METALLICA
Load
1996 - Elektra Records
DAVIDE PAPPALARDO
02/11/2015
Introduzione Recensione
"Mi odino pure, purché mi temano". Una massima dell'imperatore Caligola che, a posteriori, sembrerebbe quasi coniata apposta per descrivere le abili strategie dei Metallica post anni '80. Sorpassata la foga giovanile e la belluina attitudine thrash sfoggiata a suon di capolavori come "Kill 'em All" e "Master Of Puppets", il quartetto americano sembrava aver raggiunto una sorta di maturità compositiva con l'uscita di "..And Justice For All", album certo pesante ma meno di impatto e sicuramente più "cervellotico" ed intricato, a livello di composizione. Molto aveva giocato, su questa evoluzione, l'abbandono forzato del compianto Cliff Burton, venuto a mancare negli anni della definitiva consacrazione. Jason Newsted, ottimo professionista, si ritrovò a dover raccogliere dunque una pesante eredità, anche se il suo ruolo si ridusse a quello di un mero comprimario, e non poté mai dare sfoggio al 100% delle sue notevoli abilità alle quattro corde, proprio perché non fu mai trattato come un membro effettivo del gruppo. Le redini di casa Metallica erano sin da sempre tenute da quel Lars Ulrich sempre più genio del marketing, oltre che batterista; un uomo con il fiuto per gli affari, senza dubbio, che aveva già programmato (con il beneplacito di Hetfield ed Hammett, mentre Newsted avrebbe solo dovuto firmare a patti ultimati) il futuro del suo gruppo. Se il mondo del Thrash poco aveva da offrire, pecuniariamente parlando, bisognava per forza di cose abbandonare la veste di duri e puri, cercando di arrivare a quanta più gente possibile, affidandosi ad un buon produttore che fosse in grado di far compiere al quartetto il salto che lo avrebbe portato dall'underground alla mondanità. Un radicale cambiamento di immagine e di sound, soluzioni meno aggressive che ai tempi di "Kill.." o "Master.." e comunque meno intricate di quelle già sentite in "..And Justice..". Serviva qualcosa di più essenziale ma comunque ben suonato, accattivante ma comunque "duro", possente ma anche coinvolgente. Il risultato fu il "Black Album", disco capace di attirare su di se l'odio ed il timore di cui parlavamo ad inizio articolo. Odio, perché quei ragazzi cresciuti spaccandosi i timpani con "Ride the Lightning" si ritrovarono dal giorno alla notte immersi in brani dalla facile presa ma comunque spogli di quella cattiveria e di quella velocità udita in precedenza; timore, perché comunque i dati di vendita fecero letteralmente gridare al miracolo. Volenti o nolenti, tutti furono costretti ad alzare le mani: i Metallica e Bob Rock (il produttore scelto per il passaggio dall'underground ai "red carpets") avevano vinto la loro scommessa, e quei pezzi certamente di gusto Metal ma comunque più "ruffiani" erano divenuti il caso dell'anno. Vendite stratosferiche, popolarità quadruplicata, concerti, merchandise.. tutto girava bene, ad un quartetto odiato dai detrattori ma comunque temuto, per via dell'incredibile impatto che Ulrich e soci erano riusciti ad avere sulla folla tutta. Popolarità e successo erano sgorgati assieme allo champagne stappato per brindare alla vittoria, ormai i Four Horsemen avevano il mondo in pugno. Tanti imparavano a diventare metallari grazie ad "Enter Sandman" e comunque i nuovi pezzi venivano accolti calorosamente in sede live, cantati svogliatamente anche da chi avrebbe preferito ascoltare "Battery" o "Trapped Under Ice". Ma comunque, CANTATI. Cosa giunse dunque, a rompere l'idillio? Forse, la prima vera (e conclamata) nota stonata della discografia dei Metallica. Un vecchio adagio recita: "a tirar troppo la corda c'è il rischio di spezzarla", e fu forse questo lo sbaglio più grande di Bob Rock e dei Metallica, almeno dal punto di vista "morale" del termine, in quanto i dati di vendite si rivelarono ancora una volta assai incoraggianti. Vendere, sfondare, anche a costo di perdere per sempre quell'ampia schiera di fan che, pur avendo chiuso un occhio sul "Black Album", questa volta aveva decisamente voltato le spalle ai Nostri (ex?) Metallari, decisi unicamente a rimpinguare il proprio portafogli; anche presentando un disco quasi totalmente differente dal predecessore, e sempre, SEMPRE più lontano dai fasti del passato. Talmente distante che parlare di "Load" (avete indovinato, proprio "lui"..) ad alcuni fan dei Metallica equivale a bestemmiare in maniera più o meno plateale in una chiesa: si rischierebbe il linciaggio, o nel migliore dei casi una sequenza infinita di ingiurie verso la propria persona. Un disco che ha prepotentemente rimescolato le carte in tavola ancora una volta, in maniera però non certo elegante e furba com'era già avvenuto per il "Black Album". Un disco, quest'ultimo ancora figlio di alcune suggestioni piacevoli per la vecchia guardia, suggestioni però destinate totalmente a perdersi con l'avvento definitivo del nuovo corso storico e di "Load" in particolare. Gli anni '90 erano ormai sin troppo nel vivo, il mondo musicale stava cambiando. I giovani rockers non riuscivano più a rivedersi nelle atmosfere festaiole dei Motley Crue, tantomeno nei loro cuori c'era spazio per la velocità e la sfrontatezza dei Metallica: il Grunge, la nuova frontiera, con il suo affermarsi aveva determinato la nascita di una nuova corrente di pensiero nonché musicale, un mondo fatto di pessimismo ed intimità, di suoni sofferti e cupi, pesanti, di voci arrabbiate e malinconiche. Alice In Chains, Nirvana, Soundgarden e Pearl Jam avevano sfondato quasi in concomitanza con il rilascio di "Metallica", segnando in maniera indelebile la storia della musica dura ed imprimendo nella mente di migliaia di ascoltatori un sound che, di lì a poco, avrebbe fatto ampi proseliti soprattutto con il sopraggiungere dei 2000 e con la nuova ondata di Alternative. Siamo nel 1996 e la Ulrich & Co. vuole dire la sua dopo la bellezza di cinque anni, immettendo sul mercato un prodotto come "Load", appunto, figlio di quelle novità e di quel nuovo modo di intendere la musica. Timidamente venato di Hard Rock, ma in alcuni casi rasentante il grunge tanto odiato dai metalheads della vecchia scuola, i quali avevano visto nelle nuove band (salvo rarissime eccezioni) solamente delle macchine da soldi, assoldate da MTV (in tal senso ed a posteriori, le parole di Jack Black e Mickey Rourke nei loro film "School of Rock" e "The Wrestler" sarebbero quanto meno illuminanti) per spillare quattrini ad una generazione ormai priva di sogni e speranze. Pochi baluardi del Metal classico avevano imposto la loro presenza in maniera sfacciata e coerente: i Judas Priest di "Painkiller", i Running Wild di "Blazon Stone", i Manowar di "The Triumph of Steel", il King Diamond di "The Eye", senza scordarsi di nomi Thrash quali gli Slayer del combo "Seasons in the Abyss / Divine Intervention", o magari gli Exodus di "Impact is Imminent". Grandi nomi e grandi dischi.. ma Bob Rock preferiva chiaramente i soldi all'apprezzamento del popolo metal. Fu così che la genesi di "Load" ebbe definitivamente inizio: chiusi nello studio di registrazione di Lars, il "Dungeon", il batterista assieme all'amico di sempre Hetfield avevano pensato bene di sfogare la loro creatività spaziando dall'Hard Rock venato di Grunge al blues, donando vita a dei pezzi incisi su vari demo poi portati a mo' di bagaglio nei "The Plant Studios" di Sausalito (California), luogo in cui "Load" nacque definitivamente, sviluppando quelle idee buttate giù dai master mind dei Four Horsemen. Circa la particolarità di quei pezzi, Ulrich si ritrovò a dichiarare: "Load è l'esatta essenza di quel che i Metallica, al giorno d'oggi, sono: degli esploratori. Perché quando smetti di essere un esploratore, quando smetti di provare strade nuove.. beh, è arrivato il momento di sederti e morire!". Una frase quanto meno condivisibile, che sicuramente avrebbe avuto maggior senso se i Nostri non avessero affiancato, a questa voglia di sperimentare, anche una buona dose di conformismo "ammiccante" a quella fetta di mercato che, con le tasche più piene di quelle di un vecchio thrasher incallito, avrebbe potuto assicurargli un futuro ben più roseo. Una buona dose di "titanismo" e "menefreghismo" nei riguardi delle logiche di mercato avrebbero forse reso "Load" un prodotto molto più apprezzabile, il quale sembra invece cadere ed impigliarsi nella fastidiosa ragnatela altrimenti nota come "ricerca del consenso". Quattordici pezzi (ben 78 e passa minuti di durata, l'album in studio più lungo della storia dei Metallica) in cui le sfuriate di batteria perdono terreno in favore di tempi più precisi ed essenziali, chitarre come già detto di gusto maggiormente Hard Rock, nonché un radicale cambiamento di immagine e di attitudine. Quattro rozzi metallari (e Thor solo sa, quanto li avevamo amati in quelle vesti) ormai divenuti quattro ragazzi alla moda, con tagli di capelli normali ed eleganti, trucco (smalto e matita) e vestiti "giusti"; via gli smanicati rattoppati, dentro camicie nere e pantaloni aderenti senza nemmeno uno strappo. Un cambiamento che si riversò anche nei testi, in quanto questi ultimi divennero ben più introspettivi, sofferenti e maggiormente legati a storie personali di ogni singolo membro del gruppo. Immaginiamo cosa avrebbe potuto provare un allora ventenne con un bel toppone dei Venom cucito dietro il chiodo, guardando questi "tali" ed udendo questo album figlio di un così radicale cambiamento. La reazione è stata senza dubbio la defenestrazione immediata, ma in fin dei conti questo è quel che casa Metallica voleva proporci in questo episodio, andando quasi ad inserire il proprio nome nella "lista nera" (che fra l'altro vede la presenza di esimi colleghi nonché leggende come Celtic Frost, Saxon e KISS): l'elenco di chi ha quasi compiuto uno scivolone irrimediabile con un album dalla discutibile qualità. Qual è stato, però, l'elemento che ha quantomeno fatto intascare parecchi soldoni ai Metallica, distaccandoli dai fallimenti dei tre altisonanti nomi pocanzi pronunciati? L'aver avuto un cervello come quello di Bob Rock a supporto della capacità imprenditoriali di un Ulrich "squalo" della finanza. Perché se "Load" è criticabile solo dal punto di vista morale, all'unanimità tutti hanno condannato dischi come "Cold Lake", "Destiny" e "Music From The Elder" anche dal punto di vista delle vendite, bocciando in toto le svolte rivoluzionarie proposte dalle bands, rispettivamente virate verso toni Glam, AOR e Progressive. Dati alla mano, "Load" arrivò a vendere la bellezza di 680.000 copie nella prima settimana di uscita, divenendo l'album più venduto nella storia dei Metallica per quel che concerneva i