KYUSS
Wretch
1991 - Dali Records
ANDREA CERASI
26/06/2017
Introduzione Recensione
La California. La California e il deserto infuocato a fare da cornice. Paesaggi desolati, clima torrido, strade infinite, battute dal sole e dalla polvere. È in questo ambiente ostile che quattro ragazzi di Palm Desert si divertono a suonare dopo la scuola, portando le attrezzature direttamente tra le dune sabbiose, cercando di sperimentare con accordature sbilenche, chitarre impolverate e pelli arse dai raggi di sole, al fine di scacciare la noia e lo stress dell'afa che toglie il respiro. Nel 1987 i ragazzi in questione si battezzano Katzenjammer, per poi passare a Sons Of Kyuss, in onore del gioco di ruolo Dungeons & Dragons, che evoca in loro un sentimento claustrofobico e caloroso, ma anche libero e senza confini. Le chitarre abbassate di un tono danno alla musica maggiore spessore e oscurità, l'imprevedibilità dona maggiore slancio ai pezzi, senza racchiuderli in schemi precisi; doom, acid rock, psichedelia e un pizzico di blues, Black Sabbath e Blue Cheer come ispiratori assoluti e il cuore che subisce il fascino degli anni 70. Nasce il desert rock, inconsapevolmente e ingenuamente, ribattezzato dalla stampa, qualche tempo dopo, "stoner metal", per via della sua attitudine sporca e impolverata, proveniente direttamente dal deserto. L'asfalto che brilla e che taglia, come una lingua di fuoco, i paesaggi rocciosi e aridi, e che si snoda come lava incandescente su suoni mai uditi prima, che affondano le radici negli acidi 70s ma che ne sono una ulteriore evoluzione che scardina tutto quanto fin qui ascoltato. La rivoluzione musicale ha una portata incredibile, destinata a travolgere tutto e tutti, trascinando con sé band e sottogeneri, cambiando per sempre la storia dell'hard rock mondiale. Quattro ragazzini che suonano per se stessi, caricano tutto in auto e affondano nel deserto, non lontano dal paese in cui vivono. Non hanno molto da fare durante il giorno, la noia si palesa costantemente e a loro non resta che suonare per alimentare un senso di libertà che molti, a Palm Desert, ricercano. La band si esibisce quasi tutte le sere, al solito posto, e suona gratuitamente davanti ai pochi spettatori, ricevendo complimenti ma anche critiche. L'alcool, le droghe, gli acidi evocati da quei suoni, sono forse parte integrante di quelle infuocate serate a base di ritmiche malsane, di emozioni ipnotiche e di danze tribali sotto cieli stellati. I ragazzi si autoproducono una demo, stampando circa cinquecento copie, molte delle quali rimarranno nel garage del chitarrista Josh Homme, invendute. La loro intuizione fa fatica ad emergere, il mondo non è ancora pronto a tutto ciò, e non lo è nemmeno quando vede la luce il primo ep nel 1989, prodotto da schifo, non supportato da nessuna etichetta e contenente brani composti in un lustro, durante gli anni del liceo; ma questo lavoro gli consente di esibirsi in alcuni locali di Hollywood e di entrare in contatto con ambienti diversi. Il suono, però, è talmente originale e poco curato che ben pochi capiscono il potenziale di questa musica, e succede che, molto spesso, durante i concerti scattano risse o litigi tra un pubblico ancora legato alla scintillante scena sleaze metal losangelina e quindi confuso e poco avvezzo all'aria desertica, minimalista e psichedelica della performance dei nostri. Ecco, i Kyuss, come si rinominano poco dopo, sono il gruppo di rottura che tutti evitano e che tutti odiano, ma che anticipano i tempi illuminando il futuro del metal. Lo stoner non ha una data precisa di nascita, ma tra il 1987 e il 1989, attorno all'operato di Kyuss e Melvins? (seminale band di Washington), comincia a crearsi una piccola cerchia di emuli. In quel periodo, i ragazzi destano attenzione tra gli addetti ai lavori, che sono molti in giro per la California, fucina di idee e di artisti, riuscendo a conquistare i responsabili della Dali Records, moglie e marito, che per mesi non fanno altro che parlare di aver incontrato il futuro del rock, intuendo un potenziale enorme e che ha bisogno ancora di qualche miglioria per esplodere definitivamente. Nel 1991 esce "Wretch", album contenente tutti i brani dell'ep originario e alcuni inediti; prodotto in modo spartano e poco curato, l'album, assieme a quelli di Sleep, Monster Magnet e Melvins, è la prima espressione desert rock della storia, rappresentata dalla scarna copertina giallo-oro, il colore della sabbia, e ciò basta per entrare di diritto nell'Olimpo dei giganti. Purtroppo, il 1991 è un anno ancora di transizione, da una parte l'hard rock batte gli ultimi colpi, il thrash metal cambia connotati e l'alternative è appena sbocciato. In questo calderone, lo stoner fa fatica ad emergere, passando in un primo momento in sordina, essendo etichettato come una semplice riproposizione di sonorità anni 70. "Wretch" vende pochissimo ed è un flop madornale, ma dentro questo lavoro, anche se in forma embrionale, c'è tutto il sole della California, ci sono i dissapori di una generazione, gli aridi paesaggi che stordiscono la mente, le dune desertiche che si distendono nell'infinito creando voragini emozionali e, soprattutto, è qui che emergono le pachidermiche allucinazioni di un'intera scena musicale.
