MEGADETH

So Far, So Good... So What!

1988 - Capitol Records

A CURA DI
MICHELE ALLUIGI
31/03/2016
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione Recensione

Quando si parla di una band storica del calibro dei Megadeth, prima di iniziarne l'analisi di un qualsiasi capitolo discografico, bisogna tenere ben presente una cosa: la stretta correlazione che intercorre fra il benessere psicofisico di Dave Mustaine e la resa effettiva di un album. Il rosso chitarrista statunitense è diventato celebre per la sua scarsa capacità di tollerare i propri compagni di gruppo oltre una certa soglia di tempo, e tale aspetto, pur essendo diventato un simbolo indiscutibile dell'antipatia di Megadave, ha finito col giocare un ruolo di enorme vantaggio a scapito della band, che col susseguirsi dei numerosissimi musicisti tra le proprie fila ha conseguentemente visto evolvere la propria musica, grazie ad un continuo, e forzato, rinfrescarsi della vena creativa generale. I trascorsi di Mustaine all'interno del panorama metal mondiale li conosciamo bene, ma è giusto ripercorrere a titolo di correttezza editoriale il percorso artistico di questo dispotico ma al tempo stesso fondamentale axeman: nato nel 1961 da una famiglia agiata, tuttavia la sua infanzia fu alquanto difficile e la sua unica luce nei periodi bui risultò essere proprio la musica; con i primi risparmi si comprò una chitarra ed iniziò a suonare dietro le canzoni contenute nei dischi di Cat Stevens, poi, con l'adolescenza, iniziò ad arrivare l'amore per artisti rock del calibro di Alice Cooper, Black Sabbath, Motorhead, Led Zeppelin e Sex Pistols. Dopo la fulminea militanza in bands dalla durata a dir poco limitata, la sua grande occasione arrivò nel 1983, quando Lars Ulrich dei Metallica mise un annuncio sul quotidiano californiano The Recycler per cercare un chitarrista solista per la sua band. Si racconta che la bravura di Mustaine impressionò immediatamente il drummer danese ed il suo compare James Hetfield, al punto che l'ingaggio fu pressoché automatico senza alcun bisogno di ulteriori demo o prove successive. Con i 'Tallica, il chitarrista originario di La Mesa compose alcune delle canzoni destinate ad entrare nella storia del Thrash Metal, oltre che veri e propri cavalli di battaglia dei Four Horsemen; innanzitutto la traccia omonima da cui Hetfield e soci hanno guadagnato il loro soprannome, poi vi basti pensare che anche "Jump In The Fire", "Phantom Lord" e "Metal Militia" vantano il contributo creativo di Megadave. Il 1983 però fu anche l'anno della rottura, Mustaine fu infatti licenziato dai Metallica a causa del suo eccessivo abuso di alcool e droga, senza contare che un carattere autoritario come il suo cozzava non poco con quello altrettanto dispotico di Ulrich ed Hetfield, ma, come si suol dire, "si chiude una porta e si apre un portone". Senza questa rottura infatti non avremmo mai potuto conoscere la musica dei Megadeth, la creatura mustainiana per eccellenza, nata principalmente dall'ira e dall'odio provati dal creatore principalmente verso il mondo in generale ed in particolar modo verso gli ex colleghi: « Dopo essere stato licenziato dai Metallica, tutto ciò che ricordo è che volevo sangue. Il loro. Volevo essere più veloce e più pesante di loro» . Questa dichiarazione rilasciata dal rosso axeman suonava come un programmatico ordine di guerra verso gli ex compagni di gruppo, il dictat supremo dei Megadeth doveva essere quindi il totale annichilimento dei Metallica sotto qualsiasi aspetto: tecnico, artistico e soprattutto metallico, in altre parole, il gruppo che di lì a poco avrebbe esordito con un disco dall'altrettanto programmatico titolo "Killing Is My Business... And Business Is Good" mirava ad asfaltare letteralmente gli autori dell'altresì aggressivo ma meno cinico "Kill'Em All". Dopo l'altrettanto eccellente ed anticonformista "Peace Sells... But Who's Buying?" i Megadeth, che dopo soli cinque anni di vita avevano già subito diversi cambi di formazione, diedero alle stampe uno dei loro capolavori supremi, So Far, So Good... So What! ("Fin qui tutto bene... E allora!"), pubblicato nel 1987 per la "Capitol Records". Poland e Samuelson furono congedati subito dopo il tour intrapreso a supporto di "Peace Sells..", in teoria per motivi "personali", in pratica per faccende dovute sia al carattere irascibile di Dave sia ad alcuni torti da egli subiti, come l'abitudine di Poland di impegnare la strumentazione del gruppo per potersi pagare la giornaliera dose di eroina. Ennesimo licenziamento che fece giungere alla corte di Megadave Chuck Behler (batterista e tecnico della batteria proprio di Samuelson) e Jeff Young alla chitarra. Quest'ulrimo arrivò subito dopo l'ingaggio del chitarrista dei MaliceJay Reynolds, il quale non fu tuttavia ritenuto all'altezza da Mustaine. Si ripiegò dunque su Young, maestro di chitarra proprio di Jay e considerato maggiormente adatto al sound dei Megadeth. Con queste due nuove reclute il generale può così continuare la propria guerra proseguendo la sua crescita artistica e dando nuovamente sfogo a tutta la sua rabbia attraverso un songwriting sempre graffiante, ma al tempo stesso più maturo e calibrato. Le otto tracce di questo terzo capitolo infatti sono sempre velocissime e travolgenti, ma in queste composizioni si inizia ad intravedere anche la parte più introspettiva della psiche di Mustaine, del quale emerge, sotto l'immagine del thrasher oltranzista ed insofferente ad ogni schema, anche la vena più malinconica e sentimentale, capace di creare ballad e parti acustiche che con le loro sole note riescono a farci sentire nelle narici l'odore del vomito di chi si è appena sfondato lo stomaco di alcolici e le vene di eroina per esorcizzare da sé i demoni più oscuri. La stessa mascotte della band, l'arcinoto "Rattlehead", appare in copertina con una nuova veste: dopo aver indossato gli abiti dell'uomo d'affari intento a vendere la pace volatile alle nazioni, eccolo ora in uniforme militare, armato di tutto punto per essere in grado di affrontare l'ennesima battaglia che la musica dei Megadeth deve combattere nel sempre più ostile e conservatore udito americano; il bollino di avviso riguardante i contenuti diretti delle canzoni è solo un pro forma che la band pone in copertina, esso infatti c'è perché ci deve essere, ma ai quattro thrasher non importa assolutamente nulla che gli avventori del disco siano avvisati, e quindi in qualche modo salvaguardati, dalla cattiveria e dall'irriverenza di quelle canzoni; esse rappresentano otto nuove tappe di una discesa agli Inferi, compiuta però non negli abissi infernali che noi conosciamo, bensì nell' Ade della mente di un ragazzo catalogato immediatamente come "difficile", le cui viscere ricolme di astio e bile sono ulteriormente funestate, a distanza di cinque anni, dall'umiliazione di essere stato esiliato da quelli che erano considerati una volta amici e che invece si sono dimostrati dei traditori; il tempo non ha assolutamente guarito le ferite, anzi, vi ha ulteriormente rigirato la proverbiale lama e mr. Mustaine non può far altro che scagliarci addosso un nuovo carico della sua ira musicale. La sua voglia di emergere lo portò addirittura a scagliarsi pesantemente contro Paul Lani, il produttore di questo nuovo parto di casa MegadethDave, sin da subito per nulla contento di collaborare con il personaggio in questione, ebbe pesantemente a che ridire con il suo operato per tutta la durata della realizzazione di "So Far.."Mustaine arrivò a definirlo un vero e proprio incapace, giudicando fra l'altro "pedestre" il lavoro di mixing svolto da Lani, il quale veniva visto dal frontman come un personaggio eccentrico e nulla di più. La proverbiale goccia che fece traboccare il vaso fu la volontà di Paul di spostarsi nei "Bearsville Studios" di New York, location situata accanto a Woodstock. Il produttore giustificò la cosa come una sorta di mossa "spirituale", per migliorare la sua ispirazione, trovandosi di fatto in una location leggendaria per la musica Rock in genere. Tuttavia, fu solamente un pretesto per iniziare una vacanza personale, in quanto Dave decise di abbandonarlo quando un mattino, anziché trovarlo a lavoro, lo sorprese in vestaglia mentre dava da mangiare ad alcuni cervi nel giardino dell'abitazione in cui alloggiavano. Stanco di quei modi eccentrici, Megadave tornò a Los Angeles e licenziò Lani, affidandosi per il resto del tempo a Michael Wagener.

