METALLICA
The $5.98 EP Garage Days Re Revisited
1987 - Elektra Records
MICHELE MET ALLUIGI
14/10/2015
Introduzione Recensione
Precursore del più rinomato "Garage Inc.", "Garage Days" è un punto cardine della discografia dei Metallica per due ragioni: innanzitutto ha il compito di sondare il terreno in merito a quella che è la scelta, successivamente imitata da molti altri gruppi, di uscire con una raccolta di cover. Realizzare delle riproposizioni dei brani più celebri della propria gioventù rockettara passa così dal semplice passatempo estemporaneo, utile anche per testare l'alchimia fra i vari componenti di una band, ad un vero e proprio oggetto di mercato; in precedenza infatti, quando una band registrava la cover di un altro brano aveva una valida ragione per farlo, che esulava dalla pura e semplice audience: alla base di ogni riproposizione vi è un forte legame verso il brano scelto, che parte sempre da un grande senso di rispetto, artistico e non, provato per quel particolare artista. Da questa base puramente "alla buona" del concetto di riproposta, i Metallica iniziano una vera e propria rivoluzione copernicana in tal senso: suonare brani scritti originariamente da altri musicisti adesso non è più solo un omaggio, né tanto meno una fredda esecuzione di note scritte da altro pugno, ma diventa il crocevia tra ciò che si esegue e ciò che si interpreta in base al proprio estro. Quelle realizzate dai Metallica non sono le semplici coverette che può realizzare il gruppo di giovani musicisti esordienti ascoltato nel locale sotto casa, ma sono composizioni che trasudano l'attitudine (purtroppo persa nel tempo) dei Four Horsemen. Ognuna di queste tracce esprime ad ogni nota ciò che, ahimè, erano i Metallica di fine anni ottanta, grezzi, diretti e con una capacità di suonare che colpiva dritta al cuore; ognuna di queste composizioni porta nei propri secondi di durata tutta l'energia e la pacca che questi quattro musicisti avevano nel 1987 ed ogni pezzo, per quanto possa apparire grossolano e per certi aspetti lontano dall'originale, ci giunge alle orecchie come un qualcosa di sentitamente vivo e crudo che ben si allontana dalla commercialità con cui James Hetfield e soci si sarebbero cimentati nel coverizzare negli anni avvenire. Ciò che ci dice questo EP è semplicemente: "Siamo i Metallica, abbiamo composto dischi destinati a scrivere la leggenda del nostro genere, ma siamo ben consci del fatto che abbiamo iniziato dai garage come tutti ed anche se adesso siamo delle rockstar, ogni tanto ci piace tornare indietro nel tempo". Già con il successivo "Garage Inc." infatti, non mancheranno le polemiche ed i sofismi per una perdita di attitudine che molti fans associano al taglio (o alla caduta nel caso di Ulrich) dei capelli ma che comunque ci ha regalato una raccolta successiva degna di nota. "Garage Days" è un'istantanea dei Metallica più primordiali e non è un caso che sulla copertina ci siano proprio loro, fotografati all'interno delle docce di uno spogliatoio con solo gli strumenti in mano; quelle espressioni sui loro volti, quell'atteggiamento e lo stesso modo di tenere gli strumenti puntati verso l'obiettivo fotografico incarnano in pieno il modus operandi di una band ancora "agli inizi" e fortemente legata al proprio retaggio, quei 'Tallica che con grande rammarico oggi non troveremo più, ormai eclissati dall'enorme macchina aziendale che ha fatto di quel nome addirittura un brand commerciale, non ci resta quindi che guardare questa fotografia come un epitaffio della prima seminale fase di una leggenda del metal, definitivamente diventata parte della storia. Un altro segno di semplicità di questo lavoro lo si trova nel titolo stesso: completo esso infatti è "The $5.98 EP - Garage Days Re - Revisited", basilare e di impatto, scritto a mano e che arriva dritto al punto: a risaltare prima di tutto troviamo la modica cifra, a cui di solito si vendono le demo; essa introduce la voglia dei 'Tallica di rallentare momentaneamente il passo dopo le grandi imprese compiute con i tre dischi precedenti, quasi volessero ripartire da zero dopo la conclusione della prima fase della loro esistenza, in seconda battuta l'aggettivo "re-revisited" indica che la band americana volge lo sguardo indietro ai tempi che furono, verso quelle storie di vita vissuta che gli ha portati dove sono ora, nel bene e nel male, facendo inoltre scendere una lacrimuccia nostalgica dai loro occhi ma al tempo stesso riempiendoli di prospettive per un nuovo inizio. Altra ragione per cui questo EP segna un punto di svolta per la band californiana è la prova su strada del nuovo bassista Jason Newsted, assoldato dopo la prematura scomparsa del grandissimo Cliff Burton,il quale perse la vita nell'incidente che coinvolse il tourbus del gruppo in Danimarca appena l'anno precedente a questa pubblicazione. Un'impresa non facile, se si tiene presente che il bassista dei Flotsam And Jetsam si trova di fronte al gravoso onere di rimpiazzare non solo un musicista ma quello che per James, Kirk e Lars era diventato a tutti gli effetti un fratello. Secondo molti infatti, membri della band compresi, il nuovo arrivato non riuscì mai a sostituire realmente la grandezza del suo predecessore; Newsted infatti verrà sempre trattato come il "novellino", vittima anche di un nonnismo quasi cameratesco che non gli ha risparmiato nemmeno i peggiori scherzi da tour che si possano mai ordire, dal dentifricio nelle scarpe alla birra nei pick up del basso. Per i Metallica, il nuovo arrivato non è altro che una macchinetta il cui unico compito è quello di suonare il basso senza dire niente, anzi, quello di far finta di suonarlo, dato che il drummer danese non esitò ad abbassare, fino quasi ad azzerarle, le tracce del quattro corde in sede di registrazione, con un fare a dir poco dittatoriale. Il messaggio era semplice: "ti abbiamo preso con noi solo perché il pubblico ci vuole in quattro, adeguati", ma fortunatamente, chissà per quale maneggio archivistico, di recente sono venute fuori le tracce originali dei pezzi fino ad "And Justice For All" con il basso a livello normale e, come è intuibile, il risultato è ben diverso da quanto pervenutoci in precedenza. Con questo "antipastino" a base di cover ci troviamo quindi di fronte ad una prova del nove per i Metallica, un nuovo anno zero che darà ufficialmente il la alla loro nuova fase evolutiva che assieme a Newsted li condurrà fino al successivo, e nuovamente controverso, periodo di "Load" e Re Load"; non resta che addentrarci in questa tracklist che spazia dall'hard rock fino al punk.
