Mütiilation

Vampires Of Black Imperial Blood

1995 - Drakkar Production

A CURA DI
GIOVANNI AUSONI
28/07/2020
TEMPO DI LETTURA:
10

Introduzione recensione

"Io ora al sole non attribuisco più nessuna importanza, né alla scintillanti fontane che alla gioventù piacciono tanto. Io adoro solo l'oscurità e le ombre dove posso essere solo coi miei pensieri"


Norvegia, 1995: mentre gli eroici furori della scena black metal locale non sono ancora completamente sopiti e sacche di resistenza persistono abbondanti e conservatrici, nella terra dei fiordi comincia a emergere una tendenza alla sperimentazione che porterà il genere a imboccare strade al principio inimmaginabili. Nel medesimo istante storico, anche nella Francia atlantica sta per affievolirsi quella carica propulsiva che, inizialmente alimentata dalle novità provenienti dall'Inner Circle, diede la stura alla nascita delle Légions Noires: ormai, però, gli incendi simbolici appiccati dall'enclave bretone si trovano sull'orlo dello spegnimento. Sul finire di un'avventura che, oltre ad aver rappresentato il grado zero del metallo nero transalpino, stimolò la proliferazione di una serie di band divenute in seguito molto popolari, sboccia quel fiore bacato che a tutti gli effetti deve considerarsi il capolavoro indiscusso scaturito dall'esperienza delle LLN. Unico full length realizzato all'interno della cerchia, "Vampires Of Black Imperial Blood" segna il culmine compositivo dei Mütiilation, dopo le prove generali di "Hail Satanas We Are The Black Legions" (1994), un EP programmatico e abbastanza tradizionale che, tuttavia, conteneva in filigrana i vari elementi caratterizzanti il debutto sulla lunga distanza. Attenzione, ogni band del circolo possedeva la propria specificità: ciononostante, vuoi per i forti legami promiscui che ne minavano le identità singole, vuoi per un'aderenza massima alla riservatezza misantropica, vuoi per puro elitarismo anticommerciale, nessuna formazione valicò gli angusti confini del cenacolo. William Roussel, l'occitanico, il ribelle, o semplicemente il più sveglio del gruppo, sottoscrisse, invece, un contratto di pubblicazione con la transalpina Drakkar Productions, label che successivamente ristamperà, non senza problemi di attribuzione, l'intero e caotico catalogo delle Legioni Nere. Malgrado una vera etichetta con cui fare i conti, il Nostro, scelto definitivamente lo pseudonimo di Meyna'ch e accompagnato per l'ultima volta in studio da altri musicisti (Mordred al basso e i turnisti Krissagrazabeth e Loïc Tessier alla batteria), opera con l'assoluta libertà di un uomo in procinto di sprofondare coscientemente nell'abisso della regressione artistica e individuale. Al fine di comprendere appieno l'idea alla base della scrittura dell'album, occorre brandire le fonti e scaraventarle in un ipogeo maleodorante posto chilometri e chilometri sotto la superficie dell'orbe terracqueo: in sostanza, i Darkthrone di "Under A Funeral Moon" e "Transylvanian Hunger" subiscono un processo di affossamento e teatralizzazione lirica e sonora che, tra fraseggi spezzettati, assoli cacofonici e vampiri tormentati, non impedisce comunque a melodie lunari e strazianti di soggiogare brani prodotti con la nitidezza di un rantolo cadaverico. Se, al confronto, i masterpieces confezionati da Fenriz e Nocturno Culto si atteggiano a delle lussuose suppellettili esposte nelle vetrine della rutilante Parigi di fine '800, "Vampires Of Black Imperial Blood" appartiene alle putride cloache della provincia francese; la stessa figura del succhiasangue immortale, protagonista dominante dell'LP, ha davvero poco da spartire, tranne qualche stereotipo di facciata, sia con il predatore  transilvano di darkthroniana memoria, sia, in parte, con quello letterario e cinematografico. La sola figura combaciante resta l'ossuto Nosferatu protagonista dell'omonimo film di Werner Herzog e incarnato, nella pellicola, da un superbo Klaus Kinski. Nello splendido saggio di Vittorio Teti "Il Vampiro E La Melanconia", a proposito della citazione posta in esergo alla presente introduzione e tratta dall'opera del cineasta tedesco, l'autore glossa: "La melanconia è legata alla sensazione di vivere senza sentirsi vivi. La tristezza del vampiro è metafora della noia e della depressione". Una chiosa affine all'atmosfera avvilente che aleggia nel disco: il macabro, il male, il pestilenziale, il crudele, il disumano, viene esperito alla stregua di una condanna da patire più che da infliggere, e il nero sangue imperiale che scorre nelle gelide vene del principe della notte funge da stigma di una nobiltà ovunque reietta, malgrado in limine si percepisca un decadente agonismo da rinnegato. E l'artwork originale, una sgranata fotografia in bianco e nero che ritrae l'impassibile Meyna'ch seduto su una vecchia poltrona, con alle spalle un Mordred dallo sguardo allucinato e clownesco, veicola la sensazione di due creature smarrite, dalla tragödie grottesca, finanche indifese, alle prese con un incolmabile vuoto ancestrale. Quel vuoto, di derivazione psicanalitica, di chi ritiene perduto per sempre un oggetto interiore inaccessibile, a meno che non lo si voglia distruggere e materializzarne la mancanza, a mo' di esorcismo, in un'ora scarsa di angoscia, corruzione e desolazione. Da tale inferno William Roussel prenderà le mosse per un periplo nei suoi incubi personali, giungendo, da revenant, alle soglie del nichilismo cosmico. Ma questa è un'altra storia.