Into The Lungs Of Hell

Il disco si apre con "Into The Lungs Of Hell" (trad. "Nei Polmoni Dell'Inferno") uno strumentale preludio con cui i Megadeth ci cacciano subito nei meandri più profondi degli abissi. Per Megadave le parole sono solo una delle sue componenti artistiche per esprimere la sua condizione esistenziale, ed esse vengono qui lasciate in stand by per fare in modo che siano solo le sue mani ad esprimersi; l'apertura è una breve suite squisitamente acustica, la cui pulizia ed effetto delay esaltano la precisione del tocco funky di questi primi accordi, tutto scorre limpido, mentre in sottofondo sentiamo alzarsi in fade in la sei corde distorta. Il momento è breve ma altrettanto solenne, ed immediatamente subentrano anche la batteria ed il basso per creare una serie di stacchi marziali ed imponenti, atti a regalarci un altro breve momento di sontuosa epicità prima che inizi definitivamente la nostra discesa nell'Ade: non facciamo nemmeno in tempo ad apprezzare questo ingresso trionfale che subito la batteria di Chuck Behler parte serratissima con un quattro quarti scandito dove è il doppio pedale a farla da padrone, le gambe dell'ex batterista dei Madaxemen e dei Massacre martellano imperterrite la cassa del set per tutta la durata della traccia e sono le chitarre ad avere il principale ruolo conduttore. Trattandosi di una canzone priva di testo, possiamo goderci pienamente la magia istrionico-compositiva di Dave Mustaine, gustandoci una creazione che ai power chord pieni ed incisivi accosta delle parti soliste assolutamente da oscar: pur trovandoci di fronte ad un frontman ancora giovane, dalle sue partiture emergeva già il gusto tecnico e soprattutto neoclassico destinato a farne uno dei maestri indiscussi del Thrash Metal. I costrutti degli assoli sono infatti rigorosamente scolastici, costruiti su una serie di diteggiature che quasi paiono dei semplici esercizi di tecnica, ma che dalla semplice sonata di uguale impostazione fatta su tonalità ascendenti passano gradualmente alle parti personali, compiendo così una parabola tecnica che dalla semplice esecuzione ci porta ad analizzare anche la creatività dell'allora ventisettenne rosso chitarrista. Al suo fianco troviamo poi la performance del collega di quegli anni Jeff Young, ottimo musicista che dopo aver militato nei Megadeth ha intrapreso una altrettanto convincente carriera solista; il suo assolo, rispetto a quello di Mustaine, appare più istintivo e meno studiato a tavolino, ma proprio in questo contrasto, dissonante solo superficialmente, emergono la completezza ed il potenziale di una band che appena arrivata al terzo capitolo discografico dava già conferma che avrebbe fatto altrettanti dischi da cardiopalma negli anni a venire. Ultimo ma non meno importante, troviamo poi il lavoro del basso di David Ellefson, storico compagno di avventure del leader della band recentemente tornato in formazione; il lavoro delle sue quattro corde si coordina perfettamente con la linearità della parte di batteria e le sue plettrate vanno così a creare un unico e solido apparato ritmico perfettamente congegnato per esprimere la "follia" speed metal delle sei corde. L'intero brano è strutturato come un crescendo alcalino basato tutto sulle tonalità alte, ideale per ricreare concettualmente nella nostra testa l'idea del suolo che senza alcun preavviso si apre sotto i nostri piedi per farci precipitare all'Inferno: l'incipit epico e solenne infatti sembra quasi immergerci in un'atmosfera eroica di stampo virgiliano, ma mentre Enea fu l'epico eroe che discese nell'Ade per incontrare il padre Anchise, noi siamo delle vittime in balia del destino superiori e Megadave ci lascia precipitare nel suo baratro, quello di un giovane musicista esiliato dal proprio sogno (i Metallica del 1983) solo ed esclusivamente per i suoi problemi personali che sfociarono nell'abuso di droga e alcool, rendendolo "troppo eccessivo" anche per l'Hetfield ed Ulrich dell'epoca, i quali, nonostante la scorza da duri, sembrarono tuttavia troppo acqua e sapone a confronto del musicista di La Mesa. Mustaine dunque ci conduce come un Virgilio nel suo Oltretomba, in quel meandro di tenebre esistenziali che solo attraverso la musica potevano essere esorcizzate e con questi tre minuti e ventisette secondi si riassume dunque un decennio di disagio psichico e caratteriale vissuto dall'ex solista dei Four Horsemen. Sembrerebbe finita qui, ma la sopracitata voglia di sangue del mastermind dei Megadeth è giunta solo alla fine del primo capitolo di questa terza sfuriata sonora.