dati di vendita dei primi sette giorni, di tutte le loro release. Un successo che non si fermò lì, visto che "Load" rimase primo in classifica per quasi un mese nella "Billboard 200" e fu in seguito certificato come quintuplo disco di platino, per aver venduto la bellezza di cinque milioni di copie solo negli U.S.A. Aggiungiamo poi che fu acclamato come l'album simbolo del 1996, il "debutto" più devastante a livello di impatto e soldi, ed allora capiamo veramente quanto sapersi muovere bene all'interno delle logiche di mercato sia quantomeno importante, per raggiungere certe vette. Anche a costo di snaturarsi e di non essere più sé stessi. Perché, diciamolo chiaramente, i Metallica che ci si presentavano davanti erano tutt'altra cosa rispetto a pochi anni prima, ed il mondo Metal se n'era inequivocabilmente reso conto. "Perché diavolo dovrei ascoltare i Metallica? Non mi piace la musica country", sentenziò duramente Joey DeMaio dei Manowar, al quale fece eco Kerry King: "Non riconosco più quel gruppo. Chi sono i Metallica? Sono quelli che realizzarono Master Of Puppets e Ride the Lightning o quelli che sono arrivati al punto di sentirsela di pubblicare una cosa come Load?", chiudendo in bellezza con le dichiarazioni ancor più al vetriolo di Phil Anselmo: "Un album che non sarebbe mai dovuto esistere? Penso Load dei Metallica. Voglio dire, è un disco terribile!! Non riesco a capire.. se hai voglia di registrare una cosa del genere, prova a mettere su un fottuto side project o cose simili, no?". Non proprio degli attestati di stima.. ma lo ricordiamo: "mi odino pure, purché mio temano", e la capacità dei 'Tallica dell'epoca di far soldi e di catalizzare attenzione, di paura, ne faceva eccome. Le particolarità e le stranezze continuavano anche a livello iconografico, e fu forse il cambio di logo ad essere visto, dai fans della vecchia scuola, come uno degli affronti maggiori. La scritta "Metallica" campeggiante per l'ultima volta (sino ad allora) sul "Black Album" venne rimodernizzata e resa ben più grande e meno snella: vennero di molto accorciate le "saette" presenti sulla "M" e sulla "A", ridotte a semplici "spunte". Un logo grande, forse ingombrante, diversissimo dal classico, più adatto ad una band (che oggi definiremmo) "nu metal" che Thrash 'n' Heavy. Un logo che ben si amalgamava al contesto "strambo" della cover, la quale venne scelta per la sua forte carica trasgressiva e provocatoria. Una copertina figlia dell'artista - fotografo Andres Serrano, il quale mescolò del sangue bovino al suo stesso sperma, comprimendo il tutto fra due fogli di plexiglas. Il risultato furono quelle che molti definirono "fiamme", pur non sapendo effettivamente cosa si nascondesse dietro quelle che a ragione potevano sembrare delle lingue di fuoco rimaneggiate ed effettate. L'idea di sfruttare una trovata di Serrano, come spiegò in seguito Hammett, nacque dal fatto che il chitarrista conobbe Andres grazie ad un video dei Godflesh, realizzato per il brano "Crush my Soul" e diretto proprio da Serrano, che impressionò positivamente Kirk il quale pensò di sfruttare le trovate dell'istrionico artista pur non porgendo mai dei ringraziamenti quantomeno dovuti ai Godflesh, i quali ammisero comunque di aver fatto balzare Serrano agli occhi del grande pubblico e di conseguenza di aver aiutato i Metallica (seppur indirettamente). Naturalmente sarebbe impossibile porre un "copyright", parliamo pur sempre di una persona, ma la diatriba continuò (anche se in maniera piuttosto sterile) concludendosi con un bel gesto da parte di Hammett, il quale regalò a Justin Broadrick, leader dei Godflesh, una Fender Stratocaster custom, dopo che quella di Justin era stata rubata durante un tour. La scelta di Serrano per quel che concerneva la grafica di copertina fu comunque una mossa che suscitò diverse perplessità nel frontman James Hetfield, il quale si ritrovò in seguito a rinnegare la scelta ed a prenderne le distanze, rilasciando su "Classix Rock" una dichiarazione piuttosto eloquente: "Sapevano [Lars e Kirk] che la cosa mi infastidiva. Voglio dire.. amo l'arte, ma non quella che pretende di shockare il prossimo!! Penso che la cover di Load sia una cazzata". I malumori del front-man non si fermarono certo lì, in quanto ad infastidirlo molto fu anche la nuova immagine che la band decise di assumere, cambiando radicalmente look (come già detto) e soprattutto giocando molto con l'apparenza, facendosi immortalare nel booklet (foto a cura di Anton Corbijn, già famoso per aver collaborato con U2 e Depeche Mode) in vari modi, cambiando ogni volta stile. Soprattutto sulle "pose goth", James arrivò addirittura a dire che non si trattava altro che di un mucchio di cazzate, e che tutti sembravano un manipolo di idioti più che di metallari. Questo, dunque, il clima. Come suonerà, questo "Load"? Beh.. non ci resta che scoprirlo. Let's Play!
Ain't My Bitch
Ad aprire le danze è la prorompente "Ain't My Bitch", e subito percepiamo un cambio di stile enorme rispetto alla celeberrima "Enter Sandman", open track del disco precedente a "Load". La componente Metal sembra abbastanza messa da parte, in favore di un flavour decisamente Hard Rock a tratti blueseggiante, il tutto è unito poi ad una pesantezza sonora particolarmente "moderna", tipica del nuovo corso che la musica Hard 'n' Heavy aveva e stava prendendo in quei '90 dai più bistrattati ma a posteriori molto rivalutati. Il tiro del riff introduttivo è comunque notevole, il pezzo scorre tranquillissimamente ed anche il basso di Jason sembra messo maggiormente in mostra, andando a donare molta corposità ad un sound oramai lontano anni luce dalle sfuriate "taglienti" dei primi anni. L'impressione è quella di trovarsi al cospetto di un sound maggiormente "grasso", appesantito in maniera notevole e reso roboante di proposito, come i canoni del '96 imponevano. Riff che non tagliano più e che preferiscono "sfondare" più che ferire. La batteria di Lars è una delle note migliori, in quanto il groove che il danese riesce a riversare sul brano è sicuramente notevole. Il tempo, molto essenziale e privo di virtuosismi, rende bene l'idea di brano scorrevole ma comunque assai massiccio. E' come se uno strano pulviscolo avesse avvolto i Four Horsemen, sembra quasi di ritrovarci al cospetto della sporca fotografia dei video degli Alice in Chains (prepotentemente chiamati in causa nel momento pre-ritornello, in cui i tempi rallentano e divengono più "alienanti", con la voce di Hetfield che si sforza -non riuscendoci- di somigliare vagamente a quella di Layne Staley), ed il contesto tutto sembra decisamente straniarci: chiariamoci, "Ain't My Bitch" ha un ottimo andamento ed il ritornello è forse una delle cose migliori mai composte dai 'Tallica new era (così come tutto il brano), molto coinvolgente e subito capace di stamparsi in mente, anche se questa commistione di Hard 'n' Blues con suoni moderni riesce ancora a stonare in qualche modo, soprattutto per chi ha ben chiaro il passato dei Four Horsemen. Il brano continua a proseguire in maniera molto lineare, non vi sono sorprese di sorta (anche l'assolo di Hammett non risulta essere eccezionalmente elaborato, sebbene suoni coinvolgente ed in fin dei conti onesto e ben eseguito) e tutti quanti riescono tranquillamente a fornirci comunque una prova più che godibile. Lars picchia in maniera precisa, la voce di James è molto piacevole ed incalzante, Jason riesce a definire meravigliosamente il sound di questi nuovi Metallica mentre Hammett sembra trovarsi più a suo agio dei colleghi, anche di Hetfield, prezioso in fase di ritmica ma sicuramente non ispirato quanto un Kirk che pare divertirsi molto, nonostante tecnicamente non sia una cosiddetta "cima". Il suo lavoro sa farlo, però, ed anche bene: il suo è forse l'adattamento maggiormente riuscito. Un brano che dunque scorre nonostante i suoni siano "oscuri" e massicci e che si conclude con il riff principale scandito in solitaria da James. Un brano che, nonostante ci faccia storcere il naso (il sottoscritto ha ancora nelle orecchie la furia omicida di "Trapped Under Ice", non c'è nulla da fare), ha il pregio di funzionare alla grande e di coinvolgere soprattutto i più giovani, sicuramente più avvezzi a queste nuove sonorità. Se non altro, pezzi come "Ain't My Bitch" hanno avuto il pregio di gettare le basi sviluppate in seguito da gruppi come Five Finger Death Punch, alfieri del Metallo moderno e sicuramente attenti osservatori, in passato, del lavoro compiuto dai Metallica con "Load". Se si riesce ad ispirare qualcuno e qualcosa, questo è sintomo che il lavoro non è, forse, tutto da buttare. Molto particolari le liriche, alquanto esplicite e riportanti sin dal titolo un termine americano, "bitch", equivalente al nostro "battona", ovvero donna di facili costumi; un titolo forte che prevede dunque un contesto altrettanto forte, in cui notiamo un uomo "donarsi" al menefreghismo più totale, scegliendo di fatto la "via" dei suoi sacrosanti affari, non curandosi minimamente di ciò che lo circonda. Erroneamente si potrebbe pensare ad un problema di cuore e ad una coprotagonista femminile non propriamente fedele e leale nei riguardi del nostro Narratore, eppure lo stesso Hetfield ha più riprese spiegato, dopo essere finito nel centro del mirino per via del linguaggio esplicito, che il termine "bitch" non indica né una donna in particolare né tantomeno vuole prendersela con le donne, ma anzi è solo una metafora per indicare un problema o una situazione che il protagonista delle lyrics vuole scrollarsi di dosso. Mai più problemi e mai più preoccupazioni, un brano che parla di una fortissima presa di posizione, assunta da un uomo esasperato. Quante volte la vita picchia duro? Quante volte siamo costretti a subire i suoi colpi, chinando il capo ed "aspettando" tempi migliori? Beh, in "Ain't My Bitch" la pazienza non è un valore contemplato e tutta la calma e lo "zen" vengono buttati all'aria, in favore di un atteggiamento ribelle ed anche molto sprizzante e se vogliamo provocatorio. Basta guai, basta pensieri, basta preoccupazioni, da oggi in poi "non è un mio problema!!" sarà il cavallo di battaglia di chiunque deciderà di vivere la sua vita secondo unicamente le proprie regole, secondo le proprie decisioni da prendersi in assoluta libertà e senza condizionamenti esterni. Quindi.. "cosa ci fai ancora qui??", le rabbiose invettive di James indirizzate a chi e cosa continua a tormentarlo. Niente sarà più così grave da turbare le sue notti e niente sarà più così grave da togliergli sonno e spensieratezza. "Non è la mia puttana..", questo è il mantra e questa è l'unica regola da applicare per vivere felici.
