METALLICA
King Nothing
1997 - Elektra Records
MICHELE MET ALLUIGI
06/11/2015
Introduzione Recensione
Proseguendo il viaggio nella discografia dei Metallica, giungiamo ora all'ultimo singolo estratto da "Load", "King Nothing", uscito ormai nel 1997 a concludere definitivamente la stagione promozionale di uno dei lavori più controversi e discussi della band. Non è un caso, in effetti, che all'interno del vastissimo elenco di pubblicazioni dei Four Horsemen, a mano a mano che ci si avvicina al periodo "critico" della loro carriera, immediatamente corrispondente alla loro commercialità, aumenti anche il numero di singoli pubblicati in supporto ad un disco: se negli anni ottanta venivano pubblicati al massimo tre singoli per supportare lavori come "Kill'Em All", "Hit The Lights" e "Master Of Puppets", ecco che essi iniziano a diventare quattro e più in corrispondenza del "Black Album" e di "Load", casualità o manovra di marketing? Col senno di poi siamo immancabilmente portati a propendere per la seconda ipotesi, dato che i Metallica di quel periodo erano a tutti gli effetti diventati una macchina da business; solo dieci anni prima James Hetfield, Kirk Hammet, Lars Ulrich ed il mai troppo compianto Cliff Burton non si facevano nemmeno passare per la testa un simile scrupolo, i loro dischi parlavano da sé e semplicemente sbalordivano magistralmente i fans vendendosi da soli, ora che invece la coerenza sembra aver lasciato spazio alla finanza ecco che il gruppo deve letteralmente stendere un catalogo dei propri prodotti. Sul mercato con solo il disco le vendite sarebbero state minori, meglio allora rincarare la dose con qualche piccolo "gadget" sonoro scelto ad hoc che possa mantenere sempre desta l'attenzione di coloro che "Load" lo hanno accolto con entusiasmo ed allo stesso tempo cercare di farlo digerire piano piano, traccia dopo traccia, agli apparati uditivi ancora diffidenti; per chi ancora non riusciva a farsene una ragione della svolta intrapresa dai Metallica, l'ascolto in blocco di quattordici canzoni nuove (in tutti i sensi) sarebbe risultato troppo pesante e di difficile digestione, meglio allora cercare di farlo macerare lentamente attraverso quattro singoli, contenenti a loro volta tutte le salse possibili immaginabili per convincere che il prodotto è sempre lo stesso, solo aggiornato per essere al passo coi tempi. Parlando però di una band culto del Metal come i 'Tallica è altrettanto appropriato parlare del "dogmatismo" dei fans della vecchia guardia, sempre devoti alla gloria ormai passata degli anni ottanta che misero una definitiva croce sul gruppo leggenda da cui si sono sentiti traditi. Non sarebbe sbagliato nel caso di questa musica parlare di una vera e propria fede ed ecco che immediatamente appare lampante il senso di smarrimento nel sentire una proposta diversissima da quella dei primi quattro album della band; per chi in quei dischi ci credeva con tutto sé stesso fu abbastanza "shockante" tanto quanto sarebbe per un bambino scoprire per caso che Babbo Natale non esiste cogliendo i propri genitori sul fatto, intenti a porre i regali sotto l'albero. I quattro musicisti americani, tuttavia, non si diedero per vinti e proseguirono per la loro strada senza curarsi troppo di quanto i loro seguaci stessero perdendo interesse nei loro confronti, tanto che di lì a poco sarebbe uscito "Re-Load", album che iniziava ad essere maggiormente accattivante ma che, a partire dal titolo stesso, si presentava come un nuovo passo avanti della nuova era musicale dei Four Horsemen. In questo singolo la tracklist è tutta incentrata sul materiale recente: compaiono infatti due brani estrapolati direttamente dall'album di appartenenza, "King Nothing" ed "Ain't My Bitch", senza che vi sia una qualche sorta di ritorno alle origini; non un estratto live, non una registrazione inedita scartata dai vecchi lavori, non una versione demo o altro, solo ciò che i Metallica erano in grado di proporre sul finire degli anni novanta, una scelta che per i puristi non sarà apparsa come la migliori che si potesse prendere, ma va tenuto conto che ormai il pubblico dei Metallica è quello dei grandi numeri. A livello grafico si resta coerenti con le precedenti pubblicazioni, i colori sono esclusiva del disco, il prodotto vero e proprio, mentre è il bianco e nero ad essere il registro cromatico dei singoli, togliendo quindi ogni dubbio sul loro ruolo secondario. L'artwork, nuovamente minimalista, si pone lampante in bianco al centro di un fondo marcatamente nero, unici colori presenti infatti sono il grigio del logo della band, il rosso della stella ed un tenue arancione per il titolo scritto in semplice stampatello. Semplicità è dunque la parola chiave di queste copertine, poiché esse custodiscono solo dei piccoli assaggi di una tracklist di insieme molto più complessa, sotto tutti i punti di vista. Non si tratta più di avere qualche migliaio di cultori del metallo sparsi per il globo, ora bisogna arrivare alle orecchie di tutti, chiunque consumi musica deve poter acquistare il nuovo disco dei Metallica e non più solo il metal head; non si parla più di scena unita all'insegna del Thrash Metal della Bay Area, ora siamo di fronte al dover fare grandi soldi con grandi numeri ed ecco quindi che il proprio prodotto deve vendersi come il pane.