Helpless
Le danze si aprono con la riproposta di "Helpless" (trad."Privo Di Aiuto") dei Diamond Head, band alla quale i nostri tengono particolarmente ed alla quale offriranno un secondo successivo omaggio suonando anche live "Am I Evil" durante il Big Four. Fin dall'inizio questo EP si presenta come decisamente "underground", dato che nei primi secondi si sentono i musicisti che parlottano quasi come se il pulsante rec fosse stato premuto in leggero anticipo. La cosa che balza subito alle orecchie è la maggior grinta con cui il brano viene suonato, si sente che sono ancora quei Metallica legati alla vecchia scuola thrash metal, secchi e diretti come non mai, ai quali non sarebbe mai passato per la testa (per il momento) di compiere certi passi falsi che saranno compiuti solo negli anni duemila. Lars Ulrich dietro alle pelli ci sa ancora fare, è grintoso, lineare e ricco di pacca, e pur non offrendoci un drumming particolarmente elaborato è comunque il vero motore del brano; le chitarre ed il basso quindi non possono far altro che stargli dietro sfoderando quasi a loop il main riff, leggermente modificato rispetto all'originale in modo da renderlo un terzinato decisamente più thrash. Già da questa prova iniziale si sente l'enorme lavoro di arrangiamento compiuto la band, poiché il brano originale, per ovvi motivi cronologici legato ancora più all'hard rock che all'heavy metal, traspare sì ricco di groove ed energia ma decisamente più spento se paragonato a questo nuovo rifacimento. Ecco svelato il reale talento coveristico dei Metallica: prendere dei pezzi già di per sé leggendari e conferirgli una grinta tutta nuova, quella nata dal nascente genere del thrash metal, che con la band californiana stava arrivando sulle scene ancora attraverso i loro primi ruggiti. Il nuovo arrivato Newsted si fa subito riconoscere: le sue sono vere e proprie zappate sulle corde del basso; va ricordato anche il fatto che sia il primo bassista dei Metallica ad usare il plettro anziché le dita ed in più il confronto con il titanico Cliff Burton lo fa partire in salita, ma comunque il suo "sporco lavoro" viene svolto in maniera più che dignitosa. Quella dei Diamond Head è una canzone standard a livello di struttura, salvo per le varianti inserite nella sua seconda parte, ma a conferire alla struttura un maggiore dinamismo troviamo un tocco assolutamente personale da arte di entrambe le band. Per quanto concerne i "discepoli", la linearità del pezzo, costituito da un classico alternarsi di strofa e ritornello con uno special conclusivo, diventa il vero e proprio punto di forza: grazie al tiro che i Metallica conferiscono al brano, il suo essere "ripetitivo" (anche se avercene di brani come questo) passa assolutamente inosservato, volutamente eclissato dal tiro e dal groove che i Metallica sono in grado di conferire a questa composizione. Lo stacco maggiore si ha confrontando le due voci: paragonata a quella di Tatler la performance di Hetfield è decisamente più ruvida e stradaiola, con un range melodico decisamente ridotto ma comunque conforme al registro stilistico del brano nel suo complesso, ottimamente allineato con la ribellione e la sfacciataggine delle liriche di un musicista che fa della musica la sua vita e risponde a tutti coloro che vedono nella sua passione uno spreco di tempo ("Every night alone, i sing my song just for fun, only time will tell, if i'll make it myself someday, this stage is mine, music is my destiny" trad. "Ogni notte canto la mia canzone in solitudine, solo il tempo dirà se un giorno lo farò da me, questo palco è mio, la musica è il mio destino"). Attraverso una vincente metafora nelle liriche, le luci di un palco infuocato da un concerto rock si fanno subito abbaglianti come un fuoco devastante che brucia una città fin dalle sue fondamenta; la ribellione avviene quindi non (solamente) attraverso semplici atti di vandalismo ma scuotendo le fondamenta dei palazzi direttamente dai bassi fondi, suonando tutta la notte la musica destinata a cambiare le sorti del mondo: è da quei locali malfamati che arrivano queste note graffianti e martellanti, quell'energia primigenia che si genere nel miscuglio tra la musica ed il sangue ed il sudore versato da tutti i disadattati, perché così erano (e sono tutt'oggi ancora in buona parte) definiti i rocker; la società infatti non vede assolutamente di buon occhio i jeans strappati, i giubbotti di pelle ed i capelli lunghi, eppure, questa massa di disagiati reietti si fa sempre più numerosa e combatte la propria guerra a colpi di schitarrate suonate a tarda notte. Come ogni incendio però anche quello sonoro ci può sfuggire di mano, come il piromane infatti perde il controllo delle fiamme da lui innescate anche il