KYUSS
Muchas Gracias: The Best Of Kyuss
2000 - Elektra
ANDREA CERASI
21/10/2017
Introduzione Recensione
Settembre 2000. L'etichetta Elektra Records si fa furba e sotto la spinta commerciale che coinvolge lo stoner (e generi affini) all'inizio del nuovo millennio decide di cavalcare l'onda del successo, in questo caso accompagnato da tanta nostalgia, immettendo sul mercato il best of della più grande band stoner della storia. Non un vero greatest hits, anzi, piuttosto una raccolta di B-sides, demo e di tracce live contenute nei vari e rari singoli ed ep rilasciati negli anni dai Kyuss. Certo è che il titolo potrebbe trarre in inganno lo sventurato ascoltatore, il quale, all'interno del succulento dischetto, si ritrova ben quindici brani, ma non quelli che hanno fatto la storia del desert metal, piuttosto jam-session e scarti di album qui raggruppati per deliziare collezionisti e fans accaniti. Il titolo scelto per presentare il lavoro è "Muchas Gracias: The Best Of Kyuss", una sorta di ringraziamento a tutti i fans della band californiana che di certo non hanno dimenticato i nostri eroi del deserto, nonostante i cinque anni trascorsi dallo split. Data la caratura della band in questione, persino gli scarti e le tracce improvvisate in studio risultano di grande qualità e potrebbero accontentare tutti, vecchi fans, soprattutto, ma anche neofiti del combo americano. Una lunga serie di portentosi riff sabbiosi, un muro di suono compatto e monolitico che rievoca le atmosfere delle dune deserte, dell'afa soffocante, del sole incandescente che sono sempre state alla base della musica dei Kyuss. Terra, acqua, fuoco e aria, i quattro fattori che hanno determinato l'ascesa dello stoner metal, le tematiche affrontate e la filosofia stessa di questi giganti degli anni 90. Una parabola spirituale raccontata attraverso questa interessante raccolta entrata addirittura nelle classifiche mondiali, vendendo assai bene e testimoniando che nessuno ha dimenticato la band di Homme e Garcia e che anzi, ha alimentato nostalgia di una decade ormai giunta al termine e la voglia di rivederli tutti assieme sul palco, a gridare ancora una volta di droghe, allucinazioni perverse, amori stroncati, viaggi interstellari e rapporti intimi con la natura. Quello che hanno creato i Kyuss in pochissimo tempo, solo sei anni di carriera per quattro enormi album, è qualcosa di miracoloso, paragonabile a un'oasi in mezzo al deserto, dove molti pellegrini, ovvero migliaia di future band, si sono abbeverate da questa fonte traendone ispirazione. In questa compilation troviamo tracce di quattro dischi fondamentali, quattro monumenti rocciosi che rappresentano un intero sottogenere, compreso l'odiato debutto, ripudiato dalla stessa band perché considerato inspiegabilmente immaturo: "Wretch", arido e granuloso come la sabbia, che un po' acerbo lo è, ma che suona lo stesso come una bomba di grande valore, capace di dare il via alla trilogia comprendente "Blues For The Red Sun", rovente e trascinante come il fuoco, "Welcome To Sky Valley", libero e spericolato come il vento, "..And The Circus Leaves Town", astratto e liquido come l'acqua. Quattro lavori per quattro cicatrici che hanno scalfito la storia dell'hard rock. Operazione discutibile quella di "Muchas Gracias", ma che almeno rende bene l'idea dello spirito imprevedibile della band di Palm Desert, capace di costruire, su accordi molto simili tra loro, diversi brani, allungandoli e accorciandoli a proprio piacimento, mettendo in luce una sperimentazione continua che ha pochi rivali. Una collezione di pezzi improvvisati, almeno in gran parte, che simboleggiano il grande talento e il grande affiatamento dei singoli componenti. Armonia e incanto venutisi a spezzare proprio nel 1995, dopo il rilascio del quarto album. Dunque, arrivati a questo punto, andiamo a dare uno sguardo ai singoli brani che formano l'assemblaggio. Tra questi ne troveremo alcuni popolari, appartenenti ormai alla leggenda, e altri meno famosi, collocati all'interno di alcuni singoli, e altri ancora eseguiti live in studio o sul palco.