Beginning Of What's About To Happen - Hwv 74
Beginning Of What's About To Happen - Hwy 74 (L'Inizio Di Ciò Che Sta Per Accadere - Autostrada 74). Il basso molleggiato di Olivieri guida i nostri attraverso le dune di sabbia, gli strumenti rotolano come balle di fieno al vento, alzando un polverone assurdo. Ogni tanto la chitarra di Homme emette dei sibili, come se due rocce si scontrassero durante la tormenta. Proprio lì, dal deserto, emerge in lontananza e a tutto gas una vettura; ci vuole un minuto e mezzo per scaldare il motore ma l'auto sul quale viaggiano i nostri quattro musicisti è pronta per imbarcarsi in questo lungo viaggio. Direzione ignota. Si imbocca l'autostrada, l'asfalto è cocente, le turbine sudano petrolio, l'aria è calda da fare schifo. Lo stridio degli pneumatici e siamo pronti a partire: freccia direzionale, sottolineata dallo stacchetto funky della chitarra, piede sull'acceleratore e via. Praticamente metà pezzo viene risucchiato da questa cazzutissima introduzione, dunque chitarra e basso si snodano in una cavalcata hard rock che trasuda acidi e veleni e che sputa sabbia dalla bocca, Brant Bjork gli dà giù come vecchio ubriacone, picchiando con violenza le pelli come colto da insolazione, trasmettendo una tempesta polverosa che ci stordisce. Infine, quasi sommesso e timido, ecco che giunge la voce vetrata di Garcia, la voce dell'apocalisse, la voce delle dune deserte, soffocata da una produzione impastata ma che, nonostante tutto, si addice al contesto. L'auto sfreccia sull'autostrada che taglia in due il deserto delle California, la polvere si accumula sul cruscotto, poi entra nell'abitacolo e imbratta i volti dei ragazzi. Il vento tra i capelli, la pelle sudata e appiccicaticcia, il motore bollente che scalcia sotto al culo. Si continua a spingere, il ritmo non cambia di una virgola, l'autostrada 74 sembra infinita e non c'è nessuno nei paraggi. Il ritornello è una valanga, un ammasso di fango e un inno alla libertà su quattro ruote, l'espressione di un sentimento profondo e sincero, che libera la mente da tutto quanto, schiude gli occhi e non pensa ad altro che a correre. Questo brano è suddiviso in due parti, due corpi ben distinti che danno la sensazione di dinamicità e di velocità, metà introduzione e metà foga canora, con un Garcia che piano piano prende coraggio e alza la voce, ripentendo di quanto sia bello viaggiare in autostrada, in mezzo al deserto, con la polvere che invade ogni spazio. La macchina ha il serbatoio pieno, la strada è lunga, la meta ancora non sappiamo quale sia, ma è un inizio sfolgorante.
