METALLICA

S&M

1999 - Elektra Records

A CURA DI
ANDREA CERASI & SANDRO PISTOLESI
28/04/2016
TEMPO DI LETTURA:
6,5

Introduzione Recensione

Heavy metal e musica classica, un binomio perfetto, quasi sempre. Ci avevano provato già altre band a unire in matrimonio due generi così distanti cronologicamente quanto vicini a livello di suoni e di passione; basti pensare ai Deep Purple, i primi ad avvicinare un'orchestra a brani moderni già nel 1969. Il massimo teorico del "genere", parlando di tempi più recenti, è senza dubbio il grande Yngwie Malmsteen, il più celebre dei virtuosi; non sono poi da dimenticarsi anche agli Emerson Lake and Palmer o Roger Waters dei Pink Floyd con il suo "The Wall: Live In Berlin" del 1990, e poi tanti altri artisti che si sono serviti di una vera orchestra per trasformare i propri pezzi rock in qualcosa di inedito e di originale. KISS, Scorpions, Dream Theater e Yes, una lista davvero lunga che figura nomi importanti dell'industria musicale. Così, tra operazioni riuscite e flop totali, non potevano mancare i più popolari di tutti, ovvero i Metallica, sempre in prima linea nello sfruttare ogni legge di mercato in grado di procurare facili guadagni e di farli entrare in classifica con minore fatica possibile. Dunque, dopo una serie di album mediocri e un doppio disco di cover di discutibile valore, i nostri decidono che è giunto il momento di rilasciare il primo vero live-album in carriera (secondo, contando il sontuoso box-set "Live Shit: Binge and Purge" del 1993). La potente "Elektra Records", all'epoca etichetta della band americana, dà loro carta bianca per compiere l'imponente progetto e registrare un prodotto nuovo da portare al più presto tra gli scaffali dei negozi. A questo punto, i Four Horsemen (sempre sospinti dalla longa manus di Bob Rock, produttore fautore della loro esplosione commerciale nel periodo post "..And Justice..") assoldano il direttore d'orchestra Michael Kamen, già loro collaboratore nel brano "Nothing Else Matters" e compositore di alcuni passaggi orchestrali in brani di gruppi come Queensryche e Rush. Le sere del 21 e 22 aprile 1999, nel Community Theater di Berkeley, California, i Nostri registrano quindi uno show dal vivo con l'accompagnamento della Orchestra Sinfonica di San Francisco, mettendo in scaletta ben ventuno pezzi, tra cui la intro di presentazione e due tracce nuove, per un totale di più di due ore di musica, battezzando il tutto col semplice nome di "S&M"; sigla che sta per Symphony & Metallica, dove la S viene presentata sotto forma di chiave di violino mentre la M conserva il font storico del logo del gruppo. Prima di inoltrarci nell'analisi accurata dei due dischetti, bisogna tenere presente che il direttore Kamen svolge non solo un lavoro di accompagnamento ma addirittura cerca di ricomporre una base sinfonica sulla quale appoggiare la struttura tipicamente metal dei Metallica, spesso risultando il vero protagonista di questa epopea musicale e soffocando completamente gli strumenti elettrici, batteria e chitarre in primo luogo. E così, in più passaggi, si ha la netta sensazione che i due generi facciano difficoltà ad amalgamarsi e il rock duro della band faccia fatica a porsi al servizio dell'orchestra. Chiariamo una cosa: se si ha il coraggio di intraprendere questo percorso, cioè portare al pubblico la veste metallica della musica classica o la veste classica della musica metal (a seconda dei punti di vista), bisogna comunque saperlo fare e bisogna saper suonare l'intero repertorio senza sacrificare nulla delle due nature tipiche dei generi proposti, altrimenti si rischia di fare un buco nell'acqua come già accaduto per altri progetti dello stesso seme registrati da altre band. Non tutti hanno le qualità necessarie per affrontare tale operazione e i Metallica rientrano tra quelle band che non hanno capito e saputo sfruttare pienamente il potenziale sinfonico delle loro canzoni, tanto da tenersi a galla soltanto con l'esperienza. E' una critica dura, ne sono consapevole, ma sentire capolavori immortali del thrash metal soffocati sconsideratamente dai violini, dai flauti e dai corni, e che si alternano a composizioni più recenti e provenienti da album insufficienti e dal sound moderno che mal si accostano alla vena orchestrale.. capite come il tutto faccia riflettere sulla effettiva qualità e soprattutto sulla effettiva utilità di un prodotto del genere, decisamente destinato ai fans più accaniti del quartetto di Los Angeles. Inoltre, come se non bastasse, una scaletta che alterna capitoli più recenti ad altri più vecchi, ripercorrendo le tappe fondamentali della discografia della band, ha lo stesso sapore di un Greatest Hits, confermando la natura prettamente commerciale di un evento che cerca di accalappiare furbescamente vecchi e nuovi appassionati.

The Ecstacy Of Gold / The Call of Ktulu

"The Ecstacy Of Gold (La Febbre dell'Oro)" è la classica introduzione dei Metallica, i quali utilizzano (come del resto facevano anche i Ramones) questa composizione del maestro Ennio Morricone (scritta nel 1966 per il film di Sergio Leone "Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo") come apertura del loro concerti sin dal 1983. Subito l'orchestra si mette in mostra sotto la direzione di Michael Kamen, e così abbiamo due minuti in cui emergono viole, tamburi, contrabbasso, corni, flauti e soprattutto violini; i cui acuti svettano al di sopra dell'intero ensemble orchestrale, esplodendo in un turbine di scintille nel momento in cui parte "The Call of Ktulu (Il Richiamo Di Ktulu)", uno dei brani strumentali più famosi dei Metallica e quello che forse li rappresenta maggiormente, almeno per quanto riguarda la prima parte di carriera. Come esplicita il titolo stesso, la musica è ispirata a uno dei più importanti e popolari racconti di H.P. Lovecraft (maestro del brivido che ha influenzato l'intera filone letterario horror del '900), ossia "Il Richiamo di Cthulhu", scritto nel 1926. La composizione ricalca l'ambientazione tipica nella quale Cthulhu risiede (la città di R'lyeh, sperduta negli abissi marini e flagellata da una continua pioggia gelida) e sembra dipingere la città del mostro, sacerdote delle antiche divinità, pennellata dopo pennellata e suono dopo suono: ci accoglie un vento (rievocato dagli archi) che fischia feroce e inquietante, che rimane anche quando a far capolino è un mesto arpeggio melodico, molto contenuto e melanconico, che si snoda nella prima parte del brano. Una melodia capace di creare un'atmosfera plumbea, perfetta per una notte di terrore, fino al sopraggiungere di un altro arpeggio decisamente più imponente e che si spoglia dei toni malinconici divenendo ben più minaccioso. A creare ancor più atmosfera, tra il silenzio incantato del teatro, sono il basso di Jason Newsted e la batteria di Lars Ulrich, mai troppo invadenti, decisamente cauti ma capaci di sorreggere alla perfezione l'ossessività di questa melodia che continua a crescere imperterrita e a ripetersi fino all'esasperazione. Ben presto è il battere dei tamburi a fendere l'aria, la sezione ritmica può potenziarsi col passare dei secondi, mentre la melodia dell'arpeggio viene letteralmente sovrastata dal suono della chitarra elettrica di Kirk Hammett che sfocia in un contesto decisamente più duro. James Hetfield si affianca ad Hammett raddoppiando la forza delle asce, donando maggiore espressività al brano. L'ossessiva melodia continua a colpire il nostro immaginario, cominciando a delineare la figura del terribile Cthulhu che svetta dinnanzi ai nostri occhi. Ecco che si cambia registro, abbandonano la calma ma nervosa andatura per ricamare un altro riff ugualmente ossessivo e tagliente, mentre la chitarra solista riesce anche a beneficiare di particolari effetti che rendono l'ambientazione ancora più claustrofobica. Ecco che Hammett dona vita a una melodia serafica ma velenosa e subdola, rendendo l'atmosfera ancora più assillante e disturbante. La band decide di puntare sulla capacità di rendere pesante l'aria grazie a un gioco di continue ripetizioni e ridondanze, cercando così di descrivere, attraverso la musica, il potere eterno e malvagio di Cthulhu, portando alla follia gli sventurati che lo incontrano. Un potere perfettamente reso da queste ripetizioni e che si fregia anche di un buon assolo di chitarra. Ulrich è perfettamente inserito nel contesto, autore di una prova semplice ma concreta. Lo stilema non sembra cambiare, più passano i minuti più i riff ricamati dai Metallica sembrano quasi insidiarsi nella nostra testa come le allucinazioni che Cthulhu è in grado di generare nei suoi sfortunati adepti. Verso la fine troviamo uno stacco quasi netto che dà il via a un momento sostenuto dalle chitarre e da drammatici violini che sembrano emettere suoni indefiniti (come voci dal profondo degli abissi) e dunque si riprende a picchiare duro con un riff di chiara matrice Thrash. Il ritmo rallenta e il brano riprende l'arpeggio iniziale, tra la foga del pubblico che ora si lascia andare a un lungo applauso.