2X4
Proseguiamo senza sosta con la seconda track, "2X4", aperta da un calmo giro di tamburi da parte di Lars e totalmente diversa dalla precedente. Se infatti "Ain't My Bitch" poggiava le sue basi su di una velocità coinvolgente sebbene sostenuta, questa volta ci troviamo dinnanzi ad un brano che, con le sue particolari cadenze blues ancora più marcate in precedenza, va a sposarsi magnificamente con una componente grunge meravigliosamente filtrata e controllata. Ancora più distanti dal loro passato e sempre più innovativi, i Metallica riescono comunque a confezionare un brano che si lascia ascoltare e risulta essere ben calibrato: l'andatura da "cowboy" ben si sposa con i suoni "sporchi" made in Seattle dell'ascia di Hammett, effettata quanto basta per ricordare molto da vicino i già citati Alice in Chains, stavolta tirati in ballo ancor più marcatamente che nei momenti "pre-ritornello" di "Ain't My Bitch": minuto 1:18, stampiamoci nella mente le voci effettate dei nostri e le linee vocali uscite direttamente da qualche outtake di "Dirt", sarà uno dei momenti ricorrenti del brano a richiamare maggiormente di prepotenza il movimento Grunge, assieme ai suoni della chitarra di Kirk, maggiormente "sporca" ed effettata in netto contrasto con la pesantezza Hard - Blues della ritmica scandita da Hetfield, con la complicità di Newsted ed Ulrich a scandire tempi particolarmente intrisi di "whisky", tanti sono i richiami quasi "southern" uniti comunque alla volontà di risultare granitici come macigni. Non ci fosse stata dietro la volontà di sfondare a livello economico e la mano di un curatore maniacale come Bob Rock, avremmo potuto addirittura trovare qualche parallelismo (procedendo comunque con i piedi di piombo) con i Melvins, ma come si suol dire, questa è un'altra storia. Minuto 3:21, il tutto si placa improvvisamente ed il brano va in contro ad un rallentamento importante, con la batteria di Ulrich che continua a battere imperterrita anche se in maniera molto più lenta e controllata, con le asce di Hetfield ed Hammett ben calibrate e tendenti alle nuove sonorità che in questo momento (soprattutto dal punto di vista solistico) cercano di costruire una sorta di nenia ipnotizzante, capace di stagliarsi però su di una ritmica ruvida e rocciosa. Il primo vero sussulto del Kirk solista si ha proprio in questa "2X4", il nostro riesce finalmente a dar vita ad un assolo ispirato e "sofferto" quasi, sempre in linea con le tendenze southern del brano con qualche richiamo, alla lontana, dell'oscurità del maestro Tony Iommi. Insomma, in questo frangente i nostri si presentano a tutto campo come dei cavallerizzi demoniaci, scandenti ritmi blues e proponenti una massiccia oscurità di forgia Hard rock e Grunge. Un pezzo che risulta particolarmente efficace e meno ruffiano di "Ain't My Bitch" e che può senza dubbio farci sorridere, se non altro per il suo essere non smaccatamente commerciale. Anche in questo caso ci troviamo dinnanzi ad un testo molto diretto e magnificamente "incazzato": secondo un'intervista rilasciata da James, "2X4" sarebbe un vero e proprio inno alla rabbia cieca che ti coglie nei momenti di superamento della soglia della pazienza. Ne hai subite talmente tante, ne hai passate talmente tante, hai dovuto buttare giù troppi bocconi amari.. troppo, da non farcela realmente più. "Sarò quello che ti distruggerà!!", gridano rabbiosi i Metallica, e l'impressione che si ha è proprio quella di un uomo pronto a scagliarsi selvaggiamente contro un suo prossimo, reo di averlo portato oltre i limiti della pazienza. Proprio come nel testo precedente, anche se questa volta la reazione è molto più distruttiva che semplicemente nichilista. C'è voglia di combattere, di sfogare rabbia, di far saltare qualche testa e di affermarsi dal punto di vista fisico, il tutto condito con qualche traccia di "squilibrio" mentale. Lo dimostrano alcune frasi che, più avanti, sembrano parafrasare il famoso monologo di De Niro in "Taxi Driver", quello compiuto davanti allo specchio: "parli con me?? Non ti sento.. stai parlando con me??", un monologo "schizzato", espressivo ed eloquente. Fa poi la sua comparsa la famigerata "2X4" che dà il titolo all'album, forse l'arma che il protagonista sta brandendo per minacciare chi di dovere. La "2X4" è sostanzialmente un'asse in legno (il nome è preso dalle sue misure nel sistema metrico statunitense) perfetta per essere brandita come una vera e propria mazza, pronta ad essere scagliata contro un cranio, per far molto molto male. Il "pazzo" sembra quasi parlare a quell'arnese, interrogandolo su cosa sarebbe meglio fare ed invitando la sua futura vittima ad interrogare il bastone. Cosa è meglio fare? Naturalmente, combattere, e battersi sino alla morte per sfogare la propria rabbia. Che ormai non è più costruttiva come poteva esserlo nel testo della track precedente ma anzi, si è trasformata in una vera e propria deriva pronta a trascinare tutte le persone coinvolte nei più reconditi abissi della follia e della violenza. Liriche deliranti che fanno trasparire dunque una forte sensazione di disagio, una situazione pronta a degenerare da un momento all'altro e a mietere più di qualche vittima, visto che il protagonista non sembra essere propriamente in grado di distinguere il bene dal male e che sarebbe persino in grado di annientare se stesso.
The House that Jack Built
Ad attenderci, con il suo inizio oscuro e minaccioso, è la terza track "The House that Jack Built", il cui riff introduttivo sembra ricordarci, quasi, gli Anvil di "Metal on Metal" sporcati prepotentemente di Black Sabbath, tanta è la carica Heavy che possiamo udire in questo preciso frangente. A mitigare il tutto arriva il cantato delicato ed evocativo di Hetfield, il quale ci propone linee vocali molto particolari e subito veniamo nuovamente catapultati, dall'ascia solista di Hammett, in un contesto sulfureo e dall'andamento Sabbathiano piuttosto evidente, grazie anche alla ritmica precisa e monolitica tenuta da un James in grande forma. I richiami al Grunge continuano soprattutto nelle linee vocali tendenti allo stile di Staley ed all'andamento dei riff, anche se questo brano così lento ed opprimente sembra più propriamente figlio di Ozzy e co. Del resto, i Metallica non hanno mai nascosto un'ammirazione molto decisa nei riguardi del Sabba Nero. Il ritornello sembra essere più catchy ma non troppo rispetto al resto del brano, il quale si fregia nuovamente di particolari effetti per quel che riguarda l'ascia solista mentre Hetfield preferisce rimanere su canoni ben precisi e, come già, detto, piuttosto monolitici. Assieme a Lars e Jason è il vero mattatore di un brano che deve molto alla perentorietà di un ritmo asfissiante e destabilizzante, dalla durata importante ma non per questo noioso, in quanto le ritmiche ossessive si fondono meravigliosamente con linee vocali ben studiate e coinvolgenti, unite ai suoni particolarissimi usati da Hammett, in sede di assolo soprattutto. Nei brani più sperimentali il nostro sembra divertirsi anche di più che nei singoli da hit parade, e ce lo dimostra una particolare trovata che il nostro Kirk decide di utilizzare al minuto 4:16. Dopo un assolo svolto comunque in maniera egregia ma senza troppe sorprese, ecco che il chitarrista sfoggia un uso magistrale di uno degli espedienti più singolari della storia della chitarra Rock, il cosiddetto "Talkbox". Quest'ultimo è un tipo di effetto musicale che modifica i contenuti armonici dei suoni degli strumenti interessati (parliamo di chitarra ma anche di tastiere, in molti casi) consentendo di ottenere altri tipi di suoni simili quasi in tutto e per tutto ad una voce umana. Udendo difatti i suoni componenti l'assolo di Hammett dal minutaggio pocanzi citato, possiamo notare come questi somiglino incredibilmente a dei vocalizzi (degli oaah - ooah, per dirlo in maniera spicciola). Altri usi famosi dell'effetto qui coinvolto sono stati fatti da personaggi di spessore come Peter Frampton (nel brano "Do You Feel Like We Do") , i Motley Crue (in "Kickstart My Heart") e Bon Jovi nella celeberrima "Livin' On A Prayer", giusto per citare qualche nome assai altisonante. Tornando propriamente al brano, quest'ultimo ritorna alla sua struttura lenta ed incedente una volta terminato il particolare assolo di Kirk, con un Hetfield che rende il suo cantato più intenso, andando a sfociare in tonalità maggiori sino ad ora sfoggiate, espediente che rende il tutto più sentito. Richiami ai Sabbath ed agli Alice in Chains che si sprecano in questo finale, in cui ritorna il Talkbox e tutto si esaurisce rallentando progressivamente, terminando di fatto un altro ottimo pezzo che sembra comunque non farci dispiacere troppo quel che stiamo udendo. Non è "Ride The Lightning" ma per lo meno si apprezza l'originalità di alcune trovate. Si è molto parlato e speculato circa il significato delle lyrics di questo brano. Partendo dal titolo, notiamo come questo sia un chiaro riferimento ad un'antica storiella - filastrocca inglese riportante il medesimo titolo, e per certi versi molto simile alla famigerata "Fiera dell'Est" del nostrano Branduardi. Anche nelle vicende del Jack di questa filastrocca troviamo un concatenarsi di eventi: un cane che morde un gatto che mangia un topo che divora del formaggio e così via, cercando sempre di creare una sorta di "montagnola" di guai tutti collegati fra di loro, in crescendo. E forse proprio l'elemento dei problemi concatenati sembra essere riflettuto nel testo presentatoci dai Four Horsemen. La "casa" di Jack è dunque solo una metafora per indicare un luogo ove ne accadono di ogni, non per forza reale. Difatti, sembra proprio che si tratti di uno stato d'animo piuttosto che di un qualcosa di fisico, una sorta di status forgiato dalla depressione e da svariate disavventure personali, un posto infelice fustigato da eventi infausti nel quale però, il protagonista, sembra trovarsi a suo perfetto agio. Un luogo capace di "ingoiare" l'uomo che in questo modo si allontana da altri dolori e preoccupazioni, nonostante obnubilarsi i sensi in questo modo sia pressoché sbagliato, in quanti molti hanno identificato "la casa di Jack" come la sensazione di stordimento procurata dall'alcool, visti proprio i problemi di alcolismo avuti da James in quei precisi periodi. L'alcool, così come le droghe, è uno dei mezzi di maggior efficacia per ovattare e nascondere i propri problemi, facendoli sparire almeno nell'arco di un trip o di una sbronza; il dramma è che non basta "stordirsi" una sola volta visto che l'effetto è temporaneo e destinato a sparire. Man mano che i problemi riemergono più prepotentemente, ecco che il bisogno di una nuova dose si fa impellente, causando crisi di rabbia e reazioni violente qualora non si riesca a disporre della tanto agognata bottiglia o siringa. L'alcool in questo caso sembra far dimenticare a Jack / James i suoi guai, ma perentoriamente glieli ricorda dopo sole poche ore, invitandolo a prendere un'altra bottiglia per dimenticare nuovamente. Si entra così in un circolo vizioso che sembra riuscire a cullare il protagonista nell'illusione di poter fermare il dolore, anche se l'appuntamento con il "faccia a faccia" è solo rimandato. Smaltita la sbornia tornerà ad essere la persona fragile ed insicura che era prima, sconvolta dal dolore e dalla depressione.. ed è così che la dipendenza ha inizio, condannando il nostro a credere una prigione, ovvero "la casa di Jack", come un luogo paradisiaco capace di trasportarlo in una dimensione di totale pace dei sensi. "Più voli in alto più ti schianterai duramente", viene ripetuto nelle lyrics, forse perché al personaggio interessato è rimasto un minimo di coscienza, quel poco che basta per capire che più andrà avanti e più sarà difficilissimo uscire da questa casa. E più si farà male - perderà, nel tentativo di farlo.