Magical Shadows of a Tragic Past

L'album si apre con il classico per antonomasia dei Mütiilation, "Magical Shadows Of A Tragic Past", brano che, in dieci minuti luttuosi ed enfatici, racchiude l'essenza melodrammatica della band francese. I primi trenta secondi, dominati da un arpeggio di chitarra tanto ronzante e a-tecnico quanto melodico e groovy, ci introducono in una stanza silenziosa di un castello, umida e nauseabonda, chiusa da pareti grondanti freddo e sudore. Le pelli accompagnano la sei corde per ulteriori trenta secondi: i suoi colpi, al principio marziali, provengono dal punto più lontano del vano, poi, ancorché distanti, debordano in una scarica di blast beats che sorreggono l'urlo straziante di Meyna'ch, un'incredibile testimonianza canora di commozione e sconforto. Raggiunto il picco d'intensità, la voce scompare, mentre la batteria assume l'aspetto ritmico di una membrana gelatinosa stesa su un grosso tamburo farcito di fanghiglia; in groppa al riff portante, sempre carico di un'armonia diafana, emergono le meditazioni di un vampiro rattrappito in una bara nera cinta da tremule candele. Sorgono immagini di un vuoto triste che saturano mente e anima, immagini angosciose contro cui l'unico sollievo credibile, la sola chiave risolutiva, sembra essere la morte: alla parola "death" segue una breve transizione, e successivamente  parte un attacco all'arma bianca ove il protagonista riversa pensieri di riscatto misti a rimorso (Tears burn my eyes / The key to my melancholy is no relief / I wish I'll never see the light / Existence is the remeberance of a dark past - "Le lacrime bruciano i miei occhi / La chiave per la mia malinconia è il non sollievo / Vorrei non aver visto mai la luce / La vita è il ricordo di un oscuro passato"). Proprio il dolore di un'esistenza martirizzata da ricordi di tempi antichi, di una vita prigioniera di un anatema eterno, rappresenta il codice per accedere a dimensioni ultraterrene, una volta forse conosciute, ma mai neanche lambite. La cadenza straripa in un thrash martellante e vischioso, sino a quando, al pari di un serpente che si morde la coda, ricompare il motivo malinconico della prima strofa: l'ambiente, metaforicamente, partecipa delle meditazioni colme di lacrime della creatura satanica, con il cielo stillante vapori oscuri e sanguinolenti, i costoni delle mude intrise di sofferenze secolari, la roccaforte bagnata dai rigagnoli dell'afflizione, le caverne sottostanti ghiacciate dallo scroscio continuo del pianto malefico. L'atmosfera appare nebbiosa, ogni minimo spiraglio di luce equivale allo squarcio su un intelletto confuso, schiacciato da memorie tetre: Roussel pare scivolare nell'autobiografia, nel desiderio di emanciparsi da un passato torbido attraverso una resurrezione collimante col totale annullamento di sé e con la speranza che il nulla possa tramutarsi in una nuova casa interiore. I gemiti del singer risultano lancinanti, il fraseggio oscilla tra l'atonale e le alte frequenze, i cancelli dell'Averno scricchiolano, eppure l'evento in procinto di sopraggiungere non corrisponde al decesso nel senso stretto del termine, bensì alla trasformazione in un'altra forma senziente. Segue un'accelerazione identica alla seconda strofa che segna l'ingresso altezzoso nell'Oltretomba: il mood, però, torna subito mesto quando il trapassante comprende come le ombre magiche che lo circondano al momento di varcare la soglia del regno oltremondano coincidano con le reminiscenze dolorose e persecutorie così aborrite in precedenza. La traccia si chiude, dopo la solita sgasata amaramente trionfante ("The grim walls vomit the memories / of a sad and Evil past / The glaucous and gloomy soul / is torn in a tormented eternity" - "I muri cupi vomitano i ricordi/ di un passato triste e Malvagio / L'anima cerulea e cupa / è lacerata in un'eternità tormentata"), con un "Eternal?" che, eiettato in maniera acida, sfuma poi nella mestizia della linea eufonica ricorrente, assumendo pian piano una consistenza glauca e rarefatta: la certezza di una tortura psicologica senza fine né dimora costituisce l'anticamera di una depressione che non sfocia nel suicidio soltanto per assaporarne, titanicamente,  la mistica e il tragico cinismo