Un Sandpiper
Un Sandpiper (Il Beccaccino) è un estratto prelevato dalle sessioni di "..And The Circus Leaves Town" e poi mai inserito nel disco, pur conservando l'attitudine e le caratteristiche dell'ultimo album della band. Il brano ha una struttura liquida ed è connotato da tematiche acquatiche, e non a caso ha per titolo un uccello acquatico, il beccaccino, anche se poi i titoli dei Kyuss vanno presi con le pinze, dato che quasi sempre non hanno attinenza col testo. Ma "Sandpiper" significa anche "Pifferaio della sabbia", cosa assai più consona al contento stoner, dove la sabbia è sempre protagonista e tema prediletto di questo genere musicale. Il brano in questione è un concentrato di potenza, un'onda d'urto sorretta da colossali giri di basso e scontri con la chitarra elettrica, il tutto disteso per otto minuti, privi di cambi di tempo rilevanti e senza spiragli melodici. Si va dritti al punto sin dalle prime note, un doom velocizzato e dal gusto retrò venato di blues che ogni tanto fuoriesce dagli altoparlanti. Qui si corre e non ci si ferma mai per tutta la durata, trovando una composizione tripartita in grossi blocchi d'acciaio, sulla quale si disperde un testo conciso incentrato sulla morte, vista come principio di una nuova vita ultraterrena e anche come libertà individuale assoluta. Garcia ci prende per mano, con la sua voce sporca e arida, e ci trasporta sospesi sul filo dell'acqua, proprio come fanno i beccaccini per cibarsi di piccoli pesci che nuotano in superficie. Noi fluttuiamo sulla corrente, trasportati dal vento e dalle onde che ogni tanto ci investono. Non bisogna star ad ascoltare le cazzate che la gente ci propina, bisogna fare di testa propria, essere liberi di scegliere come vivere, e di morire come si preferisce. Le leggi morali sono soltanto limiti e costrizioni dell'animo umano, il quale, per potersi liberare dalle catene dell'esistenza, deve recidere il cordone con la realtà, tagliare quel filo immaginario che tiene uniti anima e mondo, al fine di librarsi in cielo e allontanarsi nella vastità dell'oceano come cadavere alla deriva. Il messaggio è abbastanza chiaro, l'amarezza del testo è ciò che emerge tra le righe. Insomma, potenza di suono unita a testi più cupi, nichilisti, e un lungo omaggio all'acqua, elemento che genera vita ma che conduce anche alla morte. Otto minuti di classe, scanditi dalla chitarra fuzz che rievoca una sensazione granulosa e sporca, come sabbia che scivola via tra le dita.
Shine!
Shine! È uno dei pezzi più strambi dei Kyuss, molto influenzato dallo space rock, costruito su continue distorsioni e su inquietanti effetti sonori in sottofondo atti a dare una sensazione di straniamento, quasi fossimo proiettati nello spazio siderale, in balia del nulla. Garcia strepita, emette spaventose grida per tutto il tempo, con voce modificata che assomiglia tanto a quella di un demonio. Homme e Reeder ci danno dentro con una serie infinita di riff, siparietti strumentali, assoli ed effettacci plumbei, marci e densi come il fango. L'astrazione qui raggiunge il suo apice, costruendo un brano stranissimo, che stordisce le menti, che sembra liquido, evanescente, quasi privo di dinamismo, tanto che possiamo interpretarlo come un unico blocco sonoro privo di grossi cambi di tempo. Una distesa magmatica che penetra nel cervello e lo spappola. Probabilmente l'intento è quello di trasmetterci l'idea dell'astronauta perduto nello spazio, senza ossigeno e con la testa che sta per esplodere. Non si riesce a respirare, inoltre Hernandez è ermetico, cubico, e riesce a creare una sorta di parabola horror, la stessa che potremmo riscontrare in un qualsiasi film di fantascienza/horror dalle atmosfere claustrofobiche e maligne. Non so, viene in mente "Alien" di Ridley Scott, ma gli esempi potrebbero essere molteplici. "Shine!" è uno degli ultimi pezzi composti dalla band, inserito nello split del 1996 assieme ai Wool, altra stoner metal band misconosciuta. Non c'è molto altro da aggiungere su questo brano strumentale, che si distende in maniera uniforme per circa cinque minuti, per poi sfumare in una coda sorretta dalla chitarra di Homme che vagisce per quasi due minuti, dandoci la sensazione che tutto sia ormai perduto, come un astronauta sempre più lontano dalla propria astronave e irraggiungibile. Sicuramente una traccia interessante e molto sperimentale, ma forse non così importante da meritare l'inserimento in una raccolta denominata "best of", data la natura di b-side, ma che almeno testimonia la continua ricerca sonora da parte di questi ragazzi.
