PARADISE LOST

Faith Divides Us - Death Unites Us

2009 - Century Media Records

A CURA DI
GIANCARLO PACELLI
29/05/2021
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione recensione

Se per molti collettivi con un passato importante i tentativi sperimentali avevano lasciato il tempo che trovano, ora con l'aria fresca del nuovo millennio proprio quei gruppi mettevano da parte il sintetizzatore di troppo per tornare a scrivere secondo un'inclinazione metal. Niente di più semplice per chi nel fior fiore dell'età componeva brani leggendari, anche se quel processo di ritorno alle origini aveva lasciato far capire che spesso lasciarsi influenzare dalle logiche di vendita delle major discografiche non porta a risultati sempre eccellenti. Era accaduto ai My Dying Bride, i quali timbrarono l'eccezionale ritorno al death-doom con "Dreadfourl Hours" (Peaceville Records, 2001) o ai sempre sfuggenti Tiamat, tornati sapientemente a riproporre un certo mood degli inizi con "Judas Christi", lavoro che si distacca dalle pretese floydiane di "A Deeper Kind of Slumber" (Century Media, 1997). Da questa brevissima lista escludiamo categoricamente gli Anathema dei Cavanagh che proseguivano il loro percorso alternativo o "radioheadiano", ma aggiungiamo un altro illustro nome, un simbolo per il metal decadente: i Paradise Lost. Con il successore del disco omonimo, "In Requiem, i Paradise Lost misero i puntini sulle "i" cercando in tutti i modi di tornare ad un certo tipo di forma canzone, sempre e diligentemente intrisa di pura e malinconica velleità notturna, proseguendo con l'etichetta Century Media. Confermati alcuni metodi di scrittura e rimodernato l'approccio in studio, Nick Holmes e Co. Vollero dimostrare un gran numero di cose con questo disco: da una parte volevano ardentemente confermarsi come unici e incontrastati Signori del gothic metal, dall'altra desideravano mantenere viva quell'attitudine tipicamente inglese presente nel rock gotico britannico e che affonda le proprie radici nell'asfalto spesso di Halifax. I tempi dei capolavori degli anni 90 sono lontani, molto lontani. Non vi era certo l'obiettivo di tentare metodologie care a quei tempi, ormai distanti anni luce da un punto di vista musicale. Con "Faith Divides Us-Death Unites Us" (La fede ci divide, la morte ci unisce) la nave gotica sfoggia la sua presenza nell'oceano metallico del 2009, e che presenza. I fari sono posti a dovere, le scialuppe sono pronte, le sirene si fanno sentire nel caso fosse necessario segnalare la loro presenza nei confronti di altre imbarcazioni presenti nelle vicinanze. I comandanti Nicholas Holmes e Gregor Mackintosh sono anch'essi pronti a far vedere la pasta di chi ha cambiato il concetto di decadenza, prendendo spunto in maniera intelligente dai prodotti inglesi degli anni 80, il goth rock, il post-punk etc. Il binocolo dei nostri puntava a riformulare quel tesoretto di ispirazione che aveva messo le basi per quei brani impeccabili contenuti nei primi importanti dischi, come ad esempio Icon (1993) o Draconian Times (1995). Sembra palese affermare che l'intenzione primaria era continuare a mescolare quelle sensazioni, quegli arrangiamenti per terminare quella rottura essenziale con la parentesi synth-pop, i cui brani difficilmente vennero proposti (fatta eccezione per One Second) nelle scalette dei concerti o in quelle rare ospitate in radio o tv. I tempi erano maturi, i live della band traboccavano, a dimostrazione dell'affetto dei fans della band, che ormai spopolava verso più fasce di età, giovani e meno giovani accomunati dal desiderio di farsi avvolgere da quell'incedere accattivante e al contempo estremamente elegante. Le sinfonie del mondo notturno, della luna pietrificata in un punto oscuro del cielo che concede quei pochi momenti di luce nelle nottate di novembre. La produzione di questo dodicesimo disco è affidata allo svedese Jens Bogren già al lavoro con band come Katatonia, Opeth, Dimmu Borgir etc. L'esperienza del produttore svedese donerà un appeal generale impeccabile e affascinante, a tratti anche impressionistico, come vedremo fra poco addentrandoci tra i rovi delle tracce. 