Born Under the Master's Spell

Torniamo per un attimo al Nosferatu di Werner Herzog e, precisamente, al momento nel quale Jonathan Harker, giunto in un minuscolo borgo della Transilvania, chiede informazioni alla popolazione locale su come raggiungere il castello del Conte: gli zingari, impauriti e consapevoli della maledizione che infesta la regione, ne soddisfano la richiesta, rifiutando tuttavia di condurlo al luogo diabolico. Un clima, pregno di aglio, scaramanzie e scongiuri, che ben si attaglia, con le opportune variazioni, all'intreccio narrativo di "Born Under The Master's Spell", seconda traccia del disco. Il periodo storico fotografato nel brano riguarda quello anteriore alla penetrazione del Cristianesimo nell'Europa dell'est, verosimilmente gli albori dell'Alto Medioevo: l'attacco del pezzo, senza preavviso, cacofonico, al limite del crust, catapulta inizialmente l'ascoltatore in un'atmosfera da romanzo gotico di fine Settecento. I quarantasei secondi proemiali vedono gli strumenti innalzare un enorme muro dissonante in cui i pattern smorzati, ma incalzanti, della batteria, il main riff lugubre e melodico, la trama piatta delle tastiere, dialogano come una filarmonica stonata in crescendo: all'apice, Meyna'ch vomita due volte il titolo della canzone. Un requiem gonfio e sostenuto che decelera la propria corsa forsennata al fine di permettere il dipanarsi della vicenda, collocata in un villaggio non ancora intaccato, nelle sue vecchie credenze, dalla parola di Dio: qui, imperversa una pestilenza figlia del Male e non di un batterio, una devastazione letale che sembra, però, agli sgoccioli. Gli abitanti, congelati e resi inermi da un terribile magnetismo incantatorio, sbigottiscono già soltanto alla vista della collina nera origine dell'empia stregoneria; un orribile residuo di malvagità vetusta, risalente a un'epoca ove i demoni calpestavano, da feudatari, i suoli battuti dall'uomo. Dopo il biascicato refrain orchestrale, preceduto da un bridge a dir poco traballante, si riaffaccia il tema musicale della prima strofa,  leggermente più dilatato e abbrutito da una pennata che evoca i brusii di un calabrone. Il singer illustra, quasi con un chiodo conficcato in gola, il tributo di sangue che il presunto vampiro, o comunque un mostro atavico smanioso di sangue umano, reclama ogni notte di luna piena: è una vergine il prezzo da pagare per restare incatenati al giogo di una schiavitù millenaria, ormai prossima a concludersi senza neanche troppo giubilo da parte degli oppressi ("A gate's opened to Hell / On each fullmoon night a virgin disappears / As an evil sentence terrifying the masses" - "Un cancello si è aperto sull'Inferno / In ogni notte di luna piena una vergine scompare / Come una sentenza malvagia che terrorizza le masse"). Chiara l'allusione di Roussel alla missione civilizzatrice della religione cristiana, un evento che, se da un lato si crogiolò nell'ambivalente merito di estirpare vecchie superstizioni, dall'altro impose un servaggio non molto diverso dal precedente. A questo punto, mentre il drumming morde il freno, la chitarra si trascina debolmente verso la chiusura, prolungando all'estenuazione il medesimo fraseggio, conscia che l'occhio di Satana domiciliato nella fortezza in cima all'altura, benché autorevole e potente, vigila triste e stanco, pronto a cedere agli evangelizzatori muniti di spade e crocifissi. Una coda intrisa di malinconia, griffata da un'aggressione irrazionale speculare all'abbrivio, e  guarnita da un picco espressivo che affonda nel baratro invece di ergersi superbo: di maniera le note conclusive del brano, che ricordano i respiri esiziali della darkthroniana "Over Fjell Og Gjennom Torner".


Ravens of My Funeral

Durante il continuum del disco viaggeremo nuovamente alla volta dei Carpazi; in "Ravens Of My Funeral", invece, Meyna'ch presenta sé stesso e la relativa controfigura vampirica in una veste compassionevole sospesa tra il senso del grotesque di Edgar Allan Poe e lo spleen di derivazione baudelaireana. La traccia entra tosto nel vivo con un avvio, dal punto di vista della cadenza, di natura thrash, un thrash sporco, rozzo, animato da una chitarra scordata in loop, da un drumming attutito e minacciosamente regolare, e da un rabbrividente traliccio melodico collegato al centro del plesso solare. Affiorano visioni di un futuro cupo che sa, tuttavia, di pace e rassegnazione: Roussel parla in prima persona circa lo stato di avversione per una realtà quotidiana divenuta sinonimo di tormento e prostrazione. Il desiderio del decesso, però, rimane subordinato a quei requisiti che consentiranno al protagonista di lasciare senza alcun rammarico il percorso terreno; la solitudine assoluta, la volontà di combattere contro il mondo piegata dall'inazione, la dipartita dei nemici, assurgono a sardoniche conditio sine qua non per l'estrema unzione ("When my last sign of humanity will be heaved / When all my enemies will be dead or agonizing / When I'm finally alone with no one to speak to / When I won't want to fight in this world anymore / I'll pass away without regret, without fear in this endless cosmos / I'll miss nothing, none will weep on my grave" - "Quando il mio ultimo segno di umanità sarà cancellato/ Quando tutti i miei nemici saranno morti o agonizzanti / Quando finalmente sarò solo, senza nessuno con cui parlare / Quando non vorrò più combattere in questo mondo / Morirò senza rimpianti, senza paura in questo cosmo infinito / Non mi mancherà nulla, nessuno piangerà sulla mia tomba"). Ancora una volta si percepisce lo scarso gradimento, nonostante tutto, nei confronti del suicidio o comunque nell'affrettare il corso naturale degli eventi, spia, più che di una tensione vitalistica, di un faticoso tentativo di stagliarsi a sovrano del proprio dolore e da lì, e in una forma diversa, castigare un mondo cariato ab origine. Assorbito non dall'Inferno, ma dall'infinità gelida del cosmo e delle stelle, il singer gracchia i versi con qualche "uh" sparso qua e là, soltanto per ricordare che il black metal nasce con i Celtic Frost, mentre il pattern ritmico, sostenuto da un rifferama acuto e iper-zanzaroso, non conosce pause significative, tranne il consueto ponte tremebondo. E così, forte di una sorta di orgoglio surrettizio, costruito su un'esistenza ricca di inganni perpetrati e autoimposti che non condurrà nessun Foscolo a piangere sulla sua tomba, William si mostra dinanzi la bocca della morte al pari di un involucro opaco privo di sentimenti e nostalgie ("I'll leave without sorrow, without hate, without fright in front of the mouth of death / Without letting nothing behind, in the infinite space among the stars" - "Lascerò senza dolore, senza odio, senza paura di fronte alla bocca della morte / Senza lasciare nulla dietro, nello spazio infinito tra le stelle"). Giova evidenziare come davvero per i Mutiilation la musica segua i testi in maniera maniacale: le liriche lamentose e concettualmente reiterative vengono inglobate in una struttura ossuta, priva di sovraincisioni e povera di variazioni, eccetto le spericolate transizioni. Questo vale per quasi ogni brano e a maggior ragione riguarda "Ravens Of My Funeral",  tanto che, alla ripresa del cantato, il ritmo si assesta di una tacca sotto il mid-tempo, poggiando su una linea eufonica praticamente invariata sin dall'inizio, benché ora appena distinguibile. Il soliloquio di un defunto che giace dissanguato all'interno di una cassa zincata ha bisogno del giusto spazio di disperata declamazione, al termine della quale seguono due minuti frastornanti di feedback e distorsioni memori del rumorismo di "European Son" dei Velvet Underground" declinato, però, in rancida salsa raw. L'atteso carro funebre arriva a destinazione e sulla lapide, finalmente, scorgiamo i corvi appollaiati.


