Mütiilation
Hail Satanas We Are the Black Legions
1994 - Indipendente
GIOVANNI AUSONI
31/05/2020
Introduzione recensione
Il sibilo delle correnti atlantiche che lambisce, ferrigno, le merlature della roccaforte, lo squittio dei ratti ammassati a migliaia nelle viscere delle segrete, l'orrida congrega di spiriti perfidi e volteggianti sul limitare dei fossati e del barbacane. Ci troviamo alle porte di un fantomatico fortilizio medioevale dalle parti della cattolica Brest, vecchia città portuale sita nella regione della Bretagna ed estremità occidentale dell'Europa continentale, completamente distrutta durante la Seconda guerra mondiale e luogo d'ispirazione letteraria per il "Querelle" di Jean Genet: seguendo la vulgata mitologica, lì, all'interno delle umide mura del maniero, forse proprietà di uno dei suoi membri, le famigerate Légiones Noires, conosciute anche con l'acronimo LLN, si riuniscono, tra il 1992 e il 1996, per registrare un black metal sui generis, lurido, marcio, malato. Sorto, almeno agli albori, come risposta all'Inner Circle norvegese, questo isolato drappello di affiliati bretoni esaspera rapido gli schemi scandinavi assorbiti, corrompendone norme e prescrizioni. Il collettivo transalpino, infatti, non erge Satana a paladino di una rivolta in grado di divorare l'odiato e trionfante Cristianesimo, né aspira a una restaurazione delle vetuste tradizioni pagane, né tantomeno intende elevare a sistema culturale una presunta purezza di sangue. Legati a un preciso milieu territoriale, le Legioni Nere non ostentano alcun orgoglio sciovinista da innalzare sui gonfaloni, il loro plasma globulare appare guasto già dalla nascita, la figura del Maligno non costituisce l'Avversario per antonomasia o l'emblema della libertà individuale, bensì una vasta livrea occulta e allegorica, atta a velare un baratro di misantropia e sradicamento. Da un approccio del genere, votato all'introspezione profonda dell'animo umano e ligio a una visione dell'underground ai limiti del settarismo assoluto, non poteva che corrispondere un sound grezzo, lo-fi, feroce eppure malinconico, e le cui testimonianze, prevalentemente incise su nastro, tracimano asfissia e disperazione. Dovessimo indicare i capostipiti del movimento, la scelta cadrebbe, per motivazioni cronologiche e d'indirizzo, sui Mütiilation, fondati nel 1991 e dimostratisi, alla lunga, la formazione più longeva dell'abietta schiera e l'unica capace di sopravvivere alla disintegrazione generale attraverso una progressiva personalizzazione della proposta. Una diversità che si palesa sin dal profilo antropologico di Meyna'ch, al secolo William Roussel, solitario cervello compositivo del progetto: occitanico, colto, polistrumentista, probabile eroinomane, appassionato di vampirismo e stregoneria, Willy rappresenta lo Straniero che spariglia, il trobador perfetto per accendere la miccia di una scena nazionale all'epoca del tutto inesistente. Dopo due demo, "Rites Through The Twilight Of Hell" (1992) e "Ceremony Of Black Cult" (1993), nel 1994 i Mütiilation pubblicano un sette pollici che, a partire dall'iconico titolo, diviene d'emblée il manifesto programmatico del circolo: "Hail Satanas We Are The Black Legions" funge da carta d'identità collegiale, un noi ove si riconoscono i compagni d'avventura Belkètre, Black Murder, Torgeist, Vlad Tepes e un'infinita serie di gruppi collaterali avvolti dalle nebbie della leggenda e da un tape trading confinato a una cerchia ridottissima. L'extended play, però, si segnala altresì per un aspetto che, in futuro, occuperà un ruolo comunicativo fondamentale: l'artwork. Meyna'ch dedicherà sempre la massima attenzione e cura alle cover, e la guaina artistica del mini d'esordio non fa eccezione. Sulla copertina del vinile viene ritratta un'antica stampa in bianco e nero narrante di un Inferno mondano e tangibile, una sorta di ambigua zona franca che ammette la coesistenza di uomini, demoni, creature