PARADISE LOST

Host

1999 - EMI

A CURA DI
GIANCARLO PACELLI
28/07/2018
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Introduzione recensione

"Alea Iacta Esta", affermava con orgoglioso vigore Caio Giulio Cesare nell'oltrepassare il fiume Rubicone che segnava il confine con la tanto odiata Gallia Cisalpina. Un'azione irrevocabile e necessaria, "il dado è tratto", e non si può tornare più indietro nonostante nel cuore conservi il tuo passato. Nessuna azione ti ricongiungerà con i canoni del tuo trascorso, visto come un fantasma che trova spazio solo nelle mensole dei ricordi. Abbandonati i capelli lunghi e lisci e con loro le borchie da metalheads, i britannici istrioni Paradise Lost si apprestavano a vivere una delle fasi più terremotanti ma al contempo ingegnose della loro lunga carriera. Di acqua ne è passata sotto i ponti da quando quei quattro creativi ragazzi, forse condizionati dalla meraviglia oscura e dalla natura decadente e gotica della Gran Bretagna, si apprestavano a comporre una evoluzione quasi unica e irripetibile, diventano dei monumenti viventi del doom/death metal. Ecco sia il death che il doom, in questa fase di carriera sono elementi stilistici che non avranno più a che fare con il combo di Halifax (Regno Unito) e risulta inutile ormai guardare al passato, seppur recente. Ciò che è stato fatto rimane li e sembra a dir poco inutile continuare a proporre paragoni dato che trattiamo di una compagine che ha stravolto totalmente il suo modo di interpretare la musica. Nick Holmes e Gregor Mackintosh infatti, con molta disinvoltura e estro stilistico, riprenderanno pressapoco ciò che aveva proposto nell'ottimo One Second (Un Secondo) nella sua naturale conseguenza, Host (Ospite). Nome breve e conciso, che sembra provenire da chissà quale meandro degli anni ottanta, di totale ispirazione dark e ...informatica. Esatto "informatico" è un termine perfetto che sembra rispecchiare il nuovo corso musicale dei nostri che volevano rendere ancor più onnipresente la breccia dark e elettro/gothic, ricca di eleganti tastiere e di chitarre che si apprestano a dare il minimo del loro potenziale rumoroso. Rispetto a One Second, che seppure nei suoi limiti, faceva intravedere pillole di heavy metal con chitarre e batteria in alcuni brani veramente impegnate, in "Host" la parola metal scompare del tutto e con lei gli assoli. L'attitudine è puramente cambiata secondo altri selciati sonori, e questo è un dato di fatto. Ma prima di parlare di questa nuova ed ennesima release dei complessi Paradise Lost, è meglio accennare ad alcuni fatti che colpirono la parte amministrativa e manageriale della band. Fondamentale nei riguardi del sound fu il cambiamento di label, si passò difatti dalla celebre label Music For The Nations (Opeth, Candlemass, Cradle Of Filth, Manowar tra gli altri), nota etichetta promotrice di realtà heavy metal nel loro termine più sacro, alla EMI (Electronic Music and Industries) , una delle major più importanti degli anni 80, portavoce di band popolari tra i più disparati generi commerciali. E questo dato influi' e non poco sul sound della band. Il cambio di rotta amministrativo pesò tantissimo sul nostro combo, che si apprestò a trasformarsi carne da macello di MTV diventando una band rock a tutti gli effetti e abbracciando un mainstream radiofonico e forsennato forse mai visto prima. Ma non bisogna guardare solo l'esteriorità perchè Host, nella sua "semplicità" e nella sua raffinatezza, cela dietro di se le tracce di quella band che ha scritto capitoli importanti nel genere. Raschiando a fondo si potrà tentare di trovare quel gusto compositivo, ovviamente eccellente, anche se in toto ne risulterà un lavoro complesso nella sua fugacità. Un passo falso o un disco troppo sperimentale tanto da annebbiare la mente di Holmes & Company? Bene questo ci porremo come quesito da rispondere.

