PARADISE LOST
Believe in Nothing
2001 - EMI
GIANCARLO PACELLI
08/07/2019
Introduzione recensione
Pochi anni erano passati dal tanto criticato "Host", platter che aveva confermato un sound compatto e sfumato verso orientazioni di matrice sintetizzata ed elettronica, ma come ben sappiamo i Paradise Lost non aspettano molto per proporre la loro arte: abbiamo oramai ben stampato in mente la costanza e la rocciosa maturità raggiunta, oserei dire quasi invidiabile. Diventare una band fondamentale e continuare a macinare successi, nonostante cambi di rotta stilistici, non è effettivamente da tutti. Il moniker miltoniano del paradiso perduto era più che una certezza nel panorama rock/metal mondiale, e sembra palese che raggiungere il grado di "cult band" nel bel mezzo della propria carriera, porta molta, moltissima responsabilità. La stessa band, nonostante il netto cambio di veste, rimaneva decisa e compatta. Ma non c'è nulla da temere: la solidità compositiva della multi-sfaccettata e mai banale creatura di Nick Holmes e Gregor Mackintosh aveva raggiunto vette invidiabili, inaugurando il nuovo millennio con questo "Believe In Nothing". La missione è sempre quella di cercare sempre di più di far riemergere il vecchio stile dei Paradise Lost. "Host", come detto, era stato un disco che aveva confermato la nuova veste elettro-rock toccata con "One Second" mentre, rispetto ad alcuni anni prima, la possibilità di un rapido ritorno al metallo pesante di alcuni lavori fa era impensabile. Gli stessi fans avevano accettato questa nuova attitudine ossia quella di vedere i loro paladini sfoderare un gusto melodico, a volte ampiamente ridondante, ma mai eccessivamente derivativo dallo stile "semplicistico" e sintetizzato alla The Sisters Of Mercy e Depeche Mode. Chitarra ribassata a ruolo di sterile accompagnatrice, linee di basso che si perdono in quella marea sintetizzata e voce spiccatamente pulita, ma non mancheranno in questa nichilista proposta, momenti in cui il riffing principale cerca di estraniarsi da questa condizione molto ovattata che solo sintetizzatori e fill di batteria elettroniche creano. "Believe In Nothing" segue la collaborazione con la richiestissima label EMI (Electric and Musical Industries), la quale, rispetto all'informatico "Host", darà più spazio creativo alle nostre menti che cercheranno di creare presupposti in cui ci siano un certo quantitativo di momenti "duri". La base di metallo sta lì e lo spirito di imporre linee sperimentali, cerca di seguire gli strascichi del precedente platter, mettendo però nuovi guizzi e nuove intenzioni artistiche, che si scontrano per creare un connubio di sound accattivante e avvolgente. Il cammino del combo di Halifax può essere sommariamente definito come un continuo proporre di tasselli nuovi, un arazzo che via via si arricchisce di una nuova sfumatura immersa in un cammino complesso in cui però non si va minimamente ad intaccare quella natura primordiale che accompagna il gruppo dal 1988. I Nostri erano forti di tredici lunghissimi anni di carriera, e in questo lasso di tempo hanno sempre sorpreso, non c'è stato mai un lavoro uguale al precedente. Proporre linee vocali o riff sempre identici non era minimamente l'idea di musica del quartetto britannico: la mania di prendere in mano la materia oscura, pescata in chissà quale castello gotico britannico, e di modellarla a proprio piacimento rappresenta il più grande e mai superato fiore all'occhiello dei Paradise Lost. Ma prima di partire con i brani, cominciamo a concentrarci semplicemente sul titolo: "Believe In Nothing", Credere in niente, la sentenza di colui che respira affannosamente nel mare dei problemi che affliggono la vita e non sa dove sbattere la testa al fine di trovare soluzioni di qualsiasi natura. E allora a cosa o a chi bisogna credere? A chi bisogna affidarsi, al fine di non rimanere delusi da queste intemperie che affliggono il nostro cuore e la nostra coscienza? Il nulla diventa una fantomatica risposta. Da ciò però emerge un piccolo, quasi insignificante tentativo di mutare queste paure in speranza, di trasformare queste lacune interiori in un ulteriore modo per partire ed andare avanti. Tutto questo discorso si tramuterà musicalmente parlando, quando Holmes & company cercheranno di far riemerge quell'oscuro e indomito mostro "heavy" che si nascondeva dietro ogni arrangiamento. E allora armiamoci di curiosità e iniziamo con le tracce del disco.