Black Imperial Blood

Malgrado "Black Imperial Blood" non brilli, almeno a livello testuale, per grande originalità, non ci si trova certo al cospetto di una semplice copia carbone di altrui tematiche. In tal caso, un po' come accaduto per "Born Under The Master's Spell", Roussel tesse una storia cinematografico/letteraria visiva e convenzionale, da cui, comunque, appare facile ricavare elementi affrontati nel resto del lotto: il duello universale che contrappone Bene e Male, infatti, oltre a non delineare ruoli e vincitori così definiti, nasconde una tristezza di fondo tipica dell'intera produzione dei Mütiilation. La composizione stessa manifesta l'andamento tipico delle montagne russe, con frequenti saliscendi ritmici volutamente pilotati sempre al limite della completa sfasatura. L'abbrivio, drogato da accordi baritonali nei quali anche il basso di Mordred marca finalmente presenza, viene punzonato dalla timbrica effettata e cavernosa di Meyna'ch, che trasporta l'ascoltatore in remote atmosfere bibliche. Parla Satana in persona: un tempo la Terra coincideva con l'Eden, un giardino a cielo aperto innocente e delizioso, governato, però, da un'ignoranza insopportabile per Colui che meritava di governare il mondo. Gli schiaffi sui piatti conferiscono quel tocco cerimoniale essenziale al racconto della presa del potere da parte del Signore delle Tenebre, risorto, dopo una permanenza millenaria in dimensioni arcane (o parallele?), sotto le sembianze di un vampiro, e tornato sul pianeta in compagnia di lupi che ululano cavalcando bufere di neve ("Through ancient times of hidden dimensions / I rised immortal as a plague / My kingdom opens as the gates of Hell / Riding the blizzard, wolves bark" - "Attraverso tempi antichi di dimensioni nascoste / Sono risorto immortale come una piaga / Il mio regno si apre come le porte dell'Inferno / Sul dorso della bufera di neve, i lupi latrano"). Il suo reame infernale può ora aprirsi in pompa magna: un evento battezzato dal tremolo picking della chitarra che, benché subissato da un mix indecente, diventa prima furioso e affilatissimo, poi, attraverso nere curve sinusoidali, torna nella terza e quarta strofa a cesellare dal basso i gradini della propria scala. Seguiamo così la Bestia che, dal suo castello diroccato nascosto tra montagne ghiacciate che toccano il cielo, domina un luogo barbarico, selvaggio, dove i pipistrelli volano alla luce delle candele: fa capolino ancora Nosferatu, ma come camuffamento del Maligno, interessato, in questo caso, a guidare e scuotere un'umanità debole e pigra più che a vessare un piccolo villaggio di zingari. In ogni caso, non emerge nessuna epica della conquista, con le ipnotiche e ripetitive falcature melodiche impegnate a tratteggiare i contorni di un'impresa certa nell'indirizzo, ma sconsolatamente tragica nei risultati. La cesura centrale, seguita dalla ripresa circolare del main riff che procede imperturbabile sino alla conclusione della canzone, serve al novelliere oscuro pour expliquer la filosofia alla base del testo: all'uomo, orfano di un Dio capace unicamente di creare illusioni e regalare false promesse, occorre un'entità spirituale in grado di renderlo un essere divino tramite l'istillazione della conoscenza, della presa d'atto che, rimosso il velo di Maya, sopravvivono soltanto costernazione e rovine ("Death rises and laughs...Tragedy... Hell..." - " La morte sorge e ride? Tragedia? Inferno?"). Comprendere la realtà significa cibarsi di dolore di giorno in giorno, e dunque, quale nuovo miglior padre del Diavolo? Appannaggio delle elite, s'intende; eppure un pezzo che marcia e termina sul crinale della litania funebre sembra suggerire quanto la scoperta della verità si riveli un peso addirittura maggiore della sudditanza inconsapevole. Convinzione leopardiana, n'est ce pas?