50 Million Year Trip (Downside Up)
50 Million Year Trip - Downside Up (Viaggio Di 50 Milioni Di Anni - In Discesa) è il resoconto di un rapporto finito male. Un buon giorno per sommergere le frustrazioni nell'alcool, la città si colora di luce, il cielo si schiarisce, la notte ha fatto spazio all'aurora: ecco, allora, la triste consapevolezza di aver perduto per sempre la donna amata. L'uomo sussurra, attraverso la voce di Garcia, di essere lucido, di aver accettato il fatto che abbia perso la sua metà, ma di non fuggire, di non nascondersi dall'umiliazione, perché lui è fatto così, è un puro. Il brano è una discesa nei fumi dell'alcool, nella confusione più totale ricreata proprio dagli strumenti, attraverso suoni vorticosi e opprimenti. Emerge una sensazione di claustrofobia e ossessione durante l'ascolto del pezzo, come fossimo scaraventati in un antro oscuro, in un tunnel senza luce, o magari in un bicchiere di whiskey tanto grande da contenere il nostro corpo. Prigionieri dell'alcool, del fumo, delle droghe, paralizzati da pensieri funesti e da ricordi mai veramente sepolti. Inutile fuggire, rifugiarsi da qualche altra parte, nascondersi: bisogna correre, e forte anche, per scacciare i demoni che infestano la nostra anima. Garcia è cantore di un amore tragico, andato in malora, laddove grida tutto il suo rancore per la perdita della donna amata. "Non ti dimenticherò mai" le urla nel grintoso e amaro refrain, proprio quando la sezione ritmica prende spessore e innalza un polverone che tutto travolge, come se rappresentasse le forti emozioni provate dall'uomo, seduto in un bar a riempirsi di alcool pur di dimenticare. Ma dimenticare è impossibile, il ricordo della donna amata è un fantasma che aleggia nell'aria, una presenza sempre ingombrante. Le strofe si susseguono incessantemente, tra fraseggi che stordiscono e rullate impazzite, dove Homme e Bjork si sfidano in una lotta frenetica e maligna. C'è lo spiraglio blues, Oliveri e Homme si lanciano in un grandioso e psichedelico bridge, dominato da una parte strumentale di grande effetto, sensuale e sulfurea che domina gran parte della seconda metà del brano. Gli assoli del chitarrista sono timidi, appena percettibili, si snodano con magnetismo sovrastati dal basso, ma si fanno spazio sul finale emergendo dalla mischia e trascinandoci alla fine.