Master of Puppets

Le chitarre e tutta l'orchestra esplodono con "Master of Puppets (Il Signore Dei Burattini)", leggendario brano creato per descrivere, senza mezzi termini, il rapporto fra droga e consumatore. Il testo della canzone è, infatti, costellato da doppi sensi e da riferimenti più o meno velati. I versi alludono chiaramente alla dipendenza dalla sostanza e al suo impatto inizialmente appagante, anche se, una volta svanito l'effetto euforico, la droga si rivela per quello che: un mezzo letale per avviarsi all'autodistruzione. La droga è come un serpente che s'avvicina strisciando con la sua voglia che s'insinua nella testa diventando una ossessione. Bisogna obbedirgli, perciò il termine "Master" identifica e impersona proprio la pericolosa sostanza. Bisogna ubbidire per poi bruciare la propria vita più velocemente. In quello che è il ritornello, viene mostrato come la cocaina (sostanza alla quale si fa maggiormente riferimento, assieme all'eroina) riesca a controllare la vita del malcapitato protagonista, proprio come un signore che muove i fili di questi burattini e ne comanda le azioni e i desideri. Quando si è in astinenza da droga, basta pensarla, basta "chiamarla" col pensiero, affinché il suo delirante bisogno accompagni i gesti corporei verso l'assunzione. Ciò è estremamente degradante, perché una volta entrati nel tunnel, non se ne può fare a meno, e ci si trasforma in schiavi, in marionette. Il tiro del brano è deciso, seppur ammorbidito dagli inserti operistici, soprattutto dei violini e delle viole che ne stemperano la cattiveria. Ma è tutto il pubblico a intonare le prime strofe, accompagnando Hetfield. Il ritmo non è troppo veloce, incentrato piuttosto sugli stacchi di batteria e sugli scambi dialettici con l'orchestra. Il cambio di tono permette alla canzone di variare e allora esplode il leggendario chorus, impreziosito da sferzate melodiche di chitarra e dai cori indemoniati dei presenti nell'arena. L'arpeggio di chitarra, a questo punto, viene sostituito dai violini, poi riprende normalmente nel suo momento più delicato. La soavità del musica che si sprigiona è palese e si raggiunge l'estasi in prossimità dell'assolo. Il resto della canzone è una caduta nell'oblio e ci ritroviamo ad affrontare un nuovo viaggio nel dolore e nella triste sofferenza di essere tossico-dipendenti. Un potente crescendo di tamburi di Ulrich, ma supportato anche dai tamburi dell'orchestra, apre una sezione in cui le chitarre procedono sinuose e piuttosto pesanti, anche se non come nella versione originale. Interessanti i cori di supporto ad Hetfield, riprodotti dai violini stessi e dai corni, che a tratti assumono forme ossessive e ipnotiche, dunque Hammet si lancia in un secondo e lungo assolo, stemperato però in un mare di suoni che lo depotenziano drasticamente. L'ultima strofa della canzone è a coronamento di questo viaggio infernale nella droga e sorge spontanea la domanda: l'inferno è valso tutto questo? Il protagonista si ritrova in un labirinto senza fine, fatto di parole senza un senso, ma con i giorni contati, giacché la sua vita sta volgendo al termine.

Of Wolf and Man

Si prosegue senza interruzioni con "Of Wolf and Man (Del Lupo E Dell'Uomo)", estrapolata dal "Black Album", dal testo horror che parla di lupi mannari. Un cambio di forma repentino ed ecco che il nostro protagonista sente di esistere sotto una nuova veste, sente di potersi muovere molto più velocemente, restando con tutti i sensi alterati. La luna splende alta nel cielo stellato, mentre la brezza si fa gelida ed ecco un richiamo selvaggio, un ululato e la paura negli occhi di chi si rende conto di essere prossimo alla fine poiché, alle spalle, uno strano essere è pronto a divorare la carne umana con le sue temibili fauci. La cosa insolita è che, in questo caso, il protagonista è felice di poter vivere questa esperienza selvaggia e di trasformarsi in questa primitiva creatura, e allora esorta l'ascoltatore a cercare in lupo in se stesso, sperando di poter così comprendere e afferrare il significato di questa ambivalenza, mezzo umana e mezza animalesca. La traccia è sfacciata, crudele e spietata, Hetfield incita la folla e introduce con cattiveria un pezzo che colpisce duro sull'acceleratore, picchiando dietro le pelli e masturbando le corde delle chitarre, anche se, ad essere sinceri, anche qui la ferocia dell'originale viene a mancare a causa della morbidezza degli archi che decorano e depotenziano la canzone. Un riff introduttivo prepara la strada verso la strofa, dove le chitarre di Hetfield e di Hammett caricano abbastanza e dove Lars, dietro le pelli, risulta molto più deciso. Il ritornello, aperto e molto intrigante, è quella esplosione liberatoria che probabilmente prova, in effetti, un lupo mannaro intento a correre in cerca di una preda innocente e innocua, e il pubblico sembra apprezzare, tanto che si alzano cori entusiastici in tutto il teatro. Le strofe sono selvagge e non tardano a ripresentarsi dopo il refrain, dopodiché è quasi come se un ruggito in sottofondo ci facesse trasalire, presentandosi all'improvviso alle nostre spalle, ed ecco che James Hetfiel ulula e gorgheggia di continuo per caricare la platea, specie nel break centrale. Dopo il solo, la tensione resta lì assieme a un sapore di sangue che via via inizia a divenire sempre più familiare: ululati in lontananza, ringhi, la voce di Hetfield che quasi ci sfida a evocare il lupo dentro di noi decantando il ritornello finale, dove la situazione torna a essere normale per poi spegnersi fra gli applausi della folla e gli ululati del frontman. 

The Thing That Should Not Be

"The Thing That Should Not Be (La Cosa Che Non Dovrebbe Essere)" è un'altra canzone ispirata a un racconto di H. P. Lovecraft; parliamo de "La maschera di Innsmouth", uscito nel 1936, pochi mesi prima della morte dell'autore. Il protagonista della vicenda si trova nella cittadina portuale di Innsmouth e qui scopre come gli anziani del posto hanno stretto un patto con delle creature infernali. Quando queste mostruosità provano a catturarlo, il giovane capisce che sono gli abitanti stessi ad essere frutto di un abominevole incrocio tra esseri umani e creature marine. Alla fine, il protagonista scopre di essere egli stesso un discendente di quella stirpe e, guardandosi allo specchio, riconosce sul suo volto la stessa espressione tipica di quei mostri, la "maschera di Innsmouth", appunto. Le liriche sono contornate dal mistero e dal terrore che evoca la strana città di Innsmouth, anche se mai direttamente pronunciata. Molte linee del testo sono riferimenti al mondo di Cthulhu, poiché il dio creato dallo scrittore è collegato a queste strane creature provenienti dagli abissi dell'oceano: Cthulhu è infatti il loro signore, il loro padre, al quale gli abitanti della cittadina recano doni per invocarlo. Le righe del testo che citano il titolo ("Drain you of your sanity/face The Thing That Should Not Be") fanno riferimento ad un altro mito dello scrittore americano: nel suo universo la Fonte di Ogni Cosa è Azathoth, un dio cieco e piuttosto stolto. Gli umani che s'avvicinano troppo a questa verità assoluta rischiano di diventare folli, in quanto la nostra mente non è capace di sopportare tali rivelazioni. La canzone di per sé è subdola, non sembra mai decollare, mantenendosi sorniona ma pur sempre minacciosa grazie agli archi in apertura. Dopo l'intro di natura classica, sentiamo gli accordi della chitarra acustica, e quando entra tutta l'orchestra, la musicalità assume degnamente i toni di una colonna sonora di un horror, rivisitata in chiave rock, ovviamente. La canzone è un mid-tempo dal ritmo deciso ed incalzante ma che mai preme sull'acceleratore. Tutta la composizione è caratterizzata da stop 'n' go che spezzano l'andamento, mentre i break acustici che ogni tanto fuoriescono dalla mischia e che caratterizzano i versi, servono a farci prendere fiato, tenendo il pubblico in tensione. Le parti elettriche, invece, infiammano il cupo mood di questa song, dove il ritornello è poco melodico, decisamente martellante grazie all'insistenza di Ulrich. Prima e seconda strofa costituiscono, assieme ai rispettivi chorus, la prima parte della canzone, spezzata a metà da un bellissimo assolo di Hammett, per poi avviarsi alla fine, dominata anch'essa dall'orchestra che esegue una parte senza l'intromissione degli strumenti elettrici per poi terminare tra le urla di un pubblico, a dire la verità, poco aggressivo e piuttosto composto.

Fuel

E' il momento di "Fuel (Benzina)", uno dei brani più famosi dei Metallica, apprezzato più che altro dalla seconda generazione di fans, quella più giovane. Un pezzo che, di contro, ha fatto storcere decisamente il naso ai vecchi seguaci, per il suo suonare incredibilmente e ruffianamente moderno. Per quanto mi riguarda, l'ho sempre trovata un canzone mediocre, eppure ammetto senza problemi il fatto che si tratta sicuramente di un pezzo il quale ha avuto il pregio di sdoganare il genere e di far scoprire, a molti giovanissimi dei '90, il mondo dell'Heavy Metal; grazie a quella sua impronta scanzonata e sempliciotta studiata per le classifiche, paradossalmente. "Fuel" è il terzo singolo estratto dal deludente "Re-load" e sin dalla sua uscita è stata associata alla velocità ed al mondo delle corse spericolate, tanto da essere usato spesso come colonna sonora di eventi sportivi legati al mondo dei motori. James Hetfield è più carico che mai, pronto a scandire con voce quasi gracchiante la primissima strofa del pezzo esaltando il pubblico presente. Le asce di James e Kirk possono iniziare a rombare alla grande, scandendo un riff introduttivo dal grande e notevole tiro. Gli strumenti sono sempre impostati su tonalità a metà fra Hard Rock e heavy Metal moderno, attualizzato anche dal modo di cantare del singer, tra un Hu! e l'altro, marchio di fabbrica della band e diventato un vezzo di molte band moderne di fine anni 90. Lars Ulrich si imposta su registri molto essenziali, percuotendo, con tutti i limiti, il suo strumento come un forsennato e portando bene il tempo, coadiuvato dalla direzione dell'orchestra che sembra un po' spaesata ed è poco coinvolgente, quasi fosse soffocata dal piglio moderno del pezzo. Il drumming è abbastanza ridotto ma tanto basta a supportare l'ottimo lavoro delle asce, mentre il basso è a suo modo protagonista. A destare interesse, invece, sono le linee vocali di James Hetfield, autore di una buona interpretazione. La struttura del brano non è originale anzi, fa della semplicità il suo punto di forza (e il suo successo commerciale) e si ripete in maniera lineare fra chitarre ora più sporche e paludose ora tendenti a suoni maggiormente puliti, in un gioco di alternanze con i violini e i tamburi. Kirk Hammett si lancia in un assolo essenziale e non desta il torpore creato, restando a metà tra blues e hard Rock. Di lì a poco la conclusione si palesa, portandosi via quattro minuti e mezzo di divertimento e di frenesia stemperati dalla nuova veste. Come già accennato in apertura di descrizione, il testo di "Fuel" è fortemente connesso all'ebbrezza che solo la velocità folle sa donare. Il protagonista del testo sembra infatti immerso in un contesto dove è proprio la velocità a dominare. "Dammi il carburante, dammi il fuoco, dammi tutto ciò che desidero!!", recita un testo capace di fomentare gli animi dei più giovani ma non solo. Il protagonista del testo è pronto a sfidare sia la Vita che la Morte partendo veloce come un razzo. Non gli importa di schiantarsi, non gli importa di morire: egli vive per la velocità, è la sua droga, tutto quel che vuole è provare sulla sua pelle l'ebbrezza che solo una corsa spericolata sa donargli. Non esistono freni, la sicurezza è per i perdenti, ed egli vuole solo fare in modo di incendiare il sangue che gli scorre nelle vene, aumentando in corpo l'adrenalina che lo manda su di giri e che lo fa sudare per l'eccitazione. 