Set The World Afire

Immediatamente in coda troviamo "Set The World Afire" (trad. "Incendia Il Mondo"), brano che mantiene sempre altissima la voglia di violenza della band. Ad aprire le danze sentiamo in lontananza il fischio di un ordigno esplosivo che sta cadendo su un inerme suolo poi, all'improvviso, la deflagrazione, e dopo lo scoppio sembra quasi che il gruppo sia l'unica cosa rimasta integra dopo una distruzione totale del pianeta. La canzone è dichiaratamente old school, ideale per ogni buongustaio del genere, le chitarre entrano immediatamente taglienti ed incisive e lo shredding di Mustaine e Young parte immediatamente a sfregiarci i timpani come una motosega arrugginita; ancora una volta i Megadeth preparano il proprio terreno attraverso una serie di stacchi scanditi con una serie di accenti sui piatti per poi partire con un mid tempo incalzante, dove il macigno ritmico ha così modo di rotolarci addosso e travolgerci; la struttura procede, compare un nuovo crescendo ma dopo un nuovo break di sola chitarra parte ufficialmente la strofa del pezzo, con un mid tempo completamente diverso dal precedente che non solo ci spiazza ma ci mostra bene anche la vena "prog" del Thrash dei Megadeth. Il fine della composizione è comunque quello di spaccare tutto senza pietà ed ecco che la strofa piena di groove heavy metal immediatamente si raddoppia di tempo, andando rapidamente a vertere su un quattro quarti con il rullante in ottavi che non può non istigare all'headbanging; vi siete scombinati le vertebre? Benissimo, allora siete pronti per la strofa successiva, che riprende il mid tempo della prima per poi evolversi ancora, questa volta con un nuovo sviluppo: l'assolo infatti è sorretto dal riff della ritmica, su cui però Behler ha modo di concedersi dei passaggi molto più elaborati di quelli fatti finora, variando così un'idea che ormai abbiamo metabolizzato senza però intaccare assolutamente la performance solista, in questa sede meno veloce, ma più orientata verso l'utilizzo dello sweep picking e dei pull off; mentre la cascata di note si rovescia sul nostro udito, al di sotto di essa il tempo accelera improvvisamente, mitragliandoci con un raddoppio di cassa preciso in trentaduesimi. Siamo ormai nella parte finale della canzone, ma i Megadeth vogliono ancora martellare, ed ecco proseguire la traccia con un nuovo assolo, questa volta eseguito da Young, che va a concludersi nel finale costituito da un classico live ending: un accordo lasciato andare su cui interverrà la batteria a chiudere definitivamente il tutto. A caratterizzare questa composizione è sicuramente la varietà compositiva, da un mid tempo di stampo quasi maideniano passiamo ad una stoccata Thrash che ci dilania il ventre nel più genuino stile della Bay Area anni ottanta, il tutto condito con delle squisite esitation ritmiche atte a far sì che la nostra attenzione sia sempre ben desta, in attesa della nuova sterzata ritmica prossima a venire. È qui che si vede la differenza tra le band old school che dall'88 ad oggi sono rimaste tali e dai Megadeth, grondanti anch'essi attitudine ma al tempo stesso volenterosi di dare un taglio altamente tecnico e variegato alle loro composizioni; questo brano è dunque un ponte tra la tradizione e l'innovazione che la band avrebbe portato avanti con il successivo "Rust In Peace" pubblicato due anni dopo. Il poeta duecentesco Cecco Angiolieri apriva un suo celebre sonetto col verso "S'i' fosse foco, arderei 'l mondo", diciamo che in questo testo Mustaine riprende il discorso elaborandolo in chiave thrash metal. Il rosso axeman infatti ci descrive la totale distruzione del mondo, con fare quasi futurista infatti l'arsenale dei Megadeth sopraggiunge tra le nostre case per dare il via al supremo rogo del mondo; in lontananza, nella quotidiana calma della routine della nostra esistenza, si intravedono infatti delle figure non ben delineate, delle sagome che  rapidissimamente irrompono sulla scena ed iniziano a distruggere tutto ciò che si trova sul loro passaggio; delle nubi rosso fuoco infatti avvolgono il cielo e mentre i mass media ci dicevano che la minaccia non sarebbe stata incombente sapevamo tutti che in realtà si trattava di una menzogna. Questi soldati meccanici, i Megadeth appunto, sono qui ed ora, l'hic et nunc della suprema apocalisse che tra le tante ipotesi fatte dai governi corrotti pongono la sola certezza che il mondo è e deve essere annientato. È il 1999, la vigilia dell'ennesima profezia che con l'avvento del 2000 avrebbe distrutto, secondo i ciarlatani del secolo scorso, il pianeta per l'ennesima volta. Gli umani sono definitivamente condannati all'estinzione, ovunque non vi è altro che desolazione, distruzione e morte ed i cadaveri adornano le strade con il loro essere squisitamente esanimi , non vi sono sopravvissuti, solo il mondo che viene dato definitivamente alle fiamme.

Anarchy In The U.S.A

Passiamo ora ad "Anarchy In The U.S.A" (trad. "Anarchia Negli Stati Uniti") celebre brano originariamente composto dai Sex Pistols qui rivisitato in chiave thrash metal e ricontestualizzato per gli States (dato che come ben sappiamo Johnny Rotten e soci salirono alla ribalta con "Anarchy In The U.K"). Pare che originariamente la scelta del brano da risuonare fosse ricaduta su "Problems"") sempre dei Pistols, ma che a causa della mancata cessione da parte di Jonny Rotten del testo, gli americani abbiano ripiegato su qualcosa di più noto, per poi riprendere la questione nel successivo "Hidden Treasures". I puristi del genere potranno storcere il naso di fronte alla scelta di coverizzare uno dei brani simboli del movimento punk, ma tale snobbismo è da riservare esclusivamente agli ascoltatori meno evoluti ed accorti essenzialmente per due motivi: il primo è che, fuori da ogni preclusione mentale, la musica non deve conoscere limiti, specie se consideriamo che il Punk ed il Metal, in particolar modo il Thrash, hanno molto in comune a livello di sonorità e filosofia. Secondariamente teniamo ben presente che nel 1988 il buon Mustaine poteva considerarsi un seguace del movimento "capitanato" dai Sex Pistols in tutto e per tutto a livello di attitudine e ribellione, le uniche due eccezioni che si potrebbero fare nel caso del chitarrista statunitense stanno nei capelli lunghi e soprattutto nella molto maggiore perizia tecnico esecutiva nel proprio strumento ma, ripeto, per il resto l'amore dei Megadeth per la band londinese è più che legittimato. Parlando espressamente della già citata maggiore bravura, possiamo infatti notare che la versione eseguita dagli autori di "Killing Is My Business" risulta nettamente migliore dell'originale dal punto di vista tecnico: non ci vuole un genio infatti per notare che lo stesso main riff del brano, qui suonato da Mustaine e Young, suona decisamente meglio di quanto fatto da Steve Jones sul leggendario album di debutto "Nevermind The Bollocks, Here's The Sex Pistols"; d'altra parte, ci troviamo ad undici anni di distanza dal debutto dei punk britannici, di musica ne è stata scritta parecchia e la tecnica della chitarra stessa si è notevolmente evoluta in questo tempo trascorso. A livello strutturale i Megadeth restano fedeli alla struttura primigenia della canzone, quei power chord così ruvidi e corrosivi restano tali intatti ed anche i punk più oltranzisti potranno ritenersi soddisfatti di questo omaggio resto alla band da musicisti indiscutibilmente più bravi; la differenza emerge lampante con l'ingresso della voce: il timbro squillante ed acido di Mustaine si presenta infatti notevolmente diverso dal cantato altrettanto sporco e rancido ma ben più grave di Johnny Rotten, ma nel complesso ci troviamo davanti ad una "Anarchy In The UK" rivista e riletta per ottenere la maggiore resa possibile. Compositivamente parlando, i thrasher americani non aggiungono quasi nulla, eccezion fatta per il cambio morfologio del testo, che trasforma la sigla "U.K" (che sta per "United Kingdom", cioè "Regno Unito") a "U.S.A" (ovvero "United States of America"), un assolo, risuonato dallo stesso Steve Jones, chitarrista dei Pistols e reclutato da Dave appositamente per l'occasione, pressochè modellato sull'originale, per poi evolversi in una composizione più "metal" ed infine un passaggio di doppia cassa in trentaduesimi con cui Chuck Beheler si discosta dalla primaria linearità del quattro quarti di Paul Cook. Grazie al tiro conferito a questo brano dalle mani dei Megadeth, il tutto assume immancabilmente un tiro maggiore, e conseguentemente una maggiore istigazione all'headbangng, mentre una canzone capostipite del genere più ribelle ed anticonformista di sempre si trasforma alchemicamente in un pezzo thrash old school con tanto di cori annessi a doppiare la voce di Megadave. Che una band thrash metal si ci menti nella rivisitazione di un brano punk non è certo una cosa così strana, vi basti ricordare nello stesso anno i colleghi Anthrax riprenderanno la classica "Antisocial" dei francesi Trust e che dieci anni dopo vi si cimenteranno anche i Metallica con la celebre "So What" degli Antinowhere League, anticipati a loro volta di due anni dagli Slayer con "I Hate You" dei Verbal Abuse. Ciò che distingue "Anarchy In The U.S.A" dalle altre cover è l'approccio squisitamente personale scelto dal gruppo americano, con il quale si ottiene la giusta dose di interpretazione accostata alla altrettanto doverosa fedeltà all'originale: non uno strafalcione dunque, ma nemmeno una sterile fotocopia di una canzone pietra miliare del rock, il tutto confezionato in un pacchetto tanto esplosivo quanto la detonazione nucleare che sprigionano i Megadeth. Il testo di questa canzone può essere definito in maniera molto pragmatica come un manifesto del movimento punk su vasta scala; protagonista è appunto un ribelle, un emarginato ed un estraniato da qualsiasi forma di moda o di sistema in senso lato, si definisce un anarchico, desideroso quindi dell'assoluta assenza di governo o potere a governare gli uomini, un anticristo, intenso non tanto come un satanista di scandinava memoria quanto piuttosto la reincarnazione di tutto ciò che la società perbenista detesta, un diverso sotto tutti i punti di vista, senza un lavoro, senza un'istruzione, in altre parole, senza un determinato inquadramento sociale. La condizione di questi ribelli, come ben sottolineato dal "paradosso" del punk, sta proprio nella rabbia e nel disprezzo provati verso il mondo, catalizzatore di un astio tanto deciso quanto vago ed indeterminato: il punk non odia qualcosa o qualcuno in particolare, odia e basta; odia perché la società che lo circonda non può spingerlo a fare altro e la terza frase della prima strofa riassume col fare di un dictat quasi supremo l'intera filosofia di questo movimento: "(I) don't know what I want, but I know how to get it" (trad. "Non so cosa voglio, ma so come ottenerlo"), in due frasi ecco che cos'è un punk, un concentrato di disprezzo allo stato puro. La sola certezza di questo anarchico è che l'unica luce nella sua esistenza tenebrosa è appunto il caos assoluto causato dall'anarchia stessa, le varie sigle dei movimenti e delle strutture governative nella sua nichilistica e volontaria ignoranza sono tutte uguali, l'una vale l'altra perché fanno tutte schifo, tanto vale quindi lasciare che la violenza chiami altra violenza e che gli umani si ammazzino l'uno con l'altro a mazzate fino a quando sul pianeta resterà un vuoto assoluto. Sarà finita una volta ottenuto ciò, direte voi, ma ecco la contraddizione di questo pensiero, anche quando l'assoluta mancanza di legge raggiungerà il suo apice vi sarà sempre comunque qualcosa da disprezzare, perché, in maniera molto leopardiana, per quanto l'essere umano possa auto annullare il proprio raziocinio, la sua componente dionisiaca lo spingerà sempre ad odiare qualcosa.