I Am Nothing
La poesia, l'estro stilistico dei nostri miltoniani subito si materializza con la inaugurale "I am nothing" (Io non sono niente). Dal punto di vista meramente interpretativo il titolo già ci dà una grande mano: in linea con le dissacranti sensazioni emanate dal nome del nostro platter ci aspettavamo un brano del genere a dare l'incipit. Il nulla assoluto che vagheggia soltanto negli spazi più bui trova corrispondenza anche, e soprattutto, nel nostro mondo interiore e a noi non resta che trovare un motivo per sopravvivere in questa ipocrisia e falsità del mondo umano. La condizione del non credere nei propri mezzi deriva dalla prorompente forza negativa che colora il mondo dei nostri giorni. Questo spazio vuoto, che deve necessariamente essere riempito, è ricco di sfaccettature, fragile ma espressivo e dinamico come pochissime cose. L'introduzione del brano tocca sperimentazioni di chiara origine synth-pop oramai entrate nel bagaglio stilistico di Holmes e compagni, soprattutto nella scelta di un minimalismo di fondo. Ma questo aspetto dura un lasso di secondi, dato che una bella sferzata chitarristica da parte di Mackintosh subentra con forza, permettendo al brano di iniziare a corrodere. Le tastiere sono anch'esse molto importanti nella costruzione del sound, riescono nell'arduo intento di immettere in secondo piano gli arrangiamenti elettronici a favore dei fill di batteria di Lee Morris, abbondantemente rettilinei ed energici in ogni punto: proprio questo elemento era stato uno dei più deboli del platter precedente, vista il suo utilizzo in campionamenti elettronici che denaturano la valenza. Col proseguire del minutaggio, "I am nothing" cambia, aumentando di sinuosità, soprattutto una volta entrato Nick Holmes che mostra uno cantato simile ma al contempo abbastanza diverso da ciò che abbiamo udito in "Host": le sue vocals riescono a tangere lidi interessanti sia in clean che nelle sezioni più furiose, in cui le corde vocali dell'inglese devono necessariamente smarcarsi nelle intelaiature chitarristiche di Mackintosh. Proprio quest'ultimo è il protagonista, soprattutto nel triste e malinconico chorus, in cui tutti gli intenti narrativi della traccia fuoriescono alla luce del sole. Sei tu, semplicemente tu, perso nel mare del nulla e consapevole di non poter fare molto per cambiare situazione, ma nonostante tutto hai una piccola speranza nel tuo cuore. Il muro distorsivo della chitarra, nonostante qualche spruzzo elettronico inserito nel sound, ha assoluta padronanza. Questa prima traccia segna una fusione tra i primi Paradise Lost, taglienti e diretti, e i secondi, in cui le stesure di origine goth-rock/elettro-pop hanno la mano su tutto. Il cambiamento attitudinale, teso a ripescare guizzi e giochi solisti di Gregor Mackintosh, sono ancora più percettibili nella soluzione finali del brano in cui l'atmosfera cresce a dismisura adattandosi ad un cambio nella modulazione vocale di Nick che spara vocalizzi più pacati e quasi sussurrati. Ma questo solo per poco perchè il nostro menestrello gotico torna sui suoi binari neri e dannatamente espressivi nel finale in cui, tra tracce di elettronica, si erge un bell'assolo di Mackintosh, pulito e liscio nelle sue intenzioni.
Mouth
Terminata l'ottima "I am nothing", proseguiamo il nostro percorso con il primo singolo di lancio del disco, "Mouth" (Bocca). Brano intrigante e avvolgente sin dai primi scarni pulpiti, in cui in un'atmosfera sembra ancora essere intaccata dalla nube elettronica che, come abbiamo accennato più di una volta, ben sappiamo essere ancora parte integrante delle influenze dei nostri, emerge con una delicata forza attraverso un intaglio chitarristico da parte di uno dei nostri due songwriter, Mackintosh. Il rumoroso e pulito riff introduttivo non rasenta la staticità ma scala su diverse note, le quali sono meramente indirizzate per intrecciarsi con la ritmica di Aaron Aedy, meccanismo che era mancato al motore della band nel sound diretto di "Host". Il duetto chitarristico sembra parlarci, e ci indirizza indirettamente al concetto ampissimo di "parola": mezzo che da millenni differisce l'essere umano dalle altre bestie. Strumento dell'arte oratoria, ma anche di vendetta e di violenza. I Paradise Lost giocano sul bianco e nero, sullo yin e sullo yang, elementi che si attorcigliano creando subbuglio. Ma "Mouth" è da definire come una sentenza diretta ad un qualsivoglia interlocutore: tu non rispetti la mia idea e allora sei destinato all'inferno più bollente. Sei la sterile fonte dei miei sintomi che impediscono ai miei obiettivi di giungere a concretezza. Arcigna ma discretamente marcata da un clean personale, "Mouth" inizia con il suo acido intento nello scaraventare nell'abisso chi osa mettersi sulla nostra strada. Questi Paradise Lost, così arguti e diretti, li abbiamo notati raramente, e sembra quasi strano trattarli secondo questi canoni. Il contesto musicale è diretto: la batteria di Morris, subentrata agli interessanti duetti delle due chitarre, colpisce con forza prima di scalare di grinta lungo l'asse ritmico. Le tastiere colorano il sound, e permettono la strutturazione di clean vocals ancora più tetre e oserei dire "teatrali". Le scelte tonali di Nick Holmes sono intaccate da vocalizzi gonfi di una naturale effettistica, di una vaporosità che ben di discosta dalla laboriosità concettuale che fuoriusciva nei lavori precedenti a questo. Le tastiere, una volta innestate nel corredo del sound, appiattiscono il suono, permettendo alle due chitarre di essere sempre protagoniste, prima di esplodere nel ritornello in cui il vocalist prende le redini del brano permettendolo di salire di livello. Trattiamo pur sempre di un singolo di lancio, il previo biglietto da visita da gettare alle fauci dei nostri fans. "Mouth", con quel refrain quasi alienante e allucinatorio, ci trasporta in chissà quale dove: l'intento narrativo non è mai stato cosi diretto e audace, e questo piccolo particolare sta quasi a simboleggiare una forza intrinseca del quartetto nei confronti di falchi esteriori, di coloro che utilizzano la bocca troppo e male. Terminato la riproposizione del ritornello, il brano finalmente ospita un breve ma accattivante assolo di Gregor che sposta la mole della traccia in un altro spazio ritmico. La produzione aiuta in questo brano, riesce non solo a valorizzare ogni strumento (menzione speciale per il pellame di Morris che dopo il ruolo da fanalino di coda di Host, tornava ad incidere) ma anche a far si che ogni cosa sia al post giusto al momento giusto. La conclusione è affidata al ripetersi del chorus: "In my mind / In my head / In my soul" (Nella mia mente / nella mia testa / Nella mia anima). ; mente, anima e cuore: simbolici luoghi che sono grandi caratteristiche dei Paradise Lost.