Love Has Passed Me By
Love Has Passed Me By (L'Amore Mi Ha Superato) possiede un riff dall'animo punk, sporco e cattivo, sul quale la voce acida e infetta di John Garcia si staglia urlando di sentirsi preso in giro; non è cieco, né sordo e nemmeno stupido, il suo non è uno sguardo da cretino, e allora perché la sua donna lo sta trattando così? Ah, ormai si è fottuta da sola, è stata scoperta e l'uomo ha capito che lei non sta facendo altro che allontanarsi. Ormai è solo una spina nel fianco, l'amore è superato, l'amore è passato da un pezzo e la colpa è solo sua, della stronza priva di sentimenti. Il ritmo rock 'n' roll fa sfaceli, Bjork spacca i timpani, e lo steso fa Nick Oliveri col suo portentoso basso, duro come un macigno, un monolite posizionato proprio lì, nel deserto, osservatore silente del litigio tra la coppia. Garcia vomita parole di rimprovero, grida alla sua donna che si è comportata male e che lo sta facendo soffrire. Perché prova tanto odio nei suoi confronti? Perché ha deciso di piantarlo, così su due piedi? Forse ha un altro con cui farsela, forse lo trova ripugnante, fatto sta che lei si allontana, ma lui è deciso a ripagarle il torto. Il sangue gli sta bollendo nelle vene, c'è solo veleno, veleno e fuoco dentro di sé, e lei dovrà sentire l'odio e il dolore che ha inflitto al suo ex compagno. Ah sì, la pagherà cara, non ci si comporta male con un uomo del deserto, selvaggio e virile quanto basta per comandare. Josh Homme prova un timido assolo, la tecnica è ancora grezza ma non importa, questa è una tormenta sonora che si alza improvvisa dagli altoparlanti; la produzione scricchiola, la fase strumentale è una roccia che rotola nella sabbia, si sente il fruscio degli strumenti, più qualche altro rumore non identificabile, ma va bene così, niente importa, questo è fottuto rock desertico, minimalista e arido, dove la sporcizia fa parte della performance. I Kyuss spingono che è una bellezza, gridano di non credere più nell'amore, o in tutti quei sentimenti genuini e puri. No, loro sono gli eroi della strada, si spostano da una parte all'altra del deserto, non hanno tempo per le romanticherie e le porcherie romanzate. Stoner, punk e anche un pizzico di sleaze metal, il tutto miscelato felicemente. E pensare che i nostri quattro ragazzini, mentre scrivevano questo pezzo, durante il liceo, erano del tutto inconsapevoli che avrebbero creato le coordinate di un genere a sé.
Son Of A Bitch
Son Of A Bitch (Figlio Di Puttana) è l'espressione massima di goliardia, rappresentata non solo dalle liriche ma anche da un ritmo doom, rallentatissimo, con accordature basse e voce catacombale che ricorda alcuni brani dei Black Sabbath. Ma qui l'aria infernale e sinistra è ancora maggiore, sostenuta da un riff ipnotico e malvagio partorito da Homme e potenziato dal basso velenoso di Nick Oliveri. L'introduzione funge anche da presentazione del refrain: diretto, roccioso, spietato, nel quale Garcia ce l'ha con una donna; la insulta, le grida in faccia che è una figlia di troia, che avrà pure gambe lunghe, capelli profumati e un gran culo, ma resta comunque una vipera traditrice che se la fa con tutti. Il giovane spera che tutto ciò sia soltanto un sogno e che venga svegliato presto, invece deve fare i conti con la realtà, con una ragazza che fa la "carina" con altri uomini. Dopo che il brano si trascina allo stesso modo per tre/quarti ecco il repentino cambio di tempo che trasforma il tutto in uno sporco rock 'n' roll, dove il vocalist intona velocemente il bellissimo bridge nel quale rafforza il suo concetto. No, non è un brutto sogno, è la fottuta realtà, quella maledetta stronza lo ha tradito veramente, si è fatta un giro con un po' di gente, in paese, e pare che lui non l'abbia presa tanto bene. Il ritmo sincopato fa il filo con l'acredine che fuoriesce dal testo, l'odio nutrito dal rancore, la polvere degli strumenti, allegoria di sporcizia sentimentale, un cuore spezzato e un'anima sotterrata dalla sabbia. La sinuosa malvagità del doom si scontra con l'attitudine stradaiola per un mix letale, mai ascoltato prima, dove confluiscono psichedelia, acid rock e bastonate metal capaci di stordire l'ascoltatore. Quando questa traccia fu suonata per la prima volta, il pubblico fu preso da una frustrante incazzatura, perché tutto ciò andava contro il trend del momento, tutto pulizia e orecchiabilità, e invece è bastata la voce di Garcia a cambiare le cose, erigendosi come un miraggio, ricca di droghe e che riusciva prosciugare la bocca come se non si bevesse da giorni, sputando in faccia le sue parole di odio e di disprezzo nei confronti di questa fanciulla. L'amore è un miraggio lontano, un'oasi di salvezza difficile da raggiungere.