Eternal Empire of Majesty Death

"Eternal Empire Of Majesty Death" rappresenta indubbiamente il pezzo fosco più dell'album, con protagonista una Morte sì autoincensantoria e fiera delle propria condotta, eppure, neanche troppo in limine, tormentata dall'ineluttabilità della sua esiziale natura. La canzone, tuttavia, può suggerire un'interpretazione aggiuntiva, sottile, forse capziosa, tuttavia giustificabile vista la biografia del mastermind occitanico: dietro la figura personificata dell'agente fatale per eccellenza, si celerebbe Roussel stesso e la di lui particolare natura di esiliato non soltanto in una Brest straniera e scarsamente accogliente, ma altresì all'interno delle Légions Noires, cerchia che lo espellerà, sine salamelecchi, per sospetta tossicodipendenza. Se la metafora del vampiro emarginato dalla comunità coincide a meraviglia con la condizione del proscritto, perché non avanzare un'ulteriore sovrapposizione di significati? In ogni caso, procediamo a un'analisi fedele del brano, considerando la seconda ipotesi un completamento della prima e non una tesi alternativa a essa. Una greve cappa introduttiva schiacciante e afosa sommerge una chitarra, mai sinora così atonale, invischiata in un fracasso dronico nel quale i blast beats appaiono l'unico suono discernibile, benché ovattato. A seguire entra il consueto riff melodico e monocorde, appena ravvivato da qualche colpo di rullante, il cui corso e struttura conserva i medesimi accenti in tre strofe su quattro. A cavallo di tale ritmo uniforme e opprimente, che, di lì a poco, il DSBM fagociterà insieme alle distorsioni sui toni alti, una delle caratteristiche principali dei Mütiilation, Meyna'ch tratteggia, con una voce squassante, la le prerogative della Mietitrice. Grazie a un lavoro indefesso, chiamato appunto da Satana "The Reap" ("La Mietitura"), la Falce ha visto sgozzare e cadere milioni di uomini e donne, con la conseguente e poderosa estensione di un impero personale autonomo da qualsivoglia padrone. Unico regno davvero eterno, colorato di un nero profondo e cieco, in grado di lacerare nuvole e cielo e aprire una botola senza fondo, senza scale, senza appigli ("So many names had been given to me / In his red empire Satan calls me The Reap / On each life that fades, my power is growing stronger / I saw the fall of millions ones... and death goes on / My empire's Hell, chaime the bell as you enter my eternal domain" - "Così tanti nomi mi erano stati dati / Nel suo impero rosso Satana mi chiama The Reap / Su ogni vita che svanisce, il mio potere sta diventando più forte / Ho visto la caduta di milioni di persone... e la morte continua / sull'Inferno del mio impero, insegui la campana appena entri nel mio dominio eterno": una visione di assoluta angoscia che Adam Wrest, aka Leviathan, terrà ben presente per la realizzazione dello splendido "The Tenth Sublevel Of Suicide" (2003). Intanto, durante il refrain "Eternal Empire Of Majesty Death", la cadenza mid-tempo si arrampica per un lasso di secondo sul pitch perforante del singer, poi crolla immediatamente nel grembo colloso di un middlebreak preludio del cambio di marcia atteso: siamo nella terza strofa, breve, intensa, thrashy, viscida. Quando balenano momenti di boria, l'aggressività aumenta considerevolmente: "In the eternities, my reign will never stop / In my immortality, I "live" so cold / All draped in black my servants are countless / I'm the ugliest nightmare of humankind" ("Nell'eternità, il mio regno non avrà fine / Nella mia immortalità, io "vivo" così freddo" / Tutti drappeggiati di nero i miei servi sono innumerevoli / Sono il peggior incubo del genere umano"). L'esaltazione cessa subito, comunque; la musica torna sugli stessi binari precedenti la furia altezzosa e lo scheletro dal saio nero, che non conosce né amore, né luce, né gioia, capisce di possedere esclusivamente la triste felicità di condurre le anime all'Inferno. Apportatrice di distruzione, insensibile alle preghiere dell'umanità, novella Atropo: il fade out finale sul ritornello chiude il pezzo, brusco come il filo della vita che improvvisamente si spezza.