Fader
Attenuare il dolore, soprattutto quello psicologico, è forse una delle azioni più complicate da fare. Non bastano sorrisi esteriori o repentine soluzioni: bisogna agire nel profondo, scavare e trovare risposte. Di risposte e soprattutto di domande la band britannica se ne è fatte a non finire sin dagli inizi di carriera: la situazione prettamente non musicale iniziava a irrompere nella sfera invece caldamente musicale. Non bastano rallentamenti di intuizioni o cambi di stile, i Paradise Lost dei due due songwriter Gregor Mackintosh e Nick Holmes affondano sempre il loro coltello semantico lungo paesaggi incolori incrostati da sapori dissonanti, stavolta però meramente indirizzati lungo il loro tortuoso e personale percorso. "Fader" (Dissolvere), secondo singolo di "Believe In Nothing", mette le sue basi con una chitarra dal chiaro sapore alternativo, un gusto affidato alla lead di Gregor che non può non essere definito semplice ed efficace per le impostazioni delle future intuizioni sonore che si andranno ad accavallare nel brano. Pochi secondi e la nube britannica, la quale trova la sua nascita nel terreno nichilista e espressivo della band, viene attenuato da ottime incursioni corali: voci angeliche femminili che impattano lungo l'introduzione miscelando deliziosamente il sound. Non sono continue, sembrano essere spezzettate al fine di renderle più organolettiche possibili. Inteso bene il corredo del brano non si resta che approfondire l'atmosfera che i primi sgoccioli di "Fader" cerca di emanare: è l'incarnazione pratica della lotta della band per esistere in un ambiente così frenetico e turbolento, quello discografico, un mondo difficile e complesso, in cui per sopravvivere bisogna fare scelte ben precise. II titolo ci potrebbe far pensare ad una minaccia secca e micidiale, quando in realtà tutto viene mascherato all'occorrenza dai nostri che non vogliono risultare fin troppo espliciti. Nick Holmes non tentenna molto, e si fa partecipe di questa "velata" protesta che preme soprattutto per la profondità della vocals del cantante che cercano di innalzarsi lungo il ritornello in cui l'asse ritmico, capeggiato dalle due chitarre, alza l'asticella di pesantezza sonora lungo il chorus che è sintetizzato in poche parole ma efficaci: "Then I'll just fade away / "When I hear all your lies / I choke/ Then I'll just fade away / Suffering from the times you spoke / I fade(Poi sparirò / Quando sentirò le tue bugie /Io soffoco / Poi svanirò / Soffrendo dai tempi in cui hai parlato / Svanisco). Bugie che si riversano contro l'andazzo della band che creano soltanto malumori e la frase "Suffering from the times you spoke" potrebbe riferirsi all'impatto negativo della critica sul benessere della band, la quale era consapevole di correre dei "rischi" dopo aver cambiato totalmente natura musicale. Il sound riprende una nera attitudine anche nella seconda sezione. Basta un gusto minimale ma efficace della band per esprimere il suo diretto giudizio. Dopo un breve lasso di secondi, il ritornello riacquista vita, fresco e melodico grazie alle aperture vocali di Holmes che rendono l'ambiente sonoro molto appetibile.
Look at me now
I paesaggi chiaroscurali dei nostri britannici non cedono il passo a luminosi cambi di rotta: la violenza lirica prosegue dopo l'organolettica traccia "Fader", che mostrava la band decisa a colpire anche grazie all'arma del lirismo, non scenderà di livello. Come presto vedremo il clima rimane ad alta tensione con il collettivo ampiamente indirizzato a scagliare frecce precise. "Look at me now" (Guardami ora) ha il compito di traslare queste percezioni in una forma musicale. Ma non veniamo sorpresi da un ringhioso inizio violento anzi: la sezione ritmica si trova inizialmente ammantata secondo squisite sinfonie elettroniche e digitali, le quali fanno ancora parte del controverso cambio di stile degli inglesi. Non dobbiamo attendere molto per l'incidere del drumming di Morris che viene accompagnato da un timido riffing di Mackintosh che cresce con il passare dei secondi attraverso interessanti cambi di tempo e plettrate rapide. Una rapidità di esecuzione che indirettamente simula il comportamento dei nostri occhi, i quali volgono lo sguardo verso questo ipotetico interlocutore a cui la sacra voce di Holmes sembra essere direttamente indirizzata. Nick svolge il suo ruolo approfittando della pulizia sonora della produzione in modo da fungere ancor di più il protagonista di questa traccia. L'ascia di Mackintosh incide e colora il sound arricchendolo di spunti che esplodono nel ritornello. "So look at me now / So look at me now" (Allora guardami adesso / allora guardami adesso) :è una dichiarazione di intenti rotonda nei suoi riquadri. Il nostro interlocutore sembra intimidito e Holmes non può rinunciare a inveire contro di lui. Quell'individuo può essere a parte negativa di noi, la quale convive dentro il nostro poliedrico essere ma scalpita al fine di uscire e prendere la supremazia psicologica. Il chorus è abbastanza improntato lungo linee canoniche e ripetitive in cui le due chitarre tessono situazioni comode per l'approcciarsi delle vocals di Holmes, arricchite anche da diversi effetti corali che si insinuano lungo il corredo delle note. Lee Morris è il protagonista di questa track, grazie al suo stile camaleontico e finalmente decisivo: sembra essere un diverso drummer dopo "Host" che lo vedeva svolgere il suo ruolo solo in una maniera approssimativa. Il ritornello torna infarcito ancora da riferimenti elettronici e tastiere che bisticciano con le dissonanze delle chitarre. Il quadro dei miltoniani torna a sorprendere nelle battute finali in cui la battaglia contro il nostro io interiore continua imperterrita. Chi avrà la meglio? Questo quesito non troverà mai una risposta