So Much Is Lost

Ritmi sincopati e una batteria leggera e ovattata inaugurano i primi millisecondi di questo "Host". In effetti non potevamo aspettarci inizio differente avendo già toccato con mano cosa sono diventati i Paradise Lost di One Second. L'easy listening è percepibile come una delle più chiare caratteristiche in questa proposta e nulla sembra smentirci ciò, dal punto di vista musicale è una delle sensazioni che più fuoriescono da ogni frammento. So Much Is Lost (Tanto è perso) dà il via al lotto di brani con una trascendentale forza elettronica trascinata da una batteria e un timido riffing estremamente ritoccato dall'effettistica del caso. I "Depeche Lost" non perdono tempo e mostrano la loro pasta digitale alle nostre orecchie proponendo atmosfere fredde e sintetizzate che ben si collegano con il range vocale cupo e sinistro di Nick Holmes, che impasta vocalizzi snelli ed essenziali, che riescono a fare centro con molta forza. La batteria minimale è il motore cardine dato che riesce a colorare il ritmo dell'impianto sonoro e farci addentrare meglio nell'universo del paradiso perduto. Un universo che come già sappiamo, ricalca nichilismo e assenza di un moralismo positivo. Gli sguardi perdono il loro senso e ogni cosa che circonda ha smarrito della sua naturale consistenza, e il viavai delle harsh elettrizzanti vocali, a volte cupe altre estremamente liberatorie, di Holmes sono intente a rappresentare proprio ciò. Il pacchetto vocale misto alle torrenziali e ritmate tastiere ci illudono in una prospettiva positiva, ma è soltanto pura utopia: non si può tornare indietro e riassaporare ciò che è stato "bello",è stato perso ormai e fa parte solo del cassetto di quei ricordi intoccabili. Cosa è la vita se non un guardare indietro e sapere che una volta si era felici? E da questa visione grigia del passato nasce quella condizione che ci porta a viaggiare e a cercare di pensare a ciò che ci circonda con una differente obiettività. Abbiamo accennato ad una mutazione del nostro vocalist, ed è proprio cosi: controcanti e cori riescono a farci sembrare la proposta vocale sempre differente e fresca e certamente in Host l'aspetto che più brillerà è proprio la peculiarità vocale di Holmes che ha raggiunto il suo picco in clean. Vocals pulite che nella loro timida alternanza sembrano lamentarsi di ciò che è andato e purtroppo non tornerà mai più. Le tastiere già prese sotto esame di Mackintosh (tastierista collaudato della carovana), soprattutto lungo il chorus, oscurano l'aria che già di per se è irrespirabile e accennano sempre di più all'essenza manieristica di questa traccia che intensamente scende di livello nel corpo finale, prima di riprendere brio con un Holmes che cerca di proporre il meglio delle sue ampie qualità. Una traccia sicuramente non memorabile ma è effettivamente la fotografia della band britannica agli inizi di questo platter.

Nothing Sacred

Quella strana sensazione di aver raggiunto un proprio equilibrio spirituale che poi senza fronzoli scivola via, in silenzio come i mesi e gli anni che passano provocando soltanto un dolore lancinante. Abbiamo raggiunto una completezza nello stato emotivo ma questa viene surclassata dal nostro intelletto, il duello archetipico cervello-cuore, una eterna lotta di equilibri. La nostra mente è costantemente troppo intenta a pensare e a costruire "progetti" autodistruttivi indirizzati a scandagliarci la vita nella sua essenza. Quell'assenza ci logora internamente,senza pietà traslandoci in un emisfero intellettuale dominato da malsani pensieri. Assaporato il primo non esaltante brano di "Host", i Praradise Lost hanno subito le idee chiare e la sinistra aria digitale che ci inonda nei primissimi secondi di Nothing Sacred (Niente di sacro) ci fa capire proprio ciò. Archi e strumenti alternativi riescono ad abbindolarci in un'atmosfera quasi impenetrabile e per questo allucinatoria. È il sentimento del non riuscire a permanere nella serenità che una volta avevamo in pugno. I Paradise Lost nella loro attitudine minimale e rock-elettronica ci colpiscono in petto appieno, con molta forza. I campionamenti iniziano a prendere forma riuscendo a trovare spazio in quel mare a volte confusionario che aveva negli archi e viole che rintoccano e raffinano il sound di se per se abbastanza gelido e digitale. Nick Holmes, come nel brano precedente, dona i suoi flussi vocali pienamente puliti e indirizzati a valorizzare sia il comparto strumentale (seppur abbastanza semplice) che i cori aggiuntivi ospiti nella traccia. Cori e controcanti femminli che pongono la loro effettistica soprattutto nel chorus, ammaliante ma al contempo rapidamente esplicato dal nostro: "But it seems like it's going wrong again/And it feels like it's going wrong again" (Ma sembra che stia di nuovo andando male. E sembra che stia di nuovo andando male). Ecco il contrassegno, il simbolo che la band vuole renderci e spiegarci appieno. La paura di sbagliare, insita nel nostro inconscio freudiano, fa parte del corredo e del tessuto psicologico dell'essere umano. Solo un processo lungo e mirato può aiutarci nel perdere questa paura, troppo presente nella nostra vita. Una cosa non è cambiata nel combo britannico, il fatto di essere da un punto di vista irico, assai espliciti e dannati. La matrice dark e freddamente elettronica, di ispirazione Massive Attack e Depeche Mode, alimenta questa sensazione che viaggia nei circuiti di noi genuini ascoltatori. Le pause in questa Nothing Sacred sono molto importanti, perche cercano di far emerge qualche spunto solita che comunque rimane assai soffocato dalla onnipresenza di sampler e tastiere filiformi che geometricamente disegnano un sound diretto, orecchiabile ma al contempo molto raffinato.