Until It Sleeps
Il tutto sembra proseguire su bei binari anche con il sopraggiungere della quarta track, "Until It Sleeps", che pur nella sua struttura assai improntata sul "colpire" e sulla ruffianeria tipica della hit da classifica (è stato difatti il primo singolo estratto da "Load"), ci rende comunque partecipi di un momento discretamente coinvolgente. L'inizio è mesto e malinconico, scandito magnificamente da basso e batteria accompagnanti la voce di James, quasi "triste" e "ferita", tutto questo sino al sopraggiungere di un Hammett intento a cullarci con un'ipnotica e melanconica melodia, quasi facendo prendere al tutto una piega goth rock, rimandante alla lontana le esperienze di gruppi come i Sister of Mercy. Un'aura di rassegnata pacatezza comunque destinata ad un gioco di alternanze, proseguendo, con dei momenti invece in puro stile Metallica, in cui i nostri sembrano riprendere alcuni momenti già sfruttati nel "Black Album" ed addirittura in "Master of Puppets", in brani - ballads come "Welcome Home: Sanitarium". Quella furia controllata figlia dell'esasperazione, della voglia di ribellarsi e di uscire allo scoperto, a suon di riff massicci ma comunque non selvaggi, una prorompenza sonora che cresce poco a poco dando vita ad un assalto assai pacato. La "sporcizia" polverosa del Grunge è naturalmente assai presente e si riflette anche sui momenti più melodici, frangenti in cui fanno capolino i "soliti" Alice in Chains ("Load" è sicuramente estremo debitore nei riguardi di album come "Facelift" e "Dirt", poco da fare) anche se il tutto non risulta affatto opprimente come le due track precedenti, anzi. Anche il solo di Kirk è strutturato a mo' di cantilena ipnotizzante, supportato dalla melodia udita in apertura di brano mentre la voce di James si impone in climax andando a rappresentare il vero e proprio punto di forza di un brano che non brillerà certo per estro compositivo, ma comunque coinvolge e risulta apprezzabilissimo, particolare nella sua commistione di stili e sicuramente degno di essere presente in una classifica. Il basso di Jason è degno protagonista in molti frangenti e possiamo tranquillamente apprezzare questo brano come una sorta di "intermezzo", giunto nel momento giusto, degna "pausa" dopo momenti musicali molto intensi che hanno richiesto un maggior tempo di assimilazione. Con "Ain't My Bitch" si va a comporre una bella coppia d'assi da sfoggiare, anche se il loro meglio, i Metallica, lo stanno dando in brani in cui la velocità è messa da parte. Ci spieghiamo meglio: "correndo" come in apertura di disco, i nostri vanno necessariamente a cozzare con il loro passato, creando brani che suscitano un facile paragone col passato, sfigurando proprio per la volontà di scimmiottare (presentandocele in maniera mitigata) quel che è stato. Viceversa, sperimentando e proponendoci soluzioni "southern", "blueseggianti" o come in questo caso dense di grunge con richiami Goth, i Nostri riescono con più facilità a proporre la novità che cercavano di evidenziare, non risultando blande fotocopie di loro stessi ma tutt'altro tipo di musicisti. Per questo, sicuramente più apprezzabili, proprio perché il passato viene considerato tale e ripreso solo a piccolissime dosi, per non tradire radici importanti che, comunque, fanno parte della loro vita musicale. Come accaduto in precedenza, liricamente parlando sono di nuovo i problemi personali di James ad essere trattati, e questa volta si prende in esame la scomparsa della sua amata mamma per colpa di un tumore. "Until It Sleeps", "finché dorme", un titolo che indica come il male del quale parliamo sia subdolo e capace di nascondersi per anni ed anni, "dormendo" in noi per poi decidere di svegliarsi improvvisamente, giungendo a rovinare la nostra esistenza e mettendoci prepotentemente faccia a faccia con la possibilità di morire. Un male viscido ed insidioso, che non aspetta altro che destarsi dal suo torpore per cominciare a colpire, divorandoci dall'interno e rendendoci giorno dopo giorno sempre più deboli. Cerchiamo di combatterlo ma molto spesso le cure sono difficilissime da affrontare ed alquanto dolorose, anche se nel tempo le speranze di guarigione sono aumentate in maniera esponenziale. Tutto starebbe, come dicono i medici, nel prendere per tempo il male, attaccandolo quando ancora è in fase di proliferazione, per annientarlo alla radice. Il problema fu proprio questo: la famiglia Hetfield, "cristiana" in un senso particolare (i genitori di James si definivano Christians Scientists), non credendo nella medicina rifiutò che la donna ricevesse cure, affidandosi unicamente alla fede, che ovviamente non guarì Mrs. Hetfield, costretta dunque ad incontrare anzitempo la triste mietitrice. Notiamo una gran rabbia nelle parole e soprattutto una grande frustrazione: James cerca di scappare da questo male ma se lo ritrova sempre di fianco, proprio perché la madre è ormai una malata terminale nonostante pensi che con la fede le cose si possano risolvere. Una malattia vista come una maledizione alla quale basta colpirti una volta per averti in suo potere, e per essere in grado di disporre di te nel modo che le pare. "Dimmi perché hai scelto me..", la domanda finale, quella che una persona in certe situazioni arriva a chiedersi quando la rassegnazione occupa ogni spazio del suo cuore. Perché quel male ha dovuto colpire proprio la sua vita? Per quale motivo? Gli stessi interrogativi che lo stesso Cristo si pose una volta inchiodato alla croce, domandandosi perché il padre lo avesse abbandonato. Siamo umani e per questo smarriti dinnanzi a certe catastrofi. Non ci resta dunque che provare a porci invano domande come questa, sperando che una risposta ci venga data. Un segnale, un qualcosa che possa farci capire il perché di una morte che continua a rimanere assurda dinnanzi ai nostri occhi.
King Nothing
Una lunga nota tremolante di chitarra (che non può ricordarci la storica intro della celeberrima "Foxy Lady" di Jimi Hendrix) dà il benvenuto alla quinta traccia di "Load", "King Nothing". Una nota presto raggiunta dal rotondo basso di Newsted e già beneficiante del pacato charleston di Ulrich, ben presto possiamo udire il riff principale prendere corpo e notiamo in questo brano una sorta di cattiveria intrinseca, quasi i nostri avessero deciso improvvisamente di pestare un po' più duro. Ci scordiamo in un lampo delle atmosfere meste di "Until It Sleeps" per udire un riff potente, di gusto Hard 'n' Heavy e decisamente martellante (complice in questo senso la batteria di Lars, precisa e possente), interrotto unicamente dai soliti richiami Grunge che in sede di ritornello diventano più "prepotenti" e smorzano la volontà dei Metallica di apparire più risoluti, in questo preciso contesto. E' una fase che viene comunque, a sua volta, smorzata dal ritorno a sonorità più spigolose ed incedenti, rese interessanti (nella loro "prevedibilità) dalle linee vocali di Hetfield. Grande merito del nostro frontman è quello di mostrarsi un cantante estremamente adatto al contesto, riuscendo a coinvolgere grazie allasua versatilità ed alla sua grande capacità interpretativa. Foga quando serve, calma e riflessività quando è il momento, risultando sempre molto ispirato quasi i pezzi gli fossero stati cuciti addosso. Echi Hard 'n' Heavy che si sentono anche nell'assolo di Hammett, sino al sostanziale rallentamento del minuto 3:38, istante in cui il tutto si placa ed il tutto diviene più cupo grazie anche al basso di Jason ed alla voce filtrata di James, il quale canta in maniera più "poetica" e cerca di dar vita alla "solita" ninna nanna demoniaca alla Staley, convincendo ma non riuscendoci del tutto (non ce ne voglia il bravissimo James, come già detto ottimo cantante, ma le capacità di Layne restano comunque distanti anni luce dalle sue basi più "rudi"). Si riprende a "bastonare" e presto fa nuovamente capolino il ritornello, chiudendo di fatto un brano piacevole del quale, tuttavia, non se ne sentirà troppo la mancanza, una volta passato avanti. Sembra quasi che i 'Tallica abbiano voluto riprendere alcune suggestioni del "Black Album" sviluppandole in maniera ancor più moderna, non rinunciando alla cattiveria ma comunque plasmandola a quello che la musica Hard 'n' Heavy era (in larga parte) nel 1996. Esperimento riuscito, ma il pezzo suona forse un po' troppo prevedibile e non riesce appieno nell'intento di farsi ricordare. Le liriche di "King Nothing" girano attorno ad un tema assai sviluppato nel mondo Rock e Metal, in questo caso trattato sempre con cinismo e spietata risolutezza: quello dell'accumulo di soldi a discapito della felicità altrui. Chi è il "Re Nessuno"? Potrebbe essere chiunque: un nostro amico, un vicino di casa, il nostro insegnante.. una persona che, annusando il suadente profumo del denaro, ne rimane talmente incantato da doverne accumulare sempre di più. I soldi non fanno la felicità, recita un vecchio adagio, ma per queste persone la causa primaria di benessere sembra unicamente l'accumulo di mazzette di banconote, che poi nemmeno verranno spese. E' il potere che conta, l'avere, il possedere, il comandare ed il rispetto che ci si guadagna in proporzione al nostro conto in banca, in questa società vuota e votata al culto dell'apparenza. L'avarizia e la brama sono un combo devastante e ci portano a compiere atti ignobili e deprecabili, pur di ottenere ciò che vogliamo; imbrogli, tradimenti, molto spesso azioni illegali o addirittura omicidi, nulla sembra più valere per noi se non i cosiddetti "verdoni". Amici, fidanzate, famigliari, tutti sono pedine sacrificabili in questo scellerato gioco dell'accumulo, nel quale siamo noi stessi contro il mondo. E' quel che desideriamo, il Potere. Ma diceva la zingara di Blackie Lawless: "attento a ciò che desideri, potrebbe realizzarsi..". Perché a volere siam sempre capaci, ma a prenderci le responsabilità di quel che poi comporta, l'esaudimento del desidero.. decisamente no. Le dantesche dolenti note, la nostra politica di Mazzarò ci porta inevitabilmente a scontrarci poi con la solitudine che essa comporterà, quando rimarremo isolati con i nostri soldi che né ci consoleranno né ci faranno sentire meglio, proprio perché non potremo spenderli per far del bene, magari regalando qualcosa di bello ad un nostro caro. Il nostro impero crolla, il castello si sgretola, ci rendiamo conto di quanto questa politica dell'accumulo ci abbia autodistrutti e spogliati di tutto ciò che di umano avevamo. Siamo Re, ma la nostra corona si è arrugginita, il nostro esercito riporta su di se troppe ferite incurabili. Un'autentica vittoria di Pirro della quale potevamo fare a meno sin dal principio. I Re del Nulla, detronizzati e probabilmente future vittime di altri scellerati come noi.