Illumination
La luce ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel valorizzare ciò che colpisce: un faro che splende lungo la spuma del mare in soccorso a delle navi o il nostro sole che illumina la vita ogni secondo passando per la naturale luminosità che può creare una lucciola nel bel mezzo dell'estate. Il valore positivo di questo elemento sembra non essere in discussione ma come si sa, nella mente dei britannici Paradise Lost, tutto segue una sua logica a volte contrastante con la realtà, ogni minimo aspetto, seppur colorato da un chiaro colore positivo subisce una torsione importante. La band è in grado di sfoderare una sua geometria impervia che mette a nudo le sensazioni dell'incauto ascoltatore, che a volte non si aspetta nemmeno tutto questo. "Illumination" (Illuminazione), quinta traccia di "Believe In Nothing", cela dietro il simbolo della luce una realtà macabra e tipicamente oscura. Divorato da traumi questo impavido corpo, che noi poniamo come protagonista, trova sollievo solo nello scorgere dolce e fermo di una candela, una candela posta su un comodino: la osserva fino a che non ci consuma del tutto. Quel soggetto potremmo essere noi, consumati dalle troppe domande e dai perchè che gironzolano nella nostra mente e i nostri occhi chiusi, forse ritmati da una serie di pesanti lacrime, fanno sempre più male. L'introduzione della traccia non poteva essere assai malinconica e al contempo rotonda e insistente. Always, Sometimes, Always Seems To Be / Chaos, Chrisi, Always Feeds Off Me / Then You'll Get Carried Away / The Trauma Is All Too Real (Sempre, a volte, sembra sempre essere / il caos, la crisi si nutre sempre di me / poi ti porterai via / il trauma è troppo reale): il trauma è appunto troppo reale, affligge in maniera irreversibile il nostro animo, il caos e la crisi nel frattempo logorano all'interno non risparmiando un millimetro. Il drumming di Morris ha la medesima valenza della chitarra di Mackintosh, la quale lungo l'asse del brano si aggancia alla voce di Holmes, il quale sembra quasi essere il nostro impavido soggetto che non vede più una speranza nell'affievolirsi di quella candida candela. Proviene da lontano per poi ruggire contro di noi con il suo andamento apparentemente assai pulito ma che contiene tutto un oceano emozionale. Il clean di Holmes ha un che di teatrale e tale stile sembra sposarsi egregiamente con la sezione ritmica rockeggiante in ogni suo aspetto. Persino le ampie aperture melodiche, nonostante la loro luminosità, vengono divorate da un Nick è opprimente e asfissiante tanto da rendere oscuro anche l'elemento che nella sua normalità assumerebbe un valore positivo. Il chorus è stabile, riconoscibile e melodico. Riesce a prepararci al solo di Gregor che prende vita per una serie di secondi per poi esplodere mentre Holmes ferma per un momento il suo ruolo, forse a prendere un fiammifero per accendere una speranza che nella sua fugacità ha dietro di sé sempre un valore sacro come la vita.
Something real
Chissà se l'aria melodica che abbiamo respirato nei primi cinque pezzi continuerà a lasciare il segno con il proseguo del disco. Conclusasi "Illumination" il processo di immersione nel proprio "Io interiore" prosegue con la ferrea "Something Real" (Qualcosa reale). Brano a tratti sinfonico con la sua lenta e opprimente introduzione, mi verrebbe da classificarla come un'entrata "gotica", che conferma la base del sound dei Paradise Lost ancora ispirato in quel filone che proprio loro hanno codificato pochi anni prima. Tutto questo però per poco, dato che cadenzate briciole elettroniche, immerse in un sano e ribollente tastierismo, impattano lungo le costole brano che si prospetta liricamente assai spigoloso e arcigno. La vena dissacrante e malinconica non perde mai tempo, subito si cimenta di mettere in pratica il suo obiettivo di scuotere le nostre coscienze e, al contempo, rendere la visione del mondo che ci circonda come una palude oscura e non speranzosa. Una speranza appunto che viene disintegrata dalla mancanza di onestà nei confronti del prossimo che rende ancora più difficoltosa la strada di noi poveri esseri umani, infinitamente piccoli nei confronti di ciò che ci circonda. Nick irrompe tra le trame rockeggianti del brano con un gusto ampiamente melodico e consapevole della nube in cui è posto: poi il drumming leggero prima e duro poi emerge con forza lungo la costruzione del chorus, abbastanza aperto e raggiante, terreno squisito per le fauci di Holmes che si aprono all'impazzata scandendo note consapevoli e dirette. Il leggero riffing, che sta alla base di "Something Real", prende una forma ancor più convincente dopo la conclusione del ritornello, poi una piccola fase di stallo in cui ogni strumento cerca di trovare la sua dimensione, una fase quasi di silenzio in cui si cerca di recuperare la propria forza interiore, frammentata a più non posso ma ancora presente. Ecco che emerge, assieme ad un groove interessante lungo le linee base nella seconda riproposizione del ritornello, una consapevolezza nell'essere ancora capaci di controllare la propria vita a discapito dei negativi eventi che possono capitare. E poi via, la traccia corre squisitamente con la lead guitar di Gregor Mackintosh che sfiletta un assolo interessante e gustoso al punto giusto in cui l'incedere della batteria di Lee Morris, ingigantisce le proporzioni di questa "Something Real", traccia speranzosa e maniacale nella sua costruzione, che forse non avrà la medaglia del miglior brano di "Believe in Nothing", ma nonostante tutto è in grado di creare qualche emozione.