In All Honesty

L'onestà, quel valore raro e schietto, limitato dal nostro mondo stereotipato di ideali malsani che lo rendono come un qualcosa di irraggiungibile. Non è per tutti, è per chi respira la vita in una maniera differente e in questo calderone poniamo idealmente i nostri songwriter, che come sempre riescono ad essere fulminanti nelle loro composizioni mirate ad obiettivi. A chi è indirizzata questa In All Honestly (In tutta onesta')? Sembra quasi plausibile che la song ha il mirino puntato su chi soffre in silenzio, si chi ha la saggezza dalla propria parte, ma questa non può mettere da parte il tuo dolore. Si soffre in silenzio, senza fuochi d'artificio fatti di "voglia di apparire". Nemmeno la religione, classico strumento alla portata di noi esseri umani per disegnare un qualcosa di migliore, serve a qualcosa. Ma se le tematiche sono molto cupe l'introduzione di questa track cerca di premere l'acceleratore. Una scarica elettrica permette di imbatterci nell'universo elettronico dei Paradise Lost. Non dobbiamo attendere molto per aspettare l'innesto della voce di Holmes, che tra un campionamento e un altro, si pone prepotentemente. Le partiture di basso quasi inesistenti, si pongono come fanalino di coda rispetto all'ottimo groove di Lee Morris, la sua infatti è una batteria quasi temperata verso lidi heavy metal, preme in una maniera indissolubile permettendo al resto degli strumenti di svilupparsi con un crescendo molto interessante. Un crescendo soprattutto nell'impasto vocale, dato che le proprio le vocals riescono a premere e a diventare (come del resto in tutto Host) le vere protagoniste nel mare degli arrangiamenti digitali e poco elastici. Il vasto repertorio elettro-rock non le va a sminuire, anzi le va a migliorare nonostante poi in qualche sezione del brano le tastiere subentrano con forza diventando le vere portabandiera di questa traccia che dimostra una buona stesura nel songwriting e nel complesso è molto interessante. Il range vocale di Nick è molto profondo, ma al contempo in questa pulizia si può scorgere un minimo senso di speranza, la speranza di chi vuole cambiare e migliorare in questo mondo frenetico e opportunista.

Harbour

"The need to know gives a strange reaction

The need to know kills my soul, my passion

When will I know, just how far this goes

I feel the glow of a man whose tasted woe"

("Il bisogno di sapere dà una strana reazione

Il bisogno di sapere uccide la mia anima, la mia passione

Quando lo saprò, quanto lontano andrà

Sento il bagliore di un uomo il cui gusto ha guai"

Bastano queste poche frasi di Nick Holmes e Gregor Mackintosh, i nostri due principali songwriters, per metterci sotto-torchio dal punto di vista psicologico. Un campo sempre analizzato al millimetro dal nostro collettivo. L'essere umano è nato per conoscere ed apprezzare tutto ciò che lo circonda. Ma la voglia di conoscere sebbene sia illuminata da una luce speranzosa, e anche quando sembra che si possa raggiungere un risultato in realtà è solo un sogno, pura illusione. Illusione che condiziona la nostra mente che si ritrova in una nebbia fitta ricolma di disperazione. Non esistono aiuti esterni, è una condizione solitaria che si sbloccherà solo allontanandoti da chi ti vuole far male. Ecco Holmes con la successiva Harbour (Porto), il porto presente dentro ognuno di noi, è sempre colpito dai missili della disperazione, del pensiero auto-distruttivo. E secondo voi, cari lettori, cosa c'è di meglio che un violino triste e macabro, per darci il via a questa traccia? Beh evidentemente la band non poteva scegliere introduzione migliore. Dopo alcuni giri intriganti di accordi di violino inizia a subentrare la volutamente debole e delicata sezione strumentale ritmata da Lee Morris che tocca con il velo il pellame e una chitarra, impastata con un buon gusto con le tastiere di Mackintosh. Ecco proprio quest'ultimo raffina sempre di più la sua "nuova" arma per dare il benvenuto a delle ispirate vocals di Nick, che ben si muovono lungo il brano, pietrificato lungo melodie raggelanti e rassegnanti. Il sound generale è rassegnato, se vi sono spiragli di aria positiva subito vengono annullati dalla oscura attitudine elettronica. Non c'è nulla di peggiore nel porre speranze nelle proprie capacità, nelle proprie scelte, per poi fallire miseramente. Fallimento che rispetto ad altre tematiche trattate dai nostri, all'inizio ha qualche attributo ma basta una frase per mettere subito le cose in chiaro: "This joy it seems may be just a dream" (Sembra che questa gioia sia solo un sogno). Una frase che racchiude il cuore pulsante del quadro misero che i britannici vogliono con forza inviarci che non permette alla speranza di entrare proprio perchè' l'universo sensoriale è troppo ovattato in un imbuto di negatività.  Le fredde sezioni elettro-oriented accentuano proprio ciò, una pulizia sojnora di fondo ideate e costruita in funzione del brano. Quest'ultimo prosegue senza eccezionali passaggi, ma nell'incidere si percepisce sempre di più lo spirito di rassegnazione, e la voce femminile (che da un certo punto di vista dovrebbe alleggerire il quantitativo semantico), al contrario,accentua di più questa sensazione. Come negli altri brani anche in "Harbour" ci sono spazi occupati interiormente da campionamenti elettronici "semplici" ma efficaci. I Paradise Lost, come avrete sicuramente capito, non pesano sul virtuosismo, ma cercano in ogni modo possibile, di premere sulle loro peculiarità stilistiche in modo da rendere più fruibile il loro messaggio (sempre) diretto e micidiale.