Mary Jane

A metà scaletta troviamo "Mary Jane"; il titolo costituito da un nome di donna è da sempre sinonimo, se non addirittura stereotipo, di ballad strappalacrime dedicata alla propria donzella, ed in parte è così, salvo per il fatto che questa scanzonata dedica si scaglia sulla diretta interessata a furia di sferzate thrash metal. Come apertura troviamo degli stacchi cadenzati, scanditi nettamente dalle rullate "militaresche" di Beheler, che sembrano introdurre una parata militare dei fedeli d'amore, gli accordi pieni di chitarra sostengono invece, assieme alle note scandite del basso, un fraseggio solista sul quale viene stesa la prima parte di testo consistente in una preghiera, una richiesta di perdono al padre eterno per i propri peccati, in particolar modo quella di essere un flebile bambino nel vento che invece di fluttuare con la leggerezza e la purezza di un infante infesta il mondo con la malvagità di una strega. Dopo una nuova serie di stacchi introduttivi, lo sviluppo si avvia su un tempo in quattro quarti cadenzato, lo stesso su cui verrà modellata la successiva "In My Darkest Hour", posta più avanti nella tracklist; la differenza si pone nel main riff, dove le sei corde eseguono una sequenza di note dinamica e ben articolata, ideale per porvi sopra la prima porzione delle liriche, la chitarra in pulito esegue un arpeggio effettato con una dose di massiccio riverbero prima di passare alla parte solista di questa prima sessione di canzone; con l'ingresso del cantato invece passiamo a dei power chord terzinati, grazie ai quali le asce si spartiscono la parte solista e la ritmica in un intreccio coinvolgente ed assai suggestivo. Si conclude qui la parentesi ballad, guarda caso in corrispondenza della frase "I'm going insane"  (trad. "Sto diventando pazzo"): la follia prende infatti il sopravvento sul Mustane romantico e si passa così ad un crescendo che dalla seconda porzione di traccia si avvierà sempre con maggior enfasi al finale al vetriolo; la struttura di questa canzone è infatti da suddividersi in tre porzioni, all'interno delle quali non solo cambia la modulazione ritmica ma cresce allo stesso tempo la dinamicità e, nel complesso, l'atmosfera incalzante che ci trascina nel vortice di follia del protagonista. Una risatina pacata, ma folle al tempo stesso, lancia una prosecuzione cavalcata che alza il tiro e vede crescere la pazzia omicida del rosso vocalist. Questa porzione centrale è quella di velocità media, ma anche quella che possiede una vena più prog: il tempo infatti, pur trattandosi di una parentesi di poco appena un minuto, viene continuamente spezzato dagli stop and go, di modo che il dinamismo sia sempre vivissimo prima della ripartenza finale della terza parte, dove un tempo in quattro quarti lineare carico di groove ci trascina nel decisivo assalto all'arma bianca che portano i Megadeth al bastione dei nostri timpani. Ancora una volta troviamo dunque un esempio lampante della creatività e delle freschezza compositiva della band di Megadave, in barba dunque ai Metallica, autori di brani, sia chiaro indiscutibilmente leggendari, ma altresì più dritti e "scontati" dal punto di vista strutturale. Si accennava al fatto che "Mary Jane" fosse una destinataria di una dedica di amore, ma l'eros di questo brano è destinato ben presto a sfociare nella follia; d'altra parte stiamo parando di Dave Mustaine, il ragazzo problematico che aveva la sua unica certezza nella propria chitarra e che con essa non può far altro che cogliere il barlume di lucidità per poter dichiarare un ipotetico amore prima che i suoi demoni si rimpossessino nuovamente di lui: egli infatti sente salire dalla terra fin sopra le fronde degli alberi e nel respiro del vento, il quale sussurra ininterrottamente il nome della amata; la sua voce stessa lo cerca come il dolce richiamo di una sirena al quale il poeta/cantante non può resistere; cosa è successo a Mustaine vi chiederete voi, gli è forse calato il trip portatogli dall'ultima spada di eroina? Così sembrerebbe essere da questo primo verso, ma ecco che prontamente la droga entra in circolo ed in contemporanea la pazzia si fa strada nella mente dell'axeman: l'Io narrante si sente infatti trattenuto da questa dolce sinfonia incarnata dalle parole della dama e non può fuggire, no non può perché gli è materialmente impossibile, non tanto perché l'amore provato per lei sia un qualcosa di assolutamente irrinunciabile, quanto perché soggetto di questa lode quasi stilnovistica non è più Mary Jane ma è la follia stessa. Il nome infatti è infatti un senhal, un artificio letterario metaforico con il quale si cela sotto un nome di donna il vero oggetto dell'amore, in questo caso la follia, verso la quale non si prova un ingabbiamento sentimentale ma una vera e propria forma di soggezione. Essa infatti ci coglie dal nostro subconscio più profondo e per quanto sia vasta la mole di psicofarmaci che possiamo assumere, questo male ci prenderà sempre alle spalle. Il narratore quindi non può far altro che lanciare un ultimo monito ai suoi cari, prima che il suo demone scagli la sua sanità mentale in quell'angolo di profondo eterno dal quale non uscirà finché il raptus non si sarà esaurito. Preparatevi, amici del malcapitato soggetto, preparatevi a seguirlo nella spirale della sua definitiva e totale pazzia che dal singolo si diffonderà a tutta l'umanità, perché dall'uno la perdita del raziocinio si diffonderà infatti all'intero genere umano; perdonalo padre perché egli, con l'ormai riso folle di una strega, sta imperversando nel mondo diffondendo questo male, piaga che tu stesso gli hai imposto creandolo "a tua immagine e somiglianza" e con la quale egli vagherà errabondo di casa in casa affondandosi gli artigli fin dentro al cervello, la follia fa così male che a malapena si riesce a respirare, ma non ci resta che prepararci per unirci a lui.