Divided
Lo spirito pessimista è il punto più importante da interpretare per entrare nel mondo costruito da Holmes e compagni, anche gli oggetti che sembrano essere costituiti da materiale speranzoso perdono la loro consistenza quando sono abbagliati dalla "luce oscura" dei britannici. Pessimismo che ricalca anche i solchi della prossima "Divided" (Divisione). Come molte canzoni dei Paradise Lost, anche questa settima traccia esprime la visione di un mondo sempre diviso e divorato da varie impostazione schematiche, in particolare viene presa di mira la religione, intesa come un ideale che invece di unire le coscienze, divide a più non posso creando fazioni contraddistinte. Un territorio da visionare anche sotto un'ottica politica ma pur sempre incastonata nel clima altamente discusso che circonda la religione: il paradiso perduto non si risparmia sfoderando tutta la capacità di questo mondo di dare forma alle varie emozioni, in questo caso negative e polemiche. Ma "Divided" però non parte con aspra violenza (quest'ultima intesa ovviamente nel clima rock che inonda la band) anzi: cerca di ricamare una situazione solida, a tratti atmosferica e sinfonica, in cui è ben presente il tocco di Lee Morris, che sin dagli inizi crea i giusti paletti sonori necessari al fine di narrare questo tema ampiamente discusso che cammina pari passo con il fiorire dell'umanità sin dalla notte dei tempi. Religione intesa come una chimera che rende enigmatici anche i connotati più naturali dell'uomo come la semplice comunicazione o l'utilizzo della logica, che al cospetto della credenza di "esseri superiori" è ritenuta soltanto come un fattore inutile. Nick Holmes subentra nel ritmo rilassato della traccia, contraddistinto da un perforante melodia che gli esce da tutti i pori, mentre insolite orchestrazioni e tastiere occasionali fanno molto bene il loro lavoro nel rendere particolare questa "Divided". L'incedere della "semplice" chitarra di Mackintosh va a valorizzare ogni piccolo segmento sonoro, e sebbene in questo brano la principale è formalizzata solo come uno strumento accompagnatore, comunque risulta essenziale per la costruzione del sound. Il range vocale di Holmes raggiunge il suo picco in clean soprattutto nella parte finale che si mostra rigonfia di alcuni versi brevi a incisivi: "Divided we stand / Determined to fall / Just like this hollow world that sleeps inside of me" ("Divisi, stiamo in piedi / Determinato a cadere / Proprio come questo mondo vuoto che dorme dentro di me "). Attraverso le nostre credenze e azioni lavoriamo verso la nostra stessa rovina, e il destino di chi calca questo pianeta è determinato soltanto dal semplice agire. Secondo il cocente appeal dei nostri la vita è destinata soltanto a finire, e l'importante è lasciare un segno indelebile che perdurerà nel tempo.
Sell it to the world
Ricamata secondo canoni secchi, ammiccanti ad un certo tipo di rock alternativo, grazie ad un incedere del basso di Steve Edmonson, subito facciamo i conti con la successiva "Sell It To The World" (Vendi questo al mondo), singolo del disco. Enigmatica, anzi quasi criptica nel suo messaggio che come un tiro a segno ci colpisce direttamente. Se nella nostra introduzione accennavamo ad un tentativo di scavare nella nostra coscienza attraverso chiare venature heavy metal, il prosieguo della traccia ci dà assolutamente ragione. Il basso, elemento che nel sound dei nostri ha trovato poca incisività nei lavori precedenti, spicca con opportuna fragranza adagiandosi tra le timide tastiere (guidate dal chitarrista Gregor Mackintosh) che cercano di far sopraelevare un clima dissonante e distorsivo che il paradiso aveva perduto lungo la sua corsa spietata tra ritmiche dark-wave e sonorità di matrice elettronica. Nick Holmes, il portavoce anzi l'anima della band scalfisce il nostro udito grattandoci con superba forza, cercando di trovare spazio nell'ottimo impianto ritmico delle due asce, che trovano la giusta intesa nel corredare questa "Sell It To The World" di giuste sfumature. Significato, come accennato in precedenza, criptico e non assolutamente percepibile al primo impatto: la grande qualità di Holmes & Co. non perde mai lustro, in quando invoglia l'ascoltatore a farsi una propria idea dell'impianto lirico, il quale potrebbe assumere un numero grandi a livello interpretativo. La costruzione lessicale qui proposta potremmo definirla come una sorta di narrazione di un mondo in cui noi siamo protagonisti assoluti, nonostante le divergenze di matrice bellica o religiosa. Una indagine che tocca l'antropologia più amara inonda la penna nera dei nostri songwriters che culmina con l'immagine di un uomo che ha deturpato il proprio universo naturale per soddisfare i propri loschi desideri intrinsechi. Un mondo figurato vagheggia lungo l'ascolto di questa traccia assolutamente buia, e la lampadina per accendere la luce è nascosto negli angoli inaccessibili della nostra coscienza. Il finale è maestoso: Nick recupera le sue capacità vocali più "Gahaniane" abbassando il suo tono rendendo di nuovo protagoniste le tastiere, prima che la distorsione iniziale delle chitarre riprende il sopravvento a dare un nuovo colore a questo brano. "Sell It To The World" è un ibrido, è un cubo di rubik che cambia colore e sapore in istanti impercettibili, una traccia senza alcun dubbio che ha raggiunto l'obiettivo per cui è stata concepita.