As Horizons End

Un coro raffinatissimo di estrazione classica ci dà il benvenuto nel primo brano di Faith Us. Un brano ovviamente molto decadente e sinistri, condito dal retrogusto paradiselostiano di rifiuto di vivere. As horizons end, come ci avvisa il titolo, è la fine dell'umanità fatta di belle speranze e promesse. È la pietra tombale su qualunque cosa possa definirsi fruttuosa e speranzosa. L'intro di matrice quasi clericale viene spazzato via non da un blast beat furente o da un riffone decadente, ma da una sterzata strumentale più sottile. Poi interviene prima la chitarra di Gregor Mackintosh e poi il cantato Nick Holmes che non si può definire né estremo né troppo clean. Una via di mezzo che ci pare propedeutica all'indirizzo di questo brano, uno dei tanti ottimi brani di Faith Us. I giochi pirotecnici degli strumenti poi diventano progressivamente pesanti, tipicamente heavy con punte di death metal. Nick Holmes svolge il suo ruolo soprattutto nel refrain, eseguendo un tappeto vocale che non interferisce il lavoro melodico delle due chitarre, agghiaccianti nel loro marciare ipnotico e mortale. E non può essere diversamente in un contesto sonoro come sempre molto ovattato e pessimista: si riprende, da questo punto di vista, il percorso lirico intrapreso in In Requiem, anche se qui la consapevolezza se vogliamo gotica è molto più puntellata. As Horizons assume un contorno molto più gotico nel corpo centrale, in quella sezione basso, chitarra e batteria che si spegne improvvisamente. Per poi riaccendersi dopo aver lasciato spazio ad una chitarra acustica che strizza l'occhio ai Metallica di And Justice for All. Ma qui il tutto è centrifugato secondo coordinate tristi (enigmatica da questo punto di vista la frase "You never see again The light of day it seems to be enslave") e volutamente impossibile da risolvere proprio perché troppo legato all'incapacità umana di accettare questi aspetti. Il finale di As Horizons end non dovrebbe qualunque ascoltatore che si consideri almeno simpatizzante della band: Nick torna al timone raccogliendo il testimone del solo di chitarra di Gregor e ingrassa la sua voce per disegnare un finale degno di questo ottimo brano, il primo di una lunga serie. 

I Remain

Un cazzotto doom ci apre le porte della seconda traccia I Remain, io rimango. Un intruglio di bassi e chitarra che apre a sua volta la strada alla batteria. Qui i Paradise Lost giocano subito con le geometrie sonore, stanziando tempistiche imprevedibili. Un doom atipico, annacquato di melodic death e di una impronta prima sonora e poi vocale di estrazione estrema. Si, so bene a cosa starete pensando. Sono i Paradise Lost che si ricordano delle loro origini tra le nebbie di Halifax, dell'Inghilterra più pura e incontaminata. Industriale e fredda come il ghiaccio, ma calorosa appena la si conosce bene. Con I Remain i nostri centrano il loro discorso sulla fallacia della religione, sulla finitudine della vita e sull'inutilità di quest'ultima. Un girovagare a vuoto. Un cammino che anche quando sembra sia indirizzata ad un fine sensato, comunque si pone fine a se stesso. L'analisi spietata, come sempre un marchio di fabbrica della band, cozza con la sterzata melodica che incontriamo a metà brano: la violenza che abbiamo assaggiata nella metà del primo minuto. Nick Holmes si sveste dei suoi panni aggressivi e abbraccia un timbro più delicato e, se vogliamo, sofisticato. Seguendo millimetricamente l'impalcatura sonora del brano che col passare dei minuti diventa una litania, uno storytelling ben quadrato. Qui l'emozione si fa forte, tocchiamo con mano il nucleo tematico che i nostri vogliono rendere degno di un dibattito. Poi un momento di pausa, di riflessione. E ritorno la chitarra creatrice di riff di Gregor Mackitosh, che da chitarrista esperto qual è, disegna un solismo eccezionale nella semplicità. Nelle sua capacità di inserirsi a perfezione con il contesto narrativo-sonoro portato avanti dal combo inglese, che mai come ora, nemmeno nel precedente In Requiem, ha dimostrato di essere maturati in maniera a tratti mostruosa ed evidente. Se paragonassimo il percorso dei nostri agli altri colossi inglesi dei primi anni 90' che gettavano i semi del doom meta, probabilmente i Paradise Lost ne uscirebbero vincitori indiscussi. Una coerenza che rimane tale nonostante il passato non metal del combo che ha permesso ai nostri di compiere passi in avanti molto importanti.