Black Widow
Black Widow (Vedova Nera) prosegue il trend allucinogeno attraverso un rock psichedelico che ipnotizza come un serpente a sonagli, e lo stesso fanno le parole di un testo ripetitivo e aleatorio. La sensualità della sezione strumentale colpisce da subito, Bjork è uno sciamano che danza nel deserto, attorno al falò, in una calda notte estiva; sul palato si sente un retrogusto blueseggiante, che viene direttamente dall'anima. Ci troviamo di fronte a un bivio e dobbiamo fare una scelta: uccidere per affari o uccidere per piacere, abbiamo una scelta soltanto da fare, non importa come o perché, ma dobbiamo farla. Pena, la morte. Probabilmente si sta parlando di una donna killer, o forse è qualcosa di più profondo, magari un dubbio esistenziale, fatto sta che le liriche sono criptiche e ripetitive, e non lasciano molte spiegazioni. Vanno interpretate. Sì, molto probabilmente si tratta di una donna mangia-uomini, che prima li seduce e poi li divora. È una prostituta? Forse, dato che uccide per business, ma sicuramente prova piacere nel farlo. Il tema, classico dell'hard rock, si sposa bene con l'andamento ipnotico della canzone, con le stilettate inferte da Josh Homme e le pulsazioni accelerate di Nick Oliveri, che non fanno altro che alimentare questa danza tribale. Il corpo, non quello della vedova nera protagonista, ma di questo breve pezzo, è suddiviso in due parti uguali, messe l'una davanti all'altra, riflettendosi come davanti a uno specchio. La linea che le separa è data dal lungo assolo del chitarrista, non proprio un virtuoso della sei-corde ma sicuramente uno che la sa lunga, tanto che avvolge l'ascoltatore con i suoi fraseggi screziati di ruggine e arsi dal sole. Ciò che colpisce è però il volume basso della registrazione, a tratti si ha la sensazione che gli strumenti si abbassino fino a confondersi in un unico grande suono oleoso, liquido, sul quale la voce abrasiva di John Garcia continua a raccontare le tragiche vicende. Due minuti e mezzo che passano in fretta ma che riescono comunque a stregare grazie alle ritmiche magnetiche, afose. A questo punto comincia a fare davvero caldo, bisogna spogliarsi per proseguire l'ascolto.
Katzenjammer
In "Katzenjammer" (Confusionario) il sole della California picchia forte sulle teste, tanto che si rischia una bella insolazione. Proseguiamo sulla stessa onda, quella di una specie di concept sensuale sui rapporti carnali con le donne e con le automobili, come era stato concepito nel primo ep "Sons Of Kyuss", perciò ritroviamo anche qui un brano su una donna, o per meglio dire, su una macchina, incarnazione femminile. Una bella donna, una vera perla, dalle curve scintillanti al sole, una che non pone obiezioni e che sa riportare a casa, figuriamoci partire per qualsiasi posto senza fiatare; o meglio, sbuffando fumo dal posteriore e facendo sgocciolare petrolio sull'asfalto. Con una così, che problemi ci sono? Non servono amici, nemmeno rotture di palle, si sale in macchina e si parte, storditi dal sole e con una buona dose di alcool in corpo. Il pezzo è feroce, un rock n' roll sporco che rispecchia fedelmente il titolo: confusione, esatto, così come si chiamava la prima incarnazione dei Kyuss, quando i quattro erano ragazzini e si divertivano, il pomeriggio dopo scuola, a fare casino con i loro strumenti. Il suono è, infatti, molto confuso, una nube tossica che sale e si diffonde nell'aria. Garcia è allucinato, come in preda a droghe pesanti, la sua voce modificata, nella parte centrale, è pura estasi uditiva. Giunge l'accoppiamento carnale, il nostro protagonista ha un atto sessuale con il proprio veicolo, alla pari di film morbosi quali "Crash", del maestro Cronenberg, o "Christine", del genio Carpenter. Esatto, è un rapporto morboso, folle, perverso; l'uomo vuole un bambino, dalla pelle arsa dal sole e dagli occhi celesti, quindi incomincia il corteggiamento, si tira indietro i capelli, il sudore gli imperla la fronte, distende il braccio e accarezza il sedile accanto. Si prepara all'atto impuro, e intanto l'auto sfreccia sull'autostrada deserta in una confusione totale: lamiere contorte, corpi accaldati, sangue e benzina, tutto condensato in una cosa sola?.