Never again
Quante volte nella nostra vita abbiamo pronunciato un "mai più"? Innumerevoli, sono le classiche due parole che si sputano fiori dopo un torto subito o in seguito ad un evento che giunge verso limiti intollerabili. Condizione questa assai normale nella genesi della situazione della rabbia, sentimento che volente o nolente si prova almeno una volta nel percorso di ogni giorno. L'inizio del nuovo secolo non fu un periodo facile per Nick Holmes, il vocalist infatti in questo periodo della sua vita dovette affrontare la fatidica morte del suo caro padre, un vero e proprio punto di riferimento per il cantante inglese. La prossima "Never Again" (Mai più), assorbe ogni flusso negativo imperante nella coscienza del nostro songwriter tanto da inondare ogni secondo di un buio totale come quello che incombe in una notte invernale. Ed è così che la genesi di questo brano, rispetto ad altri, è lontano da troppi tecnicismi lirici e si mostra invece più vicino ad una composizione diretta e schietta. Attenzione però, non abbiamo di fronte un testo "scontato" ma la band ricama un tema come la morte con le parole giuste, senza accedere verso lidi astrusi e di inafferrabile comprensione. "Is it too much to say? / Never again, never again": questo "mai più" (che non vi dimenticherete più dopo l'ascolto di questa ossessiva traccia) diventa quindi una sentenza archetipica nei confronti di nessuno, anzi nei confronti del destino che ha come fine la morte, fine definitiva dell'esistenza su questo pianeta, martoriata dal dubbio e dalla sofferenza interiore, in grado di nascondersi nei meandri più bui del nostro essere. L'eleganza esecutiva prende la mano con incursioni di matrice elettroniche attraverso sia l'utilizzo di suoni campionati che di una timida chitarra, la quale cerca di smarcarsi dal sound iniziale. Il battesimo è crudo e cupo le vocals dominano totalmente prima di lasciare spazio ad uno slow-beat di radice rock da parte di Lee Morris che si fonde immediatamente con la progressione canora per poi scemare assieme alle tastiere che permettono un abbassamento sia delle tonalità che dell'atmosfera. Silenzi che parlano più di mille parole, sentieri solitari che sono colorati solo da un tetro color nero: è l'assenza, quella delle persone importanti pesare più di un macigno attorcigliato al collo. Momenti di alta intensità emotiva ben certificati dal blocco del sound del secondo minuto, in cui ogni strumento cessa di premere sull'acceleratore per qualche secondo prima di ripartire. Nello spazio "vuoto" non mancano violini e strumenti alternativi, quasi gotici, che marchiano il sentimento della tristezza, dominatore in ogni passo di questa "Never Again". Superato il momento catartico, gli strumenti prendono a marciare con una maggiore consapevolezza che forse una speranza c'è, bisogna andare avanti e sopprimere ogni sentimento colmo di negatività.
Control
L'ambiente che faceva da contorno prima e dopo ogni fatica discografica dei Paradise Lost era innegabilmente mutato dal cambio di rotta stilistico/musicale e un periodo di incomprensioni sviluppatesi dentro al cuore della band era ormai un punto che nel bene e nel male rientrava nei piani del combo. "Host" non aveva riportato i risultati commerciali sperati, nonostante il corredo di brani tendenti all'easy listening che riuscivano a rendere, ad essere con il giusto gusto, con il calibrato mordente per affiorare in un mosaico dalle corde interessanti: ma tutto questo evidentemente non è bastato. "Believe In Nothing" era una forma di riscatto, nato dall'incessante estro della band nel mostrarsi come un gruppo dall'ampio taglio qualitativo, in grado di tumulare il precedente insuccesso. "Control" (controllo) è immersa in questo oceano scatenato non nei confronti di un qualcosa di sconosciuto ma è un monito colorito nei confronti di una serie di elementi. Come capro espiatorio di questo ragionamento viene presa di mira la religione. Religione che invece di aiutare l'essere umano quotidianamente lo tradisce sistematicamente, e il cuore, in queste condizioni vive nella paura di spettri che lo perseguitano. Il sentimento di base, ampiamente negativo, tende a riproporsi attraverso note glaciali ma al contempo chiare e tonde. La traccia parte subito con un basso che immediatamente scalcia il resto della strumentazione, per poi porsi come luce guida, ma il resto della combriccola non si fa attendere: era solo questione di secondi. Lee Morris agguanta con le sue bacchette la situazione, è rapace nell'intervenire con un ottimo gusto e permette l'incedere del corredo vocale di un Nick Holmes, assai ispirato e perspicace nell'affondare con le sue graffianti vocals, e all'occorrenza il suo range si pone filtrato per rendere ancora più esplicito il messaggio del quartetto nei tre minuti proposti. Il tessere continuo di ottime intuizioni chitarristiche da parte di Gregor Mackintosh, pretende dimostrarci l'ottima fruibilità del brano, che non sfuma in territori compositivi troppo complessi, anzi viene implementato attraverso chiavi di interpretazione per accorpare una serie di melodie nette ed efficaci, come è il messaggio della nostra band. Dobbiamo controllare la nostra coscienza per non cadere nelle trappole del destino e nessuna tipologia di matrice religiosa si pone come ancora di salvezza nei nostri confronti: tutto questo è frutto di un'analisi troppo forse spietata, ma come ben sappiamo la speranza non è effettivamente la benzina che alimenta liricamente la band di Halifax. Una visione quindi assai pessimistica che ricarica la ben vena dissacratoria nell'aspetto del trascendentale, e conferma ancora una volta la maschera assolutamente non consenziente a compromessi di natura positiva del quartetto. Gli strascichi vocali di Holmes, i quali si spalmano lungo la vaporosa sezione ritmica si inseriscono in uno spirito di fondo di matrice heavy metal che il ritornello conferma nel suo modo di porsi. Il range vocale di Nick, toccante livelli alti e bassi (soprattutto nella parte finale), è il motore che si propaga lungo la costruzione di questa "Control".