Transylvania

Come promesso, ripartiamo alla volta di una delle zone più celebri della Romania, diventata tale soprattutto in seguito alla cristallizzazione romanzesca realizzata da Bram Stoker nel suo "Dracula": al di là del significato di un'opera che travalica le apparenze esotiche e orrorifiche, risulta evidente che l'immagine di una Transilvania ginepraio di arretratezza, castelli gotici e spiriti malvagi, superò di gran lunga le intenzioni dello scrittore irlandese. In che modo e misura i Mütilation utilizzano questo stereotipo geografico? Mentre in "Born Under The Master's Spell" l'ambientazione ricordava il "Nosferatu" di Herzog, "Transylvania" non contiene dei precisi riferimenti culturali, anche se il film tedesco resta una pietra di paragone comunque importante a livello di fondale scenico. L'apertura viene affidata a una frase gracidata da Meyna'ch con la stessa drammaticità di Dead al principio della "Freezing Moon" inclusa nel leggendario "Live In Leipzig" (1990): le paure dei mortali diventano realtà tra i monti Carpazi, chiaro monito che si sta entrando in un mondo altro, lontano dalla civiltà e sede di strani fenomeni soprannaturali. Un tuffo in tempi aviti, che la chitarra tonitruante e una batteria stile tetrapak istoriano architettando una sorta di valzer caotico e stridulo a volumi assordanti; il rumore non decresce, ma l'abbassamento del ritmo permette al singer di descrivere ciò che accade ogni notte in quella regione dimenticata da Dio, partendo, però, da una riflessione rivelatrice. Acquattato negli incavi delle selci sepolcrali di un cimitero corroso e derelitto, il vampiro famelico, infatti, evidentemente fiaccato dal peso dell'eternità, attende un successore che lo sostituisca nelle sanguinose occupazioni quotidiane. Al tramonto il mostro si sveglia, gettando nel terrore le vittime predestinate ("In the forgotten cemetery / haunting in night for blood / I've been waiting for years / I'm what you shall become / In the Carpathian mountains / Transylvania" - "Nel cimitero dimenticato / alla ricerca notturna e ossessiva del  sangue / Aspetto da anni / Sono quello che diventerai / Nei monti Carpazi / Transilvania"); il frastuono cala, la linea melodica viene a galla con l'abituale misto di malinconia e decadenza, e di nuovo una sassaiola infinita di blast beats distrugge una zoppicante fisionomia di canzone in procinto di prendere forma umana. Seguiamo dunque il succhiasangue uscire dalla bara, abbandonare il castello, passare dalla cripta alla foresta, cavalcare sull'ululato dei lupi, diventare tutt'uno con la nebbia e pronto, una volta vicino all'obiettivo, a soddisfare una lussuria che profuma di emofilia e dannazione ("Hear? the voices of the high master / As? I satisfy my lust / As your blood is now my life / One more is joining my realm" - "Ascolta... le voci dell'alto maestro / Come... Soddisfo la mia lussuria / Poiché il tuo sangue è ora la mia vita / Ancora uno si unisce al mio regno"). Il brano si chiude col titolo sbraitato a più non posso, con una violenza pari alla nostalgia per una terra natale ora distante nello spaziotempo: esteriormente la composizione sembrerebbe un specie di scaracchio raw punk senza capo né coda, eppure i contrappunti strumentali sanno di raffinata musica classica imbarbarita e deturpata per l'occasione. 

Under Ardailles Night

Un brano, "Under Ardailles Night", che procede su binari complessi dal versante lirico, nonostante una durata rapida rispetto al resto del lotto: una galoppata darkthroniana costruita su tre accordi, in pieno stile punk e con qualche rallenty disarmonico, inserito giusto per tirare il fiato. Le prime due strofe, velocissime, hanno, per converso un denso significato; la voce di Meyna'ch, al solito stridente al pari un punteruolo sull'acciaio, in questo pezzo si arricchisce di un grasso timbro alcolico, come per marcare le parole con la ceralacca. I riferimenti alla nascita delle Légions Noires appare subito manifesta: uniti magnificamente da una tristezza annegata nel massacro, elevatisi a potenza durante una notte colma di Male e (in)visibili attraverso le brume infernali, la spregevole schiera rappresenta la spina del fianco della Francia e, a livello musicale, del black metal parigino, metafora del metallo nero più commerciale e massificato ("Our magnificent union is the one of sadness / Drowned in the massacremist / Into the black night of Evil / Through infernal fog" - "La nostra magnifica unione è quella della tristezza / Annegata nel massacro / Nella notte nera del Male Attraverso la nebbia infernale"). Subito dopo, però, la trama si infittisce in virtù di un verso particolarmente sintomatico, ovvero "The Gestalt is our circle" ("La Gestalt è il nostro cerchio"); senza andare troppo nelle minutezze, occorrono comunque delle precisazioni in merito al lemma tedesco. La Gestaltpsychologie, movimento sviluppatosi a Berlino all'inizio del XX secolo, nacque in opposizione allo strutturalismo allora predominante. Potremmo sintetizzarne l'ermeneutica con una frase del gestaltista Riccardo Zerbetto: "Il tutto è più della somma delle singole parti" intende che la totalità del percepito appare caratterizzata non solo dalla somma dalle singole attivazioni sensoriali, ma da qualcosa di più che permette di comprendere la forma nella sua completezza. Prendendo spunto da tale interpretazione, Roussel desidera mettere in evidenza che la forza dell'enclave bretone risiede nella compattezza e nell'indirizzo comune degli affiliati che, separati, non riuscirebbero a sopravvivere quale essenza spirituale. Uniti in una fratellanza corvina, le Legioni Nere vengono equiparate ai vampiri e ai loro raid tra foreste e montagne signoreggiate da stregoni e incantesimi malvagi; tuttavia, mentre i Nosferatu riconoscono in Satana una guida tirannica, il circolo si alimenta della propria stessa scelleratezza. L'assolo centrale, forse l'unico reale dell'album, grezzo e dal wah-wah lancinante, interrompe la cavalcata, l'atmosfera diviene profondamente drammatica e malinconica, il plettro sembra strimpellare un'unica corda flaccida e non accordata. Un gemito che si protrae sino alla conclusione, che testimonia il crollo delle illusioni e un'amara presa di coscienza: suonano le campane della disperazione, il regno tanto atteso delle Legioni Nere non arriverà mai a compimento, probabilmente il cenacolo  medesimo è il sogno di uno Straniero sotto le stelle notturne del quartiere occitanico di Ardaillé ("...Where my dreams have rung the bell of despair / Our kingdom seems never come / I lay under the starry night / Of the sky of Ardailles / Forever far from humans / I'll stay frozen on the grey stones / Far... Sorrow...." - "? Dove i miei sogni hanno suonato la campana della disperazione / Il nostro regno non sembra mai arrivare / Giacevo sotto la notte stellata / Del cielo di Ardaillé / Per sempre lontano dagli esseri umani / Resterò congelato sulle pietre grigie / Lontano... Dolore...."). Lontano dagli esseri umani, il misantropo William resterà congelato sulle pietre grigie della sua terra natale, solo, addolorato, prigioniero di ossessioni e dipendenze.