The Memory Remains

"The Memory Remains (Il ricordo sopravvive)" è un brano che ha molti richiami classici, a cominciare dal suo riff portante che ricorda i Black Sabbath del periodo "Sabbath Bloody Sabbath", anche se in questo caso ci troviamo su lidi del tutto differenti da quelle vene progressive e oscure sfoggiate in quel particolare caso dalla band di Tony Iommi. I Metallica riprendono in maniera evidente la lezione dei loro maestri, rendendo il tutto ben amalgamato a quella che è la loro proposta musicale, ovvero un Hard 'n' Heavy a tinte moderne, ma anche venato di Blues e, per l'occasione, dotato di una forma orchestrale che decora. L'incedere del brano è in qualche modo malinconico e a tratti ipnotico, come se quest'ultimo dovesse avere il compito di placare gli animi accesi da "Fuel". In questo caso la velocità è messa in secondo piano in favore di un'andatura più cadenzata dove Hetfield la fa da padrone assieme all'orchestra sinfonica, lasciando gli strumenti quasi in secondo piano. Jason Newsted è sfruttato al minimo e Ulrich è come al solito un gran lavoratore ma non certo un genio della tecnica e della varietà. L'andamento procede come un lento magma che avvolge il teatro e la cui marcia sembra inarrestabile, fino a raggiungere il assolo di Kirk Hammett il quale, nel poco tempo che ha a disposizione, si dimostra finalmente ispirato ed abile a giocare con queste tetre melodie che strizzano l'occhio a sonorità grunge. Il ritornello viene intonato dal pubblico, che ne potenzia i cori aiutando Hetfield che, in questo caso, sembra voler premere un po' di più sull'acceleratore, inasprendo il suo approccio al brano. Hammett è bravo ad appoggiarlo nei riff e a spingere insieme al basso di Newsted e la batteria di Ulrich. Tutto sommato, una buona prova per i Metallica, che si trascinano in un live non troppo esaltante e che ha poco senso di esistere (secondo il mio punto di vista, ovvio). Dal punto di vista lirico, il brano affronta una tematica sempre attuale: Parliamo della fugacità della fama, una divinità che molti rincorrono e corteggiano ma che è viziata e capricciosa, decisamente infedele e restia a rimanere per sempre accanto ai suoi numerosi amanti. Come si è incondizionatamente donata è infatti pronta a sparire per sempre, lasciando ai malcapitati solo una scia di bei ricordi, sepolti sotto dita di polvere. In questo caso, si parla di una stella del cinema ormai caduta in disgrazia, che si ritrova a fare i conti con sé stessa dopo una lenta e costante caduta in un oblio totale. Un po' come in "Viale Del Tramonto" di Billy Wilder, probabilmente il noir più bello della storia del cinema, dove un ex stella del cinema muto è distrutta dalla sua decadenza fisica, ossessionata dal suo passato favoloso e ignorata da quello stesso mondo che, da ragazza, le ha donato popolarità e ricchezza ma che adesso la sta conducendo alla follia. Parlavamo di "attualità" proprio perché il problema delle Star cadute in disgrazia è molto più attuale di quanto non sembri. Pensiamo alla società del consumo nella quale viviamo, quella società che risponde a una sola legge, ovvero lo sfruttamento del prodotto, che sia un oggetto o un essere umano non cambia nulla. Quanti "idoli" preconfezionati vengono immessi sul mercato? Per quanto tempo vengono spolpati? Quanto ci mettono a tornare nell'ombra dell'anonimato? Solo un lungo e costante impegno garantisce l'immortalità artistica e il rispetto del popolo, il compromesso non è mai sinonimo di buona riuscita nel fare carriera. 

No Leaf Clover

"No Leaf Clover (Nessun Trifoglio)" uno dei due inediti, introdotto dalle viole che danno una sensazione paradisiaca e che preparano la strada a un brano morbido costruito su interessanti strofe dal retrogusto malinconico e dall'aria distesa. Probabilmente si tratta di uno dei migliori pezzi di questo live-album, adatto per la resa sinfonica che ne esalta le linee melodiche, sostenute dagli archi sempre in primo piano, soprattutto nel bellissimo ritornello che si memorizza all'istante e che sembra far parte della colonna sonora di un vecchio film Disney. La sezione ritmica, in questo caso, è ben impostata, le chitarre ruggiscono nei frangenti più carichi, potenziando i suoni dell'orchestra e la batteria di Ulrich sostiene con intelligenza i tamburi diretti dal maestro Kamen creando un suono particolare, delicato e allo stesso tempo energico. A differenza degli altri brani, qui l'orchestra sinfonica di San Francisco funziona bene, non stempera la potenza del mid-tempo ma anzi la supporta a dovere e senza essere invadente. Hetfield, inoltre, offre la sua migliore prestazione vocale, riuscendo ad enfatizzare il bel ritornello, decorato con corni e contrabbasso, ma non solo, poiché inventa riffs a volontà, facendo un collage (almeno così si dice) di ritmi studiati negli anni e ricostruiti e messi insieme per l'occasione. E' ovvio che le bordate thrash sono da dimenticare e questo, essendo un brano recente, ricalca lo stile hard rock tipico dei Metallica anni 90, sulla scia di album quali "Load" e "ReLoad", eppure "No Leaf Clover" risulta essere un pezzo vincente e di impatto, non a caso il pubblico è in delirio al termine e si concede un lungo e fragoroso applauso. Le liriche, pur essendo molto brevi e ripetitive, in realtà conservano un messaggio profondo e nobile; Leaf Clover, che significa trifoglio, sarebbe un gioco di parole con il quadrifoglio, che secondo la tradizione anglosassone porterebbe fortuna, così il titolo della canzone potrebbe anche essere tradotto in "Nessun problema" o "Nessuna sfortuna" e infatti questa sensazione spensierata traspare in un testo disteso incentrato sulla risoluzione dei problemi della vita, visti come un treno merci che tutto travolge e che non si ferma mai. Nonostante tutto, c'è sempre una via d'uscita dal tunnel, involucro misterioso della nostra esistenza, basta soltanto vivere in modo leggero, prendere alla leggera i piccoli problemi, superarli con passo tranquillo ed essere ottimismi, e alla fine la luce si paleserà davanti ai nostri occhi, e noi riusciremo ad uscire da questo tetro e lungo tunnel ed evitare questo benedetto treno merci. Basta solo volerlo, basta solo agire con calma e pensare positivo. 

Hero of The Day

"Hero of The Day (Eroe Del Giorno)" è una semi-ballad e fa dell'orecchiabilità il suo punto di forza, con un Lars Ulrich che picchetta in maniera precisa e le chitarre acustiche in sottofondo, unite agli archi, che rimandano a contesti blues. Ad accoglierci sono i sussurri di Hetfield, contornati dai cori del pubblico, che sta per rivelare la sua anima più intima, delicata e melodica. La struttura del pezzo è semplice, la chitarra di Hammett ricama il solito arpeggio, docile come non mai e abbastanza ripetitivo. I musicisti fanno il loro dovere eseguendo molto bene le varie parti e ci sono fasi in cui il pre-chorus comporta diverse impennate evocando momenti più muscolosi, ma lo strapotere della melodia è evidente e il tutto sembra studiato per il fine di emozionare l'ascoltatore e condurlo al pianto. Il momento è catartico, raramente abbiamo visto la band esibirsi in certi territori così morbidi, inoltre l'accompagnamento dell'orchestra crea un'atmosfera pop non indifferente, quasi da colonna sonora per un teen movie altamente lacrimevole. Improvvisamente, si cambia registro e si torna a pestare (mai con effettiva violenza), facendo tirare un sospiro di sollievo in platea, per poi riprendere il melodicissimo ma decente refrain che anticipa l'assolo sacrificato di Hammett e sostituito dagli archi. Le ritmiche da celebrazione dell'innocenza riprendono, si ha nuovamente l'incursione estrema già udita con l'avvicendarsi della fine e il brano si velocizza ancora grazie a riffs cupi e martellanti e a una batteria ossessiva, con la voce di James che assume toni più gravi, pur restando morbida. Brano apprezzabile ma che, sinceramente, non riesce a far decollare un lavoro sbiadito. Il testo, proprio come la canzone, sembra quasi non avere molto senso e parla più che altro per contrapposizioni, sviluppando varie tematiche messe in mostra da fans e critica. In molti vedono un'enorme metafora atta a condannare il potere dei media. L'eroe del giorno è un personaggio che si è particolarmente distinto per un'azione considerata eroica e proprio per questo da premiare con un pubblico encomio. Tutti, almeno in quell'istante, lo considerano una grande persona ed un esempio da imitare, salvo tuttavia scordarsene quando i loro cuori e le loro attenzioni saranno indirizzate verso un nuovo eroe per caso. Così, i vecchi eroi cadranno nel più totale dimenticatoio; tutto questo per condannare un sistema che non premia realmente le buone intenzioni ma anzi, cerca solamente un titolo da prima pagina per vendere qualche copia in più, spingendo la gente ad essere buona non per una questione morale ma anzi per puro tornaconto personale, per brama di celebrità. Ma c'è anche una seconda interpretazione del testo, ossia quello dell'omaggio ai soldati mandati a combattere in terre lontane e a morire o a impazzire per il proprio paese. Il testo, per molti, è difatti un'allegoria sul ritorno a casa di un militare che, provato nell'anima dagli orrori visti e subiti, non riesce più a comportarsi normalmente o ad essere se stesso. La quotidianità nella quale possiamo trovare l'unica vera pace ma che in queste circostanze è inquinata da chissà quali orrori. 