First Light

Un riff melodico ma decadente ci spalleggia nella terza traccia di Faith Us. Come del resto, anche nella traccia precedente, ma la dose iniettata nei nostri padiglioni è molto più suadente. La tristezza di marca paradiselostiana ci accoglie in un ambiente umido e freddo, notturno e silenzioso. Ascoltiamo solo il nostro battito, l'unico amico che ci accompagna. Poi arriva la luce, la prima luce. In quel frangente ci svegliamo e ci accorgiamo che abbiamo fatto solo un brutto sogno. I Paradise Lost stendono un velo emozionale carica di elementi. Se le harsh vocals iniziali sembravano portarci in un sentiero angusto e poco ospitale, il bridge prima del ritornello ci fa capire che invece è la versione clean di Nick Holmes a scuoterci la testa. Caratteristiche sono anche le componenti sinfoniche e le tastiere, che come dei fiocchi di neve, si poggiano sull'ammasso sonoro senza dare fastidio, senza lasciare il segno. Poi ritorna il tono vulcano di questa First Light, la prima luce della giornata dopo una nottata do fulmini e acqua torrenziale. La capacità della band di dare vita ad un costrutto logico sempre coerente con l'immagine del gruppo, la rende un brano unico ed accattivante. L'intelligente sovrapposizione di chitarra, melodica e accogliente, sebbene sia in toni ribassati, e la voce di Nick crea quel contrasto che non può non destare curiosità anche al fan più esigente della band. Volevate il grande salto di qualità dopo gli anni bui, fatti di tante promesse e di poca sostanza? Ascoltando e sezionando questa First Light vi renderete conto della meraviglia sonora che gli inglesi sono stati in grado di costituire con i propri elementi. Elementi semplici, classico, datati se vogliamo fare la parte dei modernisti, ma non per questo accattivanti e privi di valore. Elemento che disposti in un certo modo, suonati in un certo modo, riescono a costruire una fragranza sonora ricca di sapore e di gusto. Nel finale del pezzo si ripresenzano sezioni di chitarra più ribassate e potenti, ma senza che scalzino l'aura magica introdotta nei secondi precedenti. Poi, nel finale, torna quel pianoforte che abbiamo accennato all'inizio. Dolce, sensuale ed ipnotico. Un finale perfetto per questo bellissimo brano.

Frailty

Un brano più docile ma non per questo pregno di cattiveria è In Truth. Ciò che ci accoglie è una giocata di batteria efficace ed essenziale, che fa da collante con la chitarra pesante di Gregor Mackintosh. Questa inizia a seguire un proprio percorso ritmico senza un contraddittorio da parte degli strumenti. Il clima sale, ma la componente vocale di Nick Holmes si poggia in maniera cadenzata all'impianto di base fatto e riff e sequenze sonore frammentate. Il nocciolo di questo brano non è niente di cervellotico, la band analizza il concetto aleatorio di verità, asserendo che è una parola che pochi possono permettersi di nominare. Come dice la prima strofa vi è una autocolpevolizzazione chiara: "I am a liar, I am a fake / In truth / You don't need to know" (Sono un bugiardo, sono un falso / In verità / Non hai bisogno di sapere). Nick, che incarna l'uomo medio, si definisce colpevole della sua stessa esistenza e incapace di dire la verità, la quale è una caratteristica per pochi eletti. Con questa semplice frase cosa ci vuole dire? Che questo mondo è talmente impregnato di falsità, di vanagloria e di cattiveria, che quelli che dicono la verità sono molto pochi. Il brano assume sembianze meno rigide rispetto alla forma canzone doom, qui il drumming è cadenzato e docile, poi ritmato e rapido. Similmente si comporta la chitarra che ha più minuti per parlare da sola nei momenti in cui Nick abbandona il microfono prima di sparare le cartucce. Se il clima è tranquillo, l'aura è invece molto pesante, possente e sicura. Non bastano le chitarre pesante e le vocalità gutturali per esprimere la violenza: a volte basta sussurrare le giuste parole, girare il proprio strumento secondo i propri parametri per affondare il coltello con tutta la nostra violenza di cui disponiamo. Il finale è un susseguirsi di colpevolizzazioni e di comportamenti autodistruttivi che vedono proprio l'uomo inconsapevole nel gestire la propria individualità, tanto da dimenticarsi del contesto in cui vive e respirare. Questo, in conclusione, è un brano molto orecchiabile ma comunque pieno di ritmo e di intuizioni armoniche degne di nota.