Ordinary Days

L'universo interiore umano è assai complesso poiché composte da piccoli e infinitesimali tasselli che prendono il nome di emozioni. Ognuna di essere è dotata di una specifica funzione, di una spiccata peculiarità che va a migliorare la nostra mente. È troppo astruso il nostro sistema emozionale, e col passare dei giorni, dei mesi e degli anni, diventa ancora più difficile definirlo. Sfruttare ogni secondo della nostra vita è un nostro obiettivo ma quest'ultima non fa altro che mettere a nudo le nostre fragilità d'animo, in cui tutto è freddo e diventa complicato persino "to shed a tear" (versare una lacrima). Anche il respirare diventa una missione impossibile. Un'analisi della vita monotona umana in tutti i suoi aspetti poliedrici. La prossima track Ordinary Days (Giorni ordinari), gira brutalmente cosi, su questo terreno narrativo raggelante, su prospettive assai maliconiche. L'inizio è innescato da un crescendo tastieristico che pone ogni strumento a suo agio, in condizioni adatte sebbene siano calibrati in condizioni prettamente elettroniche. La chitarra di Gregor Mackintosh, appena accennata, è strutturalmente basata su passaggi abbastanza scarni e fa il suo lavoro di stendere un timido rifferama  in un paesaggio elettronico che qui non si pone cosi violento come nelle altre track ma tende a far evolvere il resto degli strumentisti, tra cui Lee Morris mentre dall'altro canto il basso di Edmonson è debole e non riesce a premere. In tutto ciò che abbiamo detto Holmes propone vocalizzi delicatissimi che si comportano come un accessorio in piu ben adagiato sul tappeto di tastiera e in momenti campionati che soprattutto nella sezione ritmica finale premono. Non è preso a caso, i momenti "vuoti" (seppur accennati in questo brano) servono a farci rendere conto della potenza riflessiva dei nostri, la vera e raffinata arma taglienti del paradiso perduto. Le atmosfere eteree che hanno rintoccato gli inizi della traccia rimangono immutate e penetranti nel loro intento di scavare dentro di noi e dare forma a varie ombre presente all'intero del nostro emisfero intrinseco, tra cui le paure. Proprio loro, quelle presenze inconsistenti ma veritiere, e nonostante siano solo pura immaginazione hanno la capacità di materializzarsi con potenza nelle mansioni dei nostri giorni, dei nostri ordinari giorni appunto. "I want to know the fear that sets inside of me" (Voglio conoscere la paura che si insinua dentro di me), questa è l'ardua sentenza, o meglio un moniker speranzoso indirizzato a farci sollevare alcuni dubbi: è possibile conoscere la proprie paure? E una volta conosciuta è possibile combatterle? Bene ecco i quesiti che i nostri pongono, quesiti che però non hanno una risposta ma differenti in base alla personalità di ognuno di noi.

It's too late

Quante volte nella nostra vita abbiamo detto con enfasi "È troppo tardi" oppure "è impossibile tornare indietro"? Tantissime volte. Non sono contabili e in fin dei conti la nostra vita non è altro che una serie di rimpianti che mano mano si accavallano l'uno sopra l'altro provocandoci soltanto frustrazione che repentinamente si propaga lungo il nostro corpo. Quel sentimento ingannevole del rimpianto appunto è ben messo su nota dai nostri Paradise Lost, nella successiva song chiamata appunto It's too late (è troppo tardi). È troppo tardi per agire, è troppo tardi perfino di provare qualcosa. Il destino è amaro e quei primi secondi confusionari, ben ricamati da un violino, lo dimostrano appieno. Il brano riesce a emergere con una leggerissima difficoltà con le vocals di Holmes messe in primo piano lungo il tessuto elettronico che ormai abbiamo ben capito. I campionamenti sono omogenei e abbastanza monotoni nella loro struttura. Il violino, simbolo della tristezza musicale, non cessa di premere lungo il pavimento del brano, anzi riesce a far rendere intensa anche la flebile tastiera che non ha la stessa "pesantezza" come negli altri brani. Ecco proprio la non presenza incisiva di quest'ultima va a svalorizzare il contenuto del nostro pezzo che nella spaccatura centrale subisce una distorsione inusuale. Sarà mica la rabbia scalpitante dentro di noi che desideriamo vivere non con la paura del "ciò che verrà" ma con la speranza di un buon futuro? La batteria di Morris riesce ad essere più veloce e pimpante nonostante poi la voce alternativa femminile va a snaturare ciò che abbiamo visto. "It's too late" prosegue impiantata su questo due vocale che pietrifica la nostra mente e il nostro corpo. Holmes riesce come sempre ad essere l'attore protagonista e a stilizzare con il suo mood gothic ogni brano. La chitarra e il basso sono inesistenti nella loro totalità e scompaiono letteralmente negli ultimi secondi, dominati soltanto da pattern elettronici delicatissimi, tastiere e quel violino, simbolo della rassegnazione umana ma perchè no anche del desiderio di rendere tutto ciò che ci circonda pieno di una verde speranza.