Devil's Dance

"Devil's Dance (La danza del Demonio)" ha un'introduzione che fa venire i brividi di paura, perché sembra di ascoltare un pezzo rap in rotazione su Mtv, aperto da un Jason Newsted poco presente in questo live e che finalmente ha modo di mettersi in luce scandendo una linea di basso assai accattivante. L'essenzialità del pezzo è sottolineata dalla staticità del drumming, ma anche dalle chitarre anonime di James Hetfield e Kirk Hammett, messe in ombra dall'orchestra ma anche dal basso pulsante del compagno di squadra. La prova vocale di Hetfield è discreta, sorretta bene dalle linee melodiche espresse dagli strumenti classici diretti da Kamon. Un pezzo che dà quasi l'idea di essere una marcia, perfetto nella sua impalcatura smaccatamente Hard Rock dal sapore moderno. Un brano che resta sempre sul proprio binario, non carica e non mostra una forma diversa, non si trasforma e rimane volutamente misterioso e monotono, salvo poi presentarci un break centrale interessante, dove troviamo due soli incrociati e l'impennata dei violini che destano dal torpore. Le chitarre, partite sparate, vanno a scemare poco a poco col passare dei secondi, acquisendo uno strano magnetismo, quasi confusionario e sonnolento che entra in testa subdolamente per poi rimanerci, stordendo l'ascoltatore con riferimenti alternative metal e grunge che, tutto sommato, funzionano. I cori, non solo della platea ma anche dell'orchestra, restano in sottofondo, sono quasi spettrali, e aiutano molto l'interpretazione del vocalist. Le liriche sembrano riprendere la metafora biblica del Serpente Diavolo. Qui troviamo il rettile costituito da caratteristiche a dir poco demoniache, parlante e con fare tentatore. La sua preda è sicuramente scettica ed anche un po' intimorita da tutto questo, ma l'essere strisciante sa come metterla a suo agio. Con fare affascinante, la serpe cerca di conquistarsi un nuovo adepto, la cui carne è debole e il cui senso di curiosità non può essere soppresso facilmente. Il Serpente agisce proprio su questo, cercando di far breccia nella nostra intimità, promettendo di liberarci da determinate catene. E se dapprima siamo restii, il Serpente non demorde. Sa che prima o poi torneremo da lui e lo supplicheremo di unirci alla sua danza affinché potremo liberare i nostri istinti più remoti. "Bleeding Me (Fammi Sanguinare)" va a chiudere il primo disco di questo concerto.

Bleeding Me

"Bleeding Me (Fammi Sanguinare)va a chiudere il primo disco di questo concerto. Una chitarra molto effettata ma pur sempre in sordina, tesse la tela di quello che si presenta come un nuovo pezzo melodico anche se dalla natura oscura. James Hetfield riesce nell'intento di donare alla sua voce un tono malinconico ma molto deciso a questa ballata, facendo in modo che la sua ugola svetti oltre l'orchestra, sempre sommessa e mai invasiva, dimostrandosi drammatico ed espressivo e riuscendo ad arricchire enormemente un contesto che, a parte qualche improvvisata di Hammett in fase solista, sembra puntare molto sulla ripetitività e sull'ossessività. Il ritornello ha un retrogusto moderno, molto grunge, tipico degli anni 90 e scalda non poco la folla, dove i celeberrimi yeah! di Hetfield insorgono di prepotenza e incendiamo gli animi. Rimangono i riferimenti blues nelle chitarre, che ogni tanto tentano la fuga ma che vengono sempre riprese da un'orchestra intenta a rievocare una polverosa ninna-nanna che coinvolge i sensi senza stordire o annoiare pur non accelerando mai. Ulrich svolge il suo lavoro facendo vibrare i suoi tamburi, mentre Newsted è prezioso in fase di impostazione, specie nel finale, quando un lisergico riff Hard 'n' Heavy emerge nel caos trasformando il pezzo. Il clima muta improvvisamente ed è più malvagio, la base diventa molto più estrema, con le asce intente a donare un riffing corposo e polveroso che rievoca paesaggi desertici. I giri di tamburi si fanno sempre più presenti e si giunge alla fine con un riff prepotente ma che viene smorzato quasi subito perché sottomesso alla soffice melodia. Altro testo di difficile comprensione e che dovrebbe parlare di una persona afflitta da problemi mentali. Un altro male subdolo che risiede nei nostri meandri e che è pronto a crescere progressivamente. Il protagonista del testo è corroso dall'interno, il tema del sanguinamento è sviluppato in maniera quasi ossessiva ricercando una forte capacità evocativa, quasi i Metallica volessero, con questo espediente, mescolare il rosso liquido alla sabbia (o alla polvere) che aleggia attorno alla musica. Il protagonista si identifica come una bestia sanguinante, che non riesce a smettere di perdere energie proprio perché le sue ferite sono troppo profonde per essere curate e ricucite. Proverà a salvare la sua anima ma è tutto inutile, la sua morte avverrà poco a poco, mano a mano che la sua ossessione prenderà piede e lo condurrà definitivamente oltre il punto di non ritorno. La canzone è autobiografica, parla proprio dell'esigenza, da parte del vocalist, di ripulirsi dall'alcool dopo un periodo nero che lo ha costretto per ben un anno all'interno di una clinica. Da questa prospettiva possiamo notare come il sangue sia un elemento positivo, in quanto, uscendo dalle vene del protagonista, lo purifica e cerca in qualche modo di portarlo verso una nuova vita più salutare.

Nothing Else Matters

E veniamo dunque alla seconda parte di questo "S&M Concert", che si apre con uno dei pezzi più amati dai fans di seconda generazione, la struggente ballata "Nothing Else Matters (Non Importa Nient'Altro)", tratta dal controverso album omonimo datato 1991, meglio conosciuto come il "Black Album"; un brano che ha permesso ai Metallica di farsi conoscere anche al di fuori dell'ambito metal. Per quasi trenta secondi siamo sommersi dagli applausi e dalle grida con le quali il pubblico del Berkeley Community Theatre ha accolto questa prima parte dell'album e si appresta a ricevere calorosamente l'ingresso sul palco del direttore d'orchestra Michael Kamen, che ha il compito di coordinare la San Francisco Symphony e Kirk Hammett, il quale attacca uno degli arpeggi più famosi e strimpellati della storia del metal. Le trame dei violini si intrecciano magicamente con il malinconico arpeggio in Mi minore, ricreando un'atmosfera da brividi. Delicati tocchi sull'arpa donano un alone di magia, poi dopo alcune battute, entra in scena James Hetfield, seduto su un panchetto con la chitarra acustica a tracolla. Il pubblico canta delicatamente le prime strofe, accompagnando il biondo Cantante Di Downey. Un emozionante crescendo degli archi annuncia uno dei ritornelli più cantati della discografia del combo californiano, interpretato in maniera struggente da Hetfield, e rafforzato dai cori di Jason Newsted. Nella strofa successiva entra in scena un insolitamente delicato Lars Ulrich. Le profonde pennate del basso, all'unisono con i secchi colpi della gran cassa, dettano il ritmo. Nuovo crescendo degli archi e ritorna l'inciso, reso ancora più emozionante dalle trame dei violini ed i sospiri dei flauti, rispetto alla versione in studio. E' il turno dell'assolo acustico, semplice quanto bello, le melanconiche note di Hetfield vengono enfatizzate dagli archi e dagli strumenti a fiato, diretti magistralmente dal riccioluto e compianto musicista statunitense. Brividi. Di nuovo la strofa, seguita dal ritornello, reso più energico dal drumming di Ulrich e dagli accordi di pianoforte, poi è il turno del secondo assolo di chitarra, annunciato da un crescendo di Ulrich e da un grintoso "Yeah" di Hetfield, che stavolta preme il pedale del distorsore, e ci inonda di emozioni, sovrastando per una volta l'egregio lavoro dell'Orchestra di San Francisco. L'assolo sfuma lentamente, lasciando il campo ad un oscuro pad, dal quale riemerge il melanconico arpeggio iniziale, che insieme alle struggenti lamenti dei violini, ci accompagna verso il finale, seguito inevitabilmente da un fragoroso e meritatissimo applauso. Come era immaginabile, l'apporto dell'orchestra ha reso ancora più emozionante il brano, senza allontanarsi poi tanto dalla versione originale. Chapeau. La leggenda narra che Hetfield abbia scritto le liriche durante una lunga e passionale telefonato con la fidanzata, e proprio a causa delle liriche troppo personali, il brano stava per rimanere fuori dalla track list del "Black Album". Solo l'insistenza del Drummer Danese, fece sì che il brano fosse inserito, diventando poi l'intramontabile "pezzone" che è tutt'oggi. Il nostro è letteralmente catturato dalla storia amorosa, che sta attraversando il culmine. Lui trova la fiducia e tutte le risposte nell'amore di lui, loro vivono a pieno la loro vita, e non importa di cosa fa o pensa la gente. Niente è più importante della loro vita. Loro sono il nucleo, il resto del mondo è un banale contorno che non deve assolutamente interferire con il loro modo di vivere e di pensare. Sono lontane le rasoiate di "Kill'Em All" e le liriche importanti di "Master Of Puppets", questa vena di romanticismo conferma quanto i 'Tallica degli anni novanta siano distanti da quelli del decennio precedente.