Hero of The Day
Una melodia toccante e delicata apre la traccia numero sei, "Hero of The Day", traccia che segna un rallentamento sostanziale ed un cambio di rotta abbastanza marcato. Una traccia che dovrebbe porsi come una sorta di ballad e fa dell'orecchiabilità il suo punto forte, con un Lars che picchetta in maniera precisa la campana del suo ride e chitarre acustiche in sottofondo, unite ad un'elettrica melodicissima dal flavour oscillante fra il pop ed una strana "malinconia" country, rimandi blueseggianti tipici delle ballate più propriamente "Glam" che Metal a tutti gli effetti. Ad accoglierci sono i sussurri effettati di un Hetfield che in seguito sfoggia linee vocali incredibilmente distanti dai suoi standard, mostrandoci la sua anima più intima e.. "gentile", addirittura, persino nel ritornello in cui la band sembra "spingere" maggiormente pur rimanendo confinata in zone avulse all'Estremo ed anzi decisamente poppeggianti. La struttura del pezzo non cambia, la chitarra di Hammett risulta addirittura noiosa nel ricamare sempre il solito arpeggio, "tenero" e docile come non mai. Un brano che potrebbe anche suonare "simpatico" e piacevole da canticchiare, ma che al contempo ci fa riflettere su quanto effettivamente possa incastrarci, cotanta "orecchiabilità", con quello che sino ad ora abbiamo ascoltato. Pezzi come "2X4" od anche "Ain't My Bitch" conservavano al loro interno una certa irriverenza e voglia di risultare comunque pesanti, seppur in modo diverso dal passato: in questi minuti, invece, ci ritroviamo dinnanzi una band che sembra quasi richiamare i The Calling (la celeberrima "Wherever You Will Go") ed al contempo strizzare l'occhio ad alcune composizioni di Brian Adams. Lungi da noi screditare gli artisti citati, è solamente per sottolineare quanto sia l'insieme sia per lo meno singolare; mai avremmo detto di riuscire ad approcciarci ad un lavoro di casa Metallica che racchiudesse in se questo spirito orecchiabile e questa volontà di "delicatezza" un po' tirata fuori dal cilindro e per nulla studiata. L'andazzo di "Load" stava stagliandosi su di una cupezza generale ed anche laddove si cercava di proporre brani più accessibili a palati non troppo avvezzi al Metal ("Until It Sleeps") si risultava comunque ben piazzati su territori Rock, sebbene venati di Alternative e Blues. Qui tutto cambia e quella che ci viene proposta è una ballad strappalacrime in cui James Hetfield risulta addirittura fuori luogo in alcuni momenti particolarmente "delicati". Strumentalmente parlando non ci troviamo certo davanti ad un disastro, i ragazzi fanno il loro eseguendo molto bene le varie parti e ci sono in fase di pre-chorus impennate e momenti in cui il brano cerca di risultare massiccio, ma lo strapotere della melodia è evidente e nulla sembra volersi discostare dalla volontà di cavarci dagli occhi almeno una lacrimuccia. Che fatica a scendere, proprio perché il pezzo in se è afflitto da una stucchevolezza notevole. Improvvisamente i nostri ricordano di essere un gruppo Metal ed al minuto 2:16 riprendono a pestare come ossessi, facendoci tirare un sospiro di sollievo e non facendoci urlare del tutto al passo falso. Si riprende a picchiare ed a martellare, ma presto il clima si rasserena di nuovo con l'entrata in scena del solo di Hammett, melodicissimo ed essenziale. Le ritmiche da celebrazione dell'innocenza riprendono, si ha nuovamente l'incursione estrema già udita con l'avvicendarsi del minuto 3:13, ed il brano finalmente ri-prende la piega giusta, mostrandoci la sua anima nera fatta di riff cupi e martellanti e di una batteria ossessiva e picchiatrice, con la voce di James che assume toni da profezia malvagia. Assalto grunge in piena regola che risolleva le sorti di un brano sino a poco fa afflitto da una fastidiosissima aria da festa sulla spiaggia, e ci trascina in un finale nel quale Hammett cerca nuovamente di riprodurre la intro di "Foxy Lady". Pochi minuti non bastano a farci scordare una buona parte di pezzo dominata dalla volontà di entrare di prepotenza negli studios di "Top Of the Pops" e personalmente non mi sentirei di negare il fatto che ci troviamo dinnanzi ad uno scivolone piuttosto grottesco. La languida esecuzione di quella strana melodia, il clima di "leggerezza" che si instaura e che mai dovrebbe essere presente all'interno dei lavori di una band che ha scritto la storia del Metal estremo, la voce di Hetfield che cerca di risultare gentile, gli innocenti tocchi di ride di Lars.. deterrenti che ci fanno storcere il naso e non riescono a farci apprezzare un brano che, guarda caso, decolla proprio quando i Nostri si ricordano di poter picchiare sui loro strumenti e di essere un gruppo Metal. Brano apprezzabilissimo ma che, sinceramente, stona con un (comunque bel seppur particolare) contesto che gli Horsemen stavano insinuando, a colpi di blues Sabbathiano e di Grunge alla Alice in Chains. Il testo, proprio come la canzone, sembra quasi non avere molto senso e parla più che altro per giustapposizioni, sviluppando varie tematiche messe in mostra da fans e critica. In molti vedono un'enorme metafora (anche per quel che riguarda il video musicale, che ci mostra un ragazzo particolarmente "stordito" fissare quasi ipnotizzato la tv nella quale i Metallica appaiono come attori di un film western prima ed in seguito protagonisti di un gioco a premi, e pubblicizzanti una bibita chiamata proprio "Load") atta a condannare il potere dei media. L' "Hero of the Day", nel gergo dei tabloids, è difatti un personaggio che si è particolarmente distinto per un'azione considerata eroica e proprio per questo da premiare con un pubblico encomio. Tutti, almeno in quell'istante, lo considerano una grande persona ed un esempio da imitare, salvo tuttavia scordarsene quando i loro cuori e le loro attenzioni saranno indirizzate verso un nuovo "eroe del giorno" e così via. I "vecchi" eroi cadranno dunque nel più totale dimenticatoio; tutto questo per condannare un sistema che non premia realmente le buone intenzioni ma anzi, cerca solamente un titolo da prima pagina per vendere qualche copia in più, spingendo la gente ad essere buona non per una questione morale ma anzi per puro tornaconto personale, per brama di celebrità. La TV viene vista come una matrice di "eroi fai-da-te", ne siamo quasi sempre schiavi e tendiamo a lodare tutto quel che il tubo catodico incorona, disprezzando invece quel che esso ci dice di screditare. Gli Eroi, quelli veri, finiscono raramente sui giornali e combattono per noi ogni giorno, magari in terre lontanissime, al servizio di uno stato che li manda a morire per combattere chissà che stupida guerra. E qui ci riallacciamo al secondo argomento messo in luce da molti fans, quello dell'omaggio ai soldati, pratica comune di molte band storiche e moderne. Il testo, per molti, è difatti un'allegoria sul ritorno a casa di un militare che, provato nell'anima dagli orrori visti e subiti, non riesce più a comportarsi normalmente o ad essere se stesso. "Mamma.. perdonami, perché mi sento così.. queste cose ritornano e mi paiono ancora vere..", il tutto sembra proprio dipingerci dinnanzi agli occhi la vita di un uomo rimasto shockato da troppe esperienze, talmente devastanti da non riuscire più a fargli vivere in pace quel che qualsiasi persona ritiene sacro e tranquillizzante, la sua dimensione famigliare. La quotidianità nella quale possiamo trovare l'unica vera pace ma che in queste circostanze è inquinata da chissà che orrori. Altro punto sul quale dibattere, è la possibile implicazione di problemi legati a sostanze o alcool: questo spiegherebbe il perché del ragazzo del video, ed in effetti, le frasi che abbiamo riportato sembrano anche le commiserazioni di chi sa di essere schiavo di un qualcosa di determinato. Sembra volerne uscire ma le sue notti sono costellate di incubi e la sua vita richiede a gran voce l'assunzione di quello che è l'elemento in grado di farlo dipendere da esso in tutto e per tutto. Mentre tutti sono fuori a cercare "l'eroe del giorno", in tanti combattono delle battaglie che nemmeno ci immaginiamo. E sono ignorati, privi anche del più basilare degli aiuti, privi di comprensione e di un qualcuno che possa ascoltarli.
Bleeding Me
Riemerge prepotente una disturbante "melodia" Grunge quando la settima traccia (la seconda più lunga del disco), "Bleeding Me", ci conduce al giro di boa di "Load". Una chitarra molto effettata, supportata da un'ascia ritmica essenziale e da una sezione basso-batteria anch'essa molto contenuta, tesse la tela di quello che si presenta come un nuovo pezzo melodico.. ma, questa volta, coinvolgente ed "oscuro" quel tanto che basta a farci dimenticare i falò ed i cappelli da cowboy. James riesce nell'intento di donare alla sua voce un tono malinconico ma molto deciso, facendo in modo che la sua ugola si dimostri drammatica ed espressiva e riuscendo ad arricchire enormemente un contesto che, a parte qualche improvvisata di Hammett in fase di solista, sembra puntare molto sulla ripetitività e l'ossessività. Il ritornello è quanto di più Alice in Chains si possa trovare in un brano dei Metallica e qui diviene palese il quasi tributo che i nostri hanno voluto operare nei riguardi della band del compianto Staley. Piccolo climax verso il minuto 2:30, in cui i celeberrimi yeah! di Hetfield insorgono di prepotenza e ci svelano l'anima Grunge di un gruppo che, con questa ballad, si sta risollevando alla grandissima dopo il passo falso compiuto con la track precedente. Rimangono i riferimenti blueseggianti e "southern" nella chitarra di Hammett, intenta in seguito ad approcciarsi ad un buon momento solista, salvo poi riprendere la polverosa ninna-nanna udita per buona parte del brano. Come se fossimo cullati dai torridi venti del deserto, veniamo dapprima accarezzati dal caldo scirocco ma poi nuovamente travolti da un'impennata di "decisione" nei toni generali del pezzo, che riprende a picchiare in maniera più precisa pur non accelerando mai. Ulrich fa magistralmente il suo lavoro facendo vibrare i suoi tamburi, Newsted è prezioso in fase di impostazione e sembreremmo quasi avviarci verso un finale scontato.. se non che, al minuto 4:49, un rugginoso riff Hard 'n' Heavy decide di porgerci il suo benvenuto, riaprendo di fatto il brano che decide di cambiare volto. Il clima è più malvagio e meno oscuro, le note permeano di "ruggine" e sentiamo un Hetfield assai espressivo, stagliarsi su di una base molto più estrema, con l'ascia di Hammett intenta a donarsi ad una melodia effettata e serpeggiante. Un gran bell'assolo, quello del nostro Kirk, che in questo istante sfoggia le sue qualità andando a costruire un qualcosa di molto più sostenuto complice anche il ritmo scandito in seguito da Ulrich, molto più deciso col suo 4/4 perentorio. Continua l'assolo, i giri di tamburi si fanno sempre più presenti e si giunge al minuto 7:02. Un riff che riesce a farci tornare alla mente i primi Motorhead ma che subito viene sottomesso alla melodia iniziale. Si ritorna su lidi molto più pacati ed ossessivi, che continuano fino alla conclusione, sfumando e rallentando. Da applausi la performance canora di un Hetfield ed in generale complimenti al gruppo, che riesce a riprendersi dopo lo scivolone occorso nella precedente track, presentandoci un brano particolare ed affascinante, da ascoltare e riascoltare. Altro testo di difficile comprensione, secondo quanto detto da Jason Newsted il brano parlerebbe di una persona afflitta da problemi mentali. Un altro male subdolo quanto il cancro presente in "Until..", proprio perché risiede nei nostri meandri ed è un disturbo pronto a crescere progressivamente, non lasciandoci scampo una volta raggiunto lo stadio definitivo. Il protagonista di queste liriche è quindi anch'esso roso dal didentro e presto portato sull'orlo dell'incurabilità, come egli stesso afferma è come se qualcuno avesse piantato una spina dentro di se: "Questa spina in me, che proviene da un albero che io stesso ho piantato.. questa spina che mi lacera, e sanguino.. si, sanguino!". Il tema del sangue, lo notiamo sin dal titolo, è sviluppato in maniera quasi ossessiva e ricercando una forte capacità evocativa, quasi i Metallica volessero, con questo espediente, mescolare il rosso liquido alla sabbia / polvere che aleggia attorno a questa loro musica. Il protagonista si identifica come una bestia sanguinante, che non riesce a smettere di perdere energie proprio perché le sue ferite sono troppo profonde per essere curate e ricucite. Proverà a salvare la sua anima ma è tutto inutile, la sua morte avverrà poco a poco, mano a mano che la sua ossessione prenderà piede e lo condurrà definitivamente oltre il punto di non ritorno. Fu in seguito James Hetfield, in un'intervista rilasciata nel 2001 per il magazine "Playboy", a chiarire definitivamente ogni dubbio sulla questione, parlando di come il brano fosse stato concepito pensando ai problemi che il frontman aveva con l'alcool, in quel periodo: "..ho perso molti giorni della mia vita. Sono stato in terapia per un anno, ho imparato molte cose su me stesso. Man mano che cresci, ci sono tante cose che ti feriscono, e tu non riesci a capire il perché. La canzone Bleeding Me parla proprio di questo: cercavo di buttare tutto il male che c'era in me, come sangue che sgorga". Da questa prospettiva dunque notiamo come il sangue possa essere riabilitato ad elemento positivo, in quanto esso, uscendo dalle vene del protagonista, lo purifica e cerca in qualche modo di portarlo verso una nuova vita, nella quale il male passato sarà soltanto un lontano ricordo.