Permanent Solution

Delusione e frustrazione ma anche rabbia e fallimento. Il termine "decisione" ci costella direttamente la vita, non esiste momento di quest'ultima che non sia messo sotto torchio da questa condizione. Ed è anche strettamente necessaria perché condiziona il nostro essere, in positivo o negativo, questo non importa. Nei lacci relazionali umani è forte e porta a perdere o ad acquisire persone che in un modo o nell'altro prendono parte alla tua esistenza. E poi sovviene il dubbio nell'aver fatto la cosa giusta o nell'aver totalmente frainteso tutto, si tratta di un provesso naturale che è intrinseco in noi. Una condizione miserevole che ti mette al margine della tua vita se si sbaglia. Ecco il paradiso perduto nonostante la forma synth-pop oramai stabilizzata interiormente ai condotti musicali, non perde la sua lussuosa caratteristica di gettare nell'oscurità, nell'oblio più miserevole le nostre sensazioni. Sensazioni che subito sono messe all'angolo dall'introduzione oculata e programmata di Permanent Solution (Soluzione permanente), da cui è stato tratto un video ufficiale (il secondo della band). Quest'ultimo è da prendere in esame dato che subito inquadra alcune persone, e il meccanismo visivo creatosi è forse intento a scrutare il nero orizzonte, macchiato da un sole messo all'ombra, simbolo della vittoria dell'oscurità nei confronti della luce, archetipo della vitalità. Poi sovviene il nostro Holmes, oramai trasformato in un vero e proprio frontman proveniente dall'era darkwave. Subito la piattaforma elettronica inizia a muoversi, una melodia forte nella sua semplicità pervade tutto lo schema musicale imposto. Una musicalità eccelsa. Permanent Solution mostra effettivamente un Holmes in stato di grazia, le sue vocals sono raggiranti e melodiose. Hanno la grossa capacità di mutare attitudine sebbene siano fondamentalmente le stesse. Un mondo strano, in cui le relazioni corrono e la tecnologia (rappresentata da televisori e abbigliamenti moderni) ha preso il sopravvento lungo la nostra esistenza. Bisogna prendere una soluzione, una soluzione che deve essere permanente. Da sottolineare è la sottile linea chitarristica che nel bene o nel male Mackintosh riesce a creare un pavimento interessante lungo gli espliciti arrangiamenti elettronici, come la batteria specificatamente pre-registrata (come in gran parte de platter). In conclusione è uno dei pezzi più amarcord che mostra la base della band ancora heavy metal.

Behind the Grey

Nella precedente traccia, Permanent Solutions (Soluzioni Permanenti), abbiamo notato un certo ritorno ad un groove particolare dei nostri che ci hanno imposto un nuovo sano e interessante muro sonoro, preso ovviamente con le pinze dato che non trattiamo dei livelli di One Second. Ma i Paradise Lost non hanno perso la loro natura "metallica", almeno nelle intenzioni nonostante trattiamo di una band rock ormai. Nella prossima Behind The Grey (Dietro il grigio) allora cosa ci potremo aspettare: le giuste intuizioni dell'equilibrato rifferama di Perment Solutions o un ritorno all'oceano elettronico/synth-pop? Non ci resta che iniziare a scrutare i primi secondi della nuova traccia e notiamo subito un richiamo ad un approccio solistico di Mackintosh che regge l'irruenza dei sintetizzatori e dei sampler. Assolo ovviamente imbavagliato in quadrature molto precise e al contempo semplicistiche ma questo in fin dei conti è irrilevante dato che si mostra netto e liscio, sincronizzato con le vocals di Holmes, che viaggiano lungo tanti elementi a volte dissonanti tra di loro. Le tastiere soprattutto si comportano come le assolute padroni del brano, ma non solo: le harsh di Holmes, in linea con l'impianto delle tastiere, si trasmutano in flussi sonori aggiuntivi che ben si smarcano lungo le atmosfere quadrate che sono adatte a rappresentare il grigiore di cio che ci circonda, della non capacità di cogliere l'attimo. Proprio perché la realtà medesima è troppo densa di negatività. Grigiore che è talmente compatto tanto da non permetterci di riuscire a trovare la verità e a vedere la speranza (I can't see much truth in what's being spoken/I can't see much hope in what lays broken). E cosa fare se agire nel silenzio più totale al fine di non essere divorati dai demoni del destino? È l'unica soluzione, muoversi in solitario in una oscura nebbia, senza una luce guida ma solo con l'arma della nostra coscienza. Indirettamente i nostri songwriter ci incitano ad avere più sicurezza in noi stessi, nelle nostre capacità che sebbene siano ricoperte di strati di paura hanno sempre la loro importanza. Una sicurezza dei propri mezzi vocali invece è ben mostrata da Holmes in ogni sezione del brano, dalla più rapida, in cui Morris dà velocità alla sua batteria, fino alla più riflessiva (in cui invece le tastiere predominano. E nell'impasto non mancano momenti in cui l'arma solista di Gregor cerca di grattare sempre di più mediante armonie elettroniche prepotenti e sacre distorsioni (ovviamente poste nel minimo del loro potenziale), che seguono sommariamente la linea della traccia.