Until It Sleeps

Si scava ancora nel recente passato, e dall'album "Load" (1996), lontano anni luce dai taglienti riff dello splendido trittico iniziale, viene selezionato un altro singolo, "Until It Sleeps (Finché dorme)", dalla marea di applausi emerge l'avvolgente intro drum&bass, ricamato dai tristi lamenti degli archi. James Hetfield, sposa in pieno la melanconica atmosfera e quasi timidamente ci colpisce con una linea vocale carica di tristezza. Dopo qualche battuta, entra in scena anche Kirk Hammett, con un ammaliante arpeggio, confezionando un sound che strizza l'occhio al gothic rock finlandese e al grunge meno estremo. Nell'inciso, le due chitarre sono sporcate dal distorsore, gli accordi saturi spingono il Biondo di Downey ad inserire una discreta dose di verve nella linea vocale, che spazza via tutta la tristezza della strofa, come se il nostro riversasse tutta la sua rabbia nelle note dell'inciso, rabbia dovuta alla perdita della madre, in seguito ad un esecrato cancro. Il maledetto male è come un demone dormiente, sfrutta fino all'ultimo il suo ospite, è come un animale randagio, una volta che lo nutri, lui rimane. Lui dorme a lungo, fino a che un giorno decide di svegliarsi ed esplode, sopraffacendo quell'ospite che ignaro lo ha nutrito per lungo tempo, portandolo lentamente verso un inesorabile fine che culmina con la dipartita, lontano dall'affetto dei propri cari, lasciando un vuoto incolmabile ed un profondo alone di dolore e tristezza che si impossessa di chi rimane. Quando una famiglia si trova di fronte ad un ostacoli insormontabile come quello di un cancro che consuma un proprio caro, si affida ovviamente a qualsiasi briciolo di speranza li venga prospettata. Facile a dirsi per un medico" se viene preso per tempo si può sconfiggere", facile ad accettare ogni tipo di cura, sia essa sperimentale o canonica. Ma il problema principale della famiglia Hetfield era che i genitori di James erano dei seguaci della Christians Scientists, un nuovo movimento religioso cristiano metafisico, fondato nel 1879 negli Stati Uniti d'America da Mary Baker Eddy (1821-1910), il quale vede come missione primaria  quella di ripristinare il cristianesimo primitivo ed il suo elemento perduto di guarigione, non credendo nella medicina e rifiutando qualsiasi tipo di cura, affidandosi solamente alla fede, fede che purtroppo non riuscì a strappare la madre di Hetfield dalle grinfie della Grande Mietitrice, riempiendo di rabbia e dolore l'animo del povero James. Ma ritorniamo al brano in questione, ritorna la melanconica strofa, seguita subito dal ritorno dell'inciso. Le sinfonie dell'orchestra riescono ad emergere dal potente wall of sound generato dagli strumenti a corda, che ci riporta la recente "Black Album". Di uguale cattiveria è lo special, con le trame delle chitarre che duellano con l'orchestra, sotto i colpi inferti dalla granitica sezione ritmica. Breve limbo, dove viene quasi sospirato il titolo del, brano, e poi ritornano in rapida successione strofa, inciso e special. E' il turno dell'assolo di chitarra, sporco, acido. Con grinta Hetfield ci riporta verso l'inciso, con le fiammate degli archi che lottano a fondo con il potente muro eretto dalla chitarre distorte. Si conclude con la melanconica strofa, che lentamente sfuma verso il finale. Il brano, nonostante una struttura abbastanza banale, riesce a sfruttare al meglio la melodia della strofa e la potenza dell'inciso, riuscendo a lasciare il segno, specie in sede live.

For Whom the Bell Tolls

Finalmente i nostri vanno a pescare in quello che per chi scrive è l'album preferito dei Four Horsemen, il capolavoro "Ride The Lightning" datato 1984, e tirano fuori uno dei brani più amati dal popolo metallico, l'intramontabile "For Whom the Bell Tolls (Per Chi Suona La Campana)". Dal maestoso impatto sonoro generato dalle chitarre e dagli uomini di Michael Kamen, emerge Jason Newsted, che con il basso sporcato dal distorsore e dallo wah wah, rievoca i fasti del compianto Cliff Burton, che in sede live era solito fare una lunga introduzione cromatica con le quattro corde. Le sinfonie dell'orchestra donano epicità, mentre le mitragliate con la doppia cassa sparate da Ulrich ci arrivano allo stomaco. Successivamente, vengono messi in evidenza basso e archi, poi veniamo attaccati da un micidiale unisono fra gli strumenti a corda e l'orchestra. Un accordo distorto aperto annuncia il ridondante tema sparato da Kirk Hammett, ricamato dai violini e dai fiati. Dopo una raffica di accordi all'unisono arriva la strofa. Le chitarre aprono la strada ad Hetfield con potenti accordi distorti. Lars Ulrich alza l'asticella dei BPM rispetto alla versione in studio. Dopo un paio di strofe, intervallate da un bel filler di batteria, arriva l'inciso, scandito brillantemente dalla sezione ritmica, e cantato a squarcia gola da tutta la platea. Breve interludio strumentale, con Kirk Hammett che si mette a duellare con l'orchestra e ritorna la strofa. Una oscura pausa, dove riecheggia la tagliente voce di James Hetfield che sfrutta un suggestivo gioco d'eco, infiammando il pubblico, poi si riaperte con la strofa, seguita dal potente inciso, ancora una volta cantato dal pubblico. Purtroppo siamo arrivati al gran finale, con l'orchestra che emerge dal cadenzato riff che lentamente lascia il campo ai musicisti diretti da Michael Kamen, che forte del suo passato, chiude in maniera cinematografica, letteralmente sommerso dagli applausi. Le liriche prendono spunto dal romanzo "Per Chi Suona La Campana" di Ernest Hemingway, nel quale cinque soldati repubblicani della Guerra civile spagnola cercano di sfuggire dai fascisti con i loro cavalli e sono poi uccisi da un aereo nemico su una collina. Il romanzo deve aver catturato in maniera particolare l'attenzione dei Four Horsemen, che hanno deciso di tributarlo con uno dei loro brani migliori. A sua volta, il titolo del romanzo è preso da un famoso sermone di John Donne; in relazione al concetto secondo il quale nessun uomo è un'"isola", cioè può considerarsi indipendente dal resto dell'umanità, egli disse: "...And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee. (E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te.)" Da sottolineare che, nella lingua inglese, il verbo "to toll" indica proprio il suonare a lutto, per una morte o più. E stavolta la campana suona proprio per i cinque eroi, che hanno difeso con tutte le forze e fino alla morte la loro collina, simbolo della loro terra e delle loro tradizioni. Che dire, brano che da sempre è stato fra i miei preferiti e fra quelli più acclamati dal pubblico in sede live, reso speciale dalle sinfonie dell'orchestra.

- Human

Dopo questo emozionante tuffo nel passato, i nostri ci presentano il secondo dei due brani inediti, intitolato "- Human (Meno Che Uomo)", aperto da una pomposa introduzione orchestrale Hollywoodiana, accompagnata calorosamente dal pubblico. Dopo una fiammata dei violini, siamo investiti dal potente impatto sonoro generato dagli strumenti a corda, che ci attaccano all'unisono con un cadenzato riff di Sabbatthiane memorie, ricamato dai sospiri degli strumenti a fiato e dai lamenti degli archi. Dopo qualche battuta strumentale, entra in scena James Hatfield, con una linea vocale sporca e grintosa, con l'orchestra che ricama sul finire il grintoso cantato del biondo thrasher californiano. L'inciso non è di quelli che lascia il segno, poche parole ed un paio di accordi saturi ed un gran lavoro della sezione ritmica. Breve stacco strumentale con l'orchestra in evidenza, e ritorna la strofa, poi Michael Kamen dirige il traffico delle note in direzione dell'inciso. E' il turno dell'assolo di chitarra, le lisergiche sonorità sparate da Hammett corrodono i nostri apparati uditivi, e di certo non rimarranno nelle nostre menti come le migliori trame soliste del riccioluto Chitarrista di San Francisco. I nostri chiudono con l'inciso, che si ferma improvvisamente di botto, ricevendo una discreta dose di appalusi. Le liriche sono in perfetta linea con la scarna struttura del brano, che sembra essere messo lì per far ciccia, o per attirare l'attenzione dei fans, che di fronte a brani inediti dei loro idoli sono sempre propensi all'acquisto di un prodotto. Poche righe, quasi impenetrabili, Hetfield si rivolge a Padre Tempo, ovvero la personificazione del tempo. È solitamente rappresentato come un anziano dalla barba lunga, vestito con una toga, con in mano una falce e una clessidra o altri oggetti relativi al tempo. Questa iconografia deriva da molte fonti più antiche, ad esempio la personificazione della Morte e Crono, il dio greco del tempo. Talvolta viene indicato come lo sposo di Madre Natura. All'atavica divinità, viene chiesto di spremere il mondo, in modo da ottenere qualche goccia di umanità, un valore che con il passare del tempo si sta affievolendo in maniera preoccupante, trasformando gli essere umani in belve assetate di potere ed invase dall' odio. Va bene che si tratta di un inedito, ma devo dire che i nostri si sono sforzati veramente poco, mettendo in sequenza una manciata di accordi, lasciando all'orchestra il compito di rendere il brano meno banale, personalmente avrei preferito la versione orchestrale di un brano tratto dal primo tagliente disco d'esordio del combo californiano, solo per soddisfare la mia curiosità.