Faith Divides Us - Death Unites Us

Faith Divided Us Death United Us - la fede ci divide, la morte ci unisce - ha alla base il malessere tipico del combo inglese. È una miscellanea di emozioni e sensazioni, descritte e suonate da interprete di prima fascia, che hanno fatto della costanza il faro di una vita. È quindi vero affermare che la title track sia, a distanza di qualche anno, più di una semplice traccia. Il perché semplice da intuirlo, negli anni ha riscosso sempre più successi, acquistando popolarità nei canali telematici e assumendo un ruolo di primo piano negli show dal vivo. Quindi ci risulta semplice analizzarla, vivisezionarla come al solito, affermando che si tratti di un vero e proprio capolavoro. Capolavoro sonoro perché i suoni scelti colgono il segno in pochi frammenti, in grado di comporsi e di ricomporsi in un millisecondo. Un capolavoro tematico, in grado di toccare temi e discussioni di alto livello, probabilmente inflazionate e superate, ma non per questo di poco valore. Il tema della traccia è la narrazione di una religione divisiva, capace di asservire l'uomo al posto di potenziarlo spiritualmente, e falsaria, perché illude con i suoi dogmi e impone dei paletti duri da sciogliere. Ebbene, qui i Paradise Lost si superano portando avanti un concetto tanto semplice e banale, quanto importante. Ossia che la morte è l'elemento che livella tutti, neri, bianchi, rossi, musulmani e cristiani. Tutti gli esseri umani sono accomunati dalla morte e nessuno invertirà questo trand. La ritmica del brano è toccante e avvincente e si assembla mediante esplosioni e armonie, opportunatamente laccate da una produzione vincente. Nick urla ma non troppo. Gregor impugna la chitarra utilizzando le tecniche a lui care senza immedesimarle in circuiti troppo astrusi. Ed infine la batteria di Singer si impone con dei fill vincenti e quadrati. Queste sensazioni sonore sono supportate anche dal video ufficiale, in cui una donna viene privata dei suoi capelli senza il suo consenso. La camera staticamente girata verso la donna aumenta in noi quel senso di ripudio verso il conservatorismo della religione, che il video vuole metaforicamente rappresentare. Le lacrime e il viso scavato ci lanciano il messaggio principale: superare il diktat imposto e giungere ad un nuovo equilibrio interiore, non per forza spinto e supportato da una narrazione millenaria, spesso base di divisione e di violenze.

The Rise of Denial

Da buoni analisti dell'essere i nostri non potevano esimersi dall'indagare un tema molto caro alla nostra società globalizzata nostrana: la fragilità, da cui proviene il nostro brano Frailty. Sentimento più diffuso del solito, dettato da un profondo animo interiore, fortemente intriso di passionalità e sensibilità. La band quindi non si adagia su un discorso semplicistico, ma lo inquadra da un punto di visto, forse più grigio e triste. Noi fragili, scandisce il brano, siamo nato nella tristezza. Non una condizione che si crea a lungo andare, ma una condizione nata e sviluppata con noi. Una sorta di compagno di viaggio, una spalla che ci accompagna sia nei momenti positivi che negativi. Difatti, secondo Gregor Mackintosh e Nick Holmes, la tristezza non è per forza un qualcosa di plumbeo e negativo, rappresentante la parte malata di noi. Frailty inizia con un coro soave, di ispirazione classica. Poi irrompe la chitarra principale di Gregor e il rullante di Singer. L'impasto iniziale inizia a scalpitare, soprattutto appena sopraggiunge la doppia cassa. Nick spalanca la bocca e inizia a scandire rabbia e frustrazione, a narrare la litania contro la natura, un Leopardi novello che se la prende contro la madre di tutti noi. Questa condizione di riluttanza della vita stessa non è una novità nel bagaglio tematico dei Paradise Lost, ma colpisce sempre la leggiadra con cui tutto viene spiegato. Il brano impenna appena di decibel della chitarra inizia a premere e ad innescare il ritornello, forse la componente che più rimane attaccata a noi. Poi la qualità del riffing, l'eleganza dei suoni, la capacità di rappresentare l'emozione con una pulsione sempre fiorente e reattiva. È come se il brano fosse già insito nella pietra e ai nostri tocca di levigarla al fine di farlo fuoriuscire. Come dei minatori si armano del buon senso e del ritmo, con uno scalpello per dare luce ad una composizione a parer mio abbastanza sottovalutata e mai presa in considerazione quando si nominano questo disco o la band. E questo è un male, perché tracce come Frailty sono ciò che un fan dell'heavy metal dovrebbe cercare in ogni album che ascolta.