musicista si lascia sottomettere dalla sua stessa musica, venendo da essa assoggettato diventando una fonte di suoni inesauribile. Chi suona infatti inizia alla cieca la propria esibizione, non sapendo se il pubblico potrà mai gradire o meno e quindi pensando solamente ad arrivare alla fine del brano senza errori, ma quando la musica gli scorre dentro, improvvisamente si accende quella fiamma improvvisa di passione, alimentata dal supporto sempre più energico di chi ci ascolta, ed immediatamente dai tre minuti canonici ecco che il nostro brano può sfiorare la mezzora, alimentato dalle sempre più continue urla di incitamento dei fans. La musica quindi non è un'attività, è una vocazione, nessuno sa infatti cosa il destino riservi ad un musicista, ma egli fondamentalmente non se ne preoccupa nemmeno, l'importante è l'hic et nunc, il presente, l'istante, che il musicista pensa a rendere grandioso attraverso ogni singola nota del proprio strumento cogliendo l'attimo; per riprendere i versi di Lorenzo il Magnifico, il motto è semplicemente "Chi vuol esser lieto sia, che di doman non v'è certezza".
The Small Hours
La seguente "The Small Hours" (trad. "Le Ore Piccole"), originariamente degli Holocaust, mette sul piatto quel groove e quella marzialità che caratterizzeranno il sound della band californiana qualche anno dopo, ascoltando questa canzone vengono infatti gettate le basi di quella "Sad But True" che diventerà uno dei brani di punta del Black Album. Il pezzo inizia con un arpeggio delicato e leggero sostenuto dal charleston di Ulrich a scandire il tempo, quattro note suonate con un effetto delay che rendono il passaggio tetro ed atmosferico, quasi a rendere tangibili le ore notturne durante le quali si sta muovendo qualcosa di malvagio che presto verrà allo scoperto, tutti, o quasi, dormono ancora, ma presto succederà qualcosa di inarrestabile. A 0:55 fa il suo ingresso la chitarra distorta, giusto con qualche accordo prima che venga lanciato il riff principale. L'atmosfera dall'oscurità iniziale passa ad un impatto energico e coinvolgente, un tempo in quattro quarti cadenzato di batteria sostiene infatti una serie di power chords marziali ed imponenti, suonati attraverso tutta la grinta di un palm muting pesante e netto, sotto il quale si può apprezzare il dinamico basso di Newsted lanciato in un fraseggio dal retrogusto tipicamente funky; per la prima volta vengono sperimentate le accordature ribassate che i Metallica mantengono tutt'oggi ed il risultato è sicuramente vincente, si crea infatti quella potenza che da lì in avanti contraddistinguerà e renderà riconoscibile al primo ascolto il loro sound. Nel complesso, la canzone vanta un ritrovato groove tipicamente seventies, in cui Hetfield ha modo di stendere il suo cantato abbandonando momentaneamente il tocco sporco concentrandosi maggiormente sul pulito. Come canzone rispetto alla precedente questa è sicuramente più granitica, la batteria procede solo utilizzando la cassa, il charleston ed il rullante, ma con solo questi tre pezzi si mantiene la cadenza generale, venata di un tocco quasi doom (specialmente nella ripresa dell'arpeggio iniziale). A 04:10 però il gruppo "esce dai binari": la vena thrash ormai pulsa ricca di adrenalina ed ecco quindi partire una cavalcata sostenuta da mid tempo su cui Hammet sfoggia un assolo in tutto per tutto conforme a quello che sarà definitivamente il suo stile: moltissime note sparate a velocità alcaline, concedendosi qualche imprecisione/licenza poetica di un genere come il thrash, dove deve trasparire prima il cuore della tecnica; fresco della scuola di Satriani l'ex chitarrista degli Exodus deve altresì confermare ogni volta il suo status, nonostante siano già usciti tre album con lui in line up, perché è proprio sulle cover che si può instaurare il dubbio sulla sua adeguatezza dopo aver rimpiazzato Dave Mustine al fianco di Hetfield; diventa quindi fondamentale crearsi un proprio tocco che lo distingua dal rosso fondatore dei Megadeth, affinché non si possa mai provare nostalgia verso quest'ultimo e si possa considerare Kirk Hammet l'axeman dei Metallica in tutto e per tutto. Conclusa questa parentesi più thrash, il brano si riallaccia al disegno iniziale per condurci alla conclusione nuovamente con la marcia granitica iniziale, che lentamente riprende l'arpeggio dell'apertura per poi giungere al finale definitivo. Anche in questa sede troviamo un songwriting assolutamente basilare, ma siamo pienamente coscienti del fatto che agli albori del metal era la potenza ad essere ricercata, non la variabilità compositiva. Era infatti la testa con cui suonavano i musicisti a conferire a delle canzoni assolutamente elementari quel tocco di unicità che le distinguerà nei