Mudfly
Mudfly (Mosca Di Fango) è una delle composizioni meno efficaci della band, misteriosamente scelta per far parte di questa raccolta. Il fango del titolo, in realtà è poco presente nel suono, perché è vero che si tratta di stoner e quindi di suoni sporchi e sabbiosi, ma qui si ha più l'idea dell'aria e del vento, come di un qualcosa che si estende in cielo e sale sempre di più. La tematica potrebbe essere legata a quelle espresse in un disco come "Welcome To Sky Valley", e la traccia potrebbe anche essere un'esecuzione proveniente dalle sessioni di quel disco. Dal punto di vista simbolico potrebbe essere la rappresentazione musicale dell'insetto che aleggia nel videoclip del singolo "One Inch Man", dal quale è prelevata. La traccia si presta ad essere una mosca delle sabbie che si aggira nel deserto, incuriosita dai suoni corposi e mefistofelici dei quattro ragazzi di Palm Desert. Qui il protagonista principale è Hernandez, in grado di scolpire un andamento ritmato e molto funky, grazie anche all'ausilio del basso e della chitarra dei suoi compagni che intavolano un duello timido ed estraniante. Certo, due minuti così sono pochi e tutto sembra così improvvisato, segno che anche questo pezzo è soltanto l'esempio semplificato di un qualcosa che avrebbe poi dovuto prendere forma, una forma più evoluta e complicata. Josh Homme ha specificato più volte che le sue idee nascono per caso, senza uno studio preciso sotto, ma semplicemente impugnando la sua chitarra ed eseguendo dei giri casuali. "Mudfly" è una strumentale costruita su due giri casuali, e si sente, non riuscendo molto a colpire l'attenzione dell'ascoltatore. Va bene protrarre l'incipit per due minuti, senza cambi di tempo, seguendo un'ideale linea retta, ma poi, quando sembra che il tutto stia per esplodere, ecco che il brano finisce lasciando con l'amaro in bocca. Tuttavia, è interessante notare che gli ululati che si odono ogni tanto grazie a Homme che stride la sua sei-corde, potrebbero indicare le virate eseguite dalle ali della mosca, la quale ondeggia sospinta dal vento tra una duna e l'altra.
Demon Cleaner
Demon Cleaner (Il Demone Pulitore) è una demo, ossia la prima versione registrata, del tutto uguale a quella che conosciamo e che è presente nel terzo album in studio e che si differenzia soltanto per una registrazione meno pulita rispetto alla traccia ufficiale. Il pezzo possiede un testo polivalente, dai molteplici risvolti. I fraseggi fuzz, zanzarosi, si accavallano l'uno sopra l'altro e Garcia è ipnotico e sofisticato, dalla voce sussurrata. È interessante notare come la band sia abile a dare un senso profondo e intimista persino a una semplice paura adolescenziale, arricchendo la narrazione con messaggi profondi e polivalenti. In questo caso, la paura del medico si trasforma in una storia religiosa, carica di spiritualità, laddove il corpo deve essere liberato dal peccato mortale, dai demoni che lo possiedono, come fosse un esorcismo, e il dentista, il pulitore, viene identificato nel prete che scaccia via il male che affligge la vittima. Il prete, o forse Cristo, è il salvatore, il liberatore, colui al quale il poveraccio si aggrappa con tutte le sue forze. Dunque si sta parlando di pulizia, ed è divertente scoprire che Homme scrisse questa traccia in seguito a diversi incubi che lo scuotevano da ragazzino, quando doveva recarsi dal dentista. Il demone schiaritore è, infatti, il dentista, il quale si avvicina al ragazzo con sguardo sorridente e siringa in mano, pronto ad operare e fare una bella pulizia. Il ritmo non eccede mai in velocità, nonostante la profondità e la foga ossessiva del testo, il ritmo rimane sempre piuttosto calmo, scandito dal docile riff di chitarra e dalla carica della batteria, mai pronta però per scalciare definitivamente, rimanendo impaziente fino alla fine. La melodia non apre spiragli dolci anzi, il sentore amaro ci accompagna per tutto il minutaggio, salvo poi convergere nella lunga e brillante coda finale, la quale si carica di nuovi messaggi biblici, perché ci avverte che gli impostori sono tra noi, cercano di prendere il nostro posto, di plagiarci, di attirare l'attenzione. Non bisogna ascoltarli, non bisogna dare adito alle voci interiori dei demoni, quelle che ci dominano, ma dobbiamo svuotare la mente, il vuoto come pulizia dai dolori e atarrassia, in attesa che il salvatore che finisca l'operazione e ci ridoni il sorriso smagliante di un tempo, di quando eravamo giovani, puliti e innocenti. La pulizia dei denti è anche metafora di pulizia interiore, fuga dai propri demoni, eliminazione dei peccati.
