PARADISE LOST
Draconian Times
1995 - Music for Nations
GIANCARLO PACELLI
23/05/2018
Introduzione Recensione
Come i camaleonti mutano colore a seconda delle circostanze, come il ferro ad una certa temperatura può essere modellato a piacere, i britannici Paradise Lost all'alba del 1995. Dopo un lavoro cosi concettualmente "pesante" come "Icon", i Nostri risultavano una grossa incognita per tantissimi fans di tutto il mondo. Chissà cosa bolliva in pentola nelle menti dei nostri mastermind? Dopo cosi tanti cambiamenti stilistici in vari anni ci si poteva aspettare veramente di tutto dal nostro quartetto, che era riuscito a sbalordire tutti, dai classici fan del metallo pesante fino ai supporter del rock oriented, sfornando lavori intrisi di venature oscure, quasi impercettibili al nostro udito ma ampiamente elastici nel mostrarsi nella loro natura. Le capacità di Nick Holmes e compagni erano ormai, mai come ora confermate anche da un buon rendimento discografico, nonostante il già citato "Icon" non avesse provocato così tanto seguito. Tuttavia questo non importava, non abbattendo certo gli animi o provocando chissà che reazioni. Molti fan si aspettavano una riproposizione di quelle eteree sonorità che avevano contraddistinto la verde icona, quel capolavoro all'inizio non capito... invece, si sbagliavano di grosso. Chi si aspettava ad un ritorno del growl di Nick Holmes, chi invece una predominanza del death-doom: le ipotesi possibili erano molte e i Paradise Lost, oramai ancora più conosciuti rispetto ad alcuni anni prima, non volevano di certo deludere i loro supporter. Con "Draconian Times" il combo di Halifax si concentrerà ancor di più nello scavare all'interno dei meandri delle coscienze dell'essere umano, si cercherà ancora di più di indagare sul perché di ogni cosa che ci circonda. Già dal titolo s'intende un gran parte di cose: è una narrazione, è un flusso di coscienza che si inanella a meraviglia nei brani che costituiscono lo scheletro del platter. L'impasto sonoro risulterà ancora una volta ampiamente distante dalle ritmiche doom di "Icon" e dalla complessità di "Shades Of God". Il suono sarà infatti pregno di elementi di derivazioni rock gotiche incorporate nel contesto metal di cui i nostri sono ampi esperti. Assolutamente da sottolineare è l'ingresso in formazione sia di un tastierista turnista (Andrew Holdsworth) che l'uscita di Matthew Archer (sostituito da Lee Morris). Stravolgimenti nella formazioni ci furono e diedero un certo impatto anche al sound in generale, ma non andranno a minare la solidità compositiva/strumentale che i Paradise Lost avevano soavemente dimostrato con i loro dischi antecedenti. L'intaglio chitarristico, che andrà sempre a volteggiare con le vocals di Holmes, risulterà sempre assolutamente di livello, quasi vitale dato che l'impianto sonoro della nostra band è situato proprio in quel preciso contesto. Mackintosh quindi si confermerà mattatore assoluto, disegnando riff memorabili e anche abbastanza "orecchiabili". La band oramai era consapevole di essere nel meglio della forma ed era decisa di sfruttare questo momento di freschezza anche per affermarsi nel gotha delle migliori band a livello mondiale. Non a caso il sound sarà volontariamente tanto oscuro quando compiacente, quasi creato ad hoc per un nuovo pubblico, in grado di accontentare più o meno tutti, senza fare distinzioni di sorta. Dopo un "Icon" cosi complesso i nostri volevano gestire la loro materia oscura con più tranquillità, ponendo le giuste basi per songs di impatto sì, ma sempre caratterizzate da quel gusto geniale, da quell'odore sinistro di un castello malandato di una campagna britannica. Il marchio di derivazione targata Paradise Lost è ben visibile in ogni punto dell'album, getterà alle ortiche ogni qualsivoglia spirito di detrazione. "Draconian Times" rappresenta l'ultimo lavoro propriamente metal dei nostri del secolo scorso. Un punto fondamentale, il nodo da sciogliere per capire l'impatto anche negli ambienti mainstream del quartetto di Halifax, che da qui in poi risulterà ancora più aperto e accessibile. Superare i confini e mostrare tanta classe sopraffina, questo è l'obiettivo del paradiso perduto. Andare al di là di determinate barriere, infrangerle ancora una volta per proporre al mondo un qualcosa che fosse ancora una volta unico e decisamente sui generis, caratterizzato comunque dalla volontà di risultare diretto e privo di troppi filtri, in grado di arrivare in maniera subitanea ad un pubblico eterogeneo pur mantenendo una propria carica di genialità intrinseca. Quella genialità mai persa ed anzi, sempre mostrata con vanto da questo combo inglese, fieramente deciso ogni volta a far parlare di sé. Detto questo non mi resta che augurarvi buona lettura.