secoli dei secoli: il pezzo degli Holocaust si può riassumere con lo schema blocco iniziale, blocco centrale e ripresa del blocco iniziale con finale, semplice ed istintivo, ma è così che ci piace ed è così che band come Motorhead, Ramones, Venom e via discorrendo hanno scritto pagine indimenticabili di storia della musica.L'unica variante sta proprio nella fine della traccia: mentre gli Holocaust si lasciavano andare alla proverbiale baraonda dove ognuno concludeva un po' a modo suo, Hetfield e soci realizzano una chiusura più studiata e riuscita dell'originale, ma è l'unico punto di novità di tutta la canzone. Rispetto alla versione originale infatti, i 'Tallica non si discostano particolarmente, se non per la diversità di settaggio dei suoni che li rende più sostenuti e granitici degli Holocaust; il risultato è comunque buono ma i Four Horsemen non è che si siano sforzati particolarmente nel rielaborare, impegno che invece si dimostra serrato nell'eseguire ma ciò ci porta comunque a dedurre che più che un desiderio di riarrangiamento qui vince su tutto il voler omaggiare la band di John Mortimer. Ad esulare completamente dallo standard dei Metallica in toto è il testo, decisamente più introspettivo ed onirico di quelli finora scritti da Hetfield: il protagonista è un bambino disperso nell'aria che passa attraverso le persone, già da questa immagine abbiamo modo di immergerci in un'atmosfera marcatamente surreale, a metà fra un quadro di Dalì ed una poesia ermetica: Il pargolo diventa subito metafora di innocenza e libertà al tempo stesso, egli è una creatura solo riflessa racchiusa in un soffio di vento, che con delicatezza ci accarezza fino ad attraversare ogni meandro della nostra essenza fisica, alla sua struttura eterea si contrappongono così la carne e le ossa degli esseri umani ("You cannot touch me, you would not dare, i'm the child that's in the air, so i try to get through to you, in my own special way, as the barriers crumble, at the end of the day" trad. "Non puoi toccarmi, non puoi osare, sono il bambino nell'aria, proverò a passare attraverso di te, nel mio modo particolare, appena crollano le barriere alla fine del giorno"); quest'immagine di contatto onirico va a rappresentarsi in un paesaggio le cui componenti sembrano essere uscite da un quadro di De Chirico: i fiumi dell'oscurità primordiale scorrono imperiosi verso una realtà ormai dimenticata, dove noi uomini ipnotizzati dalla modernità non siamo altro che pesci inermi pescati invece da creature libere e quindi per definizione superiori a noi. Concetti prettamente soggettivi come il destino o la fortuna stessa smettono di esistere in questo mondo immaginario, tutto è naturalezza, tutto è essenza, e mentre noi siamo costretti ogni giorno a dover sottostare a regole che ci siamo volutamente imposti, qui tutto succede naturalmente, allo stesso modo in cui il fiume sfocia nel mare.
The Wait
La rivisitazione maggiore a livello compositivo viene effettuata con "The Wait" (trad. "L'Attesa"), brano dalle tinte dark dei Killing Joke che su questo EP viene trasformato fin dalle prime note in un brano decisamente più grintoso; nel riff iniziale viene mantenuto l'originale tocco funereo, qui maggiormente marcato grazie prima di tutto ad una pennata più decisa, espediente notoriamente metal assente nell'esecuzione della band londinese, e per merito anche di un suono di chitarra più grosso e pesante, a differenza dell'originale più punk oriented. Lars Ulrich semplifica ulteriormente il drumming della traccia: rispetto a Paul Ferguson infatti, il batterista di origine danese cassa quasi definitivamente tutti i passaggi sui fusti in favore di un tempo lineare composto solo di cassa, rullante e charleston, il tutto atto a sostenere un riffing più massiccio della versione originale; d'altro canto, stiamo parlano di una band thrash metal alle prese con un brano composto da un gruppo dark wave post punk, quindi chiaramente le differenze di esecuzione prettamente tecniche appaiono immediatamente lampanti, ma questa manovra non destabilizza la resa finale, anzi, vi fa guadagnare una maggiore grinta ed un tiro più immediato. Inoltre, la versione dei Metallica vanta una maggiore pulizia rispetto a quella della band britannica, i suoni infatti sono calibrati meglio, complici anche i sette anni di distanza che separano la canzone tratta da "Killing Joke" da questa dell'EP in cui sicuramente sono stati compiuti anche notevoli passi avanti in materia di audio recording; la struttura del brano è lineare e diretta e punta tutto sull'incisività di un ritornello che arriva puntuale a fornire un maggiore respiro ad uno scheletro di canzone composto da sue strofe al cui centro si tuova un ritornello ripetuto; ci