A Day Early And A Dollar Extra
A Day Early And A Dollar Extra (Un Giorno Presto E Un Dollaro Extra) è un'altra strumentale di due minuti concepita come outro per l'ep dal quale è stata estrapolata e che, perciò, messa in mezzo a questa scaletta non ha molto senso. In realtà Garcia recita un testo, ma lo sospira quasi impercettibilmente che viene accreditata come strumentale a tutti gli effetti. Sembra che nessuno sappia cosa stia farneticando Garcia, il che rende tutto ancora più immaginifico e aleatorio. La sensibilità tipica dei Kyuss, però, avvolge i timpani dell'ascoltatore come fosse balsamo e in un certo qual modo, la melodiosa ninna nanna ci rassicura e ci fa sentire a casa. Il titolo è, come al solito, uno sfoggio senza senso, parole messe a casaccio, come un buon 80% del materiale prodotto dalla band californiana. È un brano che poco aggiunge alla grandezza della band, presentandosi come esperimento, dalla struttura molto distesa e liquida, dove a regnare sono i bonghi suonati da Alfredo Hernandez, donando al pezzo un'identità tribale e ancestrale. Homme è ipnotico e si intravede appena perché è sommesso, mettendosi dalla parte del pubblico più che da quella di interprete. Questa strumentale assomiglia molto alla bellissima e conclusiva hidden track di "..And The Circus Leaves Town" che si intitola "Day One", dedicata alla scomparsa di Kurt Cobain, dalle atmosfere mistiche e dalle linee morbide tanto che si trascina come una sorta di ballad intimista e cupa. È ovvio che la sua natura non sia autonoma, in quanto non si tratta di una vera e propria canzone, più semplicemente un interludio allucinogeno e astratto che ci culla tra dolci note sospirate. L'ermeticità e il lirismo criptico della band qui raggiunge il suo apice, perché le parole espresse dal vocalist non si riescono ad afferrare e nemmeno una piccola ricerca in Internet è d'aiuto.
I'M Not
I'M Not (Io Non Sono) è costituita da chitarre fruscianti che sono balle di fieno trasportate dal vento serale e che si snodano sibilando lungo la strada, mentre il basso è il rombo di un motore in lontananza; i colpi inferti da Bjork sono martellate sul legno, forse qualcuno sta aggiustando la casa o la stalla, il proprio rifugio. La struttura del brano è lineare, spezzata da alcuni cambi di tempo, il primo nella fase centrale, quando parte un intenso scambio strumentale, il secondo avviene nella coda finale, dando il via a una serie di stop & go dominati dall'ascia a quattro corde del prode Oliveri. Il tutto è sbornia totale, anche per il modo di cantare di Garcia, un po' sbilenco, e dalle ritmiche che flirtano col grunge. Rabbia, foga sonora, delirio cerebrale, che mettono in musica la paura della morte, cercando di esorcizzarla. No, il protagonista non è pronto a lasciare questo mondo, un mondo miserabile, certo, ma anche interessante anche se spesso ci mette a dura prova, tutti quanti. Quest'uomo non vuole responsabilità, non vuole sacrificarsi per il proprio popolo e per il proprio paese, gli basta vivere in modo onesto, farsi gli affari propri, essere una brava persona, soffocare l'odio che lo pervade e cercare di mantenersi sulla retta via. Dopo tutto la vita è una soltanto, e già fa schifo, dunque perché sprecarla a fare stronzate? Il messaggio giunge dritto alle nostre orecchie, è un buon messaggio, anche se potrebbe apparire menefreghista. Io non sono, loro non sono. Nessuno è pronto a morire, è questa la verità, perché la vita brucia dentro ogni essere umano, e tutti noi combattiamo per sopravvivere. La sezione ritmica crea confusione, giunge il tramonto, il sole cala oltre l'orizzonte incendiando il panorama, le rocce brillano assorbendo gli ultimi tiepidi raggi di luce, riscaldandosi prima di raffreddarsi nella notte, intorno il paesaggio è vuoto, silenzioso, e una leggera brezza si alza oltre la valle portando con sé refrigerio. Il crepuscolo, la notte, simbolo di morte, giunge con passo silenzioso e inatteso, mentre il giorno, caldo e afoso e con un'atmosfera quasi irrespirabile in quelle longitudini, è simbolo di vita, o più che altro di sopravvivenza, date le difficolta che il clima comporta.