502

Veniamo ora alla prima canzone del lato b di questo vinile "502" (il numero che nel codice della polizia americana indica la guida in stato di ebbrezza): il pezzo parte subito energico e senza freni, come una macchina scagliata a tutta velocità sull'autostrada mentre è inseguita dalla polizia e, giusto per essere coerenti, il fade in del riff inarrestabile di chitarra, eseguito con la mano destra intenta a macinare letteralmente il mi grave dello strumento, è accompagnato dall'ingresso della sirena della polizia; gli axeman ormai si lanciano a tutto spiano nella loro fuga da qualsiasi autorità e puntualissimi entrano infatti anche la batteria ed il basso ad aggiungersi al tempo, che puntualmente passa ad un raddoppiato di cassa mentre si scagliano le frasi taglienti di Megadave. A fungere da inciso troviamo poi un assolo breve ma efficacissimo, saldamento retto dai power chord e dal basso monolitico di Ellefson. Il ritmo della struttura non lascia respiro, mentre la batteria marcia imperterrita con il suo drumming energico e costante, le chitarre si lanciano in una vera tenzone al fulmicotone, dove sulla linea principale degli accordi ritmici Mustaine e Young si alternano a mitragliare un assolo dopo l'altro quasi fossero impegnati in un duello all'arma bianca. Delle tracce incontrate finora, questa risulta essere senz'altro la più caotica, non tanto perché mal organizzata a livello compositivo, quanto magari a causa dell'ingresso delle sirene poliziesche, che, specie nella parte finale, irrompono letteralmente nella canzone smorzandone il tiro travolgente. Il tutto è orchestrato per fare di questo brano un fendente fulmineo al nostro addome, una stoccata rapida e letale al nostro sistema uditivo che arriva, ci apre ed in pochi secondi rientra lasciandoci a terra a raccogliere i nostri pochi visceri; anzi, per essere un pezzo della durata di appena tre minuti e mezzo, i Megadeth vi hanno inserito troppi spunti compositivi, che all'interno della breve durata complessiva forse non trovano tutti il giusto spazio che si meritano, rendendo alcuni passaggi sì efficaci ma purtroppo lasciati incompiuti: un maggiore sviluppo del pezzo avrebbe senz'altro garantito una resa ancora migliore della attuale, ma teniamo sempre presente che stiamo parlando di una band ancora in fase di maturazione e tutto sommato, pur essendo un po' troppo "caciarona", questa canzone si rivela comunque efficacissima per regalarci un'istantanea di come era (e suonava) la band nell'88. Le chitarre infatti, protagoniste indiscusse, sferzano le proprie corde con la stessa irruenza e velocità della già citata vettura a folle città e, si sa, durante un inseguimento non si può prestare attenzione a tutto ma si guida con fare pressapochistico mentre si è braccati dalla legge, unicamente attenti a non schiantarci contro qualcosa. La scena raccontata nel testo è proprio quella di un inseguimento: due metal heads pesantemente ubriachi dopo una festa a base alcolica si dirigono verso un posto di blocco, dove gli agenti gli intimano di fermarsi per un normale controllo di routine, i due capelloni, ben coscienti di viaggiare senza avere le carte in regola, decidono quindi di schiacciare a tavoletta e passare oltre travolgendo gli agenti, i quali, immediatamente, lanciano l'allarme al comando prima di lanciarsi dietro alla vettura sospetta. La corsa, pur essendo compiuta da due metallari ubriachi, è intrisa di un certo romanticismo poetico molto ben espresso attraverso delle metafore suggestive: dietro la loro auto infatti si scagliano dei "carri armati demoniaci" intenti ad imprigionare il loro spirito mentre le stelle guidano parallele a loro nella volta celeste, i due, fermamente convinti di quello che stanno facendo, sono disposti a guidare per tutto il giorno e per tutta la notte pur di non lasciarsi prendere. La velocità lascia che l'adrenalina scorra ampiamente nelle loro vene e ciò causa in loro uno stato di estati che li sballa più di qualsiasi mix di droghe possano consumare, la velocità è talmente elevata che i cartelli perdono immediatamente ogni significato e l'intero panorama circostante scorre via dietro di loro come una amalgama informe di materia, che mischia al suo interno tutto ciò che è contenuto nel paesaggio a bordo strada. La fuga intanto prosegue, le sirene imperversano il loro grido nelle orecchie dei fuggiaschi, mentre nel loro retrovisore imperversano i bagliori delle luci delle volanti; non c'è tempo per un hamburger od un caffè all'autogrill, per ristorarsi ci sono solo delle birre avanzate dalla festa sul sedile posteriore e delle sigarette, giusto il necessario per dare allo stomaco qualcosa da fare e non sentire il vomito che sta salendo a causa di tutti quegli scrolloni, la macchina continua a ruggire e le sirene si fanno sempre più vicine. I due metallari alla fine sono fermati e denunciati per guida in stato di ebbrezza, sapevano che sarebbe finita così, ma almeno se la sono goduta fino in fondo e, dopo una corsa simile, quasi non c'è alcuna vergogna nell'essere catturati vivi; questa volta è toccato a loro, ma i prossimi ad essere fermati per un 502 potremmo essere noi, gli ignari automobilisti che per un fortuito caso, quella sera si trovavano dietro di loro.