troviamo di fronte all'esordio dei Killing Joke, che nell'album omonimo d'esordio erano ancora influenzati dall'ondata punk ma al tempo stesso cercavano di trovare la propria strada volgendosi verso lidi più sperimentali, su questa traccia dunque confluiscono la basilarità del punk uniti all'efficacia dell'arrangiamento vocale, un piccolo passo verso la nascita di ciò che sarà poi definito, proprio per ribadire il distacco dalle origini, il post punk. L'insieme risulta quindi decisamente più bilanciato e fluido, i fruscii presenti nell'originale infatti sono ora completamente spariti e nel complesso può ora giungerci tutta la pacca dei metallica dell'ottantasette. Ogni strumento adesso balza letteralmente fuori dall'impianto, mentre nella registrazione di Jaz Coleman e soci il tutto emergeva più impastato ed indietro, dando ampio spazio quindi alla sperimentalità artistica della band. La strofa suonata dai Metallica coinvolge molto di più, rendendosi appetibile per un headbanging sfrenato decisamente più conforme ai gusti dei thrasher, non abbandonando tuttavia l'impronta dark wave dei Killing Joke grazie all'utilizzo della voce filtrata in modo da risultare quasi robotica, per poi farsi altisonante nel ritornello, lanciato dagli accordi aperti e crescenti di tonalità, creando così una maggiore apertura. Proprio in questa sede Lars si concede un pizzico di creatività in più, sfoderando un passaggio sui tom (l'unico di tutta la canzone) che riprende poi il canonico quattro quarti della strofa. Essendo il brano di partenza abbastanza standard per quanto riguarda la struttura anche i Metallica non lo infarciscono troppo, giusto qualche ricamo ritmico eseguito da Newsted con il basso ma niente di particolarmente complesso; la differenza di genere tra i Metallica ed i Killing Joke consente alla band americana di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo: l'eseguire semplicemente "The Wait" con i propri suoni ed il proprio tocco mantenendo la struttura originale già di per sé offre un'enorme differenza tra le due, ancora una volta, l'impatto finale è dato semplicemente dall'energia con cui i Metallica si limitano a suonare questo pezzo, sul quale non sono state apportate ulteriori modifiche. Arrivando dalla corrente post punk il testo verte sull'esistenziale dalle tinte cupe, a metà fra la poesia cimiteriale e quel nichilismo che di lì a poco avrebbe caratterizzato il grunge ("After awakening, the silence grows, the screams subside, distortion shows, mutant thoughts, of bad mouthed news, just another birth of distorted news" trad. "Dopo il risveglio, il silenzio cresce, le urla si placano, la distorsione mostra, pensieri mutanti di maldicenze, solo un altra nascita di visioni distorte"). Il punto focale di queste liriche è appunto la disillusione verso una realtà che è ormai sinonimo di monotonia; ogni giorno è uguale a tutti gli altri ed ogni scorcio della Londra degli anni ottanta si rivela comunque ai nostri occhi lugubre e sulfurea quanto quella rappresentata dai romanzi di Charles Dickens. Le giornate si susseguono ed il leif motiv cambia solo in apparenza, come una minestra che ad ogni allungo con l'acqua ci sembra diversa ma ad aumentare è solo l'intensità della luce che ci rende visibili le maschere di decadenze portate sul volto di ogni essere umano presente sul nostro cammino: ci basta camminare per le strade e guardare negli occhi chi cammina nella direzione opposta alla nostra per notarlo, ogni sguardo apparentemente intento a preoccuparsi degli impegni quotidiani nasconde sotto quella maschera l'inquietudine di un'esistenza priva di sbocco, ed ogni istante è quindi vissuto nella costante attesa dell'inesorabile fine. La parola stessa "The Wait" viene riproposta attraverso l'effetto del faid out, in modo che essa vada a perdersi come un solitario grido nel nulla; grazie a questo semplice espediente, il solo titolo del brano ne esprime tutta l'introspezione dark. A differenza del suo collega Robert Smith dei The Cure, più conforme all'immagine di un triste saltimbanco nel circo della vita, Jaz Coleman si pone più come un mimo, capace di imitare e modulare ogni fase di una realtà sempre volta alla dissoluzione semplicemente grazie al cambio di make up, ma il volto inquieto ed insoddisfatto resta sempre celato sotto il velo bianco e nero. Siamo però di fronte ad una "depressione attiva", consapevole cioè della propria condizione, che non subisce l'inesorabilità del destino ma che scrupolosamente la osserva e ne annota ogni paradosso nelle rime delle proprie canzoni. Dopo ogni risveglio, atto di per sé attivo, cresce sempre il silenzio di quella realtà ormai vuota, che ormai conosciamo bene, e di cui ne deridiamo gli schiavi testo dopo testo.