Living with Scars

The Rise of Denial - l'aumento della negazione -è la conferma che la band ha gestito e metabolizzato alla grande il ritorno metallico. Il perché è semplice intuirlo: una volta premuto play si entra in un percorso tortuoso ed enigmatico, caratterizzato da rovi e spine. Tutto questo almeno fino al ritornello proposto, comunque e incalzante e dinamico ma men rovente rispetto alla sezione iniziale. Il tema toccato dai nostri è la solitudine, o meglio del rapporto dell'uomo con la solitudine. Una vera e propria compagna di vita e non una parentesi. Ci fa compagnia al buio, ci distende il braccio nei momenti di difficoltà, anche quando il mondo sembra collassare su se stesso come durante la morte di una stella. Il ritmo è estremamente dinamico, ogni accordo scelto, ogni struttura sonora che emerge dalle ceneri della sofferenza simboleggia la voglia di riscatto in questo mondo difficile, complesso e multi-sfaccettato. La chitarra di Gregor Mackintosh si impenna nei momenti iniziali ma anche nelle fasi post-ritornello, quelle in cui solitamente Nick Holmes riprende in mano il microfono, prende di petto la situazione per poi addolciirsi, fino a scomparire alla metà del secondo minuto. In questo frangente viene rimodulato l'impasto sonoro secondo coordinate più plumbee e disperate. Poi arrivano fill di batteria concentrati, che mai come ora sfruttano la perfetta resa sonora. Il brano spicca poi violentemente il volo con un solo di chitarra infinito e impenetrabile. Dove la dea fortuna non viene a soccorso di noi poveri uomini ma gode della nostra situazione in un angolo (As Fortune's snares lay me down / In a dream despite). In cui in un cumulo di ceneri non emerge nulla di buono se non un ulteriore alone di disperazione, in grado di consumarci. The Rise of Denial riprende l'impianto sonoro iniziale, abbastanza tendenza al sinfonico, per poi correre in percorsi duri ideali per le piroette degli strumenti, tra cui la chitarra di Gregor che si prende la scena come nei dischi degli anni '90. Anche in questa traccia emerge il talento della band di riuscire a tenere incollato lo spettatore, in modo da fargli provare la sensazione di smarrimento, molto comune nella nostra civilità globale.

Last Regret

Molto più doom/death è "Universal Dream", ma solo per i primi secondi. Difatti il parallelismo con i My Dying Bride prima maniera viene spazzato via appena la linea di chitarra di Gregor Mackintosh muta l'approccio mostrandosi in una veste più marcatamente heavy. All'ascia del chitarrista inglese si aggancia immediatamente Nick Holmes, con la sua voce cangiante e notturna, dotata di un magnetismo sempre affascinante, in grado di risvegliare la nostra anima dormiente. "Universal Dream", come si evince facilmente dal titolo, tratta del tema del sogno. Un tema complesso, intricato, trattato poche volte dal gruppo, ma coerente con la linea di pensiero degli inglesi. Il sogno è il luogo in cui tutto è possibile, in cui non esiste materialità. È il luogo dove tutto si realizza e tutto si distrutte. Poi ci svegliamo di soprassalto, e quello che prima toccavamo con mano viene spazzato via come una foglia da una folata di vento. La traccia esplode nel ritornello e implode nei secondi successivi a questo. Nel modus operandi tipico dei nostri, dove una scrittura metal incontra i ritmi incessanti della chitarra. Si intravedono momento più leggere ma sono completamente inseriti in un contesto dinamico e rumoroso, dove la voce umana non ha nessun valore. Dove la materia non esiste e tutto fluttua in maniera ordinata. Il sogno dai nostri viene definito universale, e questo significa molto. Con universale il gruppo, o meglio i due songwriter Gregor Mackintosh e Nick Holmes, intendono sottolineare che tutti gli esseri umani dovrebbero essere guidati dal sogno di raggiungere qualcosa, prima che la morte, con la sua violenza, sopraggiunga portandoci in un'altra dimensione, più immateriale e floreale. Universal Dream non è una traccia perfetta, contiene una ripetitività che sfiora quasi la banalità, nonostante la voce di Nick riesce come sempre a mutare pelle come alte voci al mondo. Il turbinio sonoro non si acquieta nemmeno nel finale, dove un tripudio di chitarra e basso e una danza apocalittica della batteria, ci accompagna al nostro risveglio. Ed è un peccato, nel mondo dei sogni riusciamo a dimenticare per un attimo la dura realtà in cui siamo tristemente inseriti.