In My Darkest Hour

Si giunge così alla chicca per eccellenza dell'album: "In My Darkest Hour" (trad. "Nella Mia Ora Più Oscura"), un brano che ancora oggi i Megadeth non si sottraggono dall'inserire nelle loro setlist. Sono sempre stato convinto che se Megadave fosse spirato anch'egli prematuramente, questa canzone sarebbe senz'altro stata il testamento spirituale perfetto. Come già ribadito, la fine degli anni Ottanta vede il rosso musicista di La Mesa in preda al suo periodo più oscuro, l'alcool e la droga sono ormai due componenti quotidiane della sua routine e l'ora più oscura è proprio quella dove l'autolesionismo raggiunge il proprio culmine, fin quando il male di vivere montaliano si insinua sottopelle come un coccio di bottiglia, lacerando un nervo vivo e facendoci spurgare la nostra occupazione abusiva del mondo. Si narra inoltre che tra le muse ispiratrici di questa canzone vi sia stata anche la notizia della tragica scomparsa di Cliff Burton, il leggendario bassista in forze ai Metallica scomparso nell'incidente che coinvolse il pullman della band durante il tour dell'86 in Danimarca, e con il quale Mustaine aveva una profonda amicizia. Siamo quindi in un momento particolarissimo della vita del frontman dei Megadeth, solo la musica lo tiene sospeso sopra il baratro dell'autodistruzione, dal cui abisso per altro stanno emergendo le tenebre pronte a trascinarlo in fondo. La traccia si apre con un arpeggio di chitarra acustica, il plettro scorre semplicemente sulle note di un accordo scandendole singolarmente per poi far dissolvere l'ultima in un silenzio quasi funereo; d'un tratto poi lo scoppio, ecco infatti la chitarra elettrica, il basso e la batteria fare il loro trionfale ingresso sulla scena mentre la pulita esegue ancora qualche melanconica nota finale. L'introduzione lentamente si sviluppa, grazie alla perfetta sinergia di epicità data dagli accordi e dagli stacchi di batteria con la chitarra pulita a condurre il tutto grazie alla melodia del fraseggio. Quasi riusciamo ad immaginarci il buon Dave seduto per terra, con le ginocchia raccolte al petto e la testa bassa, poggiando la schiena contro un muro flebilmente illuminato da un lampione mentre pensa all'insulsa esistenza che sta conducendo in questo lurido mondo; la strofa si forma invece su un tempo marziale, con le chitarre intente a macinare delle quartine accentate dal gusto sontuosamente militare, l'headbanging viene quasi spontaneo, mentre dopo ogni accento le sei corde regalano un passaggio su tonalità discendenti simboleggiante una vera e propria caduta nel baratro. La voce di Mustaine non è più urlata e squillante ma è quasi un parlato profondo e solenne, il vocalist infatti accetta con magra e quasi sarcastica rassegnazione la sua condizione di totale abbandono, le parole vengono quasi macinate digrignando i denti mentre gli strumenti continuano a scandire la marcia degli animi verso l'Inferno. Grazie ad un bridge il pezzo cambia improvvisamente andatura, lanciandosi su una serie di passaggi sui fusti della batteria, immediatamente seguiti dagli strumenti a corde, che aumentano incessantemente il dinamismo; le due strofe cadenzate giungono così al loro termine, Megadave ha finito di riflettere su se stesso esaminando la propria condizione esistenziale, ed a questo punto sopraggiunge l'ennesima scarica di rabbia: una serie di stacchi scandisce infatti i rintocchi del tempo prima del nuovo lapsus che infiammerà il cervello di Mustaine e poi eccola, improvvisa come un sasso che infrange una vetrata, la partenza al vetriolo. Chuck Beheler si butta infatti in un quattro quarti, mentre le chitarre iniziano a triturare le corde con uno shredding energico e preciso; il tiro è decisamente aumentato e l'anima tormentata del protagonista può finalmente abbandonarsi alle più ciniche considerazioni. Il groove è decisamente più orecchiabile dello sviluppo precedente, e l'atmosfera si fa, nel complesso, molto più heavy; il main riff è infatti lineare ed imponente, seppur scandito da qualche fraseggio incisivo, ma lo scopo è quello di reggere gli assoli delle due asce, che puntualmente si scagliano nella canzone come delle vere e proprie motoseghe, le tonalità delle due performance sono altissime, quasi dissonanti, ma del resto, quale miglior espediente per esprimere metaforicamente un essere umano che va in fumo? Il crescendo sta per arrivare all'apice, la tensione aumenta, ed una volta raggiunto il limite ecco irrompere improvvisamente gli accordi dell'introduzione del pezzo, a chiudere ciclicamente uno dei brani migliori del disco. Lo sviluppo è identico a quello dell'apertura, con la sola differenza che il fraseggio conclusivo del giro va via via rallentando, creando così il classico effetto di smorzatura voluta. Protagonista del testo è il leader del gruppo, intento ad interpretare in prima persona il ruolo di protagonista per raccontare la sua vicenda autobiografica attraverso la musica: egli si rivolge infatti ad un interlocutore non ben specificato (una donna, dio o chiunque vogliate), che viene accusato di essere sempre assente nel momento del bisogno. Nell'ora più oscura infatti egli non è la, al fianco di Dave, a tendergli una mano per dargli aiuto, no, egli è sempre lontano, in disparte, volontariamente inattivo nell'osservare Dave cadere a pezzi, e proprio nell'ora più buia ecco che la grazia divina illumina tutto il creato tranne lui, che viene lasciato così nell'ombra anche da colui che tutto sa e tutto può. In contrasto col calore della luce c'è il gelo che percorre le vene di Dave devastate dalle iniezioni di eroina, che gli fanno sentire ancora più freddo a causa della crisi di astinenza. "Sei rimasto solo?" Gli viene chiesto lapalissianamente, "Pensi di aver bisogno d'amore? "Smetterai di pensare?", ma Dave fermamente afferma che l'unica cosa a cui pensa è proprio ciò che in quel preciso istante non c'è a dargli sostegno. Trovare un posto nel mondo è veramente difficile e l'accusato non sa quante volte Dave ci abbia provato giusto per soddisfarlo, ma una consolazione c'è, tutto andrà bene, le cose miglioreranno. Ecco però la punta di amarezza, ciò succederà solo quando il protagonista sarà definitivamente morto. Allora ci siamo, tutto è perduto, Dave, ormai agonizzante e prossimo ad esalare l'ultimo respiro si vede già camminare da solo verso la terra promessa, ecco allora il gesto Ortisiano di lanciare l'ultima preghiera a Dio, quel signore benevolo che aiuta tutti e non può lasciare la sua pecorella al proprio destino, eppure è così, consumato dal dolore e dagli spasmi, ecco anche l'ultimo figlio del cielo morire consumato da se stesso. Giusto il tempo di un ultimo romantico addio a quelle poche cose che possiede e poi un'ultima leopardiana e feroce sferzata contro la bruttura del mondo, il tutto posto strategicamente sulla parte musicale in crescendo e poi, con fare quasi cinematografico, stacco netto e titoli di coda. Perché la vita si spegne così, come la trama di un film troncato di netto.