Hurricane
Hurricane (Uragano) era la traccia d'apertura di "..And The Circus Leaves Town" e come tutte le tracce d'apertura si profila come un vero e proprio uragano che scuote le menti e i corpi degli ascoltatori. Brevissima ma trascinante, il pezzo è un monolite pesante e quadrato che si adagia su una struttura composta da un testo concentrato in un unico blocco nel più puro del nichilismo lirico, come da tradizione Kyuss, ma non solo, perché i testi elaborati da Garcia sono sempre i più plumbei e amari. Freddi, proprio come la cover del disco ultimo della band . Un sasso gigantesco, che non viene scalfito da spiragli melodici ma solo da martellanti colpi di batteria che ci conducono a una dimensione ossessiva e claustrofobica, dove il ritmo è serrato, incentrato costantemente sul dialogo tra chitarra e batteria, ma privo di assoli e senza cambi di tempo; tutto procede dritto come un treno, sparato a mille, e non si ha un attimo di respiro tanta è la foga. Garcia recita la litania senza prendere fiato, la sua voce è meno imperiosa del solito e appare più astratta, tanto che molti criticheranno questo suo nuovo modo di cantare apparentemente svogliato, ma forse studiato per dare ai pezzi dell'ultimo album maggiore astrattezza e liquidità, perdendo forse in potenza ma aumentando la sensazione di sbrodolamento mentale, di ipnotismo, come se la canzone, da roccia, si stesse sciogliendo trasformandosi in acqua. Non a caso il testo ci dice che l'uomo ormai non sente niente, non vuole provare niente, perché la vita fa male, è uno stato di disperazione costante, e allora meglio l'atarassia, l'assenza dei sentimenti, il vuoto dell'anima, per non provare dolore. La vita è un soffio di vento e lui non riesce a respirare, forse non vuole farlo, e si abbandona al nulla, facendosi trascinare dalle note musicali in una sorta di limbo, in questo uragano di sensazioni che lo trastullano, lo scuotono, lo scaraventano in aria, spazzato via come un insetto. L'uragano è la sua mente, ma l'uragano è anche fuori, e sta martoriando il suo corpo inerme, investendolo e conducendolo alla morte. Probabilmente è ciò che l'uomo cerca, dato che la vita ormai non ha più senso alcuno.
Flip The Phase
Flip The Phase (Scocca La Fase) è un brano improvvisato, tanto che da questo pezzo nascerà la lunga e complessa "Fatso Forgetso" (che seguirà in scaletta), ultimo singolo nella storia dei Kyuss, ovvero otto minuti di delirio cosmico che racchiudono tutta la filosofia e l'attitudine spaziale della band. Qui troviamo una struttura minimalista, due minuti per un pezzo semplice e anche non troppo riuscito, dove si nota la sua natura improvvisata e messa su in piedi in pochi minuti. Strofa ritornello strofa, in pratica l'ABC del rock 'n' roll, sostenuto però da suono gonfi e pompati al massimo. Qui l'adrenalina tipica dei Kyuss emerge con prepotenza, la band spinge sull'acceleratore alzando un nuvolone nero e minaccioso che si abbatte sulle casse dello stereo. Homme sfida Reeder per tutto il tempo, seguito a ruota da Hernandez che picchia duro con sferzate metalliche che fanno tremare i muri. Garcia invece è vorace, sembra voglia terminare al più presto l'esibizione, e allora divora parole apparentemente prive di senso e le rigetta in faccia al suo pubblico. Ovviamente, come ogni dannato brano dei californiani, bisogna prendere l'interpretazione del testo con le pinze. Insomma, si va alla cieca e si interpreta personalmente. Una strofa e un ritornello, tutto qui, ripetuto per due volte, senza cambiare una singola sillaba, evidenziando uno stile asciutto e conciso. Da quanto si capisce, qualcuno ha comprato un attrezzo particolare, un qualcosa che dovrebbe donargli appeal, fascino, in modo tale da infliggere una bella lezione di vita a tutti quanti. L'oggetto del mistero è ovviamente tenuto segreto, non sappiamo perciò di cosa si sta trattando, tranne il fatto che sia un regalo destinato anche una donna e che dovrebbe accenderle il desiderio sessuale. Tutto qui, le liriche sono ostiche, sintetiche e confusionarie per trovare un senso logico a tutto ciò e probabilmente anche Garcia è della stessa opinione, vista la celerità con cui recita. Quando termina il brevissimo e allucinato refrain: "Non è giusto, non è per me", riferito a non si sa cosa e che cosa voglia intendere di preciso, Homme abbassa il tiro e trascina la sua chitarra in un riff lineare e acuto che si protrae per parecchi secondi. Non un vero assolo, ma qualcosa di simile, atto a disturbare la linearità di un pezzo estremamente classico.