Crash Course In Brain Sourgery
Con la seguente "Crash Course In Brain Sourgery" (trad."Corso Intensivo In Chirurgia Cerebrale"), cover dell'originale canzone dei Budgie, si alza decisamente il tiro; la traccia si tinge di un tocco rock n' roll che la rende spiccatamente più ballabile e festaiola delle precedenti. Protagonista in questa occasione è il basso di Newsted che si lancia in un travolgente assolo iniziale percorrendo su e giù delle scale pentatoniche con un tocco vivamente anni 50', mentre le successive zappate di plettro sulle corde del basso durante le strofe ed i ritornelli danno all'esecuzione un tocco punk che si mantiene vibrante anche durante lo svolgimento del pezzo. I numerosi stop and go della ritmica lo rendono dinamico ed energico, facendone il brano più "demenziale" del lavoro. D'altra parte anche la band di Cardiff si rifà espressamente alle atmosfere rock n'roll primordiali di Elvis e Johnny Cash, urge quindi mantenere questo registro anche per i Metallica, affinché non venga snaturata l'essenza originale della composizione. Trattandosi infatti di un brano del 1974, a balzare alle orecchie è nuovamente la pesantezza dei suoni dei Four Horsemen, il groove originale quindi si carica di una potenza conferita ormai da un suono meta fatto e finito: mentre nell'originale il sound della New Wave of British Heavy Metal doveva ancora ben definirsi, nel'87 quel passaggio era ormai archiviato, l'Heavy Metal aveva raggiunto la sua definizione e si apprestava ora a ramificarsi nei suoi vari sottogeneri. Ecco quindi che il thrash dei Metallica si rimette ora al servizio del sound degli albori per darne un omaggio in versione 2.0, aggiornato a quello che era il verbo sul finire degli anni ottanta. Essendo la velocità un ingrediente principale per i quattro musicisti americani, ecco che l'esecuzione si alza di bpm: il drumming di Ulrich è di nuovo lineare e senza particolari elaborazioni ritmiche, ma sicuramente risulta più sostenuto e pesante di quello di Ray Philips, quest'ultimo più orientato verso il blues ed il jazz. Ecco che ancora una volta il tocco energico dei Metallica eleva verso la quintessenza canzoni già destinate a fare la storia. La struttura si rivela più elaborata e dinamica rispetto a quella delle tracce precedenti, complice anche il fatto che i Budgie fanno ancora parte della scena anni settanta, dove il blues veniva a mescolare con le allora nascenti e più dure sonorità rock; l'attitudine seventies traspare qui in tutto il suo splendore grazie ad un riff chitarristico che risente direttamente della genialità di Jimi Hendrix, Hetfield ed Hammet si limitano solo a riproporlo con il loro tocco senza stravolgerlo proprio per la sacralità ormai appurata di quanto fatto dal rock negli anni 70'. Su questa traccia emerge più marcatamente l'estro creativo dei californiani, che si concedono la libertà di aggiungere degli stop and go, dove prima di ogni ripartenza si sentono delle urla di alcuni fans, quasi a rendere l'atmosfera di un live improvvisato in studio: da questa canzone infatti sembra quasi che i Metallica si siano portati gli amici in sala di registrazione e che quindi non si tratti di una pubblicazione ufficiale ma di un bootleg ripreso durante una festa in saletta. Questa traccia mette in risalto come i Metallica fossero capaci, all'epoca, di ridere di se stessi; In questo EP sono ancora quattro metallari goliardici ed irresponsabili che vivono la vita una sessione di prova alla volta, ben lontani dagli uomini d'affari che sono adesso, il cui marchio registrato compare su gadget di ogni tipo. D'altra parte le liriche stesse del brano offrono ai 'Tallica un'occasione d'oro per imbastire un piccolo teatro dell'assurdo accompagnato dalle sonorità dell'heavy metal: il testo infatti descrive una sorta di intervento al cervello dadaista e fantasioso dove il coltello delle parole lacera come un bisturi il tessuto cerebrale facendo andare storta l'intera operazione ("Look inside and you will see, the words are cutting deep inside my brain, thunder burnin' quickly burnin', knife of words is driving me insane, insane yeah" trad. "Guarda all'interno e vedrai le parole che mi stanno tagliando il cervello, un bruciare rapido e tonante il coltello delle parole mi conduce alla follia"). Il paziente viene steso sul tavolo operatorio senza quasi nemmeno essere anestetizzato, l'atmosfera è ben lontana da quella di una struttura sanitaria efficiente, anzi, con tutta probabilità i chirurghi sono dei pagliacci che operano le persone con strumenti giocattolo, c'è il rischio di infezioni o danni ben più gravi? Ma chissenefrega, tanto sul tavolo operatorio c'è un paziente che non vedeva l'ora di farsi aprire il cranio da uno squilibrato. Una volta aperta la calotta cranica, dio solo sa grazie a quale miracolo ci siano riusciti i "medici", ecco presentarsi ai loro occhi un encefalo in tutto il suo immenso splendore, tartassato dal rimbalzo delle parole con cui il paziente si rapporta ogni giorno con gli altri; la diagnosi è presto fatta: il paziente ha troppe cose per la testa, urge quindi un delicatissimo intervento d'urgenza per incidere il tessuto cerebrale e drenarlo di tutte le parole in eccesso. Sulla corsia ecco però comparire agli occhi del paziente un corvo, forse reale o forse un'allucinazione dovuta a qualche maldestra manovra del bisturi che ha lesionato qualche punto del cervello, il volatile lo invita comunque a seguirlo; bisogna andare, non c'è tempo per accertarsi se quell'uccello sia reale o meno, ma in fin dei conti poco importa, poiché esso gli sta facendo da guida in una rocambolesca fuga dall'ospedale, continuamente braccato dai dottori pagliacci. Nella corsa sbatte ripetutamente contro diversi ostacoli, ma è comprensibile, dato che la sua testa è per metà aperta, ma ecco che il corvo improvvisamente gli mostra come domare tutte le parole presenti nel suo cervello, al fine di poterle usare saggiamente per poter domare ogni situazione della vita. Giusto un attimo per poter godere appieno di questa grande scoperta ma ecco che il malcapitato è travolto dai dottori che lo investono con una barella per riportarlo in sala operatoria. La corsa è nuovamente frenetica e le ruote della barella girano all'impazzata facendogli percorrere le corsie ad altissima velocità; ormai è condannato alla sua anatomica esecuzione se non fosse che un incidente di percorso nel reparto di chirurgia gli salva una vita: un altro intervento d'urgenza si staglia sul percorso e le due equipe mediche sbattono l'una contro l'altra, consentendogli la fuga definitiva.