Deadly Kiss
Deadly Kiss (Bacio Mortale) è un serpente che sguscia via dalla roccia e struscia tra le dune del deserto in cerca di una preda. L'arido terreno accarezza le sue forme sinuose, il suo corpo snello e accattivante. La struttura del brano è come il rettile, senza una forma precisa, o meglio, che sa assumere forme diverse a seconda del terreno sul quale sfreccia. Attacca piano, lentamente, per poi prendere velocità mano a mano che si giunge nella parte centrale. Garcia è solenne, un guru strafatto che canta in modo aspro e che indica la via. Oliveri e Bjork danzano con passo pesante, affondando nelle sabbie mobili, e i loro strumenti vengono letteralmente seppelliti dalla tormenta fino ad essere soffocati dal fruscio dato da una produzione amatoriale ma che rende l'idea di una landa desolata e ricoperta da una fitta foschia. In mezzo al delirio, una coppia litiga faccia a faccia, l'uno guarda l'altro dritto negli occhi: gli occhi profondi di lei rivelano solo bugie, palesi prese in giro, tradimenti. Negli occhi di lui, invece, brucia l'inferno, l'ira che scorre come sangue nelle vene. Gliela deve far pagare alla puttanella, la deve lasciare nella solitudine, affogarla nella solitudine e spezzarle l'anima in due. Questo è ciò che merita, che si fotta pure la bella donzella. L'ego dell'uomo è in piena tempesta istintiva e il paesaggio attorno rispecchia l'aridità e la tempesta di polvere che si sta abbattendo sul villaggio californiano. Nessuno è disposto a consolare la tipa, nessuno più, perché tutti sanno che è una vipera, un serpente che sparla alle spalle, e la solitudine sarà la sua dimora. Si è scavata la fossa da sola, urla il cantante in una fase di disperazione concitata, e allora marcirà lontano da tutto e tutti. Josh Homme esegue un vigoroso e tormentato assolo, le corde dell'ascia vengono masturbate per riprodurre l'atto descritto, il litigio, il rancore e la vendetta. Confusione è la parola d'ordine, tormenta emotiva che travolge i nostri amanti. Eppure, l'uomo ha un ripensamento, è deciso a scavarsi la fossa anche lui, per restare accanto alla sua amata, a colei che lo sta facendo soffrire. È tempo di pagare per il suo subdolo comportamento, ma se deve vivere nella solitudine, allora lo farà accanto a lui, per sempre. Il rapporto morboso è palese, poiché, nonostante l'odio e l'incomprensione, l'uomo-dominatore-padrone non riesce a separarsi dalla donna, preferendo morire con lei, piuttosto che lasciarla andare?.
The Law
The Law (La Legge) è il brano più lungo del lotto, un riff spaccaossa emerge dal nulla e apre la strada a una cavalcata hard rock sporcata di funky, in grado di evolversi continuamente esplorando territori ignoti. Il basso di Nick Oliveri è bello tosto, mentre la batteria di Brent Bjork sembra spietata. Il primo cambio di tempo avviene dopo circa un minuto e il tutto riparte daccapo, con un guizzo di Oliveri che si fa tenebroso e che prepara il terreno per una cannonata dai suoni oscuri. Sopra un riffing dannatamente doom, si staglia la voce imperiosa di un John Garcia che ci rivela che dentro di sé tutto si è fatto nero, proprio come il paesaggio che ha davanti agli occhi: il cielo buio, senza stelle, il nulla che sembra inghiottire il mondo. Egli oscilla come ubriaco, il passo incerto, gli occhi vitrei, il sangue ardente, tutto è confuso nella sua mente. Ecco la trasformazione, si cambia pelle e la sezione ritmica torna a spingere sull'acceleratore, il sentimento è come la strada che si percorre, dritta e infinita, solitaria e pericolosa. La foga si stempera e torna un andamento medio, cadenzato ma potentissimo, dove brilla come una stella luminosa un assolo blues, radicato negli anni 70, e dove il basso raggiunge il suo momento di gloria. Il "sali e scendi", su questa giostra immaginaria, continua imperterrito alternando momenti frenetici a rallentamenti demoniaci, e allora si odono dei sussurri, coperti dai ripetuti, ipnotici e lisergici fraseggi di Homme, mentre i piatti di Bjork sibilano come rettili in amore; torna il terremotante basso, capace di anticipare certi suoni doom, specie quelli legati allo stoner moderno e allo sludge, talmente è muscoloso e invadente. La legge è quella della strada, dove ognuno fa ciò che gli pare, segue il proprio cammino, si addentra nel pericolo e si mette alla prova, al fine di sopravvivere alla giungla. The Law è una composizione entusiasmante, che cammina, sguscia via tra le dune, evolvendosi minuto dopo minuto, rivelando l'aspetto piuttosto articolato della musica creata dai Kyuss e che esploderà soprattutto a partire dal secondo album, in un misto di psichedelia e asperità senza forma precisa.