silvane e fattucchiere: un'immagine grottesca e pre-psicanalitica che, icasticamente, trasmette l'esigenza urgente di scandagliare l'abisso, di strisciare con le creature mostruose partorite dall'inconscio, di dare sfogo a un cupo disagio impossibile da estirpare. Il moniker stesso rinvia all'idea dell'amputazione, di un qualcosa di irrimediabilmente perso, di un malessere che il metallo nero decadente e malsano fucinato dall'act di Grabels si incarica di condurre in superficie, nonostante un logo colmo di simboli di prammatica (tridenti, croci rovesciate, pentagramma con il 666 inscritto, code diaboliche a punta) e testi ancora parzialmente ormeggiati ad atmosfere tipiche dei Darkthrone. In definitiva, "Hail Satanas We Are The Black Legions" è il "Deathcrush" francese: medesima funzione prodromica, medesima sana confusione, medesima missione rivoluzionaria nel nome del Verbo oscuro. Ma presto i Mütiilation percorreranno un itinerario che esacerberà all'inverosimile le intuizioni dei Mayhem e del resto dei giganti boreali.
Desecrate Jesus Name
A seguito dell'assassinio di Euronymous, la mistica del trve kult crollò rapidamente, alla stregua di un domino dalle tessere d'argilla. I personaggi che avevano incendiato la placida patria dei fiordi rivelarono la propria natura dietro il corpse paint: Fenriz, Ihsahn Nocturno Culto, Satyr, preferirono, ciascuno a suo modo, la strada della "normalità", e tale trasformazione, benché rassicurante, significò l'amaro infiacchimento di un incredibile fermento sovversivo. Toccava ai Mütiilation riattizzare la fiamma oscura: e quale criterio migliore di cominciare le danze se non agganciarsi alla tradizionale furia bestemmiatrice dei padri fondatori? I vagiti introduttivi di Desecrate Jesus Name (Dissacrare il nome di Gesù) mettono subito in chiaro un elemento sorprendente che non ritroveremo sovente nelle successive release: l'EP, per quanto rechi la sensazione di una suppellettile sonora registrata in una catacomba caliginosa colma di echi, gode di una produzione, opera di Meyna'ch stesso, meno gracchiante non soltanto delle demo precedenti, ma anche rispetto alle consuetudini amatoriali delle Légions Noires. Il brano apparteneva, benché in forma embrionale, al lotto di "Rites Through The Twilight Of Hell": non una vera canzone, bensì una serie di cocci giustapposti, assemblati, a voler essere buoni, con modalità pionieristiche. Diverso il discorso per la presente edizione: poscia un fraseggio propedeutico che raggiunge l'acme melodico in concomitanza con l'ingresso del ringhio cartavetrato di Roussel, allora fiero del nom de plume Willy "Melancholic Lord Of Torments", improvviso compare un modulato di autentica doppia cassa in 4/4, percossa da un non altrimenti identificato J. Luc "Dark Wizzard Of Silence". Il clima generale sa di adunata bellica in procinto di sguainare le armi, battagliera, visceralmente demoniaca, bramosa di dilaniare il corpo di Cristo, di passare a fil di spada l'accolita dei fedeli a corredo, di penetrare le porte del Paradiso insozzandone i sacri altari. Una breve quanto inaspettata pausa strumentale, carca di feedback, orrore e strana attesa, opera da cerniera per la deflagrazione della chitarra che, abbandonati i toni euforici, irrompe in un assalto furioso e al contempo di stampo depressive attraverso un impiego brillante dell'intervallo minore, principio dirimente per l'esplosione del DSBM francese. La collera mietitrice delle orde infernali capeggiate dal gorgheggio stridulo di Meyna'ch avanza superbo, senza indietreggiare, ma a un certo punto sorge un interrogativo che aizza gli spiriti immondi. La transizione centrale, macchinosa e quasi forzata, come a far da eco ai dubbi del blasfemo esercito, pilota al freddo passaggio in tremolo picking estrapolato filologicamente dalla darkthroniana "Kathaarian Life Code". Invece che uccidere, meglio imprigionare e godere dei tormenti inflitti alle