Enchantement
Ed eccoci qui, in una stanza buia, fredda e chiusa dall'esterno; sentiamo in lontananza un suono, sembra un pianoforte. Sì, è proprio un bel pianoforte che con una sinuosità fuori dal comune rompe il silenzio. Ci sta dando la mano, nonostante il clima tetro siamo comunque speranzosi. "Enchantement" (Incanto) è un titolo che più centrato in pieno non si può. Una polvere di incanto sembra camminare tra una nota e l'altra colorando questa stanza buia in cui siamo inseriti. Un minuto denso di musicalità e classicità basta per intendere le intenzioni del nostro combo, deciso più che mai a sfogare il proprio talento. Un piano che si ferma a suon di distorsioni, contesto in cui il nostro Mackintosh si dimostra abile nel non rovinare la musicalità che si era creata ai primi sgocciolii. La batteria con i suoi pattern è poderosa come il basso, messo in prima fascia grazie ad una giusta produzione. Abbiamo oramai intravisto una luce quindi siamo più rassicurati. La voce di Nick Holmes ci avvolge, risultando ancora più incisiva del basso che abbiamo accennato pochi secondi fa. Le vocals sono accorpate a giusti cori e fanno si che quest'ultima diventi la regina di questo incanto. Una traccia ampiamente dedicata alla forza interiore, che risiede quasi silenziosa in noi stessi ma che brulica nel fatto di uscire e di urlare. A volte cerca di venir fuori prorompente ma la nostra negatività la rispedisce all'interno di noi stessi. E come il nostro vigore interiore riesce ad uscire impetuosamente in un momento o in un altro, cosi anche i poderosi cori nel brano riescono ad aumentare la delizia di quest'ultimo, si incastrano con ottimo tempismo con i riff duri e allo stesso tempo morbidi della chitarra principale. Holmes nella sezione centrale propone il suo bellissimo e unico clean, sfuggente e brillante. Ora, il buio che ci attorniava con una temibile forza, pochi secondi fa, è solo un sinistro ricordo da accantonare per sempre. La nostra voce è una torcia straordinaria, è talmente impastata che l'ascoltatore non sa se quest'ultima si elevi verso lidi differenti o rimanga sempre in quelle decise tonalità. É una giostra che va avanti e indietro cosi come "Enchantment" stessa che prosegue, diretta e secca con accenni qua e la di ottimi giochi chitarristici che non fanno altro che accompagnare ed aumentare il livello delle solidità delle vocals di Holmes, che si fanno mano mano ancora più oscure. Il nuovo batterista Lee Morris riesce a stare dietro ai non velocissime ritmi che proseguono a cavallo della metà del quarto minuto. L'anima gotica della voce di Holmes è in questo frangente ancora più evidente: nera ma allo stesso tempo un "piatto succulente" per tante fasce di ascoltatori. Terminato l'ultimo schizzo vocale la palla passa a Gregor aiutato da intermezzi quasi orchestrali, il quale è l'incaricato nel trasformare "Enchantment" in un brano assolutamente indimenticabile.
Hallowed Land
Proseguiamo con il nostro lavoro con la seconda traccia, che aveva sicuramente tutte le carte in regola per essere scelto come singolo di lancio. "Hallowed Land" (Terra benedetta) è non solo uno dei pezzi più riusciti di "Draconian Times" ma è anche uno dei brani più famosi dell'intera discografia dei britannici. Ma cos'avrà di speciale, questa Hallowed Land? Una terra benedetta, un ipotetico spazio ben definito in cui la nostra mente viaggia incontrastata e desiderosa di abbandonare i tumulti quotidiani. L'intro è ostinato ma allo stesso tempo poetico, dipinge una terra sconfinata fatta di una verde pianura la quale si materializza nel nostro riquadro intellettuale sin dai primi gelidi secondi ed è in se per se un motivetto unico e straordinario. Una chitarra dolce e soffusa non ha nessun problema ha disegnare un riff scaltro e abile, che si innesta a memoria con le pelli di Morris. Una volta che il brano parte già sappiamo come il resto si scriverà praticamente da solo: Holmes sprigiona le sue linee vocali che viaggiano tra l'ottimo guitar work delle due chitarre prima di impastarsi persino con le fragorose tastiere. Tastiere in sé per sé marchiate da riscontri positivi, dato che sono la colonna onora perfetta da questa realtà frivola, dove gli esseri dotati di sensibilità sono costretti a cedere il passo a pensieri negativi. Le note tastieristiche non fanno altro che mutare la voce del nostro in un pulito riflessivo e poetico. Holmes ci dice, anzi ci consiglia di scrutare il nostro animo e di trovare la terra benedetta ("Seek hallowed land"), la quale è presente dentro ognuno di noi, territorio di rifugio da questa vita mondana e monotona. Nella parte pre-chorus l'epicità del brano aumenta di più grazie ad una sostanziale sezione ritmica che punge verso lidi che sanno quasi di sinfonia, e qui l'ugola di Nick non può che correre spedita in eteree effusioni gotiche dove quel "Seek Hallowed Land" viene ripetuto ben due volte. Una sana e intelligente matrice commerciale è ben presente nell'aria, si percepisce. Ma questo non va a minare la grandiosità di questo brano che ha segnato per sempre la carriera del paradiso perduto. Un viaggio mentale che è in grado di trasportarci chissà dove, l'impatto delle tastiere nel quadro strumentale è allucinante come sono allucinanti gli accordi che Gregor ci propina. Il riff immancabile arriva alle soglie del quarto minuto, aumentando il livello e allontanando ogni critica che forse vedeva questa traccia troppo orecchiabile e "commerciale". "Hallowed Land" si conclude con il clima epico con cui è iniziata, un brano fondamentale per l'intera carriera della nostra band.