Fatso Forgotso
Fatso Forgotso è l'evoluzione sonora di "Flip The Phase", dal titolo che è un gioco di parole dal misterioso significato. Hernandez e Reeder mettono in piedi questa sorta di jam, sembrano divertirsi e non prendersi troppo sul serio, ma il risultato è ottimo. Otto minuti e mezzo di musica, liriche brevi ed enigmatiche, per un risultato affascinante e sicuramente vincente, non il massimo da quello proposto dai Kyuss nel corso degli anni ma comunque di qualità. Esordisce Garcia, solenne, che intona uno dei due versi presenti, per un testo concentratissimo e contorto, dal significato criptico e quasi inafferrabile. Qualcosa è sollevato sopra di noi, aleggia sopra le nostre teste e si muove lentamente. I rumori che emette sembrano parole che non si riescono a capire. Potrebbe trattarsi di un UFO che fa la sua comparsa sulla terra, nel deserto della California; potrebbe essere questa l'interpretazione delle liriche, visto il tema comune con l'altra traccia presente sul singolo e vista l'emblematica copertina. Homme interviene con un assolo fuzz, scricchiolante e tronfio, dove l'adrenalina tipica dei Kyuss emerge con prepotenza, così la band spinge sull'acceleratore alzando un nuvolone nero e minaccioso che si abbatte sulle casse dello stereo. Homme sfida Reeder per tutto il tempo, seguito a ruota da Hernandez che picchia duro con sferzate metalliche che fanno tremare i muri. Garcia torna a vociare in modo concitato e confuso sovrastando le minacciose distorsioni di chitarra, dichiarando che ci stanno guardando, guardano nelle nostre menti e che stanno tornando a casa. Potrebbe trattarsi di alieni venuti dallo spazio, tornati sulla terra dopo migliaia di anni, la loro casa. Ovviamente, come ogni dannato brano dei californiani, bisogna prendere l'interpretazione del testo con le pinze. Il delirio cosmico si smorza frettolosamente, il cambio di tempo è dietro l'angolo, e spiazza l'ascoltatore. Hernandez e Homme ci cullano in un ritmo funky davvero evocativo e leggiadro, Garcia gorgheggia ripetendo sempre le stesse parole: "È sulle nostre teste", dunque Homme si lancia in un suolo, eseguito con poca grinta, mentre emerge con vigore il basso egregio di Scott Reeder. L'intermezzo strumentale, dall'animo improvvisato, si dilunga per tutta la seconda metà del brano, trastullandosi beatamente in questo delirio spaziale.