creature celesti nell'arcano e biblico "fucking hell", luogo di eterna perdizione e di eterno dolore, latrato a mo' di sputo dissacratore a mezzo della traccia. Il ritmo, come a incalzare la sadica ferocia dei supplizianti, torna a correre veloce e accattivante, vicino più al piglio thrashy di Venom e Bathory che al black norvegese stricto sensu. La voce del singer, nonostante i riverberi di una batteria costantemente in primo piano, biascica con nonchalance ingiurie innominabili nel mentre delle sevizie, malgrado si percepisca che le azioni sacrileghe compiute abbiano il semplice gusto di una vendetta priva di uno scopo reale. Poi ugola e note, avviluppate da un arpeggio subdolo e mesto, svaniscono in lontananza, perendo viscide sul ritorno del main riff: Satana domina in un deserto, su uomini già vuoti e morti prima dell'inizio dei tempi, involucri animati da una vittoria che tanto somiglia alle inutili imprese di Pirro. Un pezzo, dunque, circolare e sfrontato, fortemente ancorato alla scena scandinava recente e passata e dal quale, comunque, emerge un mood lebbroso foriero di future soddisfazioni.
Rememberance of My Past Battles and Times
Non molto differente dall'opener, Remembrance Of My Past Battles And Times (Ricordi di battaglie e tempi passati) ricopre il ruolo di unico inedito della scheletrica tracklist. Ricordi di polverosi trionfi di angeli caduti fluttuano su un avvio cadenzato seguito un riff atonale e decrepito che sfrigola sorretto dalla doppia cassa; i successivi quaranta secondi di power chords non sfigurerebbero in un album heavy degli anni '80, ma progressivamente la loro regolarità tracima in un climax dal taglio orchestrale sghembo e inquietante. Satana, soldato di sé stesso, riflette sulle proprie conquiste, costretto a scavare nella memoria, teso a sfuggire allo spleen di una quotidianità distante eoni dalle ardimentose giornate di ribellione. I suoi trionfi si librano sempre ad altezze vertiginose, sempre più imponenti e crudeli, scortati dallo scream rapsodico e agghiacciante di Meyna'ch che, mosso da un pitch parossistico alle soglie della stonatura, tenta di tallonare da presso chitarra e batteria impegolate in un dialogo reciproco al limite della cacofonia. Gli accenti sono quelli di un'evocazione a tutti gli effetti, così viscerale che i fantasmi delle vecchie e gloriose battaglie, bisognose di una sosta, si adagiano nuovamente sul riff principale. Si tratta soltanto di un momento: i toni del singer ritornano a salire d'intensità, la reminiscenza diviene rimorso, il rimorso diviene reminiscenza, sino a quando, in una sorta di delirio thrash à la Aura Noir sorretto da un nugolo di blast beats rudimentali e di nera incandescenza, l'atmosfera si fa davvero opprimente. La mente del Diavolo sta per spezzarsi in due, cento, mille brandelli, la sofferenza tocca vette atroci: interviene un fraseggio di gusto rock, corroborato da un arcaico flanger psichedelico, a smorzare il malessere, e il dramma interiore del protagonista finisce per inabissarsi nel segnale elettronico delle campane di un monastero maledetto, in compagnia di dannati che strepitano e si dimenano squarciati dal logorio di secoli accatastati a mo' di torre di Babele. Il pezzo, ricco di continui start, stop and reprise, e che termina dissolvendosi gradualmente, assume, osservandolo a distanza, la fisionomia stilistica di un garage da cantina, brutalizzato, però, con la virulenza degli appestati. Occorre sottolineare, in ogni caso, che le incongruenze e le convenzionalità di un songwriting ancora da limare, laddove da un lato contribuiscono a rendere la canzone un calderone piacevolmente disorganico, dall'altro permettono di sorseggiare a grandi dosi il brodo primevo in cui sguazzavano i Mütiilation: mistura che annoverava una sezione ritmica ancora tangibile, assordante e distinguibile all'orecchio. Da "Vampires Of Black Imperial Blood" (1995) le cose cambieranno, decisamente.