Cure
Si prosegue con "Cure", la quale si apre con una batteria ritmata seguita presto da un riffing hard rock dal groove ripetuto, sul quale s'innesta la voce narrante di Hetfield; ecco che con l'incedere del brano la sua voce si fa più appassionata, mentre al quarantacinquesimo secondo una serie di rullanti alternano un ritornello incentrato proprio su di essa. Esso si libra poi con giri circolari e versi ripetuti, passando poi ad una marcia più robusta coronata da un fraseggio accennato; al minuto e quindici riprende il movimento precedente, sottolineato qui dal basso e dalla voce sdoppiata del cantante, tra melodico e toni da crooner molto americani. Come da copione si ripete il ritornello alternato da rullanti, il quale ancora una volta segue le evoluzioni di chitarra e batteria già incontrate; questa volta però segue poi un assolo intermittente, il quale s'intromette tra i graffi di chitarra e le emanazioni vocali di Hetfield, le quali poi assumono toni "malvagi" supportati da passaggi controllati di chitarra ed esercizi ritmici. Largo quindi ad evoluzioni blues dove lo strumento a corde viene strizzato con toni tecnici dal sapore classico; l'atmosfera è altisonante ed epica, supportata poi da riff circolari ripetuti e dal ritornello sempre accattivante e di facile presa. Al terzo minuto e quindici si passa ad una nuova digressione, seguita da un ritmo tribale fatto di basso, chitarre nervose e vocals sospirate, in un mantra ossessivo dove poi il drumming diviene sempre più pestato, aggiungendo piatti incalzanti; essi quindi creano una coda ritmica che va ad esplodere in una ripresa del ritornello portante, con un tripudio di fraseggi e voce melodica di Hetfield. Il finale vede naturalmente un'ennesima digressione vocale seguita da un breve momento pulsante di batteria, il quale anticipa al conclusione; un episodio tutto sommato energico, per quanto non certo dal songwriting sorprendente, giocato quasi tutto sui ritornelli e sulle intrusioni di batteria, e sulle vocals di Hetfield che ci rimandano ai momenti più melodici del passato della band. Il testo tratta della ricerca di una facile soluzione ai problemi, sia essa un'arma, l'alcool, la droga, o la violenza in generale; essa porta spesso ad ingannarci, e a fare scelte sbagliate con conseguenze anche irreparabili. Un uomo prende una pallottola, le tiene tutte dentro di se, e non importa quanto fa male, quindi conviene non ingannarci più; lui pensa che la risposta a tutto sia una fredda arma e prende droghe come fossero medicine, ma si inganna da solo ancora una volta. "Yeah! The lies tempt her and she follows, Again she lets him in, She must believe to fill the hollow, She's been fooled again - Si! Le bugie la tentano e lei segue, Ancora lo lascia entrare, Lei deve credere per riempire il vuoto, E' stata ancora ingannata" prosegue il testo trattando ora di una donna che nonostante tutto lo segue, andando con lui verso la rovina; l'ossessione per la facile cura porta a questo, in una folle fede che trascina verso il disastro, alimentata dal bisogno di sentirsi sicuri. Il concetto viene ripetuto come in un sermone volutamente sarcastico, il quale usa toni quasi religiosi per identificare il cieco fervore con il quale viene intrapresa la strada sbagliata; un testo che vede una visione generale e "moralistica" della natura umana e dei suoi comportamenti, espressa varie volte nell'album.
Poor Twisted Me
"Poor Twisted Me" ci accoglie con un fraseggio effettato dai toni spezzati, il quale poi si da a toni country seguiti da una batteria controllata e da riff dilatati; Hetfield ci sorprende con una voce molto radiofonica, la quale segue l'andamento sincopato del brano. Intanto la chitarra si abbandona a strimpelli ed evoluzioni southern mentre le vocals assumono toni sempre più emozionali ed intensi; la batteria segue il tutto con movimenti soppesati, e le chitarre si aprono a riff articolati, slavo poi riprendere con il loro andamento contratto. E' chiaro che ci troviamo davanti ad uno dei pezzi rappresentativi delle novità del lavoro, ovvero uno di quelli che più hanno fatto storcere il naso ai puristi del gruppo; non vi è traccia ne di thrash, ne di metal, mentre i punti di riferimento sono la tradizione rock e country statunitensi, con i suoi toni narrativi controllati. Anche qui non abbiamo un songwriting complicato, il tutto segue una certa sequenza dove il basso rimane in sottofondo, mentre drumming e chitarra strutturano la base musicale per le vocals sentite del cantante; ecco quindi che tra stop e riprese arriviamo al secondo minuto e ventisette, dove si parte con un a cavalcata energica, ma controllata, sulla quale Hetfield segue in modo vivace la cadenza degli strumenti. Quasi subito si torna però ad un movimento più pachidermico, sul quale la chitarra si da ad assoli strutturati dalle scale più tecniche, carichi di melodie tradizionali; non ci sorprende la ripresa del ritornello rock dove la batteria alterna cimbali e rullanti, tempestando poi le evoluzioni vocali effettate del cantante. Il finale prosegue queste tendenze, con drumming pulsante e chitarre sincopate, chiudendo un altro episodio tutto sommato lineare, che scorre ancora più veloce di quello che si potrebbe pensare; chi si aspetta la collezione di riff e cavalcate robuste del passato, rimarrà qui ampliamente deluso, anche rispetto a "Metallica" già tanto criticato da alcuni qui siamo su un altro pianeta musicale. Il testo tratta dell'auto commiserazione e della ricerca della conferma altrui in un meccanismo patetico che si auto alimenta all'infinito; il protagonista si lamenta quindi, nutrendosi dell'altrui cordoglio, masticando la sofferenza e l'agonia. Egli si nutre del suo dolore, arrivando al punto di provare piacere nella miseria; si dice maltrattato, come una persona che affoga in un mare immaginario dove i polmoni si riempiono di dispiacere e miseria. "Inhaling the deep dark blue, Oh woe woe is me, Such a burden to bear, Poor mistreated me ye-yeah! - Inalando il profondo mare oscuro, O povero me, Un così grande peso da portare, Povero me maltrattato, già!" continua la metafora, mentre raggiunge la spiaggia, dove però sente freddo perché il mare era caldo, trovando anche qui di che lamentarsi; sente di portare un peso addosso, e di doverlo condividere con chiunque capiti a tiro. Un altro tema esistenziale quindi, dove l'auto commiserazione viene condannata, descrivendola però in prima persona, tirandosi dentro in un vizio molto umano; i temi sociali e politici del passato sono spesso qui assenti, sostituiti da questo tipo di considerazioni di tipo introspettivo.
Wasting My Hate
"Wasting My Hate" si apre con un delicato fraseggio accompagnato da piatti cadenzati di batteria, sul quale presto parte un quasi irriconoscibile Hetfield; al ventottesimo secondo però un riffing dal drumming conciso segna il passaggio a toni più aggressivi, presto mutuati in una corsa marziale dai colpi serrati e dia giri graffianti. Su di essa il cantante si da ad un cantato più familiare, accompagnato dagli strumenti, tra cui un basso corposo; s'instaura un andamento trascinante dove come spesso accade è al voce del cantante il centro del ritornello, mentre le chitarre ne sottolineano i movimenti e la batteria fa da ossatura ritmica. Largo poi ad aperture ariose dalle chitarre sentite, le quali poi si contraggono dando modo ad Hetfield di aprirsi nei suoi versi appassionati, arrivando ad un breve digressione; riprende dunque il galoppo più deciso reminiscente del passato, per un pezzo ibrido che riprende le tendenze del lavoro precedente impostandole però nel contesto hard rock dell'album qui recensito. Si ripassa quindi al ritornello melodico dove le chitarre hanno modo di darsi a fraseggi tutto sommato ben calibrati; una nuova digressione segna una parte parlata con suoni controllati. Essa è subito sostituita da una corsa energica dalle chitarre tempestive, la quale si lancia potente con dei riff decisi che ben sottintendono le sfuriate di batteria e voce, mostrando gli artigli; una serie di rullanti chiudono al coda, ridando posto ai ritornelli ritmati e alle chitarre dal gusto più classico. Ecco che al terzo minuto e quaranta un'altra digressione fa da cesura, prima di una falsa partenza per una nuova corsa: essa cessa subito, mettendo fino al pezzo. Dei Metallica qui sospesi tra passato e (allora) presente; certo troppo poco per far ricredere chi ha in odio la svolta stilistica qui apportata, ma una testimonianza del fatto che alcuni elementi sopravvivono anche qui, per quanto alleggeriti ed inseriti in un contesto "commerciale". Il testo tratta dell'odiare sempre e dello spreco di tempo ed energie che questo comporta, non portando a nessuna soluzione; s'invita il prossimo a non sprecare fiato, così che non nascano discussioni dove avvenga lo spreco di odio prima descritto, il quale verrà tenuto per se. Non ne abbiamo più da dare, e non faremo il gioco altrui, permettendogli di fare il suo comodo; chiediamo al prossimo se pensa di essere degno ora, e se pensa abbastanza da poter giudicare quanto è ridicola la situazione. "Well I see my hands, I see my feet, I feel that blood that pumps in beats, But where the hell's my mind going now? Dead gone now - Be vedo le mie mani, Vedo i miei piedi, Sento il sangue che pompa ad ogni battito, Ma la mia mente dove diavolo andrà ora? Morirà ora" continua il testo parlando dell'escandescenza che segue alle provocazioni; ma non cadremo in trappola, ed ecco che i versi precedenti vengono ripetuti ribadendo il concetto del quieto vivere in nome della pace personale.