Liar

Proseguendo sull'onda dell'odio imperante proseguiamo con "Liar" (trad. "Bugiardo"), dedica squisitamente personale che l'ex solista dei Metallica fece a Chris Poland, il chitarrista che suonò sui primi due album dei Megadeth, e che venne silurato per aver rubato alcune chitarre a Mustaine; egli risuonerà a fianco del rosso thrasher sull'album del 2004 "The System Has Failed" e sembra quindi che l'ascia di guerra sia sepolta, anche se quando si tratta di essere nelle grazie di Megadave, come è noto, si è sempre sul filo del rasoio. Contrariamente a quanto ci si possa aspettare, non ci troviamo di fronte ad una sfuriata graffiante sparata a bpm altissimi, come richiederebbe il contesto del resto, ma il chitarrista di La Mesa preferisce un approccio più meditato e tecnico a livello strumentale, per fare in modo che siano le parole a consegnare il ruvido messaggio al destinatario. A condurre il tutto è un riff di chitarra energico e serrato, dal quale emerge nuovamente, come se ci fosse ancora bisogno di evidenziarla, tutta la bravura di Mustaine. La batteria entra a lanciare il pezzo con un tempo lineare ma molto più heavy, anzi, quasi hard rock, facendo sì che non vi sia un incedere troppo veloce, che non ci darebbe quindi modo di apprezzare tutta la precisione della parte di chitarra in ogni suo punto. I bpm troppo elevati avrebbero infatti fatto correre il rischio ai quattro di risultare troppo pastosi nell'insieme ed il groove generale del pezzo non avrebbe assunto così la forma dovuta. La traccia scorre relativamente lenta, ma gli strumenti ci travolgono tutti assieme creando un vero e proprio muro sonoro; dal punto di vista compositivo emerge qui tutta la voglia di sperimentare di Megadave, che mette provvisoriamente da parte i canoni dogmatici del Thrash Metal in favore di un sistema compositivo molto più dinamico e personale, facendo di queste canzoni delle composizioni thrash "di passaggio", ovvero che letteralmente passano attraverso le sonorità generali per poi andare ulteriormente a fondo in cerca di qualcosa che le renda assolutamente uniche rispetto alla grande quantità di altre canzoni a genere in circolazione. A rendere particolare questa traccia è la linearità strutturale della musica, contrapposta invece ad un lavoro molto più spezzato e variegato della stesura vocale: se infatti il main riff si mantiene pressoché costante per tutti i tre minuti e ventuno secondi di pezzo, salvo gli accenti del ritornello che scandiscono sillabicamente la parola del titolo, sostenuto da una batteria ed un basso corposi e dritti senza alcun ostacolo a fermarli. Questa volta è il Mustaine cantante che supera sé stesso a livello canoro; ormai è chiaro come il sole che ai Megadeth piace suddividere le loro creazioni in più segmenti, ognuno dei quali caratterizzati a loro modo da qualche peculiarità. Nel caso di "Liar", nella prima metà di traccia le sentenze delle strofe sono scandite in una maniera geometrica, dove ogni verso è composto da due frasi citate schematicamente da un lato e dall'altro della cesura ritmica strumentale, nella seconda metà, che conduce verso la conclusione, sulla stessa musica le parole vengono letteralmente rovesciate furiosamente, quasi a ricreare l'effetto di un soggetto in preda alla collera talmente infervorato che quasi non riesce nemmeno a scandire bene ciò che dice, tanto è rauca la sua voce. In questo frangente resta medesima la distribuzione degli assoli, rispettivamente di Young e Mustaine, che si allineano quindi con l'impalcatura compositiva principale che costituisce il pezzo dall'inizio alla fine, l'effetto voluto di squilibrio tra voce e musica qui attuato dai Megadeth rende la canzone ancora più interessante, dato che con un espediente relativamente "semplice" i quattro thrasher californiani hanno reso davvero unico un loro brano pur restando fedeli al verbo della loro corrente. Potrà sembrare un cliché, ma è proprio grazie a questi piccoli azzardi che si distinguono i gruppi originali da quelli privi di idee. Come dicevamo, il testo è dedicato all'ex chitarrista dei Megadeth; se la musica si prospetta come "moderata" lo stesso non si può certo dire anche del testo: protagonista è ancora una volta Megadave che si rivolge in prima persona al diretto interessato senza peli sulla lingua. Le accuse sono tra le più disparate, dall'avere un concentrato di urina e veleno nelle vene, all'avere la sorella drogata (il bue che dice cornuto all'asino in questo caso, dato che è Mustaine a parlare); ma si sa, il frontman del gruppo non è mai stato uno che va per il sottile, specie quando dopo una amicizia finita male gli vengono pure rubate le sue preziosissime chitarre. In questo contesto Poland subisce alcune delle più taglienti frecciate che si possano immaginare, partendo dal presupposto che in quanto bugiardo questi non è solo un abile venditore di menzogne, ma è un vero e proprio parassita, capace solo di vivere sulle spalle degli altri (ed in questo caso tra le righe si legge chiaramente che senza la militanza dei Megadeth l'axemen dei Damn The Machine non sarebbe mai diventato nessuno a livello musicale). Le ingiurie si sparpagliano poi a tutto il ramo famigliare: dopo la già menzionata sorella tossicodipendente si passa al fratello pappamolla membro di una boyband della scuola, ed alla fidanzata funestata dall'herpes presa a seguito di tutti i rapporti extraconiugali; insomma, Mustaine ne ha per tutti, nessuno escluso, ma a ritornare ciclicamente all'interno del pezzo come un memento sempiterno è sempre la parola "liar", sempre incastrata a gamba tesa nel mezzo del discorso quasi come monito per tutti coloro che incontreranno Poland nel futuro prossimo, un avvertimento che cita a chiare lettere "stategli alla larga, è solo un fottuto bugiardo". 