Wreck

Una carcassa messa li' in un angolo, un relitto navale sepolto sotto l'oceano per secoli e secoli. Un corpo che vive "morendo" in un territorio aspro e difficoltoso. La negazione della vita non viene sempre identificata con la morte perché nella maggior parte dei casi, chi vive in realtà maschera un mare di negatività dietro i suoi occhi. La fede è lontana, la mano di un amico anche. Sei perso, non hai pià un'anima piena e viva. Il laccio che ti attanaglia sembra essere composto da un materiale indistruttibile. Insomma stai vivendo ma sei talmente corroso dagli affilati coltelli scagliati dalla tua vita che in effetti ogni tuo passo è un avvicinamento alla morte. I nostri non badano a spese in quanto a nichilismo e pessimismo, lo sappiamo ormai ma in questa Wreck (relitto) un sentimento mortifero sembra volteggiare lungo più negativamente rispetto alle altre tracce. Le note elettroniche, ben impregnate nel corpus della sezione ritmica, che ora ben sappiamo bene come interpretarle, hanno proprio la funzione a far evidenziare ciò. Nulla è mai composto a caso e i Nostri con la loro essenzialità ce lo vogliono far capire con molta chiarezza. Magari questo nuovo percorso stilistico a voluto premere ancora di più da questo punto di vista, cioè essere diretti con un sound diretto e saturo. Anche se però all'inizio una breve distorsione compone una introduzione insolita e caratteristica, ma è solo "un'illusione" perché la costruzione digitale inizia con progressiva forza a vibrare e a eliminare ciò che era stato leggermente composto dalla lead guitar, che in un certo senso vuole scrollarsi di dosso il suo ruolo ormai "secondario" ai tappeti calorosi di tastiere (anche se ovviamente non riesce nel suo intento). Ciò che immediatamente colpisce è non troppa complicanza del costrutto musicale che non fa altro che mettere in un territorio valorizzante Nick Holmes e il suo tetro clean, il quale è in grado di penetrare lungo il nostro tessuto cutaneo e porre tutto in soqquadro. È un Nick in gra forma, non avendo a che fare con il gutturale propone il meglio del meglio delle sue potenzialità in pulito, lo abbiamo notato infatti non molte tracce. L'intensità di questa track aumenta di intensità nella parte soprattutto centrale costruendo un debolissimo muro di suono, reso soffice e di impatto dalle partiture sintetizzate che hanno proprio il ruolo di indirizzare il suono in un modo preciso e matematico. Non ci sono stravolgimenti, o cambi di tempo degni di nota(come del resto in tutto il platter), Wreck è come si suol dire una traccia "cuscinetto" che è inserita apposta in questa parte di Host proprio per il ruolo che porta sulle spalle

Made the Same

La monotonia corrode e lascia il segno, ridursi a macchine senza colore che operano similmente nel resto della loro vita è sintomo di sconfitta. La vita impone di essere vissuta a pieno e nonostante gli ostacoli bisogna dimostrare sempre il proprio carattere. Siamo composti tutti dei medesimi elementi e la differenza sta nello smuoverci dalle nostre abitudini, non si vive per sempre. Cogliere l'attimo o semplicemente esortare il valore della vita? Made the Same (Fare lo stesso), decima traccia del nostro lavoro, si impone quasi con un piglio filosofico, e non perde tempo nel diffonderci dubbi ma allo stesso tempo moniti e consigli da sfruttare. L'intro è il solito ma meno plastificato dalle ombre pop, e non dobbiamo aspettare molto per udire una batteria (che seppure mossa in un'aura prettamente elettronica) cela un groove importante. Ma la cosa che subito risalta, cari ascoltatori, è il basso di Edmonson che finalmente diventa fondamentale nel percorso del sound, tracciato sempre dalle harsh di Nick Holmes. E non solo: cori e una maggiore caratura del sound sono sempre fiore all'occhiello cosi come le parti "basse" in cui le corde vocali, prettamente stilizzate in un determinato settore musicale, disegnano melodie molto interessanti e quasi innovative perché cercano in tutti i modi possibili e immaginabili di districarsi quel preponderante alone di elettronica. Il basso è colorato e messo in evidenza, riesce a far mettere in luce ancora di più l'aura melodiosa ma anche ariosa che questa Made The Same vuole far emergere. Tale traccia, in una maniera quasi inversamente proporzionale al significato dietro le sue corde, incide, corre spedita e disegna un sound capace di scavare un solco interessante nella nostra coscienza. Noi siamo sempre in dubbio, divorati dalle chimere della vita, dal clima "freddo" che ci circonda l'anima ("Its So Cold...Many Years To Go/ È così freddo ... Molti anni da percorrere)" ma è cosa giusta ogni tanto fermarsi e riflettere: "Viviamo, e solo questo che conta". A volte ciò che può sembrare banale si dimostra invece un canale essenziale per vedere la luce. Una traccia, "Made the shame", non eccellente ma effettivamente efficace nella sua essenzialità.