The Last time
Nel corso della vita, quante volte ci è stato rubato più di un sorriso. Il nostro percorso incontra innumerevoli ostacoli che potrebbero essere distrutti con una salutare positività nell'affrontare la situazione... anche se, e lo sappiamo bene, non va sempre così come vogliamo noi: quello spettro del passato ci cammina sempre molto vicino, scacciarlo è un'impresa decisamente ardua. E quante volte diciamo "Ora è l'ultima volta", nella speranza che quel particolare evento cessi per sempre? Tante volte. "The Last time" ci incanala in queste linee sensoriali che si materializzano quasi fisicamente nell'introduzione iniziale affidata a Gregor, rigonfio di un'attitudine assai graffiante e oscura. Sembra violentemente rimandare a quella capacità di guardare col capo ritto e avanti, senza ripercussioni o ripensamenti. È un suono netto e preciso che assume ancora più colore col drumming complesso e articolato di Morris, intenzionato a rimarcare quella forza musicale che le corde di Mackintosh hanno dimostrato nei primi battiti di questa The Last Time. L'impetuosità iniziale scema di un secondo, e un tocco di matrice doom avvolge il brano. Questo per poco, dato che con il nostro Holmes tutto riprende uno smalto potente e dirompente, come sono le intenzioni narrative del brano. Non a caso la parola "intenzione", a volte proprio quest'ultima manca e la sua assenza è in grado di traslare le percezioni umane in un equilibrio dove l'indecisione serpeggia ovunque. Ma la violenza melodica dei Paradise Lost è ben ordinata nel combattere questo stato d'animo triste di perenne indecisione. Le cadenze del brano assumono quasi tonalità ipnotiche pur ricalcando sempre i territori dal sapore gotico. Cadenze che si caricano di emotività nel chorus in cui la voce di Holmes è accompagnata da una voce fuori campo che ripetono quasi ossessivamente "Hearts beating" (Cuori che battono) tesi proprio a dare una luce in questo mare in tempesta. Il cuore rimane l'unica nostra arma che nel bene o nel male non rimarrà mai del tutto squarciata dalle nefaste situazioni che possono capitare. Possiamo aggiungere che è un attitudine semantica "strana"se pensiamo al nostro combo anni fa che disaminava con una nera negligenza l'animo umano in una maniera che decretare arrendevole è poco. L'impasto ritmico dopo il primo ritornello è pressapoco lo stesso a quello di prima, anzi forse il basso di Edmonson rispetto a prima riesce ad essere piu presente nei suoi pochi ma decisi accordi. I cuori che battono sembrano quasi essere distinguibili nell'assolo meraviglioso di Gregor che riesce come sempre ad usare la sua ascia con un criterio sempre pietrificato nell'emozione di ogni singola nota. Una volta che il chorus viene ripetuto e "urlato", il brano si spegne quasi all'improvviso. Complessità al servizio dell'emozione, questa è The Last Time.
Forever Failure
Se negli ultimi brani abbiamo notato sprazzi di insolita positività nella penna dei Paradise Lost il successivo pezzo si ammanterà di un alone nero. Imparare dagli errori, guardare al passato con diffidenza per le ombre che nasconde. Ecco, il paradiso perduto intende riflettere ed esplorare la classica umana condizione di perdizione del presente, amalgamata ad una frustrazione nera che colora di un sano e deciso nichilismo tutto ciò che circonda i nostri occhi. Stranamente "Forever Failure" (Per sempre fallimento), secondo singolo dopo "The Last Time" inizia a piccoli passi con un introduzione di matrice classicheggiante che inonda la curiosità dell'ascoltatore, il quale è ben consapevole del fatto di potersi aspettare ogni cosa dalla band britannica. Il piglio classico dopo pochi accenni iniziali viene smorzato da una decisa sferzata di chitarra che si appiglia alla voce del nostro Nick Holmes, che recide lo spirito classico che si era timidamente formato per dare vita ad un vocalizzo profondo e malinconico. Non esiste speranza, la luce dell'ottimismo viene brutalmente spenta in ogni respiro di Holmes. Non poteva iniziare in una maniera diversa questo brano, portavoce di una condizione umana miserevole a ampiamente negligente. Ma non siamo tanto scossi da queste tematiche, oramai abbiamo compreso nel passato del nostro combo le linee su cui si muovevano e coerentemente ancora oggi si muovono in questo riquadri, magari tristi e arrendevoli, ma che non fanno altro che spiattellarci di dosso una cruda realtà. Il fallimento è il tema del brano, tale oscuro movimento psichico è dettato magistralmente da Holmes che con la sua capacità di canto, nella "lentezza" dell' intero apparato strumentale, ci parla anzi ci sospira senza filtri la temibile realtà. L'andamento doom è ben percettibile, soprattutto nella situazione pre ritornello: le tastiere si fanno più presenti, si accavallano ora alle vocals di Nick, le quali diventano oscure e squisitamente gotiche. Un bel cambio di rotta rispetto al blocco iniziale del brano. Il video pubblicato dalla "Music For The Nations" è immerso in un classico bianco e nero, non c'è spazio per vivacità e il video ufficiale, grazie al suo carico emotivo, assieme alla musica diventa fondamentale. Il basso ben messo in evidenza, accorpato ad ottime insinuazioni classicheggianti (come quelle dell'inizio) inaugurano la seconda parte del brano, che affonda ancora di più il coltello nel nostro sterno: quel "Are you forever loss of purpose in a passive life/ Are you forever pale, regarded as a waste of time" (Sei per sempre la perdita di scopo in una vita passiva/Sei per sempre pallido, considerato come una perdita di tempo) è il cuore del nostro tortuoso percorso che tange ogni corda della nostra emotività. E proprio il contesto emotivo riesce ad emergere nella breve parentesi strumentale ch fa da tappeto per un'insolita incursione parlata. Ma chi è questa voce? È Charles Manson (ex criminale americano), Holmes decise infatti, dopo aver visto un documentario di Manson, di porre questo spezzone di parlato nel brano. Una mossa quasi strana ma che va ad accentuare ancora di più l'intento demolitrice di "Forever Failure". Il nostro terzo brano di conclude con incursioni acustiche e con un assolo degno di nota di Mackintosh.