Hook In Mouth

A chiudere la tracklist troviamo infine "Hook In Mouth" (trad. "Uncino Nella Bocca"); già dalle prime note i Megadeth riserrano i ranghi verso una tradizione maggiormente focalizzata sulla vecchia scuola, senza ovviamente lasciare in secondo piano il loro ormai appurato marchio di fabbrica. Motore dell'intero pezzo in questo caso è la batteria di Behler, la quale sostiene l'impianto ritmico con un quattro quarti arricchito dai raddoppi di cassa incessante, sui quali viaggia poi  intransigente il basso di Ellefson quasi fosse un treno incanalato nei binari; certo, nel complesso la sessione ritmica di questo terzo album dei Megadeth non vanta delle parti particolarmente complesse, escluse ovviamente le piccole chicche sparse qua e la all'interno delle canzoni, ma tale semplicità è immediatamente compensata dal dinamismo e dall'estro delle chitarre, sempre pronte a mettere in mostra tutta la loro vena funambolica per movimentare delle composizioni che costituiscono l'abc del Thrash Metal. In fase di avvio troviamo infatti solamente il basso e la batteria a sostenere il cantato, in un costrutto talmente standard peraltro da riportarci alla mente la grandissima "Overkill" dei Motorhead, ma è proprio questa "banalità" a farne aumentare il tiro, il concetto è semplice: poche storie bisogna solo dare dei calci nei denti, e se già con questo incipit sentiamo l'osso mascellare che si incrina, ci penseranno le chitarre pochi istanti dopo a lasciarci per terra con una frattura mandibolare. Peculiarità della traccia questa volta sono le ritmiche: le sei corde infatti, esclusi gli assoli ovviamente, puntano tutto sugli sviluppi ritmici creati attraverso lo shredding in palm muting ed i powerchords distesi, l'effetto di contrasto tra la batteria dritta e gli accordi tenuti ricrea infatti quel senso di energia devastante che rende questo pezzo una composizione da headbanging assicurato. Come accennato gli assoli non mancano, anzi guai per i Megadeth non inserire delle parentesi soliste nelle loro creazioni, ed ancora una volta entrambi gli axeman mettono i luce tutta la loro perizia, suonando degli assoli ricchi di dinamismo, velocità e pulizia esecutiva, ma non sono loro i veri protagonisti di "Hook in Mouth". A fare sì che questa chiusura di album ci resti in testa è il ritornello, trascinante ed accattivante al punto giusto e ripetuto per tre volte di fila al centro del minutaggio, perché la furia verso il sistema qui urlata da Mustaine deve insinuarsi nel nostro cervello come un uncino, la cui punta affonda nella materia grigia per incagliarsi al centro della nostra rete neuronale. In questo senso, il brano può considerarsi "il più harcore di tutto l'album" in quanto è secco, diretto ed efficace senza troppi fronzoli al proprio interno; con questa lirica in particolare infatti emerge lampante la vena anticoformista ed antisistema di Megadave, che si accanisce verso le istituzioni statunitensi con la stessa ira psicopatica con cui ha aggredito prima il suo ex chitarrista e se stesso. Ancora una volta dobbiamo tristemente constatare che un testo scritto sulla fine degli anni Ottanta  risulta estremamente attuale ancora oggi nel 2016: come cittadini, a prescindere dal paese in cui viviamo, siamo in preda ai parassiti (letteralmente definiti "coackroaches" ovvero "scarafaggi") che infestano i palazzi del potere; tutte le verità circa l'andamento dello stato sono eclissate da mass media corrotti, i quali, ci anestetizzano con false notizie per farci credere che in realtà non ci sia nulla di cui preoccuparsi. Tutto va bene, la borsa è in rialzo, il lavoro cresce e nostro signore ci ama, ma in realtà, all'oscuro di tutti noi, l'oscuro meccanismo del sistema gira affinché solo i pochi eletti dalla cassa possano aumentare i propri portafogli mentre noi poveri plebei ci dobbiamo spaccare la schiena come dei dannati per arrivare alla fine del mese. Ad un governatore qualsiasi basta un piccolo scarabocchio su un decreto per cambiare per sempre il corso degli eventi, una semplice sua firma ed un qualsiasi diritto di cui prima potevamo godere con tranquillità viene risucchiato dall'oblio della memoria; ieri avevi l'assicurazione sanitaria sul lavoro? Una firma per un decreto di legge oggi pomeriggio e se da domani ti fai male mentre svolgi la tua professione sono affari tuoi, ieri avevi diritto ad un sussidio qualora fossi disoccupato e sotto una certa soglia di reddito? Un'altra sigla di un ministro oggi e da domani sarai costretto a rubare per mantenere i tuoi figli. Ma come giustamente ci ribadisce il buon Mustaine, la parola libertà possiede fra le sue lettere degli anagramma a cui tutti i potenti devono prestare molta attenzione: nel testo infatti, il ritornello si compone in pratica di uno spelling della parola "freedom" ("libertà" per l'appunto), dove la lettera f sta per "fighting" (trad. "lottare"), la r sta per "red" (trad. "rosso", il colore del sangue dei nostri oppressori), le due e stanno simboleggiare gli "elected" (trad. "gli eletti" perché grazie a tutti i maneggi elettorali, all'ignoranza ed al menefreghismo da loro stessi diffuso, siamo noi stessi a mettere sul trono i nostri sfruttatori), la d sta per "dying" (trad. "morire", chi passerà a miglior vita sta a noi deciderlo, se loro dopo una nostra rivolta o se noi per essere rimasti passivi a guardare), la o sta per "overture"(trad. "la proposta" sempre biunivoca perché siamo di fronte alla scelta di ribellarci o morire) e consequenzialmente la m sta per "manure" (trad. "il letame", più recisamente quello che sarà gettato dai politici sulle nostre tombe come gesto di massimo schermo per avergli lasciato fare il proprio gioco. Mustaine però è ben consapevole che il popolo è troppo rincoglionito per prendere una posizione è cinicamente conclude: "This spells out freedom, it means noting to me, as long as P.M.R.C", trad. "Così è come si fa lo spelling di libertà, che per me non significa nulla, allo stesso modo della sigla P.M.R.C", ovvero la sigla del Parents Music Resource Center, l'associazione nata negli States per vigilare sui contenuti dei testi delle canzoni). Il rosso chitarrista comunque ci tiene a ribadire la sua assoluta distanza dalla massa, a differenza degli altri infatti lui non è un pesce è non ha l'uncino del sistema nella bocca.

Conclusioni

In conclusione, So Far, So Good... So What! è un disco assolutamente fondamentale sia nella discografia dei Megadeth sia nel panorama del Thrash Metal mondiale; esso infatti si presenta non solo come un istantanea dello stato della band, e in particolare del suo fondatore, nel 1988, ma anche come prova assolutamente tangibile che all'interno della sonorità della Bay Area qualcosa stava cambiando: le band di questo filone erano già tante ma la band capitanata dall'ex Metallica si stava avviando verso la costruzione definitiva di quel marchio di fabbrica che li avrebbe fatti entrare successivamente e, a pieno diritto, all'interno dei big four. Queste otto canzoni sono infatti otto perle di assoluta genuinità espressiva, scritte dal pugno di un metalhead arrabbiato con il mondo e che stava attraversando proprio in quegli anni il suo periodo più nero; fattore tragico per certi versi ma necessario per altri, dato che se Dave Mustaine non si fosse massacrato di droga ed alcool, diventando così il pessimo soggetto che era, molto probabilmente non avremmo mai potuto goderci questo disco (ed diversi altri della sua band) ad oggi riconosciuto universalmente tra i migliori dei Megadeth. Certo, i sofisti potranno sostenere che i migliori lavori su cui compare il famoso "Rattlehead" sono ben altri, ma va comunque tenuto presente che i grattacieli non si costruiscono senza partire dalle fondamenta. La maturità artistica dei quattro thrasher si stava ancora formando e si sarebbe manifestata più chiaramente sui dischi successivi, siamo d'accordo, ma già da questo album, e dal precedente "Peace Sells..." si inizia comunque ad intravvedere quello che i Megadeth vogliono fare, ovvero non essere assolutamente omologati al Thrash Metal standard, ma far parte di esso come un qualcosa di assolutamente diverso dal resto. Il taglio tecnico elevato è infatti sempre stato una caratteristica peculiare dei dischi megadethiani, sia che si trattasse di un sound ancora ruvido, ma già disposto ad essere elaborato, sia che si tratti delle opere più raffinate e recenti, quel che è certo è che sono proprio questi fulmini a ciel sereno a rendere grandioso questo genere: sotto l'etichetta di "thrash" infatti rientrano artisti ed album assolutamente diversi gli uni dagli altri. Restando semplicemente nel filone americano (perché se si passa a parlare di quello teutonico ci sarebbe altrettanto se non di più da scrivere) cataloghiamo infatti gruppi come i Megadeth e gruppi come i D.R.I, giusto per fare un esempio, entrambi legati ad un unico filone grazie alle loro radici ma con sviluppi artistici marcatamente differenti. La postproduzione del disco poi, se paragonata per esempio ai dischi degli Slayer, fa suonare queste otto tracce come meno gracchianti o pesanti, eppure, grazie al già citato altissimo livello tecnico dei quattro autori, esse spaccano allo stesso modo. L'intelligenza, o se preferiamo l'astuzia, di Mustaine, sta nel non ricercare l'impatto attraverso la quantità o la dimensione del suono bensì attraverso la limatura e lo studio iper calibrato della composizione; la velocità stessa, ingrediente di base di un qualsiasi disco thrash metal, è in "So Far..." del tutto funzionale e subordinata alla precisione tecnica; ciò mette ben in chiaro una cosa: per fare musica diretta, memorabile e che spacchi non è obbligatorio essere dei fenomeni a suonare (anzi nell'ignoranza stanno dei veri e propri capolavori), ma allo stesso modo non è nemmeno sbagliato osare quel poco di più che basta per ottenere un disco non sia solamente thrash metal, ma un disco thrash metal e che per di più suoni istintivo, personale e di altissima qualità. In altre parole, se "So Far, So Good... So What?" fosse il proverbiale "disco fotocopia" da cui ricavare tutti gli altri, i Megadeth vanterebbero la discografia perfetta.

1) Into The Lungs Of Hell
2) Set The World Afire
3) Anarchy In The U.S.A
4) Mary Jane
5) 502
6) In My Darkest Hour
7) Liar
8) Hook In Mouth
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