Mama Said
"Mama Said" si apre con una voce presto sostituita da un arpeggio acustico sul quale la bella voce di Hetfield trova posto con i suoi toni malinconici che si ricollegano a brani storici come "The Unforgiven" e "Nothing Else Matters"; la musica è però qui di fattura diversa, con un episodio totalmente scevro di elementi metal, dove il ritornello sentito viene supportato da passaggi da notti nel sud degli Stati Uniti, alternati a giri anni sessanta minimali e toccanti; la batteria è quanto mai qui ridotta ai minimi termini, facendo da supporto delicato e mai violento ai vari momenti del brano. Naturalmente i riflettori sono puntati sul ritornello appassionante dove Hetfield da una grande prova vocale; ecco che al secondo minuto e ventidue archi ed arpeggi ariosi intensificano il tutto, mentre d'accordo al voce si fa ancora più emotiva. Per quanto sia probabilmente il pezzo spesso all'epoca più criticato del lavoro, in realtà si rivela uno dei più riusciti; forse proprio perché non cerca di riportare in modo fiacco il suono del passato, ma compromesso, presentandoci invece una ballad totale. Si prosegue quindi con la chitarra lounge e sottile, mentre le vocals piene di passione alternano parti potenti e sussurri che anticipano il ritornello; largo quindi ai toni grandiosi giocati sempre su pochi elementi, in un tono salubre dai connotati intimi che evitano qualsiasi eccesso. Al quarto minuto e ventisei sono gli arpeggi squillanti a segnare il passo, mentre Hetfield prosegue con il suo cantato pieno di rimorso e dolore, perfetto per il tema del pezzo, trovando riposo nel finale dalla digressione leggera; il lento insomma principale dell'album, il quale scorre semplice, ma pieno di emozioni, molto più adatto ai toni più minimali del lavoro rispetto ad altre forzature qui presenti che finiscono a volte per suonare come ne carne ne pesce. Il testo è molto personale, trattando del rapporto conflittuale di Hetfield con sua madre, la quale è morta all'improvviso eliminando tragicamente la possibilità di una risoluzione al loro distacco; ricorda i consigli dove lei gli diceva che la vita è un libro aperto, da non chiudere mai prima della fine. "La fiamma più brillante è quella che brucia prima" gli ripete, ma lui deve trovare la sua strada, e le chiede di lasciar crescere il figlio, altrimenti il suo cuore si fermerà; ora egli è un ribelle dal sangue selvaggio, con però i segni di un grembiule ancora sul collo, un marchio che rimane. Andato via di casa presto egli non ha mai chiesto perdono, e quello che ha fatto è ormai fatto e non si torna in dietro; non ha mai chiesto di lei, ma ora lei gli ha dato un vuoto che poterà fino alla tomba, con il cuore fermo. "Mama, now I'm coming home, I'm not all you wished of me, A mother's love for her son, Unspoken, help me be - Mamma ora torno a casa, Non sono quello che speravi, L'amore di una madre per suo figlio, Silente, aiutami ad esserlo" prosegue il testo, riflettendo poi su come ha dato il suo amore per scontato, così come tutte le cose che lei diceva; ma ora che vorrebbe un abbraccio trova solo una fredda pietra. Un testo quindi molto malinconico e pieno di rammarico, per quanto è stato, e per quello che non può più essere; una scorcio sulla crescita personale del cantante, che ora si sente più maturo e rivaluta la sua vita.
Thorn Within
"Thorn Within" si presenta con piatti cadenzati e riff pachidermici di chitarra, avanzando con un incedere Southern suggellato da tamburi e fraseggi in sottofondo squillanti; si crea quindi un ritmo quasi meccanico, il quale vede poi un drumming più articolato. Largo quindi a melodie imponenti che ci riportano al passato della band, con tanto di marce thrash combattevi, per quanto controllate; esse non evolvono però in corse o sfuriate, lasciando al minuto e otto il passo di nuovo all'andamento precedente; ora su arpeggi acustici parte il parlato di Hetfield decisamente delicato e controllato, mentre le chitarre si danno ad alcune riprese dei riff dilatati e più nervosi. La batteria segna con i suoi movimenti l'andamento ritmico, sospingendoci verso la crescita sonora che sfocia in un galoppo più robusto, il quale ancora una volta mette in gioco elementi legati al passato recente del gruppo; ci vengono regalate quindi alcune accelerazioni, ma presto si torna a strutture più ariose e controllate. Al secondo minuto e ventitré riprendono le batterie serpeggianti, così come le chitarre classiche e i toni sospirati di Hetfield; si ripropone quindi il crescendo rock, il quale sfocia nuovamente in una galoppata dai riff marziali e dal drumming quadrato, per quanto leggero e non certo pestato come in passato. Si collima quindi nelle melodie ariose ed hard rock, le quali però vengono seguite da una serie di fraseggi veloci uniti al cantato vivace del front man; al terzo minuto e cinquanta un assolo dilatato ruba al scena, mentre la batteria avanza delicata. Presto si torna ai toni lisergici e controllati, i quali evolvono senza molte sorprese nel ritornello più imperativo e marziali, il quale si ripete ossessivo nei suoi giri unendosi ad alcune evoluzioni tecniche di chitarra dal sapore classico; ecco quindi un loop protratto, il quale nel finale vede un drumming più elaborato, prima di perdersi in una dissolvenza in digressione. Un esempio del perché in realtà le riprese del passato non funzionano molto in questo disco: il tutto è riproposto senza l'energia del passato, dandoci una versione appassita, e per nulla sentita, da parte della band, più interessata ora dalla nuova direzione che ha deciso d'intraprendere. La differenza tra manierismi e parti focalizzate è lampante, e qui purtroppo troviamo spesso i primi; non certo uno dei punti alti del lavoro, o della carriera die nostri in toto. Il testo tratta della responsabilità della colpa, e dell'essere giudicato per essa, nonostante si sia consapevoli del torto fatto; si parte con una confessione ecclesiastica, dove ci si dichiara colpevoli anche per la vita che si ha dentro. Ci si chiede se ora che si ha il marchio della vergogna bisogna abbassare lo sguardo, o guardare dritto accettando la colpa; si è un peccato, un segreto, una colpa, un torto che si ha dentro. Ora gli altri puntano il dito contro di noi, perché siamo come un'ombra che li segue; "I do your time, I take your fall, I'm branded guilty, For us all - Farò la galera al posto tuo, Cadrò al posto tuo, Sono colpevole, Per tutti noi" continua il testo, ripetendo poi i versi precedenti come in una litania di colpa protratta in eterno. Ennesima considerazione esistenziale, questa volta sul rimorso e la colpa, e l'accettazione delle conseguenze dei propri gesti; prosegue quindi lo schema dei temi esistenziali e personali che dominano il lavoro dei californiani ex paladini del thrash, impegnati ora a dare un'immagine più "matura" di se stessi. "Ronnie" parte con un riffing dal gusto blues, il quale avanza squillante prima di unirsi a tamburi ritmici e a colpi secchi di batteria; ecco quindi una serie di arpeggi ripetuti ad oltranza, i quali si aprono al quarantatreesimo secondo a punte circolari dalla melodia dilatata. Hetfield prende dunque posto con le sue vocals cadenzate, seguite dagli incedere ritmici e dai giri di chitarra, creando una andamento alternato da movimenti circolari; notiamo subito una piena padronanza della scena d parte degli elementi rhythm and blues ed hard rock, segnando un pezzo lontano da qualsiasi pulsione legata al passato della band, anche recente. Il crescendo vede poi toni sempre più radiofonici, dove il cantante si da a parti ritmate dove le chitarre sincopate e il drumming distribuito ne segnano il passo; si torna quindi ai suoni già incontrati, i quali si lanciano ancora nelle alternanze familiari, cesellate da punte dilatate. Ecco che alcuni fraseggi più elaborati, ma di breve durata, s'intersecano tra il cantato di Hetfield, il quale ancora una volta ci offre cori dal sapore statunitense; l'atmosfera è quella della periferia, con i suoi ritmi blues protratti in un incedere dalle rime sottintese dalla musica rock. Al terzo minuto e otto una sorta di marcia prende piede con dilatazioni di chitarra ed arpeggi squillanti, mentre Hetfield passa a toni da crooner non certo inediti nel disco, in una sorta di movimento pseudo marziale; ma ecco che si torna al familiare incalzare delle chitarre e dei piatti di batteria, mentre le vocals delineano con passione il testo fino alla coda del quarto minuto e venti. Qui i loop di chitarra si uniscono a fraseggi delicati ed effetti desertici, crescendo poi con i suoni sottintesi di batteria in un finale dai connotati altisonanti; la conclusione è però affidata ad una digressione di chitarra breve, la quale s'interrompe presto lasciando posto al pezzo successivo. Come detto un episodio legato saldamente al nuovo animo della band, non certo uno dei più sorprendenti, sempre dalla struttura minimale dove la voce di Hetfield sorregge gran parte dei ritornelli, seguita dalla batteria competente, e dalle chitarre controllate; un chiaro esempio di quei brani che prestano il fianco ai detrattori dell'epoca e non solo, con una band che non sbaglia nello sperimentare, ma che si dimostra spesso fuori dal proprio elemento e non all'altezza dei paragoni del genere affrontato. Il testo tratta di un tragico fatto di cronaca del 1995, ovvero una sparatoria avvenuta in una scuola a Washington ad opera di Ron Brown, uno dei diversi episodi legati alla circolazione delle armi da fuoco in America, i quali continuano ancora oggi; la storia parte in una tranquilla città, con un ragazzo che è spesso corrucciato, il quale non parla e non gioca mai, avendo intrapreso un percorso negativo visto qui come perduto. Le strade sono rosse, senza però coriandoli e parate, perché qui nulla succede e tutto è noioso; ma in modo sinistro si annuncia che questo cambierà. Ora tutti pregano che le macchie di sangue vengano lavate via, mentre il ragazzo ripete di aver perso la sua strada; egli mai rideva, mai sorrideva, parlava da solo per miglia e miglia. Il narratore invita a mantenere il sorriso, perché in questo posto noioso i ragazzini cambiano presto; il ragazzo si considera come un portatore di sventura, e non vuole domande sul perché è così arrabbiato. "Now we all know why, The children called him Ronnie Frown, When he pulled that gun from his pocket, They all fall down, down, down - Ora sappiamo tutti perché, I bambini lo chiamavano Ronnie Corrucciato, Quando estraeva la pistola dalla tasca, Cadevano tutti giù. giù giù" continua il testo, mentre tutto viene spazzato via, ma ma il sangue macchia anche il Sole quel giorno. Un'interpretazione che non analizza più di tanto i rapporti tra il ragazzo e gli altri per capirne le motivazioni, ma che invece cerca di dare un quadro della città e dell'attitudine negativa del futuro perpetratore del gesto, soffermandosi solo con accenni su di esso; un tema tristemente ormai "tradizionale" e familiare per gli statunitensi e non solo.