Once Solemn
Il tema del passato è sempre onnipresente, in ogni gesto della nostra esistenza porgiamo sempre un occhio in particolare a eventi che ci hanno segnato. La personalità umana è in grado di assorbire come una spugna ogni particolare situazione. Ma se il passato è tanto agognato allora un comune essere mortale cosa deve fare? Come può approcciarsi all'incidere dei giorni che immettono nelle nostre coscienze solo pressione? Beh in quel caso bisogna essere rigorosi e abili nel trasformare tutto che si presenta sotto i nostri occhi avverso in qualcosa di soddisfacente e minimamente positivo. Una scarica di adrenalina, una raffica fulminea ed un tuono dissonante di chitarra/basso/batteria inonda il primo secondo di "Once Solemn" (Un tempo solenne). Chissà se i nostri con questa introduzione ben colorata strumentalmente parlando volevano subito farci cercare le risposte che cerchiamo? Sicuro che l'intro veloce è indice di grinta: ricordiamo che i Paradise Lost non molto spesso impiegano i primi secondi di un brano dimostrando cosi tanta musicalità subito. Il pezzo corre velocissimo, con un tappeto chitarristico segnante a cui si aggrappa la voce di Holmes, che quasi non riesce a stare dietro alla rapidità performante delle due chitarre, le quali si destreggiano in un stile tutt'altro che gothic. Holmes è quasi innestato in un clima che ricorda la velocità hard rock. Ogni spiraglio emotivo che ha caratterizzato sempre l'operato della nostra band in questa "Once Solemn" è spazzato via verso un approccio più diretto, meno atmosferico ma pur sempre consenziente con quelle gelide linee sonora che pure sempre sono parte integrante dello scheletro ritmico del combo britannico. Scrollarsi di dosso tanti pensieri per abbracciare percezioni più positive: questo sembra emergere nei tre vulcanici minuti di questa track che vede Holmes impegnato come mai era successo prima. Ma ecco un momento di stasi: dopo un bel po di minutaggio improntato nella caparbietà musicale si inserisce un momento, che seppur dichiaratamente inseguitore dell'impasto generale della song, è ricalcato da venature doom, in cui il basso emerge in una maniera altamente incisiva. Ma questo per poco, dato che la vulcanica sezione strumentale irrompe di nuovo, immettendoci in quel clima dove la ribellione è posta in primo piano.
Shadowkings
Pochi giri di accordi di chitarra e "Shadowkings" (Re dell'ombra)si presta a viaggiare nelle nostre percezioni sensoriali. Un paio di movenze chitarristiche capaci di innestare il resto della strumentazione: basso ben presente, batteria decisa e modulante. La classica aura misteriosa di ogni brano del combo gotico riesce sempre a metterci in stand by con le nostre emozioni. Un flusso di musicalità eccelsa ci agguanta letteralmente. Siamo posti in un tortuoso moto a spirale come il nostro Holmes ci accenna nel suo esordio vocale: "A spiral movement, the ultimate mystery" (Un movimento a spirale, il mistero ultimo). Il nostro cervello danza, siamo noi l'obiettivo semantico del brano, siamo esseri fragili ed incompresi. Non ci resta altro che aggrapparci in concetti che fanno della religione il loro punto centrale. Siamo talmente attorcigliati da tante difficoltà che noi stessi fatichiamo a trovare un nostro equilibrio interiore. E allora cosa fare? Esiste la religione, quello strumento che è nato proprio da un fiore di fragilità all'interno del nostro spirito. Non sappiamo distinguere il corretto dallo sbagliato. Il clima è a mo di spirale, una spirale di allusioni, Holmes è abile ad entrare nel momento esatto in cui l'epicità del brano inverdisce, dopo quella bella giuntura di chitarra una scandita da anche da due ottimi Edmonson e Morris, entriamo nel cuore pulsante del brano. Spinto e colorato dalla sua meravigliosa voce oscura, Nick si dimostra sempre perfetto nell'inserirsi coi tempi giusti su ogni guizzo strumentale. Ogni vocalizzo è un lamento, e anche quando le vocals assumono un piglio più positivistico state certi che quell'odore di gotico interverrà sempre. E difatti nella sezione intorno al primo scarso minuto assumono un risultato più fragrante, con un netto cambio di marcia anche delle due chitarre. Qui si innesta il classico tono oscuro magniloquente che ha in quel "I don't know....I don't know....who I am!" (Non lo so....non lo so... chi sono!) il momento in cui la catarsi del brano esplode letteralmente. Chi siamo? È la domanda più antica del mondo, è un percorso interiore, è una domanda che forse non riceverà mai una degna e precisa risposta. Dalle abilità del nostro combo di tessere linee melodiche volatili e arcigne si sente proprio, si percepisce quel clima di incertezza. "Shadowkings" tuona ancora di più nel proseguire a mò di cascata, dove ogni tanto spiccano le note alte della nostra abile ugola. Il basso preme, il gioco armonico si chiude ancora di piu su se stesso facendoci immergere in un mare fatto di perenne dubbio. Ma ecco la nostra salvezza, la luce che Gregor Mackintosh ci pone con la sua arma. Il suo assolo è composto e semplice, perfetto nella sua apparente semplicità. Ci da la mano nei brulicanti finali di questa bellissima traccia.