Tears of a Melancholic Vampire

Il caro vecchio Nosferatu ci corre ancora in aiuto, stimolando parallelismi spesso addirittura sorprendenti. Nonostante il film di Herzog godesse di una colonna sonora meravigliosa a opera di Florian Fricke dei Popol Vuh, ipnotica e conturbante, "Tears Of A Melancholic Vampire" non avrebbe sfigurato nell'accompagnare gli ultimi istanti di vita del vampiro. Immaginiamo di modificare il prefinale, quando il Nostro, teso nella trappola architettata da Lucy, cade trafitto dalle prime luci dell'alba: a pochi istanti dalla morte inseriamo un flashback che ripercorra la sua lunga non esistenza, armonizzandolo con le note del pezzo dei Mütilation. Un brano che, malgrado un avvio regolare in mid-tempo, sembra scritto, in realtà, a inizio '900, soprattutto in merito all'atonalità che lo pervade; mentre nel movimento tematico tradizionale, infatti, il ritmo informa la melodia, nella dodecafonia schönberghiana, e nella canzone presente, tocca alla melodia determinare il ritmo. Un'apparente caos capace di rispecchiare le memorie sconnesse di un undead vicino alla polverizzazione, con Meynach'ch che canta (?) completamente fuori fase, concretizzando in parole le sofferenze del passato. I ricordi, confusi, partono dalla trasformazione di un uomo in un creatura sanguinaria: è una notte fredda, affollata di ombre terrificanti, sepolta da secoli di oblio, orribile, antica e oscura, con i venti della morte che soffiano attorno a una tomba dimenticata, ora novella dimora del mostro ("A cold night with terrifying shadows / Buried by centuries of oblivion / Horrible, ancient and dark / Death winds surround me / Dwelling in this forgotten grave / In these endless torments / Beyond the mysteries of mankind / Frightening and grimly real" - "Una notte fredda con ombre terrificanti / Sepolta da secoli di oblio / Orribile, antica e oscura / I venti della morte mi circondano / Dimora in questa tomba dimenticata / In questi tormenti infiniti / Oltre i misteri dell'umanità / Spaventosa e cupamente reale". Da lì partono le spedizioni omicide di una belva dalla gola secca, affamata, che, mentre sfreccia attraverso le nebbie galoppando nell'abominevole poesia del buio, sogna, in fin dei conti, la solitudine ("Searching for blood across the night / My soul has died some years ago / From the dust covered tombstone / The funeral yells of the Eternal / Eternal is the essence of evil / Immortal is now my cold corpse / Through the funeral mist / I wander / Far from the feeble mortal" - "Cercando il sangue attraverso la notte / La mia anima è morta molti anni fa / Dalla pietra tombale coperta di polvere / Le urla funebri dell'Eterno / L'Eterno è l'essenza del male / Immortale è ora il mio freddo cadavere / Attraverso la nebbia funebre vago / Lontano dal debole mortale"); si alternano, innervate da qualche timido inserto di tastiere dal carattere ecclesiastico e come impazzite, cavalcate sferraglianti e progressioni rumoristiche, con la luna spettatrice e specchio degli occhi spenti e lacrimosi di un succubo inquieto che deve per necessità, ma non vorrebbe per desiderio. Un guitar work gelido si fa strada tra gli arpeggi discordanti, supportato da una pattumiera disarmonica sussultante alla stregua di una fiamma nera dietro le coltri della follia. E così, al pari del film, il "mai estinto" è condannato all'eternità in ogni caso: lì Jonathan Harker ne costituirà il nuovo involucro, qui, pallido, freddo, vuoto, dimenticato, e col volto rigato dalla pioggia, l'alter ego di Roussel continuerà a peregrinare nel dolore ("By some cold rainy night / You can see / A gaunt face covered with tears / Deathly cold / Deathly pale" - "In qualche fredda notte di pioggia / Puoi vedere / Un viso scarno coperto di lacrime / Mortalmente freddo / Mortalmente pallido"). Conclusioni speculari, a ben vedere.