No Reason
Il nostro platter, anzi un vero e proprio libro cartaceo denso di frecciate e messaggi, continua con l'undicesima e penultima traccia, "No Reason" (Nessuna ragione). Si apre subito un terreno lirico ostico e oscuro che nessuna apertura melodica di questo mondo riesce a scalfire, e questa è una caratteristica da tenere ben presente in mente, un vero e proprio marchio semantico made in Paradise Lost. Tutto ciò non può essere un punto a favore dell'attitudine della band che, nonostante il grosso raggio di popolarità, portava avanti con fierezza il proprio pamphlet lirico." Nessuna ragione", ecco le due parole chiavi necessarie per entrare nel contesto snervante e nichilista proposto: la "celebrazione" del concetto di errore, ovvero una delle più chiare rappresentazioni della fragilità umana, a volte profonda ed espressiva e quasi inattaccabile, mentre a tratti si riversa in un mare di incertezza, e l'errore, in questo caso, rappresenta la punta dell'iceberg della nostra coscienza. Indagare, sfibrare, affondare il coltello: Mackintosh e Holmes non tentennano quando c'è da mettere su carta un'emozione, che per quanto possa essere normale nella vita di ogni essere umano dotato di ragione, ha una sua valenza fondamentale. Così come è fondamentale ammettere il proprio errore, e per quanto possa essere grande quest'ultimo, non può non essere rimpiazzato dalla capacità di dare sfogo alle proprie colpe. "No Reason" è un dialogo attivo tra noi e la band,la quale ci parla direttamente in faccia, senza schemi artificiosi o tecniche indefinibili. Tale track non può non partire ragionata, con un drumming che scalfisce quei pochi residui strumentali iniziali, per indirizzare il brano verso lidi estremamente heavy metal, certificati dall'introduzione piena di ottimi guizzi solistici macinati dalla lead-guitar di Mackintosh, la quale si incastona con in fraseggi di batteria apparentemente semplici di Lee Morris. I primi secondi sono molto ragionati, non si cerca di lasciare nulla per strada, simboleggiano il clima sempre serio e spietato del quartetto di Halifax. I giochi strumentali degli inizi, creano il materasso ideale per Nick Holmes, che sfodera linee vocali basse, dirette e per questo amalgamate con la sezione ritmica, capace di creare ottime intuizioni, ragionate e calibrate al millimetro, in cui elementi come il classico sintetizzatore o la "chitarra dispersa" ci sembrano solo un ricordo. "No Reason" preme, con un approccio pesante della principale nel tessere situazioni matematicamente congeniali per le partiture di basso, le quali spiccano mordendo ogni nota e ogni momento in cui la chitarra sembra non avere rivali ritmici. Il cantato basso di Holmes è un chiaro monito, ci avvisa con il suo classico stile quasi intimidatorio, parlandoci in faccia, senza chissà quali ingegnosi filtri o stratagemmi vari. La sua efficacia vocalmente parlando è indirettamente un chiaro punto a favore di questa "No Reason", che spicca grazie alle sue tonalità finalmente assimilabili al puro e diretto heavy metal.
World Pretending
Abbiamo quasi terminato questo viaggio che sembrava infinito, ricco di tantissime sfumature, un passaggio di vari stati sensorialmente innestati nel classico stile della band britannica, artefice indiscussa di un modo di porsi e costruire un mood imperante. L'ultimo scoglio appuntito, che come sempre risulterà ricco di spunti semantici puntando nei territori oscuri della mente umana è "World Pretending" (Mondo che finge). Non serve chissà quale strumento lirico all'avanguardia per sezionare il messaggio della band che vuole darci. Il nostro è un mondo straordinario, con la natura che si pone come contorno di paesaggi fantasmagorici che sono tesi a riempirci di vitalità, ma nonostante ciò il problema è l'essere umano, ricolmo di ingordigia e avarizia, capace di rendere futili persino nobili sentimenti come amore e amicizia. Il lirismo della conclusiva "World Pretending" insiste in particolare su questo punto, essendo quest'ultima una pura e inconsistente illusione: chi ti è vicino è colui con l'arma affilata da usare contro di te, in un contesto di una guerra silenziosa che prima o poi esploderà. La band mette in chiaro con parole semplici e fruibili che lo sguardo di chi una volta era caro nei tuoi confronti ora invece è il primo a scomparire. Pochi pizzichi di chitarra bastano per imporre linee atmosferiche tanto leggiadre quando penetranti nel nostro tessuto: il sound della band è costruito proprio per spargere il proprio nero colore lungo la nostra mente. Mackintosh inizia il brano, con pochi guizzi ma assolutamente parsimoniosi nel mostrarsi rapaci per l'intro del drumming corpulento di un Morris che in pratica ha mostrato la propria discreta pasta lungo tutta la corposa tracklist. A mò di catena ecco insinuarsi Gregor che stila un riffing lento e tendenzialmente doom nella sua caratura di abbracciare note dolenti spalmate lungo tastiere occasionali miste alla voce ampiamente decadente, dissacrante di Nick Holmes. Proprio lui ha le capacità grosse di modulare il proprio, range soprattutto quando il riffer si innalza verso modalità esecutive ancora più incisive nella loro costruzione. Seguendo lo stile della band, Holmes è l'output emozionale di ciò che si vuol far trasparire attraverso il lirismo serrato, pungente e massacrante, costruito su un fine ampiamente riflessivo: l'amicizia, sbandierata da sempre come una delle emozioni inossidabili del genoma umano, qui viene disegnata come una rotondo incitamento a non fidarti mai di nessuno, anche di coloro che si mostrano cordiali e sorridenti nei tuoi confronti (And for your "so called" friends/They always seemed so dear/But when it all got worse/They seemed to disappear; E per i tuoi "cosiddetti" amici/Sembravano sempre così cari/Ma quando tutto è peggiorato/Sembravano scomparire). Il chorus al posto di calmare le acque, le agita a più non posso e la tendenza vocale a risultare molto oscura, seguendo le ottime costruzioni sonore di basso e batteria, portano le nostre percezioni nell'assolo di Mackintosh, che finalmente mostra le sue abilità da ottimo chitarrista. Il solo è un elemento essenziale nell'interpretazione della track, essendo costruito su binari emozionali che preparano il terreno per un costrutto che punta semplicemente a sorprendere. I Paradise Lost riescono in ciò, sbalordendo l'ascoltatore, ponendolo nel loro reticolato classico attraverso un lirismo secco e preciso. "World Pretending" con la sua impostazione gotica è a conti fatti uno dei brani più riusciti del disco.