Black Wind Of War
Presente, nella sua veste rozza, in "Ceremony Of Black Cult", Black Wind Of War (Vento oscuro di guerra) racchiude una delle linee eufoniche di chitarra più trascinanti forgiate dalla band e riadoperata nei lavori posteriori con maggior senso del disordine e dell'indisciplina. Ciò che colpisce è l'estrema quadratura con cui parte il brano: niente batteria, il basso sostiene un riff decisamente catchy, addirittura fischiettabile, poi entrano il rullante e in contemporanea l'espettorata pieno d'odio di Roussel, per novanta secondi secchi ad andatura medio-alta incline a conservare il groove piuttosto che indulgere alla velocità nuda e cruda. Un lasso di tempo infinito, ipnotico, durante il quale aliti di guerra tuonano minacciosi: questa volta, però, il conflitto riguarda le Legioni Nere e il resto del mondo inteso come civiltà occidentale, un atto terroristico spirituale partorito da uno sparuto manipolo di estremisti sonici alla ricerca di un incubo da concretizzare. L'invocazione diabolica appare uno strumento, un vessillo sinistro sotto cui marciare in maniera indefessa, dritti all'obiettivo conclusivo; tuttavia necessita un'accelerazione per l'inizio del carnaio ed ecco che, dopo il consueto break mediano, gli ululati al limite della sanità psichica di Meyna'ch si ergono sul muro delle coltellate in tremolo e su un torrente manicheo e arcigno di blast beats. Trascorsa la tempesta, la prima strofa viene ripetuta identica, mentre la parola "Satan", pronunciata disperatamente, trafigge il cuore oscuro dei questuanti che chiedono soccorso amorale a un Padre, a un condottiero, ancorché soltanto metaforico, per una crociata dai risvolti tossici e criminali. Nella chiusa, commissionata a gelide tastiere ambient dalla soffusa tinta medievaleggiante, raffiche di vento prive di qualsivoglia afflato eroico soffiano sul nulla universale: assisi su scranni utili a impartire direttive senza risposta, in un pianeta ove non permane neanche la gioia di schiacciare i deboli e i puri e il reale martirio collima con l'esercizio del potere, la velenosa enclave bretone può soltanto accasciarsi nel proprio delirio. Una Weltaschaung intimamente nichilista, anticipatrice degli spasmi cosmici di "Sorrow Galaxies" (2007), ma che resta intrappolata in una forma canzone strutturalmente tradizionale e debitrice dei modelli coevi. Il processo di regressione, di lì a poco, diverrà legge feconda.