Conclusioni

"Il tempo è un abisso, profondo come lunghe e infinite notti. I secoli vengono e vanno. Non avere la capacità di invecchiare è terribile. La morte non è il peggio: ci sono cose ben peggiori della morte"


Concludiamo l'esame dell'album con il prosieguo della citazione collocata in testa all'introduzione, estrapolata da "Nosferatu: Phantom Der Nacht" (1979) di Werner Herzog, remake del capolavoro muto di Friederich Wilhelm Murnau "Nosferatu Eine Symphonie Des Grauens", girato, nel 1922, tra i tumulti della Repubblica di Weimar. In verità, il film interpretato da Kalus Kinski, Isabelle Adjani e Bruno Ganz non ha rappresentato una fonte di ispirazione diretta per la realizzazione di "Vampires Of Black Imperial Blood", ma i due manufatti artistici condividono un elemento fondamentale: la figura del vampiro, infatti, al di là delle dovute concessioni ai cliché di genere, viene utilizzata a scopo simbolico, trasposizione fantastica di un uomo roso dalla melanconia e dalla mestizia. Se nella pellicola tedesca i riferimenti appaiono legati a una visione universale della condizione antropica, nel disco dei Mütiilation si intrecciano ininterrottamente macrocosmo e microcosmo, quest'ultimo riflesso della stato d'animo e psicologico di William Roussel. Attanagliato da uno spleen privo di troppe pose artificiali e che emergerà ancor più compiutamente nei lavori posteriori, Meyna'ch affida a un black metal primitivo e sudicio l'incarico di supportare delle liriche cupe e raffinate: una contraddizione decisamente fittizia, in quanto l'angoscia e la disperazione trovano la loro migliore estrinsecazione proprio attraverso un proposta sonora capace di seviziare i padiglioni auricolari, e da lì, incunearsi all'interno di ciascuno di noi, costringendoci a partecipare al mal di vivere altrui e rabbrividirne. Una produzione infame, la voce penetrante del singer, l'atonalità, una batteria meccanica e cartonata che pare, a tratti e non a torto, una drum machine, l'assenza di sovraincisioni e, quindi, di un sound "pieno", contribuiscono al diffuso effluvio di inquietudine che si respira nel platter, impressione corroborata da melodie così strazianti e malignamente groovy da far accapponare la pelle: una serie di caratteristiche che, non smetteremo mai di ricordarlo, il DSBM incorporerà a grandi dosi. Tante le formazioni che trarranno esempio da tale coacervo di rovine ed emozioni, a partire dai Celestia, guidati da Cyryl Mendre, alias Noktu, che pubblicherà in mille copie, per tramite della sua neonata Drakkar Productions, il fenomenale debutto dell'act di Grabels: prima release col botto della storica label d'Oltralpe, che si guadagnò ben presto il meritato status di etichetta di culto. Da un lato canzoni emblematiche del calibro di "Magical Shadows Of A Tragic Past", "Ravens Of My Funeral", "Black Imperial Blood", "Eternal Empire Of Majesty Death", "Tears Of A Melancholic Vampire", innalzano a regalità la decadenza e il deterioramento, marciando alla luce della luna come un'orchestra itinerante deforme e disarmonica; dall'altro "Born Under The Master's Spell", "Transylvania" e "Under Ardailles Night", crespe, notturne, narrative, filano via sui bordi di una mulattiera a precipizio, dirette a un maniero luogo di orrore e tristezza, forse patrimonio del Conte, forse delle Légions Noires. Certo, confrontati ai modelli dichiarati della scena norvegese, i brani dei Mütiilation sembrano costruiti a caso, giustapponendo dei blocchi indipendenti tenuti insieme dal timbro lacero del leader, dai monologhi barcollanti della chitarra e dal minimo comun denominatore dell'incisione amatoriale. Tale scelta si basa sulla crudele consapevolezza che esternare il dolore in strutture musicalmente regressive non equivale a una forma di terapia, bensì a un ritorno alla polvere e al marciume che condurrà Meyna'ch prima al decesso spirituale, poi a una risurrezione foriera e cardine di nuove dimensioni. Si palesa, dunque, la differenza con "Hail Satanas We Are The Black Legions": mentre nell'EP l'adolescente sprovveduto e immaturo si appoggiava alle sicurezze della tradizione, il sangue nero e denso di "Vampires Of Black Imperial Blood" serve da nutrimento per alimentare la coscienza che solo la morte (subita e non autoinflitta) funge da unico e necessario step alla comprensione del senso dell'esistenza. La stessa tendenza alla drammatizzazione esasperata, che investe anche l'iconografia della band, rimanda indubbiamente agli artificiosi feuilleton del tardo Romanticismo; siamo pur sempre in Francia, e il retaggio nazionale pesa non poco. Andando a fondo, però, si ravvisano delle singolari similitudini col kabuki giapponese: la trama fragile, gli episodi scollati, la prevalenza del particolare sul generale, il trucco eccessivo e ricercato, costituiscono gli ingredienti principali di un teatro (e di un gruppo) interessati alla rappresentazione di sentimenti forti e profondi. Paragone ardito, da prendere con le molle, nondimeno suggestivo: i Mütilation e il relativo esordio ricoprono il ruolo di hanamichi ("passerelle") spettrali e asimmetriche, sulle cui spoglie William Roussel continuerà a edificare una monarchia solitaria e tragicamente umana. La tappa successiva lascerà esterrefatti. 

1) Magical Shadows of a Tragic Past
2) Born Under the Master's Spell
3) Ravens of My Funeral
4) Black Imperial Blood
5) Eternal Empire of Majesty Death
6) Transylvania
7) Under Ardailles Night
8) Tears of a Melancholic Vampire
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