Isolation
Isolation (Isolamento) è una vettura lanciata a tutto gas e privata di freni, che viaggia per due minuti, sparata a 200 chilometri orari, senza fermate, dritta verso l'ignoto. È sicuramente il brano più diretto di Wretch, dotato di un testo criptico e intimista che riflette le paure di un folle. Il testo cervellotico fa il filo con un andamento paranoico, schizzato, come in preda a droghe pesanti. Il riffing portante è disturbante, il sapore punk n' roll si sente giù in gola, mischiato alla polvere alzata dagli pneumatici al contatto con l'asfalto. Un polverone di sabbia che invade le orecchie, il naso e la bocca, arrivando dritto al cervello. Isolamento e desolazione, accoppiata vincente; i desideri di peccato, le mani lerce di sangue dopo il pestaggio, un sapore dolciastro sulla pelle: questa è la storia di un figlio di buona donna, un uomo cresciuto in strada e abituato alla vita, quella vera, quella spericolata e selvaggia. Il tizio vive al confine del mondo, la sua mente è andata, perciò chiede di non essere aspettato, adesso ha una corsa da fare, col suo bolide brucia-benzina, chissà se tornerà. Chissà se si rifarà vedere, primo o poi. Il deserto, intorno, rappresenta i suoi sentimenti, lui è un duro, un solitario, che vuole vivere da solo, lontano da tutti. L'isolamento, mentale e fisico, è la meta finale, e allora perché dannarsi alla ricerca di amici e di una compagna quando si può benissimo star bene da soli, senza problemi, a fissare il sole incandescente che arde il terreno e mette a dura prova la sopravvivenza di ogni essere vivente, in quei luoghi angusti e inquietanti. L'hard rock resta ancora agli anni 70, Blue Cheer nel cuore, essendo considerati gli anticipatori di un certo tipo di metal alternativo, tra cui lo stoner, appunto, venti anni prima. Un brano diretto, muscoloso, dalle forme squadrate come una di quelle macchine americane che si vedono in tutti i film, dalla forma allungata e dagli spigoli accentuati, con le rilucenti cromature sulle fiancate, che brillano sotto i raggi del sole?.
I'M Not
I'M Not (Io Non Sono) è sbornia totale, anche per il modo di cantare di Garcia, un po' sbilenco, e dalle ritmiche che flirtano col grunge. Rabbia, foga sonora, delirio cerebrale, che mettono in musica la paura della morte, cercando di esorcizzarla. No, il protagonista non è pronto a lasciare questo mondo, un mondo miserabile, certo, ma anche interessante anche se spesso ci mette a dura prova, tutti quanti. Quest'uomo non vuole responsabilità, non vuole sacrificarsi per il proprio popolo e per il proprio paese, gli basta vivere in modo onesto, farsi gli affari propri, essere una brava persona, soffocare l'odio che lo pervade e cercare di mantenersi sulla retta via. Dopo tutto la vita è una soltanto, e già fa schifo, dunque perché sprecarla a fare stronzate? Il messaggio giunge dritto alle nostre orecchie, è un buon messaggio, anche se potrebbe apparire menefreghista. Io non sono, loro non sono. Nessuno è pronto a morire, è questa la verità, perché la vita brucia dentro ogni essere umano, e tutti noi combattiamo per sopravvivere. La sezione ritmica crea confusione, giunge il tramonto, il sole cala oltre l'orizzonte incendiando il panorama, le rocce brilluccicano assorbendo gli ultimi tiepidi raggi di luce, riscaldandosi prima di raffreddarsi nella notte, intorno il paesaggio è vuoto, silenzioso, e una leggera brezza si alza oltre la valle portando con sé refrigerio. Il crepuscolo, la notte, simbolo di morte, giunge con passo silenzioso e inatteso, mentre il giorno, caldo e afoso e con un'atmosfera quasi irrespirabile in quelle longitudini, è simbolo di vita, o più che altro di sopravvivenza, date le difficolta che il clima comporta. Le chitarre sono balle di fieno trasportate dal vento serale, si snodano frusciando lungo la strada, il basso è il rombo di un motore in lontananza, i colpi inferti da Bjork sono martellate sul legno, forse qualcuno sta aggiustando la casa o la stalla, il proprio rifugio. La struttura del brano è lineare, spezzata da alcuni cambi di tempo, il primo nella fase centrale, quando parte un intenso scambio strumentale, il secondo avviene nella coda finale, dando il via a una serie di stop & go dominati dall'ascia a quattro corde del prode Oliveri?.