King Nothing
In apertura troviamo "King Nothing", brano che dà il titolo al singolo e che inoltre abbiamo già avuto modo di ascoltare registrata dal vivo nella pubblicazione precedente; chiaramente nella versione in studio possiamo apprezzare meglio i suoni di un pezzo che, già all'uscita di "Load" si rivelò essere uno dei brani più validi tra quelli scritti dai 'Tallica in quel periodo. Già dal primo ascolto emerge come le direttive stilistiche siano variate verso una maggiore ricerca dell'orecchiabile, e conseguentemente del vendibile, a discapito del veloce. La traccia viene introdotta da una nota acuta di chitarra, tenuta da Hammet attraverso un leggero bending affinché si crei un feedback, o più comunemente, il fischio, a cui lentamente subentra il fraseggio del basso di Newsted; le note del quattro corde sono leggere e delicate, pur suonando con il plettro il bassista della band riesce infatti a dosare la potenza della pennata facendo risultare questo passaggio molto fluido e delicato, grazie anche ad un'equalizzazione dello strumento che, unito all'effetto scelto, lo rendono pesante ma al tempo stesso limpido ed atmosferico. Sono queste le note che vengono ora riprese dalle chitarre distorte, che immediatamente conferiscono un'energia maggiore alla melodia che viene scandita dagli accenti della batteria di Ulrich. Alla partenza della strofa notiamo subito come siano le sei corde ed il basso il motore principale della canzone, la batteria esegue un tempo in quattro quarti lineare e molto cadenzato, sul quale il drummer danese non si affatica troppo ad inserire dei passaggi; la voce di Hetfield arriva energica e grintosa, un leggero eco dell'aggressività del passato, che finalmente ci riporta a ricordare il ruggito del biondo frontman che temevamo di aver perso. A livello compositivo è il groove ad essere l'ingrediente principale, il main riff infatti punta tutto sullo sviluppo altamente catchy che viene infarcito con degli stop and go efficaci e piazzati al punto giusto per conferire il giusto dinamismo, fra essi, quello con più resa è senz'altro quello sul ritornello, dove dopo un crescendo sui tom la musica si ferma netta per dare modo ad Hetfield di pronunciare solennemente la domanda "Where's your crown, King Nothing?" (trad. "Dov'è la tua corona, Re Niente?"). A creare un senso di attesa troviamo un crescendo posto nella seconda metà della traccia, un momento di cupa introspezione creato attraverso una serie di quartine sul charleston atte a scandire un arpeggio in pulito prima della ripartenza che ci condurrà successivamente alla calata di sipario della canzone. Il songwriting quindi risulta decisamente più scarno rispetto alla varietà di brani come "Fade To Black", "Orion" e "Blackned", per citarne alcuni, indizio che forse per il fan moderno quei brani risultavano troppo elaborati e difficili da digerire e si è quindi optato per una struttura più immediata e di facile presa. Protagonista di questo testo è un monarca che passa in breve tempo dalla gloria assoluta alla perdita totale del potere; a differenza delle altre liriche "psicologiche" scritte da Hetfield, l'autore questa volta non opta per la narrazione in prima persona, ponendosi quindi come riflesso del personaggio di cui parla, ma sceglie il ruolo di interlocutore che incalza il despota fallito attraverso una serie maieutica di domande con la quale evidenzierà la ragione del suo fallimento. Egli ha voluto tutto, ha osato tutto ed ora che finalmente non esiste altro che egli possa possedere è finalmente soddisfatto? Ricerca con bramosia l'oro e la fama ed arraffa tutto per fare del suo stesso nome un qualcosa che rimarrà nella storia, ma è davvero questo il metodo che lo faccia ricordare dai posteri? Tutto ciò che ha ottenuto e tutto ciò che ha inseguito però non gli saranno di conforto quando il suo potere cadrà come un castello di carte. Non passa molto tempo che come tutti i sovrani assoluti infatti vede la propria gloria infrangersi come un cristallo che cade a terra, la sua corona va letteralmente in pezzi mentre lui