Wherever I May Roam

I nostri tornano a pescare dal "Black Album" e ci propongono uno dei migliori brani del platter datato 1991, "Wherever I May Roam (Ovunque Io Possa Vagare)". Le sinistre trame dei violini anticipano l'ingresso delle inconfondibile trame dell'intro dal sapore orientale. Le chitarre all'unisono riprendono la melodia lanciata da Hammett, stavolta rinvigorita dai distorsori, ricamate dai fiati ed accompagnate dai possenti colpi della sezione ritmica. Con un pomposo climax, Michael Kamen apre la porta alla strofa, dove calano vistosamente i BPM. Ulrich ruba la scena con una ritmica doom dai sentori tribali, percuotendo con violenza timpano e rullante. Gli accordi distorti aperti mettono in evidenza i lamenti dei violini, Hetfield entra in scena con una linea vocale inquietante che sembra recitata da un atavico demone appena sceso sulla terra. Dopo poche battute, il Biondo Cantante Californiano sembra essere stato esorcizzato e ritorna al suo inconfondibile timbro naturale, cantando brillantemente le doommeggianti strofe. Ulrich spinge il piede sull'acceleratore, arriva l'orientaleggiante unisono dell'introduzione, che anticipa il grintoso bridge, con i taglienti riff di chitarra che duellano con le fiammate sparate dall'orchestra. Nel breve inciso rallentano nuovamente i BPM, i due accordi di chitarra mettono in luce l'accattivante linea vocale, invigorita da Jason Newsted ai cori e ricamata in maniera vistosa dall'esercito guidato dal Comandante Kamen. Altra fugace apparizione del riff portante e ritorna la strofa, nelle prime battute recitata nuovamente in versione demoniaca, per poi ritornale a quella umana, con un grande lavoro della sezione ritmica e dell'armata di violini. Il songwriting tipico dei brani del "Black Album" non brillava certo di trovate geniali e strutture articolate, e canonicamente ritornano bridge ed inciso. Arriva l'assolo di chitarra, il virtuoso tapping di Kirk Hammett viene oscurato dalle invadenti fiammate dei fiati e dei violini, poi ritorna il grintoso bridge, seguito dal breve inciso, che lascia nuovamente il campo ad un secondo assolo di chitarra. Stavolta Hammett si prende la rivincita, e con una serie di plettrate alla velocità della luce fa lamentare la sei corde, riuscendo a vincere di misura la gara di ritorno con l'orchestra. I nostri chiudono con una versione speed dell'inciso, con la doppia cassa di Ulrich che fa fare gli straordinari agli elementi dell'orchestra, nel finale Hammett si accoda all'inciso con una lancinante trama di note che va a fondersi con le invadenti trame dell'orchestra, generando una caotica babele sonora che infiamma il pubblico del Berkeley Community Theatre. Le liriche narrano le gesta di un fantomatico uomo di strada, senza fissa dimora, che fa delle strade che percorre la propria casa. Nato sotto le stelle, senza legami familiare ed il becco di un quattrino, il nostro vaga per il mondo, infischiandosene di quello che dice e pensa la gente. Secondo lui loro sono gli schiavi, schiavi del sistema, del padrone, del lavoro, mentre lui è un anima libera, che vive alla giornata ma che non deve rendere conto a nessuno. Lui non teme nessuno, neanche la Grande Mietitrice, convinto che una volta lasciata la vita terrena, continuerà a vagare per altri mondi ed altre dimensioni, tanto da volerlo inciso come epitaffio sulla sua lapide. La presenza massiccia dell'orchestra, smorza la potenza della versione originale.

The Outlaw Torn

Si ritorna al controverso "Load", ma i 'Tallica ci sorprendono ed estrapolano uno dei cosiddetti brani "minori", la conclusiva "The Outlaw Torn (Il fuorilegge Distrutto)", il brano più lungo e meno easy listening dell'album numero sei del combo statunitense. Lars Ulrich percuote violentemente il "china", annunciando i taglienti riffe delle chitarre, seguiti dopo qualche battuta all'unisono dall'orchestra, che successivamente dona un tocco di epicità al potente wall of sound generato dagli strumenti a corda. Jason Newsted ipnotizza la platea con una avvolgente giro di basso che è la colonna portante della strofa. Il Cantastorie di Downey recita con passione le prime strofe, ricamato dalle solenni trame dell'orchestra. Un potente accordo distorto annuncia il breve bridge, che spalanca i cancelli al ritornello. Le trame evocative dei violini vanno ad intrecciarsi con i potenti accordi delle due chitarre, dando vita ad un epico wall of sound, dove Hetfield ulula il titolo del brano. Si ritorna nelle tetre atmosfere della strofa, con il basso a cinque corde di Jason Newsted che la fa da padrona, supportato dalla precisa e cadenzata ritmica di Lars Ulrich. Bridge e poi di nuovo l'epico ritornello, che emana leggeri sentori di Far West. Andando avanti troviamo un grintoso special, con le chitarre che emergono una volta tanto sull'orchestra, che si rifà immediatamente dopo in un piccolo interludio che la vede protagonista, accompagnata dall'avvolgente groove di basso. Successivamente è il turno di uno stralunato e stanco assolo di chitarra, enfatizzato dai lamenti dei violini. Le poche note melodiche che strizzano l'occhio a Gilmour si trasformano in una lisergica ragnatela di lancinanti lamenti, accentuati dallo wah wah, che con maestria si riallacciano al bridge, seguito dall'epico ritornello. Ritorna L'avvolgente giro di basso, che prima accompagna una fiammata dei violini, poi lisergici fraseggi di Kirk Hammett, che spaziano fra il blues e la musica psichedelica di inizi anni settanta, influenze che vengono prepotentemente a galla sul finale, dove Lars Ulrich alza notevolmente l'asticella di BPM, trascinandosi dietro le acide trame della chitarra ed un grande lavoro di tutta l'orchestra. Spesso Hetfield, quando stende le liriche, si identifica in misteriosi personaggi, ai quali conferisce i suoi trascorsi ed oscuri momenti di gioventù. Stavolta il protagonista è un misterioso fuorilegge distrutto dal tempo e dalla solitudine, che aspetta, consumato dall'attesa, il ritorno della sua amata, che forse si è allontanata a causa di una condotta di vita non proprio da boy scout. Per farsi trovare pronto, fruga a fondo nel suo animo, per ritrovare l'identità perduta, cercando di tornare ad essere schietto e sincero, in modo da essere salvato e riportato sulla retta via. Questa "The Outlaw Torn" è uno dei brani che ha beneficiato maggiormente dell'apporto delle sinfonie orchestrali, che vanno a coprire le lacune lasciate dall'assenza delle tastiere, che non avrebbero certo sfigurato nelle versione originale in studio, visto la lunga e complessa struttura del brano, che punta tutto sulle atmosfere. L'inciso è senza ombra di dubbio la parte di brano che viene impreziosita maggiormente da Michael Kamen, che conferisce un piacevole retrogusto epico, dirigendo magistralmente l'orchestra.

Sad But True

Con enorme dispiacere dei vecchi thrashers degli anni 80 (e anche di chi scrive NDR), si ritorna al "Black Album" con "Sad But True (Triste Ma Vero)", che nonostante il mid tempo incessante, è uno dei brani più oscuri e pesanti del discusso album datato 1991. Lars Ulrich da quattro energici colpi sul "china", e siamo subito investiti dal lento ed inesorabile impatto sonoro generato dalle due chitarre, seguite all'unisono dal basso e dall'orchestra. Due secondi di pausa, poi una rullata annuncia uno dei riff più amati dai fans di seconda generazione. Jason Newsted fa ruggire il basso, tenendo testa ai monolitici riff sparati dalle due chitarre. Il pubblico accompagna il potente drumming di Ulrich con vigorosi "eh", oscurando quasi le trame dell'orchestra, che stavolta non si sposano alla perfezione con il devastante impatto sonoro generato dai Four Horsemen. Dopo circa un minuto, in maniera energica entra Hetfield a cantare le prime strofe. Arriva subito l'inciso, perfettamente in linea con la grinta e la cattiveria della strofa, con un gran lavoro di Lars Ulrich dietro alla batteria Sul finale Michael Kamen si ritaglia un piccolo spazio, facendo da bridge al ritorno della strofa. Il potente riff è di quelli che istigano ad un lento headbanging, seguendo i cadenzati ma potenti colpi sincopati sulle pelli del Drummer Danese. Breve interludio strumentale, con l'orchestra in evidenza, con Hetfield che approfitta per fomentare il già caloroso pubblico, poi dopo un'ammaliante pausa che lascia tutti con il fiato sospeso, si riparte con il potente wall of sound che accompagna l'assolo di chitarra, fra i meno ispirati partoriti da Kirk Hammett. Dopo un duello a suon di note fra l'esercito guidato dal Capitano Kamen ed il Riccioluto Kirk, fa una fugace apparizione il ritornello, con inquietanti controcanti, seguito subito dalla seconda parte dell'assolo. Una fiammata dei violini annuncia il ritorno della strofa, seguita in maniera forse troppo scontata dal ritornello, con un Hetfield che grida a squarcia gola il titolo del brano, fino al gran finale. Le liriche mettono in risalto il profondo conflitto interiore che pervade certi esseri umani, quando sono di fronte a difficili decisioni da prendere. Una lotta contro il loro ego che li porta quasi a confondere il bene ed il male, la bugia e la verità, a mentire sapendo che stanno mentendo, cercando disperatamente un alibi o un capro espiatorio che riesca a tirarli fuori da una brutta situazione. Queste persone, che io considero senza mezzi termini meschine e prive di rispetto verso il prossimo, vivono in un mondo tutto loro, fatto di menzogne e bugie, che spesso perfino loro stentano a distinguere dalla realtà, come dice il titolo, triste ma vero. Questo è un brano che non mi ha mai esaltato più di tanto, nonostante sia diventato ben presto uno dei più acclamati in sede live. Il supporto dell'orchestra non è riuscito a farmi cambiare idea.