Universal Dream

Momenti idilliaci ad altri pensierosi si susseguono nella favolosa "Last Regret", ultimo rimpianto. Una perla sonora fatta di un saliscendi emozionale in grado di coinvolgerti con il cuore e con la mente. Il sussulto sonoro, impiantato secondo coordinate più soft e meno rumorose, spinge il gruppo a tessere strutture melodiche. Strutture in grado di farci immergere in un mare di piume dal fascino unico e inesplorato. Un tuffo al cuore si erge appena subentrano le tastiere iniziali, sapientemente integrate al tessuto sonoro da Gregor Mackintosh, al fine di creare il terreno di coltura per la voce di Nick Holmes. "Last Regret" è una traccia amara e rassegnata, perché in grado di analizzare la realtà in maniera lucida e non ideologica. Affermare di essere in procinto di esalare l'ultimo respiro in un mondo fatto di paure e ansie, in una realtà che ci ingabbia con l'illusione, non dovrebbe destare destabilizzazione. Tutto si può dire dei nostri tranne che siano dei disfattisti o degli sfasciatori di sogni: la capacità di integrare il pacchetto sonoro ad uno lirici di ampio valore, perché inserito in un contesto di verità riscontrabile, rende questa, e altre tracce passate e future della band, dei preziosi scrigni di lucidità. Le musiche scelte dal combo non cambiano la traiettoria già messa in piedi nelle precedenti canzoni: la chitarra è un pennello che disegna riff dolci e sensuali anche se apparentemente melodrammatici, la batteria è quadrata e sempre in background rispetto agli altri strumenti a corda, ed infine il basso si accoda alla chitarra di Gregor al fine di creare il giusto ambiente. Last Regret esplode poi nel ritornello quando la strumentazione sale di intensità per poi scendere progressivamente quando Holmes pronuncia le parole basiche del brano "Hear my last words / This my last regret / Hear my last words / This my last regret" (ascolta le mie ultime parole / questo è il mio rimpianto). Nel finale non assistiamo a sorprese necessarie a capire la traccia, ma solo ad una mera ripetizione dell'impasto sonoro fino ad allora proposto. Nella solita cornice paradiselostiana, fatta di poca speranza e di tanta lucidità.


In Truth

Come ultimo brano abbiamo un caleidoscopio di emozioni. Il perchè semplice intuirlo, appena si preme play Living with Scars (Vivere con le cicatrici) esplode con una potenza heavy forze mai sperimentata, con riffing particolare, al limite del death metal. Ma è una forza metallica che nasconde venatura di leggerezza e di melodia, tanto da mutare improvvisamente dopo pochi istanti. Living with Scars è un altro testamento sonoro impeccabile, fragoroso e pungente, che dal punto di visto lirico fa riferimento alla nostra vita, fatta di sacrifici e di ferite che non si rimarginano. Lasciano il segno, con delle cicatrici che ci accompagnano fino alla fine dei nostri giorni e non bastano i sorrisi di plastica: la vita è un inutile calvario, che noi essere umani siamo costretti a percorrere. Viene dunque rimesso in piedi il concetto che la band ha dell'esistenza, un inutile passaggio, una corsa verso il nulla che sà di infinito dubbio. I nostri si attenuano anche dal punto di vista delle intelaiature musicali approcciando diversamente nei pressi della metà del primo minuto. Nick assume una forma meno estrema e più gotica, dando il via anche alla prestazione solistica di Gregor Mackintosh che si impegna al massimo per dare vita ad un assolo magistrale. La batteria di Jeff Singer inanella i giusti ritmi senza stravolgere fin troppo la base di fondo. Non solo precisione ritmica ma anche astuzia nel mettere tutte le tessere del puzzle in modo accattivante. Non a caso, la struttura melodica non è mai la stessa ma assume forme, sembianze, sempre diverse e sfuggenti. Con il riff iniziale ripreso e rimodulato a piacere e con l'impronta vocale di Holmes che si muove ora in territori più sicuri rispetto al cambio iniziale. Living with Scars non si adagia sugli allori e non smette di cambiare almeno fino al terzo minuto, appena lo slancio chitarristico diviene più corposo, mentre Holmes non smette di sorprendere con il microfono in mano. Insomma, Living with scars è un brano esauriente sia dal punto di vista melodico che da quello lirico, la conclusione perfetta per questo gotico e oscuro Faith Divided Us-Death Divided Us.