Elusive Cure
La fugacità del tempo, la frenesia di ciò che doveva essere e ciò che è stato. Uno stato mentale pallido e fermo in una realtà astrusa e grigia. Le epoche che passano inesorabilmente. Bisognerebbe inventare uno strumento che fermi il tempo in modo da assaporare ogni secondo. Se i Paradise Lost nei primi brani si sono lasciati andare con brani alquanto speranzosi, in "Elusive Cure" (Cura sfuggente) tutto ciò di positivo viene annientato all'istante. Ma non è solo negatività ciò che contraddistingue questa song: c'è anche una sorprendente visione abbastanza forte e dinamica nel reagire, non la chiamiamo "positiva" perché questa parola nel contesto dei nostri suona sempre un po' forzata. Questa forza, diciamo, non esplode nei minuti finali ma già si pone in una maniera piuttosto esaltante nelle briciole iniziali dell'introduzione; la quale è ariosa, impastata ritmicamente con un basso potente e da una chitarra che non è ai margini ma riesce a graffiare le nostre percezioni. Come l'irascibilità nei confronti dell'essere umano aumenta nei confronti di una realtà statica e insoddisfacente, la sezione ritmica del paradiso perduto in pochi secondi riesce a compiere un sobbalzo ritmico che macchia la freschezza iniziale con parti serrata e allo stesso tempo avvolgenti. Quando Mackintosh inizia ad ingranare allora possiamo dirci ufficialmente nel brano, Holmes è caldo e coinvolgente, riesce sia a farci emozionare che a farci riflettere. Il tempo cosi fugace porta con se tanta sofferenza, bisognerebbe scavare a fondo e ritrovare quell'armonia che caratterizza la convivialità umana. C'è un sacco di polvere, il desiderio di riuscirci è ben impiastrellato in profondità che necessitano di tanta pazienza per essere scovate, portate alla luce del giorno. La cosa giusta da fare è allontanare il rammarico, quel piccolo tassello di negligenza che è annidate nella nostra coscienza, il quale riesce a bloccarci. L'invito dei Paradise Lost è semplicemente "essere più forti", essere più decisi nel costruire una realtà favorevole alla nostra visione. E non a caso Nick riesce a sbrodolarci di dosso vocalizzi colorati di verde speranza, non prima però dell'avvento della sezione iniziale, impiantata come in precedenza da un basso di Edmonson esaltante e preciso. Essere capaci a modellare diverse parti ritmiche in una maniera molto astuta rimane un grosso fiore all'occhiello nel bagaglio conoscitivo del combo britannico. Il riuscire a modulare e ad alternare i diversi tempi è un punto essenziale, e qui in questa Elusive Cure, questa caratteristica viene fuori. Terminata la parte "vuota", Holmes torna ancora più lento e oscuro. La sua voce come sempre riflette lo stato animo comune: calda e avvolgente in alcuni tratti, mentre fangosa e nera in altri. La base strumentale di questo pezzo è straordinaria, si muove sinuosamente in un'altalena, in un saliscendi emozionale degno di nota e riesce ancora di più ad esaltare le doti canore di Holmes. Giunti alla fine, densi di quel fervore gotico l'ascia ritmica mista alla radiosità della nostra voce risultano eccellenti nell'introdurre un breve assolo di Gregor, perfetto per concludere questo brano.
Yearn For A Change
"Yearn For A Change" (Aspirare ad un cambiamento) impatta soavemente con gli equilibri dei brani precedenti con uno strascichio di meraviglia acustica. Aaron Aedy è l'iniziatore di un rinomato getto acustico che si pone altisonante e etereo nello scheletro di un nuovo tassello musicale di "Draconian Times". L'introduzione elegante di "Yearn For A Change" contrasta con l'aurea sulfurea che questo brano sprigiona a più non posso. C'è la speranza di un improbabile cambiamento quel ticchettio del charleston è dirompente e si dimostra un perfetto modo per concepire il suono di un cuore umano. Zero auspici positivi, il canale oscuro classico è talmente onnipotente e onnipresente che sin da una scarsa introduzione acustica si capisce dove il nostro combo vuole andare a parare. Siamo in apnea, non respiriamo dato che attorno a noi subentrano solo forze oscure e sinistre. Dov'è la luce? I Paradise Lost giocano con la nostra sensibilità, che viene fuori in momenti come questo. Quello stacco acustico tanto semplice tanto beffardo termina dopo 30 secondi di agonia da un clima distorsivo che si materializza assieme ai colpi di grancassa della new entry Morris che pone matematicamente il suo piede in ritmi quadrati che un po' eliminano quel tepore che dominava gli inizi di questa "Yearn For A Change". Questa nuova situazione pone apparentemente un motivo di speranza ma invece non è cosi: la penna diabolica del quartetto pone il nostro cervello nella situazione meno felice possibile: guardare alle ferite del passato. Quelle ferite come grilli che scattano creando allusioni negative, disegnando un universo temibile in cui regna sovrana solo la solitudine, unica chiave di accesso ad una "felicità" che comporta all'abbandono dell'altro. I ritmi oscuri a cui siamo abituati qui ricalcano le chitarre ben impastate e rimate, che aumentano di incisività con il passare dei secondi, anzi più secondi sono piccole coltellate che affondano il nostro animo. Dopo l'intervento del sovrano oscuro della voce che corrisponde a Nick Holmes, il quale esordisce scaraventando appieno macigni sulla nostra visione, inerendo ancor di più l'aria in cui siamo inseriti. Il nostro cantante con i suoi toni toni bassi è squisitamente ispirato, anche negli accenni solistici di Mackintosh riesce ad essere magistrale. Non potevamo assistere ad una migliore performance di Holmes, che è l'archetipo del sound dei Paradise Lost. Il terreno si fa oscuro ancora di più, il brano al posto di sgorgare verso un lido più aperto e sinuoso si chiude sempre di più in una spirale oscura, ma non è tutto è perduto. Vediamo una luce, forse è un riflesso del sole, che ci illumina la fronte: la chitarra acustica di Aedy torna a macinare note che consentono di alleggerire il carico del sound, con un abbandono temporaneo al microfono di Holmes. Questo per poco perché il nostro torna, con un concentrato di negligenza riassunto in poche parole: "Life is all the pain we endeavour" (La vita è tutto il dolore che proviamo). Non c'è un'espressione migliore per esprimere il moniker dei nostri: la vita è una spugna che assorbe tutto ciò che raccoglie per poi spiattellarcela di dosso senza un minimo di rancore. Questo spezzone di brano è ripetuto anche da un incurione corale che accentua ancora di più il suo peso. Un assolo finale di Mackintosh, ben supportato dalle vocals ampiamente alte e ripetitive di Holmes e dal groove potente di Morris spegne questo brano.