Deep

Profonda è stata sempre l'attitudine compositiva della nostra band e sempre di questo tipo è stato il sentiero lirico impregnato di sana malinconia che ci viene gettato all'impasto. Appunto "profondo", una peculiarità potente che ha varcato le porte di ogni brano composto sin dagli inizi. Non c'è variazione stilistico/musicale che tenga: la musica e il sound dei nostri avrà sempre quell'inconfondibile senso di oblio e di commiserazione, appunto di profondità. Questo aggettivo, se vogliamo, è un gran modo per porre un appellativo a chi non conosce i Paradise Lost, e da qui ben si capiscono un gran numero di elementi della loro musica. Ma se quella appunto profondità d'animo è innestata in un mondo arido da questo punto di vista, repellente nei confronti di noi, anime deboli destinate a soccombere? Deep (Profondo) dei Paradise Lost può essere brutalmente definita come una lotta interiore incessante con il tuo Io, il quale è onnipresente e protagonista nella sua corrosività. Rabbia e rancore, rancore e rabbia: un mare di desolazione. L'introduzione è affidata ad una sana distorsione e ad un brusio fuoricampo, l'atmosfera è surreale e "disordinata". L'onnipresenza elettronica si fa sentire eccome, condizionando anche le vocals di Holmes, dirette ma amalgamate con una corretta chitarra che cerca di ricamare situazioni interessanti soprattutto quando Nick espone le sue "radiazioni "vocali" verso picchi alti. Il sentimento di rabbia, accennata pocanzi, è quasi percettibile, si sente e si tocca. I problemi non si riescono a superare, tu ti senti sempre più svuotato interiormente e la vita diventa uno spirito agghiacciante che ti circonda. Tu inerme gridi, esclami tutto il rancore presente, ma nessuno ti sente. È il destino delle anime profonde che combattono con veemenza contro esseri umani insensibili, la vera maggioranza. Tornando a "Deep", notiamo nella parte centrale un apporto strumentale calibrato ma al contempo equilibrato in ogni tocco, e la batteria di Lee Morris si rende assoluta protagonista assieme ai tappeti di sintetizzatori e tastiere che si dimostrano dannatamente essenziali nel circuito musicale che si impegna, nonostante la presenza di arrangiamenti elettronica eccessiva, a dare un giusto brio di ispirazione heavy metal. Prendere le emozioni e sbatterle in faccia: oramai è diventato un compito costante della nostra band.

Year of Summer

Per la prossima traccia ,Year of Summer (Anno d'Estate), basta un tocco cadenzato ma ritmato di Lee Morris per aprire le danze. Un giro strumentale che inizia a ricalcando quelle metriche di sound che più o meno abbiamo intravisto nelle sopracitate tracce. Il groove è corpulento anche se raggirato da elegantissime tastiere che viaggiano tra timidi assoli e pure sferzate elettroniche. Mattone dopo mattone l'"elettro-paradise lost sound" inizia a creare e suscitare qualcosa, un qualcosa di diretto e conciso. Il mondo collassa, la realtà svanisce. È il moniker dei tempi che passano, e non a caso viene presa in considerazione l'estate, simbolo di gioia e del sapore della vita. Cosi come l0estate finisce, il buio invernale arriva, rivestendo il suo nero colore sugli oggetti, i quali perdono il loro senso. Infatti è difficile affrontare cio che ti circonda quando quel dolore che hai tenuto nascosto per anni fuoriesce con una forza sovrumana. Ti trovi attonito, lo stomaco tende a contorcersi e ad emanare dolori interni quasi inesplicabili (My stomach tends to fold, when I speak of your name"/Il mio stomaco tende a piegarsi, quando parlo del tuo nome"). Quel nome che una volta simboleggiava il tuo amore vitale, ora non è altro che una lama affilata pronta a ferire te e chi ti circonda. Certamente gli arrangiamenti sono "affilati", perché ricamano quel synth-pop di impatto e viscerale. Holmes è il solito menestrello, l'attore che sputa i sentimenti con la sua pacatezza sonora, mai troppo esagerate sono le sue corde vocali che tendono effettivamente a contenersi restando calme e profonde. Poi i controcanti che infarciscono il suono con azzeccate soluzioni vocalistiche che vanno a valorizzare ancora di più questa buona Year of summer. Traccia che nella parte finale si concede a riflettere l'animo disperato di colui che ha perso la fede nel suo futuro e guarda con riluttanza una candela spegnersi. E il buio incombe.

Host

Per ultimare il nostro viaggio musicale e simbolico in questo universo sonoro, non ci resta che analizzare la title track. Basta snocciolare il titolo, Host, per capire un gran numero di elementi. Termine che riferisce a strumentazioni digitali di carattere informatico, e basta per poter definire tutta la meccanicità del sound dei nostri, dato che fa riferimento, appunto, ad un qualcosa di elettronico e digitale, di freddo e manieristico. È palese la congiunzione logica alla troppa monotonia e all'intollerante qualunquismo delle tappe che ci aspettano ogni giorno, ogni secondo. Gli occhi si fanno stanchi, perdono il loro colore, e il tutto si trasmette nel nostro corpo. Persino la nostra voce muta di aspetto. Questa title track è caratterizzata da un netto crescendo: la sezione ritmica da scarna e "normale", assume rigore e matematica quadratura diventando mano mano sempre più immediata e comoda nel pregevole tappeto sonoro che esplode soprattutto nei pressi del ritornello. Come un'onda che sbatte contro gli scogli, cosi la voce di Nick Holmes mette in subbuglio la parete elettronica riuscendo a creare un contrasto degno di questo nome, in cui le tastiere prendono il sopravvento nei confronti di basso e chitarra. Host è una track assai atmosferica, grazie anche la fusione della base ritmica con strumenti validi come i violini e a voci femminili, che riempiono i solchi dove Holmes non riesce a raggiungere vocalmente. Host graffia, non nella sua essenza nè nel suo groove, ma semplicemente nel suo andare melanconico e quasi penetrante sbattendo contro il nostro apparato percettivo. Una melodia che si muove da sola, soprattutto nella sezione centrale, e che riesce ad amalgamare differenti condizioni e sensazioni. Il tempo scivola via, e con lui lo spazio assieme ad un'estrema non capacità di capire chi siamo e cosa vogliamo. Una caratteristica imperante della nostra esistenza, che i Paradise Lost sanno narrare con eleganza e poesia.