Conclusioni

Riprendendo l'ultima considerazione dell'introduzione, Jens Bogren ha compiuto davvero un grandissimo lavoro, riuscendo ad enfatizzare i momenti in cui le due chitarre inchiodano il loro rifferrama appena Holmes abbandona per un secondo il microfono. La morte è il collante di tutti i frammenti proposti, messi in auge in maniera impeccabile e matura. Come da titolo, la concezione mortifera della realtà che ci circonda non è altro che pura manifestazione della disillusione, della speranza. E se esiste una luce, non avrà mai la potenza necessaria per squarciare le tenebre, le quali sono il pilastro del nostro animo. Questa luce è incarnata dal clean melodico di Holmes mentre tutta la sezione ritmica personifica la fitta coltre di fumo nero che è impossibile scandagliare da quel filino di fonte luminosa. Le tematiche classiche sono riproposte, ma non in maniera fredda e manieristica rispetto ai lavori precedenti, si tenta di rimodernare anche la canonica proceduralità di scrittura, imperniata su nuclei tematici abbondantemente definibili come trademark della band. Anche se Nick Holmes e Gregor Mackintosh tentano in alcuni frangenti di approcciare alla materia lirica con un piglio diverso rispetto ai lavori precedenti. Complice una ritrovata e felice posizione nel mondo discografico che pochi anni prima traballava come mai era successo. Dalla title-track fino a Frialty, passando per The Rise of Denial: in questi brani ci sono momenti, sensazioni e alchimie che non sfigurerebbero assolutamente se accostati ai tanti brani storici di Icon e Draconian Times. A partire dalla catarsi trascinante della strumentazione, impeccabile e ombrosa e ripetitiva solo per alcuni istanti, che non vanno decisamente ad intaccare il prodotto finale, che è di assoluto livello, fino alla vocalità ardentemente ispirata di Holmes, in alcuni momenti opprimente come solo lui sa fare. I brani calcano un selciato a tratti catchy e orecchiabile, grazie a ritornelli memorabili (Last Regret, As Horizon End) e a sezione ritmiche potenti (The Rise of Denial), legate ai tecnicismi del fido Mackintosh, in grado di prendere per mano la band, con finezze chitarristiche ricercate e particolari, nonostante calchino quelle note ascendenti inserite perfettamente nei brani. "Faith Divides Us-Death Unites Us" non è certamente un lavoro perfetto, non è esente da piccoli difetti, come ad esempio un modus operandi a tratti reiterato o una ricerca fin troppo esasperata della melodia facile da assimilare. Anche se i Nostri essendo maestri nel loro campo "mascherano" quei difetti in maniera impeccabile e direi fruttuosa. Insomma, se cercate un lavoro in modo da accompagnarvi nei meandri della vostra notte pensierosa basta scegliere questo dodicesimo parto del paradiso perduto e non perder ogni secondo proposto. Accennavamo a quella nave gotica posta nell'oceano? È giunta a destinazione, lasciandosi trasportare dalla segnaletica di un faro vicino? Assolutamente si, con "Faith Divides Us-United Us" gli albionici mettono a segno un nuovo centro, oscuro e delizioso. Che a distanza di ormai dieci anni rimane quel disco necessario per capire il percorso tortuoso e non semplice di quella band composta da giovani ragazzi, che da Halifax ha portato nel mondo il gothic metal. Con Faith Divided Us-Death Divided Us, i Paradise Lost completarono definitivamente il loro ritorno al metal che fu, portando a casa un disco semplicemente eccezionale, ricco di brani dal forte impatto emotivo.

1) As Horizons End
2) I Remain
3) First Light
4) Frailty
5) Faith Divides Us - Death Unites Us
6) The Rise of Denial
7) Living with Scars
8) Last Regret
9) Universal Dream
10) In Truth
correlati