Conclusioni
Conclusa anche la quattordicesima traccia, "World Pretending", "Believe In Nothing" si pone non come un disco musicale ma come un libro pieno di messaggi, colorato dal più che consolidato moniker nebbioso e nichilista dei Paradise Lost. L'album si incasella come una piccola ma incisiva evoluzione di "Host", sebbene i due dischi siano effettivamente differenti da molti punti di vista: in primis per l'impianto chitarristico, che nel succitato disco cerca di emergere sempre di più compiendo passi da gigante in alcune fasi decisive dei brani, che non sobbalzano alle nostre orecchie solamente per la fruibilità del suono grazie alla maestosità vocale del performer Nick Holmes, ma invece cercano di dare ancora più vibrazione alle due asce presenti nel sound, le quali come è giusto che sia, cercano di ritagliarsi uno spazio sacro tra lo spirito minimalista che circonda i nostri miltoniani. E questo è un dato assai rilevante che ha permesso un ragguardevole passo in avanti nel sano gusto che le chitarre destreggiano nei dodici brani. In secondo luogo, non si può non sottolineare l'eccellente songwriting che pescava da differenti spazi emotivi senza mai perdere lustro e meraviglia lungo l'asse della tracklist: temi apparentemente discordanti ma che in realtà sono ammantati da un medesimo filo conduttore. Un'analisi lirica, quella dei Paradise Lost, che si è dimostrata talmente fondamentale tanto da essere messa sullo stesso piano del sound. Lirismo e suono, due corposi elementi che nella prospettiva dei britannici devono assolutamente viaggiare lungo le medesime strade. La capacità di scrittura, infatti, va a impattare sapientemente con l'apparente semplicità dei pezzi, i quali, con una spiccata classe derivativa ma superiore rispetto a "Host", riescono a pungere soprattutto costruendo apparati lirici che possono essere addirittura paragonati ai capolavori precedenti della band. E si, nonostante l'immane e contorta evoluzione, il quartetto di Halifax era sempre lo stesso, non poteva esserci etichetta discografica o abbassamento di groove che poteva destabilizzare le qualità di Mackintosh & company nel dare vita ad un vero e proprio mondo sonoro, sicuramente meno pesante e oscuro rispetto alle cimiteriali sezioni di dischi come "Gothic" o "Icon", ma che da lustro ad una creatura capace di mutare forma come pochi nel mondo rock e metal. Era addirittura semplice cadere dopo un cambio stilistico del genere, e molti avevano addirittura prefigurato l'imminente fine della carovana: mantenere la propria identità nonostante un cambio sia musicale che di fan-base (ricordiamo che i fans dei britannici erano decisamente diminuiti, se paragonati all'era florida di dischi come "Icon" e "Draconian Times" di metà anni 90) e l'essere ormai una band a tutti gli effetti mainstream portava grossi cambiamenti anche in seno alla band. Tredici anni di una carriera composti da una evoluzione e di una esplorazione fatta con raziocinio nei vari campi del "dark sound" rivelano una cosa: la solidità dei Paradise Lost era effettivamente fuori discussione e un lavoro come "Believe In Nothing", nonostante alcuni momenti che potevano essere ammaestrati meglio, senza alcun dubbio può essere tranquillamente considerato come un disco di passaggio per una futura metamorfosi, la quale cercherà di puntare a tocchi qualitativi sempre maggiori (sebbene in quest'album non tutti brani hanno la medesima incisività ). La band infatti impiegherà ancora qualche anno nel ritrovare quella primordiale e sporca identità, quel groove assalitore, disegnatore di immani discordie dal retrogusto amaro, amara come la vita che percorriamo ogni giorno che cerca di insegnarci sempre qualcosa. Chi ci insegna qualcosa è sicuramente il nostro quartetto, il quale dimostrava di essere sempre se stesso in un mondo come la musica che può essere veramente distruttivo se non affrontato con i giusti nervi e una spiccata serenità: due caratteristiche ben dimostrate dai Paradise Lost che abbracciavano il nuovo secolo con questo "Believe In Nothing" che, nonostante non mostri una brillantezza eccelsa nella non perfetta gestioni di alcuni episodi, farà contenti sia gli ascoltatori rock convenzionale che i metalheads incuriositi nel vedere l'altra faccia della band inglese.
2) Mouth
3) Fader
4) Look at me now
5) Illumination
6) Something real
7) Divided
8) Sell it to the world
9) Never again
10) Control
11) No Reason
12) World Pretending