Conclusioni

Terminatosi questo viaggio, portiamo in groppo una marea di neri sentimentalismi e emozioni. I Paradise Lost si comportano come un interruttore in grado di spegnere quel poco di speranza che risiede in noi e "Host", in questo, è risultato perfetto. Il settimo lavoro firmato Paradise Lost è un album ostico. Su questo siamo d'accordo. La band britannica oramai aveva più che stabilizzato i propri nuovi paletti musicali, dimostrando un approccio che creò ancora più affanno rispetto alla spaccatura di One Second. Quest'ultimo infatti sembrava soltanto un esperimento (riuscito o non riuscito non conta), e la folta fan base si aspettava un ritorno magniloquente alle linee doom/gothic del recentissimo passato. Ma invece non è stato cosi, e questo provocò non pochi timori, gli stessi Paradise Lost erano incerti su quale terreno muoversi ma alla fine la voglia di continuare quel percorso iniziato nel 1997 era più vivo che mai. Appunto, a conti fatti, un ritorno rigoroso ai fasti di Icon e Draconian Times sembrava soltanto un vaporoso sogno: il combo inglese ha deciso fermamente di proseguire il suo percorso in solchi estremamente sperimentali (con pressioni "esterne" o no non lo sappiamo e non spetta a noi dirlo), adottando musicalmente onnipresenti tastiere e batterie programmate, inserite in un pacchetto lirico paragonabile ai lavori precedenti. Liriche come sempre geniali e "fredde" nel loro modo di apparire lungo il corredo dei brani.  Ecco, nonostante le pressioni di natura commerciale della nuova etichetta discografica, il marchio Paradise Lost continuava a restare, era più vivo che mai, nessun sintetizzatore poteva mutare l'attitudine decadente e arcigna che muove la penna dei nostri fin dagli ingenui esordi. E questo dato è assai rilevante perchè mostrava in effetti la vera identità della band, oramai considerata esempio di professionalità. "Host" non ti cambia la vita, ad un primo impatto sembrerebbe essere uno sterile platter che insegue le mode ottantiane per racimolare più audience ma in realtà, se lo analizziamo dal punto di vista strettamente musicale, è un lavoro, che come il precedente One Second, ci permette di esclamare: "Si effettivamente sono i Paradise Lost!". I lineamenti sonori sono stati stabilizzati con molta grinta e tutta la compagine aveva affrontato con serie determinazione questo passaggio musicale. Non c'è molto da ridire sull'ormai nuova veste di Nick Holmes o di un Steve Edmonson oramai considerato come un membro non incisivo: lo abbiamo ben capito il nuovo abito del paradiso perduto, un abito composto da fibre di nichilismo e di oscurità, sentimenti ben risaltati dalle tenebrose tastiere e da arrangiamenti elettronici che traslano le percezioni degli ascoltatori in chissà quale mondo lontano. "Host" non è un disco fondamentale nonostante sia suonato con parsimonia,  molti brani tendono a comportarsi come filler, e questo va a denaturare di qualità il tutto. Ma nel complesso ogni cosa è messa al suo posto, e nel trascorrere dei brani, cercano comunque di emergere accenni ad un "rumoroso" groove che però non trovano vita facile in un appeal sonoro divorato da tendenze sintetizzate del genere synth-pop e proprio questo aspetto è un derivato dall'assenza totale delle chitarre, tranne in alcuni casi. Le due asce sono sparite del tutto, trattiamo di un'altra band e quindi di un altro modo di concepire la musica. Abbiamo accennato ad un revival di band come Depeche Mode o dei The Cure, e in effetti è cosi: il quartetto non fu l'unico ad essere risucchiato in questa chiamiamola "moda". Basti pensare ai portoghesi Moonspell, che similmente agli inglesi portarono a casa l'elettronicissimo (passatemi il termine) "Sin Pecado" (Senza peccato) che discostava kilometri dai dischi precedenti. I Paradise Lost non hanno perso la propria identità sia ben chiaro, e Host può incasellarsi come l'ennesimo tassello di una carriera straordinariamente variegata. Un'evoluzione, un percorso che pochi gruppi possono permettersi.

1) So Much Is Lost
2) Nothing Sacred
3) In All Honesty
4) Harbour
5) Ordinary Days
6) It's too late
7) Permanent Solution
8) Behind the Grey
9) Wreck
10) Made the Same
11) Deep
12) Year of Summer
13) Host
correlati