Shades Of God
Con il proseguimento del nostro platter ci addentriamo sempre di più nelle fasce oscure, in quella sintassi dove predomina il nero più intenso. Inarrestabile è la forza che la band possiede nel sporgere la materia gotica in cotanta grazia e familiretà. E non solo, nel prossimo brano "Shades Of God" (ricordiamo titolo del terzo lavoro in studio dei nostri) il predominio della negazione colora ogni secondo, ogni battito di ogni istante. Negazione vista come la più temeraria spada che va a trafiggere il sorriso, il simbolo, l'archetipo della felicità. Una felicità che non deve respirare nemmeno un secondo, deve spegnersi inesorabilmente senza lasciare una minima traccia- l'impalcatura ritmica su cui è sorretta la struttura portante del brano è subito ben percepibile con un guitar work di chitarra che riflette l'amaro e il buio. Dall'ottimo colpo di batteria si infila Gregor che con la sua arma fila un rigonfio gioco di corde, sembra un urlo bloccato in quattro pareti. Il brano carbura e con lui il coefficiente di negligenza, che volente o nolente è la base sintattica di ogni cosa: ma la musica si riallaccia alla perfezione con ogni palpitazione che fuoriesce dalla mente dei nostri sognwriter. Il brano si apre con una grande ventata melodica che subito si arriccia su se stessa quando Mackintosh pone una torsione nell'assolo bloccandolo e facendolo partire con tutt'altro smalto, terreno succulento per un grande Holmes. Il nostro performer è ispirato a mille, i suoi toni sono estremamente raffinati, corrono e si adattano con l'ascia principale che è la bussola primaria di tutto Shades Of God. Arriviamo al cuore, nel centro pulsante di tutto: "Are you the one who tries to send me to the grave/ I cannot know who deals resent, who deals the pain" (Sei tu quello che cerca di mandarmi alla tomba/ Non posso sapere chi si occupa di risentirsi, chi infligge il dolore). Quel "tu" potrebbe potenzialmente riferirsi a chiunque inglobi il male, a colui che è in grado di ostacolare. È un verso tanto breve quanto efficace, è un messaggio diretto e semplice. Semplice non puo definirsi la situazione in cui Holmes sembra ancora più impastato verso lidi epici e gotici, con spicchi altisonanti, e note alte fantastiche. Non a caso questo brano dimostra l'intero potenziale del nostro abile singer, dotato di varie sfumature, che soprattutto nel finale si caricano addosso tutto il peso del pezzo. Dopo un ultimo accenno solistico di Gregor il nostro brano si conclude, con forse uno spiraglio di speranza, seppur breve. Sarà solo un illusione?
Hands Of Reason
Immersi in uno spazio indefinito, in geometrie soffuse di un tempo passato, il nostro animo subito si rinvigorisce ad udire non un suono ma una serie di colori. Il suono del passato appunto: delirante perché ha la potenzialità di far tornare ricordi malsani, meraviglioso se invece pone nel nostro tessuto emozionale un qualcosa che ci rimanda a bei momenti. Tutto è soggettivo, ogni cosa dipende esclusivamente da noi, dal nostro animo e dal nostro cuore. Le mani della ragione non possono fare nulla: la millenaria battaglia tra cuore e ragione non cesserà mai di esistere, e proprio qui i Paradise Lost pongono questi concetti come base, come pavimentazione per la loro missione narrativa. "Hands Of Reason" (Mani della ragione) non poteva aprirsi con suoni potenti al contempo calibrati. Un basso irresistibile e portentoso, che risulta ancora più onnipresente con il subentro della chitarra di Aedy, a cui si aggancia la principale di Mackintosh. Tutto è quadrato, tutto è verosimilmente atmosferico. L'inclinazione delle chitarra scala leggermente per far si che Holmes possa inserirsi a dovere. L'innesto chitarristico con il suo riffing tagliente e accattivante non si può non definire riflessivo, un tono ritmico che ben si sposa con l'essere umano che in una continua e perenne indecisione non sa dove andare: verso la mano protettrice della mente o verso lo spazio cuneiforme creato dalla ragione? I nostri ci pongono questo piccolo ma al contempo grande interrogativo. La potenza delle vocals di Nick subisce una pesante e rotonda torsione, a cui si allacciano le partiture di chitarra perfettamente inquadrate e spalmate nell'asse del brano. Uno slancio che da un brio pazzesco alla nostra "Hands Of Reason", inebriante ma al contempo agghiacciante se seguiamo la forza dirompente dei vocalizzi di Holmes, che si dilatano cosi improvvisamente tanto da farci capire come noi esseri pensanti e fragili siamo perennemente incostanti nello scegliere una strada. Guardare al passato o rivolgerci al futuro per cercare una fugace risposta, non si risponderà mai e poi mai questa domanda: e proprio da qui che fuoriesce furiosamente questo spirito di perenne paralisi interna. Ma sprazzi melodici importanti e clean vocals attenuano tutto questo tormento. La nostra creatura gotica dalla fine del primo minuto assieme sembianze piu rinomate e palpitanti. Lento ma allo stesso tempo ritmato, quel "Love hides the things you'll never know" (L'amore nasconde ciò che non saprai mai) viene rintonato con sprazzi corali. Ecco che interviene anche l'amore, un sentimento raro che quasi possiede una forza chiarificatrice, e che nasconde "cose che non sapremo mai", quelle risposte che noi andiamo impetuosamente cercando. In questa sezione del brano si inserisce l'assolo di Gregor, magistrale, non ha punti negativi. È perfetto per far ripartire il brano con un'altra tonalità, dove Nick sprigiona il suo gran talento di modificatore della materia oscura. La chiusura non si può non definire epica ma al contempo dolce. Hands Of Reason nasconde al suo interno uno scrigno di rara bellezza.