Last Caress / Green Hell
L'EP si conclude con una cover dei Misfits composta da due tracce unite in un unico medley: "Last Caress / Green Hell" (trad. "L'Ultima Carezza/Inferno Verde") è il brano che getta la band vessillo del thrash statunitense nel mondo dell'horror punk che ha reso i "disadattati" una vera e propria icona della musica, anche loro nuovamente omaggiati con anche la cover di "Die Die Die My Darling", presente su "Garage Inc.". L'inizio è da manuale: un accordo di chitarra tenuto sul quale si lancia la celebre frase malata "I've got something to say, I killed your baby today and it doesn't matter to me as long as it's dead" trad. "Ho qualcosa da dirti, ho ucciso il tuo bambino oggi e non mi importa da quanto tempo sia morto". Una sentenza agghiacciante, che ha reso la band di Danzig famosa per la sua follia musicale e che lancia il resto della canzone, la quale prosegue con "I've got something to say, I've raped your mother today and it doesn't matter to me as long as she spread" trad. "ho una cosa da dirti, ho stuprato tua madre oggi e non mi importa quanto sia durato", potrebbe benissimo essere il copione di un film horror, dichiaratamente b movie ma è solo uno dei tanti brani che i Misfits amavano letteralmente urlare dal vivo. Ovviamente i Metallica ricalcano fedelmente l'attitudine della band a cui rendono omaggio, adeguandosi alla sua proverbiale grezzura, sempre con il proprio approccio, per non snaturare un pezzo storico che è e rimane leggendario proprio per il sound crudo ed ignorante. Come ogni pezzo punk la batteria parte lineare senza freni, un quattro quarti dritto sulle quali le chitarre sparano i pochi accordi costituenti la canzone, d'altra parte, se c'è una cosa che affascina del genere nato in Inghilterra è proprio la sua semplicità; la velocità cresce sempre di più, seppur con qualche imprecisione, con l'attaccare di "Green Hell", che arriva netto ed improvviso senza un secondo di stacco, rendendo il pezzo una vera chicca da pogo sfrenato. I 'Tallica creano così un medley tributo ai Misfits che per quanto improvvisato si rivela vincente, fondendo assieme due dei pezzi più celebri dell'era Danzig, il periodo all'unanimità riconosciuto come quello dei veri Misfits, in cui l'attitudine trasudava da ogni singola nota. Anche se il periodo con Michael Graves non sia certo da buttare via, i fans restano legati a quegli anni in cui il fondatore della band era dietro al microfono, in cui i pezzi erano sì più "scadenti" ma comunque più sentiti e sinceri. Hetfield e soci si gettano quindi a capofitto in questo frangente, ed è anche comprensibile, visto che la loro gioventù musicale sarà senz'altro stata traviata da album quali "Earth A.D" e "Walk Among Us". Se il thrash metal vede nel punk una delle proprie radici, quale miglior occasione se non quella di omaggiare una band come i Misfits, che da sola potrebbe tenere testa a moltissimi grandi nomi del settore nati in Gran Bretagna. In questo senso i Metallica si collocano a metà fra l'esecuzione e la rielaborazione: da un lato i due pezzi sono eseguiti tentando di rendere per intero il cuore della band di Jerry Only, dall'altra vi è tuttavia una decade di distanza che offre a queste due canzoni, di poco più di un minuto la potenza guadagnata dai Metallica nel corso della loro carriera e parlando di due brani punk, se la resa fosse stata migliore delle originali sarebbe venuta meno l'essenza stessa del genere. Per certi versi il punk può considerarsi l'impressionismo della musica, le due canzoni prese separatamente sono un'istantanea che esprime in pochi secondi di durata un istinto di ribellione ed insubordinazione di un determinato momento, allo stesso modo in cui le pennellate di Monet dovevano in pochi tratti catturare un determinato scorcio in un determinato attimo. D'altra parte il punk succede in linea cronologica al rock progressivo, fatto di lunghe e variegate suite strumentali che hanno riscritto le regole del gioco, quelle stesse regole che i punk, in quanto ribelli vogliono volutamente infrangere: "i Pink Floyd fanno pezzi di oltre sette minuti? Benissimo noi saremo altrettanto espressivi in un minuto e mezzo", questo, molto metafisicamente, sarebbe stato ciò che avrebbero potuto dire i Misfits riguardo alla musica degli anni settanta. In queste due liriche traspare tutta la pazzia e l'amore per l'horror che ha reso i Misfits gli ideatori del cosiddetto "horror punk": nella prima traspare tutto il malsano amore di un amante omicida che pur di far colpo sulla propria amata prima ne uccide il figlio e poi ne violenta la madre, non curandosi in entrambi i casi della gravità di quanto appena compiuto. Questi sono secondo lui atti d'amore, atti ad introdurre il magnifico momento dell'incontro in cui egli potrà finalmente sentire il respiro della sua bella sul collo; un respiro di ansimante agonia, poiché la aspetta una pugnalata dritta al ventre che la lascerà agonizzare fino a quando lui non le porrà sul viso la sua ultima e delicata carezza. Quanto a "Green Hell" esso descrive semplicemente la nuova concezione che i Misfits hanno dell'Inferno: al rosso vivo del fuoco si sostituisce il verde dell'olezzo di una brodaglia truculenta dove marcire in eterno, è qui che possiamo vedere e toccare la chiave per la nostra eternità, dalla fornace per antonomasia siamo ora immersi in un immenso calderone ribollente, nel quale la nostra dannazione si può consumare lentamente abbagliando le nostre membra di un bagliore verdastro che ci trasformerà in zombie nel giro di pochi minuti. La descrizione di questo luogo avviene attraverso un processo altamente sensoriale, possiamo prima sentire l'odore putrescente di questo luogo per poi provare sulla nostra pelle lo scorrere delle gocce della brodaglia in cui stiamo bollendo, l'aria è talmente satura di malvagità che ne siamo ipnotizzati e vogliamo restare lì a decomporci per sempre, perché fuggire da un qualcosa che presto o tardi ci toccherà comunque? Sembrerebbe raccapricciante così a primo impatto, ma la vena horror b movies che caratterizza da sempre i Misfits ci presenta questo scenario con un fare marcatamente ironico e cinico allo stesso tempo. Che cosa, in fin dei conti, differenzia l'immagine classica dell'Inferno dalla squallida realtà in cui viviamo ogni giorno? Un colore verde acceso, un'inezia, ma che i Misfits sfruttano per dare un colore diverso a qualcosa che conosciamo bene ed in cui viviamo tutti i giorni della nostra vita. Il tocco carnevalesco offerto dalla punk band americana ci spinge quindi a vivere questo agghiacciante scenario come un'enorme festa in maschera, grazie alla quale possiamo momentaneamente abbandonare gli abiti della nostra professione quotidiana per vestirci da mostri, anzi per rivestirci, poiché grazie alla musica per un attimo può emergere il mostro che è in noi.