The Outlaw Torn
"The Outlaw Torn" è il finale del disco, dai quasi dieci minuti di durata; un robusto riffing in levare avanza insieme alla batteria possente, riportandoci in parte al passato dei nostri. Giri graffianti si ripetono ad oltranza prima di sfociare al trentesimo secondo in un groove ben strutturato, dove i piatti di batteria sottintendono il tutto serpeggiando; ecco quindi una sezione dilatata con arpeggi grevi di basso e ritmica controllata, dove Hetfield ci sorprende con vocals effettate e sussurrate, in un'atmosfera decisamente figlia della sua epoca, che ci rimanda al rock alternativo degli anni novanta. Alcuni giri più decisi delineano il tutto, ma fino al secondo minuto ci si mantiene controllati; qui parte un crescendo che collima in una ripresa della melodia iniziale, dandoci un ritornello epico che si conferma come uno dei momenti migliori di tutto il disco, dove le chitarre si prodigano in note appassionanti e la batteria in alcuni rullanti più decisi. Al secondo minuto e quarantotto si torna sulle note lisergiche giocate sui passi felpati del basso, riproponendoci quelle alternanze precedenti dove il cantante crea con la sua voce effetti lisergici presto alternati ad alcuni riff dilatati; ancora una volta quindi si sfocia in un crescendo aggressivo di drumming e chitarre graffianti, il quale ci dona per l'ennesima volta il ritornello trascinante con tutta la sua melodia disperata ben ripresa dalla voce di Hetfield. Quest'ultima si dilunga quindi in code melodrammatiche con cori sottolineati d arullanti ed impennate di chitarra; si prosegue quindi fino al quinto minuto e sei, dove il basso riprende posizione ancora più greve ed effettato di prima. L'accordatura bassa si unisce ad alcuni fraseggi spettrali in una nebbia sonora quasi spettrale, strisciando in modo sinuoso tra i colpi di batteria cadenzati; troviamo dunque una lunga coda, forse più del necessario, dove però abbiamo un crescendo ben delineato. Esso sfocia in una serie di riff squillanti dal sapore progressivo, i quali generano un tripudio esaltante dai connotati virtuosi; inevitabile la ripresa del ritornello trascinante, il quale ci porta con se tra rullanti ed attacchi di chitarra mai eccessivi, ma presenti. Al settimo minuto e trenta ci si immerge di nuovo nel tono più sotterraneo ed alternativo, dove il basso graffiante trova di nuovo posto insieme ai fraseggi lontani, mentre prende poi piede un riffing rock dalle punte squillanti, il quale crea un'atmosfera tesa; essa si dipana a lungo con effetti tecnici, andando poi nel finale ad accelerare con una batteria più energica, in un'unione con lo strumento a corda che prosegue dritta fino alla dissolvenza conclusiva che mette fine al brano, e di conseguenza anche al lavoro qui recensito. Un pezzo tutto sommato riuscito, anche se la sua durata poteva decisamente essere tagliata, eliminando alcune sezioni un po' "di troppo", mantenendo la sua identità trascinante; comunque un episodio molto rock che riprende le tendenze dell'album precedente in chiave ancora più "sperimentale", o meglio legata al rock che in quegli anni imperversava nei circoli più "ribelli", grunge ed alternative in primis, senza però dimenticare tocchi più classici di stampo hard rock. Il testo sembra proseguire il tema di "Mama Said", ma in chiave più generale, trattando del lutto e della perdita di qualcuno, che non può essere sostituito; il protagonista attende da una vita per l'altra persona, cercandola ovunque, nel terreno, nelle onde, dentro e fuori. Vuole riprendersi quello che le ha lasciato, consapevole che brucerà sempre per essere colui che cerca, in modo da trovare, e ora attende da sempre; un fuorilegge che si sente rovinato e che aspetta da tutta la vita. Più cerca, più ha bisogno, più spera, e più sanguina; "You make me smash the clock and feel, I'd rather die behind the wheel, Time was never on my side, So on I wait my whole lifetime - Mi fai distruggere l'orologio e sentire che morirei piuttosto al volante, Il tempo non è mai stato dalla mia parte, Quindi attendo da tutta la vita" continua il testo, chiedendo poi di ascoltarlo, e di aprire la sua mente se verrà chiusa dal terrore, e di fare attenzione se il suo viso diventa sincero, e di stringerlo quando crolla per rimetterlo in sesto, e di ricordargli cosa l'ha reso un fuorilegge rovinato. Un testo dalle metafore quasi dai toni western, con l'immagine del fuorilegge, in realtà legate ad un concetto ben più presente e personale; è facile vedere in questo album un Hetfield che considera diversi aspetti della vita, sia sua sia altrui, implementandoli poi nell'atmosfera "Southern" e molto americana legata all'hard rock del lavoro.
Conclusioni
Un album controverso, ancora più di quello che lo precede (quel "Black Album" o "Metallica" che dir si voglia, il quale ha lanciato i nostri ben oltre il successo nel campo del thrash, aprendo le porte alla fama mondiale e commerciale anche verso ascoltatori totalmente estranei al genere), che segna una svolta stilistica e d'intenti che non pochi hanno vissuto come un totale e cocente tradimento, sensazione motivata anche da certe dichiarazioni rilasciate alla stampa da parte di componenti dei nostri, le quali segnavano una certa volontà di distacco dall'associazione con il metal estremo; è chiaramente difficile per chi ha vissuto quei momenti e quel periodo valutare con distacco la musica qui proposta semplicemente per quello che è, distaccandola da tutto quello che avveniva nel mentre. Bisogna chiarire subito un punto: "Load" non è certo un capolavoro incompreso, e anzi mostra diverse pecche legate ad una band che si cimenta in un territorio che non è in realtà quello per loro più naturale, ma allo stesso tempo non è un disastro cosmico come si è fatto intendere per anni. Semplicemente si tratta di un album hard rock dalle venature a tratti blues, a tratti country (anche se folk americano sarebbe il termine migliore) che se confrontato con le produzioni del genere risulta essere mediocre; alcuni episodi sono più interessanti, altri meno e con scelte discutibili in merito alla durata (si veda "The Outlaw Torn" con i suoi quasi dieci minuti pieni di passaggi fin troppo allungati), e in alcuni aspetti il songwriting è decisamente carente ed "estraneo", dandoci una band che tenta forzatamente di emulare una certa atmosfera e tipo di costruzione sonora. Alcuni pezzi sono molto, a tratti troppo simili (si ascoltino "Ain't My Bitch" e "Wasting My Hate" di seguito), la batteria di Ulrich suona spenta rispetto al passato, le chitarre di Hammett riescono a fornire alcuni riff degni di nota, ma si perdono anche in assoli e tratti che impallidiscono se confrontati con il passato, troppo impegnati a seguire soluzioni vicine al blues e alla tradizione rock statunitense; Hetfield non ha certo dimenticato come cantare, ma la sua voce risulta sottotono rispetto ai toni epici e alle capacità interpretative degli album del periodo metal della band. La produzione è pulita, forse anche troppo, con un mixaggio che copre un po' le chitarre e rende il drumming ovattato; in prospettiva di un disco hard rock forse la minore attenzione verso gli attacchi ritmici è comprensibile, ma torna qui il problema prima accennato: i Metallica suonano così "fuori parte", rinunciando a tutti quegli elementi che hanno fatto la loro grandezza, stabilendoli come pionieri del thrash e come ispirazione per un numero infinito di band. Sperimentare è un principio coraggioso e anche utile in campo musicale, che spesso aiuta a non fossilizzarsi ed a rinnovarsi; a volte però l'esperimento non ha risultati ottimi, scontrandosi con le vere attitudini di chi lo tenta, e questo succede soprattutto quando la svolta è forzata e/o non caldamente analizzata. Questo è probabilmente quello che è qui successo, trovatisi nel pieno del successo mondiale i nostri si sono guardati intorno nel panorama musicale di metà anni novanta e hanno intravisto in un genere che li aveva largamente influenzati, ovvero il rock americano più duro, una maggiore attrattiva rispetto al metal estremo per il pubblico; il processo era già iniziato nel citato lavoro precedente, dove però la maggior attenzione verso le ballad e i momenti più ragionati veniva unita ad alcune sferzate decisamente più robuste, ma ora gli abiti di scena vengono totalmente cambiati, in tutti i sensi. Se i capelli vengono tagliati e i vestiti in jeans e pelle sostituiti, anche la musica segue lo stesso corso, e da thrasher i nostri diventano rockstar proiettate verso la fama globale; da un punto di vista pratico le vendite (al primo posto in molte classifiche mondiali) e la critica dell' epoca danno ragione alla scelta, con buona pace dei fan della prima ora che arrivano al punto di tramutare in un odio viscerale quello che era prima amore verso i nostri. Passati ora quasi vent'anni, e riguardando indietro, vediamo un album figlio tanto della sua epoca, degli anni '90 dove erano il grunge e il rock (sia classico, sia alternativo) a dominare le classifiche, in attesa dell'esplosione del nu metal, quanto della situazione esistenziale di un gruppo che si è trovato ad essere qualcosa che di certo all'inizio non si aspettava di essere; condannarlo a priori per quello che rappresenta è erroneo, vedere le sue evidenti pecche e giudicarlo in misura al genere qui tentato è corretto: un lavoro che può legittimamente piacere, ma che non apre un percorso eguale a quello precedente per i Metallica a livello di risultati artistici. I nostri in ogni caso tirano dritto, pubblicando appena un anno dopo "ReLoad" contenente altri brani registrati in contemporanea a quelli qui proposti; parte quindi un lungo periodo dove il gruppo entrerà nell'immaginario collettivo come "la band metal che ce l'ha fatta", con tutti i successi e i rancori del caso, nonché gossip e gare di ego tra i membri del gruppo. Una storia che tutti conoscono, e che continua ancora oggi tra ritorni (più o meno) alle origini ed esperimenti, e che ognuno valuta secondo i suoi criteri; può essere un cliché, ma mai come in questo caso l'energia, "l'ingenuità" e la mancanza di aspettative degli albori fa la differenza in uno spartiacque qui ben rappresentato tra un principio che non può essere emulato, e un proseguimento forse inevitabile, che vede la ricerca di una nuova identità coerente con il proprio status raggiunto e nuovi obiettivi. Largo quindi alla seconda parte di quanto qui proposto, e al proseguimento della musica della band californiana, intenta a rimanere sulle scene, pur dilazionando nel tempo le uscite puramente musicali in favore di altri progetti; ormai il metro di paragone non sono più Slayer ed Anthrax, bensì U2 e Guns And Roses, che la cosa piaccia o meno.
2) 2X4
3) The House that Jack Built
4) Until It Sleeps
5) King Nothing
6) Hero of The Day
7) Bleeding Me
8) Cure
9) Poor Twisted Me
10) Wasting My Hate
11) Mama Said
12) Thorn Within
13) The Outlaw Torn