I See Your Face
Volteggiando in un alone acustico lo sguardo di una persona che illumina uno spazio vuoto si adagia perfettamente. Poche parole. È un attimo fuggente, rapido e indolore. Il momento della morte è impercettibile, è uno scatto che impiega pochi secondi per spegnersi inesorabilmente. Spegnersi come il corpo senza che vita che sbatte a terra ma nessuno lo può sentire. La morte non ha colore, è la chiarificazione di una conclusione ciclica. Quell'alone acustico di una dolce chitarra rimane però, si materializza nell'aria creando i presupposti per un brano che narra l'istante che abbiamo narrato, quello della morte. "I See Your Face" (Guardo la tua faccia) subentra subito, dolce e rimata da una batteria delicata e ricamati in richiami sonori rigonfi di leggiadre sezioni. È la colonna sonora non di una morte normale, ma la morte di una madre do famiglia. La band britannica con questo brano ha voluto fotografare un fatto di cronaca veramente accaduto. Una madre freddata dinanzi alle sue creature, senza nessun rancore, e quest'ultimo quasi percepisce con il crescendo del brano, quando quelle due magnifiche chitarre intervengono disegnando l'impianto sonoro della track. "I See Your Face" muta di pelle diventando ricercata in ogni suo minimo particolare. Holmes è sublime con una voce in bilico tra un growl sopraffino e un clean raffinato. Una volta stabilito il riff principale il nostro brano corre spedito, con le due asce che a volte riecheggiano lidi taglienti. Non puo non essere cosi. Quei bambini non rivedranno mai più la loro madre, la loro più grande guida, il loro più grande desiderio. Nick si fa portavoce di questo dolore, con i suoi picchi vocali che delineano le urla interiori di quei bambini, destinati al peggio. Il tunnel è buio, e nessuno può tornare indietro. Un sentimento di rassegnazione mista a rancore circola in ogni passaggio, in ogni linea di questo straordinario brano. Ma un puntino si speranza c'è appena Gregor prende in pugno la situazione colorando di verde speranza questo brano con un solo ben ventilato dall'aria, una soluzione chitarristica quasi liberatoria. Mackintosh è colui che dipinge un suono e ricama una situazione. Il suo assolo si innesta ben cadenzato e ritmato creando di nuovo una situazione per l'ingresso di Holmes, il quale ripiomba ancora più disperato ma con una impronta vocale vivace che conclude magistralmente "I See Your Face" nella sua dolce brevità si dimostra un brano gonfio di oniriche melodie.
Jaded
La vita scorre incessante per ognuno di noi. Tutti noi sperimentiamo dolore e sofferenza e non possiamo sfuggire alle grinfie di queste ultime proprio perché fanno parte del nostro tessuto percettivo. Quando il nostro mondo si abbatte contro di noi i cambiamenti dolorosi bisogna affrontarli in molti e differenti modi. Non si sa il perché, ma il mondo in cui viviamo è pieno di sofferenza., un dolore che non è mai cessato e mai cesserà fin quando quella voglia di sopraffare l'altro, soddisfacendo quello spirito primordiale infantile presente in ognuno di noi, è ancora vivo. È stabilito in modo che tutti noi sperimentiamo dolore e sconfitta in un modo o nell'altro siamo tutti Siamo stanchi, quasi affaticati dai troppi colpi che questa esistenza ci infligge senza pudore e senza ritegno. L'unica alternativa è riempire il nostro vuoto con molte parole per esprimere le nostre emozioni, le nostre pulsioni sono colore da gettare su una tela per darle forma. Capovolgere le sensazioni di dolore e trasformarle in qualcosa di vantaggioso per il nostro spirito: ecco la nostra missione. Con "Jaded" (Affaticato), brano conclusivo di "Draconin Times", i nostri navigano e perlustrano a fondo l'universo umano interiore, troppo complesso e troppo dinamico per essere inquadrato con poche parole. L'introduzione affidata a batteria e chitarra si pone lenta e riflessiva, quasi cadenzata dalla fatica che si fa quando si ha una vita ricca di dolori, con poche gioie e soddisfazioni. La base iniziale è perennemente attraente, con Mackintosh che disegna un ritmo succulento e melodico, reso ancora più unico con l'ingresso di Holmes, il quale pone subito la sua presenza nel contesto sonoro nei primi passi di questa Jaded. Holmes è il portavoce di quella disperazione annidata in chissà quale angolo del nostro animo, ogni sua nota è propedeutica per narrare quella perenne insoddisfazione di proustiana memoria. Il resto della band si incarica di allargare il piano emotivo del brano, rendendolo ancor di più affascinane in ogni suo passaggio, in ogni suo brivido. Nei momenti più lenti e più cadenzati la voce di Holmes sembra scattare come una molla, come un salto che poi si ramifica nel coro centrale esplodendo con "The feeling can't avoid you - words mean so many things" (Il sentimento non può evitarti - le parole significano così tante cose). Ecco le parole sono la nostra unica arma, significano e costruiscono cosi tante cose tanto da risultare essenziali. Il pezzo si muove su linee melodiche impressionanti che smuovono e scuotono il nostro animo. Ogni nota è posizionata nel giusto luogo e ogni nota ci sussurra qualcosa: le due chitarre risultano impressionanti nel gestire la materia oscura, nell'afferrare ogni vocalizzo di Holmes e traslarlo in lidi concettuali pesanti e onirici. Giunti al secondo minuto un gioco rapido e scaltro di Morris dietro le pelli segna un netto contrasto con il resto del brano: un cambio di tempo deciso. È il preludio di un dominio totale dell'apparato strumentale do cui Gregor prende il comando disegnando giusti guizzi che non fanno altro che farci attendere ancora di più il nuovo ingresso di Nick. Il finale è rigoglioso e emozionante, non c'è modo migliore per concludere questo grandissimo disco.