Conclusioni
"Garage Days Re-revisited" si pone quindi come un EP espressamente sincero, non egregio stilisticamente o tecnicamente parlando ma il cui perciò è senz'altro quello di suonare decisamente autentico dai nostri impianti. I Metallica le grandi vendite le hanno già fatte con "Kill'Em All", "Ride The Lightening" e "Master Of Puppets", non è quindi con questo lavoro che possono aspirare alle grandi billboard, anzi, i Metallica non vogliono aspirare ad esse. Lo stile complessivo di questo disco infatti ci fa immediatamente capire che la band vuole prendersi una pausa dall'onere di essere ormai diventata la numero uno del panorama metal mondiale, concedendosi quindi un piccolo intervallo per suonare in saletta rilassandosi con delle cover, senza troppo impegno quindi, come fa un gruppo che deve a maggior ragione testare sul campo un nuovo arrivato. Il ritorno indietro nel tempo vuole quindi essere anche uno sfogo per la pressione accumulata a seguito della perdita di Cliff Burton, prima di dover tornare a dimostrare ai milioni di fans che i Metallica sono ancora in pista si sente la necessità di rilassarsi tornando agli albori, potendo suonare dei pezzi che sono già diventati grandi e senza conseguentemente doversi preoccupare di come il pubblico possa rispondere ad essi. Se le cover stesse qui riproposte avessero suonato con una cura impeccabile, decisamente si sarebbe perso quello che era l'obiettivo di questa pubblicazione: le canzoni risultano volutamente un po' grezze, per quanto notevoli per gli standard dell'epoca, proprio perché i Metallica ci vogliono dare di loro l'immagine del gruppo che suona in sala prove e non della macchina da guerra che riempie gli stadi. Di notevole pregio sul piano sonoro è l'immediata riconoscibilità del sound, nonostante si tratti di brani composti da altre band, appena l'ep parte nel nostro stereo abbiamo subito modo di riconoscere che si tratta dei Four Horsemen, anche se non avessimo modo di leggerlo sulla copertina o sul cd. D'altronde ciò che distingue i Metallica dalle altre band è proprio quella maestria che ha consentito loro di crearsi nel corso degli anni il proprio marchio di fabbrica, personale ed identificabile fin da subito sia che siano brani loro oppure delle cover. Il merito dei quattro musicisti in tal senso è proprio quello di aver conferito alle canzoni scelte una nuova personalità, non si tratta infatti semplicemente dei Metallica che suonano brani di altri ma dei Metallica che suonano e reinterpretano quelle canzoni in base ai loro stati d'animo dell'epoca: sono ancora i Four Horsemen assetati di grinta ed energia, ed ecco quindi che quell'ottica viene subito riflessa in queste riproposizioni, gli autori di album ormai universalmente riconosciuti capolavori con lo stesso estro, in certe tracce maggiormente che in altre, si cimentano ora a ripercorrere quanto già fatto dagli artisti omaggiati suonando i loro brani con l'attitudine che arriva dritta dritta dal sound della Bay Area. Purtroppo però, "Garage Days" risulta essere un fulmine a ciel sereno, uno sguardo al passato dato giusto di sfuggita e rimasto fine a se stesso, che li ispirerà solo parzialmente per "And Justice For All" poco prima di spingerli sulla via del mercato con il Black Album e "Garage Inc." Queste cover sono quindi anche l'estrema unzione di un passato naturale che i Metallica sembrano aver perso di vista oggigiorno, eppure, quell'atmosfera disincantata ed istintiva fu proprio ciò che li rese grandi. Chissà se i Metallica di oggi avranno modo di guardare ai giorni in garage, quel passato sincero che non gli farebbe male riscoprire di nuovo.
2) The Small Hours
3) The Wait
4) Crash Course In Brain Sourgery
5) Last Caress / Green Hell