furioso si scaglia col dito accusatore verso un qualche suddito che però non c'è: egli infatti è solo nel suo immenso salone mentre abbaia alle ombre accusando dei demoni invisibili indicandoli come colpevoli della sua caduta; si è divertito ad interpretare per breve tempo il ruolo del tiranno ma, errore dopo errore, la sua "performance" si è dimostrata fallimentare fino a quando il suo regno non si è disfatto, lasciando di lui solo il negativo ricordo negli annali del tempo. Ora si trova solo, misero ed impotente, a vagare sperduto nelle steppe periferiche di quello che una volta era il suo terreno; non può far altro che sentire su di sé il freddo della neve e del suo animo ormai lasciato solitario a vagabondare in attesa di una morte che di eroico non ha niente, solo un lamento nel nulla si alzerà prima che i suoi sudditi possano finalmente dargli la sommaria esecuzione che si merita.
Ain't My Bitch
Più di impatto è senz'altro l'attacco di "Ain't My Bitch", una traccia che per quanto anch'essa efficace fra le quattordici di "Load", resta eclissata nelle tracklist dei concerti dalle grandi perle thrash dei Four Horsemen. L'inizio è affidato ad una serie di stacchi netti e marcati, dove le chitarre possono dare sfoggio di tutta la loro pesantezza accompagnati dagli accenti del rullante e dalle zappate di Newsted prima del lancio del pezzo; la sessione appare immediatamente hard rock, le cavalcate serratissime dei bei tempi andati sono ormai un lontano ricordo poiché i 'Tallica preferiscono ora muoversi a velocità ridotta puntando tutto sulla qualità dei riff di chitarra coinvolgenti e ricchi di groove: sembra quasi che il compito maggiore di composizione sia lasciato ad Hetfield ed Hammet, mentre Newsted, il più delle volte, ma soprattutto Ulrich si limitino a seguire quanto partorito dai due axemen. La grinta non manca certamente, ma per chi ha consumato i primi lavori della band nel proprio stereo è ormai evidente le sei corde, per quanto energiche e dinamiche, suonano ormai prive di quel mordente di un tempo; il tocco graffiante delle plettrate dei vecchi lavori lascia il posto ora ad arrangiamenti melodici più raffinati ed orecchiabili, dalla strofa tirata si passa infatti ad un cambio nel bridge dove il tempo si dimezza sostenendo dei power chord tenuti ed aperti prima del ritornello, momento più d'ampio respiro di tutta la composizione dove è la melodia ad avere il ruolo di protagonista, lasciando spazio a tutto l'estro vocale di Hetfield a cui fanno seguito dei cori armonizzati. Siamo di fronte ad una hit da radio commerciale, un buon pezzo hard rock che si ascolta gradevolmente al pub o in macchina senza sforare in qualcosa di troppo duro, salvo qualche piccola incursione nel passato attraverso il raddoppio di pennate successivo al ritornello e qualche accento in palm muting sparso qua e la, quasi come se fosse un'esecuzione fatta di nascosto mentre il producer non stava ascoltando. Come per molte canzoni di questo periodo dei Metallica, la traccia di per sé è buona, coinvolgente ed accattivante, finché non ci accorgiamo del nome presente sulla copertina del singolo, alla visione del quale veniamo subito colti dall'interrogativo: "Ma sono davvero quei Metallica che hanno composto "Kill'Em All?" Viene da rispondere positivamente purtroppo, dato che da un gruppo di questo calibro ci si aspetta sempre che ogni nuovo disco sia un passo avanti e non indietro o, come in questo caso, un passo letteralmente fuori strada. Anche per quanto riguarda il testo ci accorgiamo subito che qualcosa è cambiato: se una volta James Hetfield riusciva a farsi interprete dei disagi psicologici insiti in ognuno di noi attraverso immagini forti e poetiche, adesso egli ha rivoluzionato il suo stesso modo di scrivere, le frasi infatti non sono più distese e quasi romanzesche ma sono ora nette, scandite e ricche di ripetizioni; anche il gergo stesso è radicalmente diverso, dal registro linguistico onirico, raffinato e calibrato si passa ora al classico slang da strada, pregno di quelle contratture morfo sintattiche che