One

Di tutt'altro pianeta è invece la successiva "One (Uno)", l'unico brano in scaletta estrapolato da "...And Justice For All" (1988). Le raffiche delle mitraglie ed il ridondante rumore delle pale degli elicotteri infiammano il pubblico, che capisce subito di che brano si tratta. Fra gli spietati colpi di mitragliatrice ed i giochi di luce, si fa largo un'oscura trama di violini, di Hitchcockiane memorie, ricamata da magici tocchi sull'arpa. A seguire, irrompe James Hetfield con l'inconfondibile arpeggio, tanto semplice quanto bello, a cui vanno ad intersecarsi gli splendidi fraseggi di Mr. Hammett. Il connubio fra i 'Tallica e l'orchestra diretta magicamente da Michael Kamen con i tristi lamenti degli archi va a dipingere un solenne scenario che emana un pesante alone di tristezza, proiettandoci con la mente su un triste paesaggio devastato da un conflitto bellico. Le trame orchestrali sono da brividi, il pubblico impazzisce. Con grazia entra in scena anche la sezione ritmica, con i secchi colpi di gran cassa, seguiti dalle calde note del basso, a differenza della versione in studio, dove un mixaggio malandrino annientò (incomprensibilmente) quasi del tutto le fatiche del povero Jason Newsted. Dopo quasi due minuti e mezzo di memorabile introduzione strumentale da pelle d'oca, entra in scena James Hetfield, recitando le prime strofe con una dolcezza quasi innaturale per il suo stile. I lamenti dei violini aumentano l'alone di tristezza che si lascia dietro la solenne linea vocale del biondo Cantante di Downey, che esplode con grinta nel potente inciso, dove fra i caustici accordi delle chitarre distorte e le pompose sinfonie orchestrali, riesce ad emergere un rapido passaggio sull'arpa dal sapore sibillino. Breve interludio strumentale, dove le trame delle chitarre acustiche si intrecciano con quelle dell'orchestra e poi ritorna la strofa, con l'aggiunta di magici intarsi di arpa e pianoforte, seguita dal potente ritornello. E' il turno dell'assolo di chitarra, che riprende le melanconiche atmosfere della strofa. Le tristi melodie della sei corde vengono ricamate alla perfezione dagli archi, poi di colpo ritorna il grintoso inciso, seguito da un secondo assolo di chitarra, stavolta dal sapore epico e carico di rabbia. Lars Ulrich inizia a sparare una raffica micidiale con la doppia cassa, seguita all'unisono dagli strumenti a corda. Annunciato dai fiati ritorna Hetfield, che tira fuori tutta la rabbia tenuta a freno fino ad ora. Il Drummer Danese alza notevolmente l'asticella dei BPM, trascinandosi dietro tutta l'orchestra. La chitarra ritmica di James Hetfield spara delle vere e proprie rasoiate, mentre Hammett ipnotizza il pubblico con una serie di funambolici tapping. L'impatto sonoro è devastante, stavolta Michael Kamen fatica a fare emergere le sinfonie dell'orchestra. Ora le due chitarre iniziano a viaggiare all'unisono, Jason Newsted fa correre veloce il plettro sulle corde del basso, seguendo il ritmo forsennato del Batterista Danese, si respira una frizzante aria Maideniana. In chiusura il potente wall of sound viene ricamato da grintosi cori e da un gran lavoro da parte della San Francisco Symphony Orchestra, fino al brusco finale, che manda in visibilio il caloroso pubblico del Berkeley Community Theatre. Le melanconiche atmosfere del brano si sposano in pieno che le struggenti liriche, che illustrano l'oblio di un soldato ferito da una mina. La deflagrazione la ha reso un tronco umano, ma ha preso anche la sua lingua, il suo udito, la sua vista, ed anche la sua anima. Ora lui si trova in un letto, tenuto in vita da un macchinario, ad implorare il suo Dio, che risparmiandolo alla morte lo ha condannato a vivere le pene dell'Inferno sulla Terra. Spesso desidera di risvegliarsi da un incubo, ma si ritrova a sperare che la Grande Mietitrice torni indietro a prenderlo, come se lo avesse erroneamente dimenticato, lasciandolo in fin di vita, imprigionato in quel che resta del suo corpo, in preda al dolore, l'unica ricordo che l'esplosione gli ha lasciato. I Metallica acquistarono parte dei diritti del film "E Johnny Prese Il Fucile", scritto e diretto da Dalton Trumbo nel 1971, a cui sono ispirate le liriche, in modo da poter usare alcune delle crude immagini nel loro primo videoclip ufficiale, video che non fu visto proprio di buon occhio dallo zoccolo duro dei fans, i quali ricordavano che in passato il gruppo era sempre stato contrario a simili promozioni commerciali.

Enter Sandman

Ci vuole del tempo prima che il fragoroso pubblico cali l'intensità delle grida e degli applausi, ma i nostri gettano benzina sul fuoco, proponendo uno dei brani più amati dai fans di seconda generazione, pescando dal discusso omonimo album targato Bob Rock, quel brano che ha sancito definitivamente la rottura con il passato, "Enter Sandman (Entra Uomo della Sabbia)". James Hetfield attacca l'inconfondibile arpeggio, semplice quanto ammaliante, di quelli che ti entrano subito in testa come il più orecchiabile degli incisi. Le trame degli archi aumentano il pathos dell'introduzione, mentre armato di wah wah, Hammett fa ruggire la sei corde, esplodendo poi con il riff portante quando Lars Ulrich inizia massacrare le pelli dei tom e del timpano, aiutato dalle mani del pubblico che battono a tempo di musica. Le pastose note del basso rumoreggiano in sottofondo. Una volta terminato il climax, arriva la strofa, nonostante non sia di certo fra le più aggressive del repertorio metallico, l'impatto sonoro è notevole, Hetfield affronta con grinta le prime battute. Nel bridge i nostri rallentano i BPM, creando un limbo che tiene il pubblico con il fiato sospeso, pubblico che esplode nel successivo inciso, cantandolo a squarcia gola insieme ad un arrabbiatissimo Hetfield. Breve stacco strumentale che mette in evidenza le fiammate dell'orchestra ed un effimero fraseggio di chitarra e ritorna la strofa, seguita dal bridge orchestrale e dall'anthemico ritornello, ancora una volta cantato dal pubblico. Arriva l'assolo di chitarra, le caustiche note sparate da Hammett ipnotizzano il pubblico, il nostro abusa dello wah wah, concludendo in maniera funambolica un solo chiaramente studiato a tavolino nei minimi dettagli. Lars Ulrich torna a massacrare le pelli del drum set riproponendo la ritmica tribale dell'introduzione, le chitarre lasciano il campo all'orchestra e ad un inquietante dialogo fra un Hetfield in versione uomo nero ed una impaurita voce femminile. In crescendo ritorna la strofa, recitata in maniera infernale dal Biondo Cantante, che esplode nel successivo inciso, coinvolgendo nuovamente il pubblico. Al minuto 04:18, quando il brano sembra sfumare lentamente verso l'epilogo, Michael Kamen si ritaglia un piccolo spazio creando atmosfere horror che infiammano il pubblico, poi all'improvviso, come l'uomo nero, ricompare il tagliente riff di chitarra e i nostri ripartono con il potente impatto sonoro dell'introduzione. La potente cavalcata all'unisono accompagna una serie di hollywoodiane fiammate dell'orchestra, che lentamente ci portano verso il gran finale. James Hetfield ringrazia e saluta il pubblico, presentando l'orchestra e il direttore Michael Kamen, che ricevono un meritatissimo tributo. Le liriche sono incentrate sull'atavica paura dell'uomo nero che da sempre accompagna i bambini di tutto il Mondo. Mito dell'Uomo Nero che ha mille volti e mille nomi, sfruttato fino all'inverosimile sia nel mondo cinematografico che letterario, andando dallo spietato e sarcastico Freddy Krueger, a Candyman, al Dylandogghiano Manna Cerace al più classico Boogeyman, fino al nostro Sandman. Si inizia con uno dei momenti più dolci della vita di un bambino, quello del bacio della buonanotte e della preghiera conclusiva. Poi, preceduto da Morfeo, arriva l'uomo del sonno, che trasporta il bambino verso mondi magici, ma a volte verso mondi malvagi ed oscuri, pieni di mostri e pericoli, mostri che vivono nelle tenebre e si nutrono di paura e che solo la luce del mattino successivo può spazzare via. Dopo una prolungata serie di saluti ed abbracci, il pubblico freme per uno sperato ritorno dei Four Horsemen sul palco, per il classico encore finale. Grida, fischi e applausi si sprecano, ma il fatto che tutti gli elementi dell'orchestra siano rimasti al proprio posto, lascia ben sperare. Dopo interminabili minuti di attesa, il primo a presentarsi sul campo è Michael Kamen, ma dei 'Tallica nemmeno l'ombra. Finalmente arrivano dei fatati pizzichi sull'arpa e delle raffinate carezze sui violini, che accompagnano i solenni lamenti dei fiati e delle viole.

