dare il benvenuto ad una nuova attitudine. Il segreto sta proprio qui, sorprendere sempre senza mai rinnegare le proprie basi, dato che nel platter che abbiamo appena finito di raschiare a fondo, sono sempre ben vivi quei stilemi, quelle caratteristiche metalliche (anche estreme) che sono un tutt'uno nel quartetto sin dai remoti tempi di Lost Paradise, quando il  paradiso perduto timidamente si affacciò ad una nuova e eccitante realtà. "Icon" è il lavoro definitivo, uno scrigno di bellezza passionale e sentimentale, dove temi rumorosamente agghiaccianti si sposano con stesure magniloquenti ed eteree, che di certo non hanno bisogno di pompate digressioni sinfoniche per raggiungere un livello di epicità che i Paradise Lost, fino a questo momento storico, forse non avevano mai raggiunto prima. Ecco, adoperare il termine epicità è un modo perfetto per definire questo lavoro; parliamo naturalmente di una epicità intima, sentimentale e perché no, anche malvagia e nichilista. Dopo tutto, la perdita di ogni speranza è un sentimento tanto diffuso quanto tenuto "nascosto", quasi segregato. In pochi hanno il coraggio di svelarne gli arcani aspetti, forse solo affrontando faccia a faccia le nostre paure riusciamo nell'intento di sconfiggerle, una volta per tutte. Questo piatto con pietanze oscure è servito, e un assaggio di questa prelibatezza è altamente consigliato.

1) Embers Fire
2) Remembrance
3) Forging Sympathy
4) Joy The Empyness
5) Dying Freedom
6) Widow
7) Colossal Rains
8) Weeping Words
9) Poison
10) True Belief
11) Shallow Seasons
12) Christendom
13) Deus Misereatur
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