Conclusioni
Le Légiones Noires rappresentarono il "ground zero" del BM francese, la scintilla che diede fuoco alle polveri: al di là del folklore sviluppatosi circa le consuetudini particolari degli adepti (un castello diroccato adibito a reharsal room, le carcasse di animali avvoltolate sui microfoni durante le registrazioni, l'invenzione del Gloatre quale veicolo linguistico di molte delle formazioni del collettivo e basato sulle forme del dialetto di Brest), e nonostante le perplessità di numerosi detrattori, ciò che resta scolpito nelle pietre della Storia consta nel lascito musicale e speculativo dei bretoni. Giovani che, nascosti dietro pseudonimi impronunciabili (Aäkon Këëtrëh, Vordb Bathor Ecsed, Vordb Na r.iidr, Vorlok Drakksteim, Wlad Drakksteim et cetera) e sparpagliati in una selva di progetti di cui spesso sussiste soltanto il moniker, scelsero, consapevolmente, la segretezza massima e la cooperazione incestuosa. Con una propensione per la prolifica realizzazione di demo amatoriali, mal incisi e quasi inascoltabili, destinate a una circolazione elitaria e anticommerciale, le LLN intensificarono, sino al rischio calcolato della caricatura, gli stereotipi e l'estetica del metallo nero, arricchendolo, paradossalmente, di nuovi significati. Durarono lo spazio di un mattino, dal '92 al '96, come si conviene alle esperienze brucianti e preveggenti che nascono tra i madidi afrori di una cripta e spirano nel terribile grembo dell'horror vacui: un lampo cupo sull'Atlantico, che esercitò fascino e influenza su celebri act di settore (Alcest, Celestia, Clandestine Blaze, Deathspell Omega, Xasthur), nonché costituire un falsariga sonora per alcune frange dell'NSMB e un prototipo concettuale per il DSBM nazionale. E se ogni avanguardia che si rispetti provvede a redigere un poema di fondazione, ebbene, il presente "Hail Satanas We Are The Black Legions" possiede il physique du rôle adatto allo scopo, soprattutto in termini cronologici e denominativi. Originariamente autoprodotto, e ristampato nel 2006 e nel 2009 dalla portoghese Nightmare Productions, e nel 2015 dalla transalpina Osmose Productions, l'EP, in realtà, non avrebbe recitato un ruolo così rilevante qualora i suoi artefici, ovvero i Mütiilation, non fossero sopravvissuti, dopo una morte fugace, alla disgregazione della Legione, traghettandone l'impronta ben oltre il XXI secolo. Il disco funziona da classico apripista di carriera per la band di Meyna'ch, con tutti gli annessi e connessi della situazione. In nuce si intravedono gli elementi che qualificheranno l'entità della Languedoc-Roussillon, compresi un smaccata teatralità da insalubre romanzo d'appendice - ivi ancora tenuta semicelata -, e una scorza punk che, sebbene comune al black metal allora vigente, nei Nostri assumerà celermente i connotati della sporcizia più becera e dissonante. Complessivamente l'opera non si discosta dal solco tracciato dalle dichiarate fonti di ispirazione del settentrione europeo, e considerato il peso specifico dei masterpieces del periodo ("A Blaze In The Northern Sky", "Burzum", "In The Nightside Eclipse", "De Misteriis Dom Sathanas", "The Shadowthrone", "Pure Holocaust", "Frost" e via dicendo), pagare l'obolo scaturiva necessario. Basta ascoltare "Desecrate Of Jesus' Name", "Remembrance Of My Past Battles And Times" e "Black Wind Of War" per accorgersi dell'influenza nordica tout court, riletta con lo spirito adolescenziale dell'imitatio idolatrica. Tuttavia, tali fratellanze non divengono la tradizionale zavorra che impedisce al lavoro di risultare poco interessante o, peggio, privo di carattere. Al contrario, proprio le inevitabili approssimazioni, la naturale titubanza stilistica, gli impulsi antiquari, le malie del ribollente catino coevo, rendono il mini un florilegio provvisorio, ma omnicomprensivo, in cui coabitano pressioni centrifughe e centripete tipiche delle ere cruciali. Certo, le rivoluzioni contengono il germe del mutamento e di un auspicabile progresso: qui, invece, nella regione di Lancelot e Perceval, cresce e matura una pianta vizza ed emaciata, che si pasce del seme del deterioramento e della decadenza. "Hail Satanas We Are The Black Legions" appartiene, dunque a un mondo ibrido, gravido, però, di lugubri promesse: l'approccio minimalista, il feeling macilento e melodico che pervade i singoli pezzi, l'assenza di sovraincisioni di una seconda chitarra, liriche, che, nel contenuto standardizzato, lasciano comunque trapelare interpretazioni non univoche, concorreranno a strutturare, a stretto giro di posta e assieme alle caratteristiche succitate, la tipologia precipua di un simbionte che da esistenza parassitaria entrerà nella fase dell'indipendenza. I Mütiilation iniziano a mettere, d'ora in poi, i puntini sulla u.
2) Rememberance of My Past Battles and Times
3) Black Wind Of War