fanno parlare il biondo frontman come un rapper nato nel ghetto e cresciuto avente come unico insegnante di vita il proprio ferro nella tasca: basti notare le frasi "Outta my way" in veste di "Out of my way" (trad. "Alla larga da me") e "The Hell ya been" in luogo di "The Hell you've been" (trad. "L'Inferno in cui sei stato"). Siamo tutti concordi sul fatto che il linguaggio, tralasciando ogni riflessione metafisica in merito, è oggetto inventato su convenzione dall'uomo, e quindi mutevole ed arbitrario, ma dall'autore di bellissime metafore bibliche come nel caso del testo di "Creeping Death" oppure di figure crude e realistiche nel descrivere la guerra come gli orrori di "One", ci si aspettava qualcosa di più artistico; sentire James Hetfield esprimersi così sboccatamente sarebbe come sentire bestemmiare Francesco Petrarca e per quanto il Metal sia un genere aggressivo e diretto sappiamo tutti che il biondo californiano sarebbe stato in grado di dire le stesse cose con testi di più alta fattura. Sul piano lirico, viene attuata una regressione tematica, i Metallica tornano infatti ad avere la spocchia dei rocker che vivono la loro vita incuranti delle conseguenze delle loro azioni: James qui veste i panni del classico bello e dannato, insofferente a qualsiasi ostacolo, umano e non, sulla sua strada, ha le sue cose a cui pensare ed eccolo quindi intento ad intraprendere il proprio cammino senza nemmeno avere il tempo di pagare la sua puttana dopo l'ennesima sveltina, anzi, probabilmente colto in flagrante egli addirittura nega che la prostituta sia la sua. Le strofe infatti sono colme di metafore inneggianti alla velocità, il modus vivendi del protagonista viene raccontato in maniera che non sbaglieremmo a definire futurista: egli infatti è sempre in movimento, sempre in fuga da qualcosa o qualcuno e sempre attivo nel cercare la prossima tappa della sua bravata. Non c'è tempo per le esitazioni, come diceva Kurgan nella leggendaria pellicola di "Higlander" è meglio bruciare subito che spegnersi lentamente, ecco allora che ristorati dopo l'esigenza sessuale si ha solo modo di "baciare il culo" della zoccola prima del fugace addio per poi concludere cinicamente che per quanto lei lo possa aspettare non sarà mai la sua puttana.
Conclusioni
Tra tutti i singoli rilasciati per il supporto promozionale di "Load","King Nothing" è senz'altro quello che offre una specie di mini best of di quanto si possa trovare nell'album. Conclusa la fase di sondaggio del pubblico attraverso il collegamento tra vecchie chicche e novità, la Elektra ora punta tutto sulla pubblicazione del 1996, inserendo qui due delle canzoni migliori del lavoro, ognuna aventi le sue proprie caratteristiche peculiari: "King Nothing" è un brano più cupo e marziale, una specie di prosa romantico shakesperiana riproposta con il tiro dei Four Horsemen intenti ad offrire il meglio del loro groove, mentre "Ain't My Bitch" è un pezzo sicuramente più improntato al mainstrem, composto attraverso una serie di riff e passaggi efficaci e ben studiati per restare in testa fin dal primo ascolto anche nella testa del fan neofita che ha appena scoperto chi siano i Metallica. Siamo ben lontani dal calibro dei dischi leggendari della band, ma è fuori dubbio che se la tracklist di "Load" si fosse ridotta solamente a queste due canzoni, sicuramente le opinioni su di esso sarebbero state di gran lunga diverse. L'essere invece tornati alla carica con ben quattordici tracce completamente diverse da quello che i fans potessero aspettarsi ha diviso di netto i seguaci dei 'Tallica, chi li ha immediatamente dati per venduti al soldi delle major e chi invece non ha disdegnato il nuovo materiale, pur tenendo sempre quanto fatto in precedenza. Il merito di album come "Load" e "Re-load" è senz'altro quello di aver consacrato i Metallica quali macchine da music business a tutti gli effetti. Il primo passo della metamorfosi creativa è stato compiuto, non resta che vedere come sarà accolto il suo successore, che sarebbe uscito pochi mesi dopo questo singolo.
2) Ain't My Bitch