Conclusioni
Un'ora di rigonfia musicalità, di guizzi incredibili e di brani che sigillano l'alto rendimento della band inglese. Spazi di melodia che interloquiscono con parti più a volte dure e aggressive suggerite da una sezione ritmica ampiamente delineata e corrosiva in alcuni punti. A conti fatti "Draconian Times" si incasella in piena regola tra i migliori lavori dei britannici, emerge track dopo track la consapevolezza dei Nostri di essere una grande band; peculiarità quest'ultima talmente nell'aria che già negli scorci iniziali degli undici pezzi che abbiamo raschiato a fondo si intuiva spontaneamente aleggiare, quasi sfacciatamente i Paradise Lost sapessero d'essere grandi, e di dover per forza di cose presentare un lavoro "da grandi". Una maturità che scrosta la difficoltà dei passaggi e dei colori soffusi di "Icon", che rappresentava un grande scoglio da sopraffare. Holmes e company erano consapevoli di aver dato quasi il massimo in quel lavoro ma quasi inaspettatamente "Draconian Times" li ha spediti dirtti dritti in quel tipo di successo che forse meritavano maggiormente. All'inizio il nostro disco era semplicemente considerato come un lavoro di conferma, il classico lavoro che doveva stabilire meticolosamente quanto di buono fatto nell'uscita precedente. Ma la storia ha voluto così, cambiando le carte in tavola: questa release in poco tempo si è impossessata delle classifiche, ha fagocitato numeri di vendite importanti spedendo il nostro combo in un moderato mainstream, che però non ha minimamente intaccato la voglia e la freschezza di comporre musica. L'espressione gotica nel nostro disco è ben delineata, è fumosa, vibra nell'aria: Nick Holmes ha rinomato ancora di più le sue corde vocali trasformandole in un punto di forza alquanto basilare, come è basilare il tappeto chitarristico di Gregor Mackintosh, il quale ha rinvigorito ancora di più la sua classe brano dopo brano, assolo dopo assolo. Se a volte i cambiamenti di line up vanno a sconvolgere impetuosamente l'assetto strumentale di una band, cari lettori, qui in "Draconian Times" l'innesto del nuovo drummer Lee Morris ha dato ancor di più lustro alla situazione generale. La batteria è ben presente, è pimpante nei punti necessari di ogni brano, anzi quasi si può brutalmente dire che questo nuovo ingresso ha dato linfa vitale all'intera band. Dopo l'uscita del platter subito i molti fan identificano quest'ultimo come il lavoro definitivo del combo britannico, altri lo dichiararono come il disco "gothic metal" per eccellenza. L'importanza assunta di questo platter è diventata più pesante con il passare dei mesi, un successo così improvviso per una compagine che non era minimamente abituata al grande mercato musicale fu un risultato importante. La semplice influenza di "Draconian Times" è ben riscontrabile nell'immediata popolarità di alcuni brani come "The Last Time" o "Enchantment": pezzi che entrarono nel circuito di Mtv creando un alone di scalpore, soprattutto quando la fama del grunge di stampo americano iniziava a scemare. Questo disco, rispetto ai lavori precedenti del paradiso perduto è entrato nel cuore dei fan più in fretta, è nato con presupposti migliori se vogliamo a confronto dell'attitudine underground di un grande lavoro come "Icon". Appunto è impossibile non confrontare questo lavoro con l'astrusità concettuale del lavoro precedente: qui l'immediatezza, che sottende sempre tanto impegno musicale e un estro sopraffino da parte dei musicisti, la fa da padrone. Il rapido successo di questa release ne ha aumentato il peso storico, che va anche oltre il semplice selciato del metallo gotico. Il 1995, si può dire, è stato l'anno dei Paradise Lost , della conferma definitiva come gruppo affermato nel circuito musicale internazionale. Si inserisce in un contesto attivo e brulicante per il metal: basti pensare all'ascesa del melodic death metal grazie agli At the Gates di "Slaughter Of The Soul" e ai Dark Tranquillity di "The Gallery" o a nuove deliziose e influenti uscite come "The Angel and the Dark River" dei compagni My Dying Bride e "Wolfheart" dei Moonspell. "Draconian Times" è un grande lavoro, immediato, oscuro e dinamico, che coinvolge sensorialmente l'ascoltatore traslandolo in un mondo percettivo differente. Che voi siate fan o meno dei Paradise Lost, cari lettori, è d'obbligo inserire questo lavoro nel lettore Cd e assaporare con curiosità ogni secondo dei brani proposti.
2) Hallowed Land
3) The Last time
4) Forever Failure
5) Once Solemn
6) Shadowkings
7) Elusive Cure
8) Yearn For A Change
9) Shades Of God
10) Hands Of Reason
11) I See Your Face
12) Jaded