Big Bikes
Big Bikes (Grosse Moto) è registrata da schifo, ma va bene lo stesso; la ruggine traspare in ogni singola nota, così come la voce da cartavetrata di Garcia. È proprio lui, borioso, a invitare una bella ragazza, rimorchiata in strada, a stringere forte i suoi fianchi, aggrappandosi per bene sulla sella della moto e partire per le strade notturne della città. È una notte incantata, dove tutto diventa selvaggio e spericolato. Le ruote che girano, il motore che ulula al vento, la brezza della notte, il buio che divora ogni sentimento. Ancora un inno ai motori, alla libertà e ai rapporti sessuali, scanditi da un basso pompato oltre ogni limite e che ogni tanto rimbomba sovrastando tutto, mentre batteria e chitarra si inseguono in un hard rock lineare ma dotato di una certa melodia, sul quale si staglia orgoglioso il buon refrain, scandito con minuziosità da un Garcia in grande spolvero. Tutto ciò di cui un uomo ha bisogno è una moto su cui poggiare il culo e una donzella, dietro, che gli sussurra che se lo vuole scopare. Il magico momento, la velocità, la vita selvaggia, rendono tutto più bello. La donna si sente bene, è eccitata, vuole fare sesso, proprio lì, sulla moto, perché vuole sentire il motore ruggire tra le sue gambe. Il rombo del bolide d'acciaio è scandito dalla chitarra di Josh Homme, dunque un assolo minimalista sottintende l'atto sessuale, condito dai lamenti del vocalist. Il doom dona sensualità ed eleva le liriche, che ricordiamo essere state scritte da un manipolo di ragazzini adolescenti con gli ormoni impazziti; quattro ragazzi di Palm Spring che sognavano la libertà, le donne e dei mezzi con cui spostarsi, scacciando ogni problema, ogni pensiero. Il rock di strada, sporco e bestiale è proprio quello che ci vuole per trascorrere la serata, per combattere la noia e la frustrazione tipica di chi vive nella provincia, dove non c'è molto da fare. Anche in questo caso, il testo rappresenta l'attitudine minimalista di questo genere, arido, desertico, polveroso, viscerale, scandito da concetti basici, genuini. Ingenuamente, i Kyuss gettano le coordinate, non solo musicali ma anche tematiche, di un nascituro sottogenere rock.
Stage III
Stage III (Scena III) è la coda finale, più impolverata che mai, una colata di fango che invade gli spazi e che si distende sulla chitarra elettrica e sulla batteria in una danza tribale di grande fascino. Si tratta di un brano strumentale, bellissimo, rappresentativo di un genere, costituito da ondeggiamenti sinuosi e stacchi repentini che non hanno nessun fine se non quello di mandare in estasi le menti degli avventati ascoltatori. I suoni acidi, che strabordano di veleni e gas tossici, si amalgamano e si confondono in una nube sabbiosa che si estende secondo dopo secondo tramite fraseggi lisergici e su un'unica e frenetica linea di basso. Sotto, un costante fruscio accompagna la composizione, scandito dal sibilo dei piatti di Bjork ma anche dalla dozzinale produzione, una produzione che ha contribuito fortemente al concetto stesso di stoner, solitamente registrato con una costante ricerca retrò, ancorata agli anni 70, e un delizioso gusto fuzz delle chitarre, ovvero quel suono zanzaroso ormai divenuto marchio di fabbrica di questa categoria musicale. I primi anni 70 che tornano prepotentemente di moda grazie al revival ripescato alla fine degli anni 80, per un'evoluzione che guarda costantemente al passato ma destinata a forgiare il futuro di un tipo di rock duro che guadagnerà consensi per tutti gli anni 90, rafforzandosi e consolidandosi nel tempo grazie all'operato dei Kyuss, per poi diramarsi in diversi sottogeneri, ognuno dei quali che le proprie influenze. Psichedelia, space rock, rock 'n' roll truculento, sludge, doom cosmico, drone, tutti uniti sotto un unico immaginario filo logico. Ma tutto parte da qui, dalle chitarre fuzz di questi ragazzi e da quelle di pochi altri, sparsi tra la costa est e quella ovest degli U.S.A., pronti alla conquista del mondo intero. "Wretch" ci chiude così, con una strumentale di grande impatto, una cavalcata nel deserto con tutti gli strumenti impennati e che si trascinano in questo clima impervio?.