Battery

In maniera Hollywoodiana i violini annunciano l'ingresso sul palco dei nostri beniamini, che abbattono le prime file con il travolgente attacco di "Battery (Percosse)", dal sempiterno "Master Of Puppets" (1986). La rabbia e la violenza della musica si sposano al meglio con le liriche. Il termine "Battery" è traducibile nella lingua italiana sotto svariati aspetti, che vanno dal non corretto ed ingenuo riferimento allo strumento suonato da Lars Ulrich e colleghi, al più consono "batteria" che indica quel dispositivo che sfrutta reazioni chimiche per generare energia elettrica. Il termine può essere tradotto anche in gruppo o manipolo, inteso come uno squadrone militare, ma è traducibile secondo il lessico legale in "percossa". Il termine viene spesso usato in ambito giudiziario come "Assault and Battery" ovvero la classica imputazione "violenza e percosse". Ed infatti Hetfield affronta proprio il dramma delle persone violente, che si alimentano del doloro delle proprie vittime indifese, che molto spesso sono i familiari più stretti come la moglie ed i figli. Le sfortunate vittime devono subire angherie all'interno delle quattro mura domestiche, mascherando sotto minaccia il tutto, con il falso quadretto della famiglia felice. La violenza che pervade l'animo di questi soggetti è come un demone malvagio che si è impossessato della loro anima, e che si nutre del dolore e della paura, diventando sempre più potente ed incontrollabile. Ritornando alla struttura musicale del brano, troviamo un Lars Ulrich che porta ai massimi livelli l'asticella dei BPM, le fiammate dell'orchestra stavolta stonano e faticano ad emergere dal devastante wall of sound creato dai Four Horsemen. Hetfield tira fuori tutta la sua rabbia recitando le prime strofe, che poi lasciano il campo all' incisivo ritornello. I nostri seguendo il classico cliché del thrash metal, urlano con grinta il titolo del brano, imprimendolo in maniera perenne nelle nostri menti. Un travolgente e funambolico effimero solo di chitarra fa da bridge al ritorno della strofa, dove devo dire, l'orchestra non ci sta un granché bene. La forsennata ritmica del duo Ulrich-Newsted ci riporta in un batter d'occhio all'inciso, poi il brano sfuma improvvisamente. Dagli accordi in fader delle chitarre sfuma un tappeto di archi, Hetfield dialoga con il pubblico, poi i quattro colpi sul charleston da parte di Ulrich danno il via ad un tagliente assolo di chitarra. La prima parte segue i classici schemi del thrash metal, note acide e taglienti come rasoi, le dita della mano sinistra corrono velocemente sulla tastiera della chitarra fino ad arrivare ad un finale che punta molto sulla melodia. Devastante stacco all'unisono e poi ritornano in rapida successione strofa ed inciso, che in maniera prorompente ci accompagna fino al devastante finale, dove ancora una volta l'orchestra stona con l'imponente muro eretto delle chitarre distorte. I nostri si dilungano con una serie di fraseggi e di filler sul finale, che stavolta è quello definitivo. I 'Tallica vanno in prossimità del bordo del palco a raccogliere il caloroso ed interminabile tripudio, ringraziando il pubblico del Berkeley Community Theatre, a far compagnia ai Four Horsemen giunge dalle retrovie Michael Kamen, il vincitore della serata, che si gode il meritato e caloroso applauso del pubblico, da condividere con tutti i componenti della San Francisco Symphony Orchestra. I nostri salutano sottolineando che è stata una serata veramente speciale, e se ne vanno fra l'assordante ed insistente sciame di appalusi.

Conclusioni

Se nella Primavera del lontano 1986, periodo in cui mi addentrai in punta di piedi nel fantastico mondo Metallica, acquistando il capolavoro "Master Of Puppets", ci avessero detto che avremmo recensito o ascoltato un disco dei Metallica supportati da una intera orchestra, avremmo dato del pazzo a chi avrebbe avuto il coraggio di sostenere questa folle affermazione. A quei tempi, i metallari più estremi (dai quali comunque mi sono sempre dissociato) vedevano la "tastiera" come Dracula vede l'acqua santa, figuriamoci come avrebbero accolto un'intera orchestra ad offuscare le taglienti rasoiate delle sei corde dei loro idoli. Infatti uno dei punti deboli di questo impavido tentativo di fondere il thrash metal con la musica sinfonica sono proprio le trame orchestrali che troppo spesso offuscano le chitarre, specie nei brani tratti dai primi album, finendo con l'essere fuori luogo su pietre miliari del thrash metal come "Master Of Puppets" o "Battery". L'altro punto debole del doppio live è la track list, su ventuno brani, solo tre sono tratti da "Master Of Puppets" e due soltanto da "Ride The Lightning", mentre "?And Justice For All" si segnala con la sola "One". Già sottolineato che l'orchestra non si sposa affatto con i brani più duri del vecchio repertorio, stessa cosa non lo si può dire dei vecchi brani più melodici come la stessa "One" o con dei mid tempo come la spettacolare "The Call Of Ktulu" e l'altra Lovecraftiana "The Thing That Should Not Be", dove Michael Kamen è riuscito a rendere ancora più tetre le mefitiche e malsane atmosfere Cthulhuiane. Ergo, alzi la mano chi non avrebbe preferito al posto delle "Fuel", "Of Wolf And Man", "The Memory Remains" o "Sad But True" di turno, delle versioni orchestrali di "Fade To Black", "Orion", "Sanitarium" e "To Live Is to Die", brani che a nostro avviso, per natura si sarebbero prestati bene ad un arrangiamento sinfonico. Capitolo a parte sono i due inediti, degno di nota è "No Leaf Clover", mentre è assolutamente da dimenticare la sorella "- Human". Per quanto riguarda i brani del dopo "? And Justice", per chi vi scrive fin troppo contaminati dal grunge (la "rovina" della musica metal, per molti; e ci sentiamo di concordare), non ci hanno troppo colpito né esaltato, nelle loro versioni originali, tanto meno nella nuova veste orchestrale, fatta eccezione per la struggente "Nothing Else Matters". Con un Jason Newsted poco presente, e le chitarre e la batteria spesso offuscate dalle trame della San Francisco Symphony Orchestra, a salvarsi è James Hetfield, che è come il rum, più invecchia e più migliora, interpretando in maniera magistrale tutti i brani della set list. Ma il vero vincitore è Michael Kamen, che è riuscito a riarrangiare in maniera esemplare brani metal che proprio non erano nati con l'intento di essere affiancati da flauti e violini, finendo con lo snaturare l'anima metal e annientando sovente le chitarre ed il drumming di Mr. Ulrich. Per chi non lo sapesse, il riccioluto direttore d'orchestra e compositore statunitense, ha firmato le colonne sonore di una lunghissima lista di film, fra i quali spiccano pellicole storiche come l'intera saga di Arma Letale, Highlander, X-Men e La Zona Morta. Nella sua brillante carriera ha collaborato sovente con artisti rock del calibro di Queen, Pink Floyd, Aerosmith, Rush, solo per citarne alcuni. Purtroppo nel 1997 gli fu diagnosticata una sclerosi multipla, che comunque non gli ha impedito di continuare a comporre colonne sonore e collaborare con artisti rock. Indebolito dalla letale malattia, il 18 Novembre del 2003 ha dovuto cedere ad un attacco cardiaco. Questo controverso "S&M" è venuto alla luce il 23 Novembre del 1999, registrato il 21 ed il 22 Aprile dello stesso anno al Berkeley Community Theatre, sito in Berkeley, California. La produzione è opera di Bob Rock, che si è avvalso della preziosa collaborazione di James Hetfield, Lars Ulrich e Michael Kamen. La distribuzione è stata affidata alla Elektra, che oltre alla versione 2CD ha messo in commercio la versione in vinile e le versioni in 2DVD (contenente un documentario di 41 minuti sul concerto, con interviste ai Metallica, a Michael Kamen e all'orchestra) e 2VHS (la seconda videocassetta conteneva il dietro le quinte della realizzazione del disco), oltre al download digitale. L'album ha comunque ricevuto una ottima risposta dal pubblico, ricevendo un disco d'oro e numerosi dischi di platino. Il brano "The Call of Ktulu" è stato giustamente premiato al Grammy Awards 2001 nella categoria Best Rock Instrumental Performance. Tirando le somme, questi oltre 130 minuti di Symphonic Thrash Metal si lasciano ascoltare tranquillamente, con le chitarre addolcite (e troppo spesso annientate) dalla invadente presenza della San Francisco Symphony Orchestra, magari trovando particolari consensi positivi fra i fans di nuova generazione, ma scontentando in parte chi come noi è cresciuto a pane e "Creeping Death". Se siete affascinati dalla fusione fra la musica classica ed il rock, questo non è certo l'album che mette in mostra i migliori lati di questo intricante connubio, e mi permetto di consigliarvi "Magnification" degli Yes, un album i cui brani sono stati partoriti per essere suonati insieme ad un orchestra, e non arrangiati a posteriori. Comunque, premiando il coraggio di intraprendere questa rischiosa avventura, non ce la sentiamo di bocciare l'album, che supera abbondantemente la sufficienza grazie ad alcun pezzi che beneficiano particolarmente dell'apporto di Michael Kamen e compagnia suonante, e che con una diversa track list avrebbe forse preso almeno un punto in più.

1) The Ecstacy Of Gold / The Call of Ktulu
2) Master of Puppets
3) Of Wolf and Man
4) The Thing That Should Not Be
5) Fuel
6) The Memory Remains
7) No Leaf Clover
8) Hero of The Day
9) Devil's Dance
10) Bleeding Me
11) Nothing Else Matters
12) Until It Sleeps
13) For Whom the Bell Tolls
14) - Human
15) Wherever I May Roam
16) The Outlaw Torn
17) Sad But True
18) One
19) Enter Sandman
20) Battery
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