Conclusioni
Catherine Enny e Ron Krown, direttori artistici della piccola Dali Records, stampano poche copie in vinile, i mezzi sono quelli che sono, le attrezzature anche, perciò "Wretch", emblematico titolo che tradotto in italiano significa "miserabile", gode di ben poca visibilità e di una produzione sporca. I singoli brani sono stati ripuliti rispetto alla versione originale, almeno abbastanza da risultare presentabili, ma emerge comunque quella patina liquida e oleosa e quel fruscio di sottofondo che indicano un suono povero e amatoriale. Eppure, nonostante gli evidenti limiti produttivi, le ingenuità tipiche di un prodotto giovanile e le coordinate stilistiche ancora non del tutto chiare, questo album giunge come un fulmine a ciel sereno all'interno del panorama musicale. Il mondo metal è scosso da cotanta sinergia, dalla potenza di suono creata dalla chitarra di Josh Homme, dal basso ancestrale di Nick Oliveri, dalla batteria funerea di Brant Bjork e dalla voce acida e apocalittica di John Garcia. Un monolite dall'impatto stellare si abbatte sulla terra, scavando una fossa che seppellisce tutti, portando con sé una nuova visione delle cose, aprendo la strada al futuro del rock duro. Il debutto dei Kyuss è devastante, undici brani che rievocano l'apocalisse, undici diamanti grezzi che riecheggiano tra le dune del deserto, tra i sassi dietro i quali si nascondono serpenti e scorpioni, tra le tempeste di polvere che si scatenano al tramonto, quando il sole scende oltre l'orizzonte lasciando spazio alla notte e al refrigerio. Le temperature elevate, calde da togliere il fiato, che danno alla testa, traspaiono all'interno di queste architetture sonore, dove le ritmiche ondeggiano proprio come quella sabbia dorata trascinata dal vento. Il sole rosso fuoco, incandescente come lava, picchia sulle menti e sui cuori, infondendo confusione e stordimento, lasciando estasiati come in preda a visioni mistiche. Allucinazioni visive e uditive, alcool e droghe che si sciolgono in corpo come candele divorate dalla fiamma, si sposano con liriche derivative dal rock 'n' roll e, a tratti, sempliciotte, ma che comunque vanno a identificare un intero genere e che sono in grado di ricreare specifiche ambientazioni che saranno alla base dello stoner. "Wretch" è un album un poco acerbo e con alcuni filler, e non può essere altrimenti, essendo l'opera prima di un gruppo di ragazzi adolescenti che, all'epoca delle prime composizioni, aveva soltanto sedici anni. Sedici anni e una lunga strada davanti: estesa, spericolata e infinita come una lingua d'asfalto che taglia il deserto, un'autostrada che attraversa l'intera regione e che si confonde con l'orizzonte, arsa dal sole e isolata dal mondo. Bisognava essere lì, in California, tra le fine degli anni 80 e l'inizio dei 90 per capire l'intuizione di questi ragazzini dall'aria spaccona, per assaporare la nascita del genere più polveroso e sporco del metal e che andava in contrasto con tutto ciò che era di moda allora. Glitter e calzamaglie zebrate, capelli cotonati, ritornelli scanzonati, ogni cosa cade sotto i colpi psichedelici e funesti, dal passo cadenzato e possente, della musica del deserto, portatrice di incubi allucinogeni e di racconti di vita scabrosi e disgraziati che, concettualmente, si avvicinano molto all'altro genere che esplode in contemporanea poco più su, nella città di Seattle: il grunge. L'esordio dei leggendari Kyuss passa inosservato, le mille copie stampate faticano ad essere vendute, almeno in un primo momento, salvo poi crescere di pari passo con la popolarità della band, fino a diventare un disco di culto, apprezzato da tutti gli appassionati. "Wretch" è davvero un lavoro "miserabile", polveroso, scabroso, torrenziale, lunatico, tenebroso, ma non solo, perché è anche un album "rinnegato", quasi fosse maledetto, tanto che i Kyuss tenderanno a dimenticarlo già l'anno seguente la sua uscita, ripudiandolo per sempre. Per la band, infatti, l'esordio ufficiale avviene con l'imponente "Blues For The Red Sun", ossia il più grande album stoner della storia, mentre questo piccolo, timido, ingenuo assaggio, sarà considerato solo una sorta di sperimentazione, di preparazione a ciò che verrà, espressione di una band che è esistita e che poi è sparita nel nulla, perché si è evoluta in qualcos'altro. Ma tutti sappiamo la verità: i Kyuss nascono dal deserto, direttamente dalle note di questo ottimo album, così come la sacra parabola del desert rock scaturisce da "Wretch". Impossibile dimenticare un'opera del genere, a tratti acerba ma di importanza fondamentale.
2) Love Has Passed Me By
3) Son Of A Bitch
4) Black Widow
5) Katzenjammer
6) Deadly Kiss
7) The Law
8) Isolation
9) I'M Not
10) Big Bikes
11) Stage III