El Rodeo
El Rodeo (Il Rodeo) possiede una doppia ritmica che suddivide la canzone in due parti uguali, per metà quieta e danzereccia, mentre la seconda parte, invece, accelera forzatamente per proiettarci nell'incubo che vive un uomo drogato, costituito da vortici sonori e da voci che popolano la mente del protagonista. Josh Homme incomincia su eseguendo un riffing glaciale che rimanda quasi a una cantilena, e poi prosegue col supporto del basso di Reeder e della batteria di Bjork costruendo un ritmo funky che dondola l'ascoltatore e lo costringe e danzare come fosse in stato di catalessi. Garcia, gode di maggiore spazio come compositore e songwriter, complice anche l'abbandono del batterista Brant Bjork, maggiore autore, assieme a Homme, dei pezzi formati Kyuss. Qui Bjork ancora è in formazione, ma già si intuisce che qualcosa gli frulla in testa e ormai non partecipa più molto alla stesura dei nuovi brani, sintomo che i tour, gli impegni, i litigi con i compagni, lo stanno allontanando dal gruppo. Trascorre quasi metà pezzo, poi ecco un cambio di tempo improvviso, fulmineo, guidato dalla batteria angosciante di Brant Bjork che trasforma la base ritmica in una cavalcata doom, con tanto di nuvolone nero e minaccioso che incombe sulle nostre teste e dai lampi scagliati sulla terra dai velenosi riff di chitarra e di basso che si amalgamano e creano il panico. Timidamente, Garcia interviene a narrare quello che, apparentemente, sembra un elogio alle droghe; il rodeo, ossia l'atto di cavalcare un toro o un cavallo scalciante, rappresenterebbe lo stordimento a seguito dell'assunzione di droghe. Il cervello sbriciolato, confusione totale, la giostra è divertente, incarnata proprio dallo stupefacente che interroga la sua preda, John Garcia stesso, essendo l'autore del testo, e lo costringe a inginocchiarsi e a godersi gli effetti dello stordimento. Il divertimento è gratuito, ma dopo, svanito l'effetto, Johnny sarà lo stesso di prima? Probabilmente cadrà di nuovo nella depressione, si sentirà solo e triste. L'andamento si protrae a lungo, trasformandosi in una lunghissima coda finale, dominata da un Garcia che sembra implorare il suo padrone, la droga, di non abbandonarlo e di continuare a cullarlo tra le sue braccia astratte, facendolo cavalcare questo toro invisibile ma molto divertente.
Gardenia (Live)
Gardenia - Live (Gardenia) apre la parentesi live, quella estrapolata dal bootleg "Live At The Marquee Club" e già inserito dell'ep "Demon Cleaner". Il singolo è entrato nelle classifiche di tutto il mondo, portando al successo commerciale "Welcome To Sky Valley". L'andamento heavy è portentoso, poggiato su un basso che sembra un carrarmato, mentre la chitarra di Josh Homme svetta su tutto, una nube di polvere che si alza dal terreno e galleggia nell'aria. Il pubblico sembra esaltato e accompagna con cori e urla. Un'auto da corsa sfreccia nel deserto, metafora di allucinazioni perverse, carnali, ma anche di droghe che liquefano la mente. La carrozzeria cromata del muso dell'auto brilla sotto i raggi del sole, mettendo in mostra le modifiche al telaio e sfoggiandole davanti ai passanti. Il contagiri è al massimo, Bjork replica con repentine rullate dietro le pelli, veloci e possenti come il motore del veicolo, intanto Garcia ci infetta con la sua voce demoniaca, sepolta sotto quintali di terra che la rendono sporca e velenosa. Il pilota è sotto stupefacenti, guida come un forsennato, spinge sull'acceleratore; uomo e macchina ora sono la stessa cosa, vanno di pari passo, la mente è il motore, le gambe i pedali, le braccia il volante. La vettura-femmina è vogliosa di sesso, perde benzina da tutti i pori, come sudore sotto il sole cocente, dunque l'atto carnale avviene repentino. La morbosità nei confronti delle macchine, sinonimi di donne, di prostitute, è una costante delle liriche dei Kyuss. È malattia, è perversione che trova sfogo nelle liriche dei nostri. Il ritmo accelera e rallenta costantemente, si improvvisa una jam tra i musicisti, il basso si confonde con la chitarra, poi lascia il posto alla batteria, mentre Homme ci delizia con una serie di riff sfuggenti dal retrogusto funky. Reeder è imperioso, si crogiola con la sua ascia, gonfiando il suono e devastando il pubblico del locale, investendolo con una serie di soli. In tutto ciò John Garcia si fa da parte, lasciando spazio alla musica, per poi tornare grintoso come prima, quasi balbettando per trasmettere confusione e stordimento.
Thumb (Live)
Thumb - Live (Pollice) trasuda calore da tutti i pori, riportandoci indietro, all'epoca di "Blues For The Sun", dove l'arpeggio iniziale è ricco di polvere e nelle vicinanze si sente il sibilo di un serpente a sonagli, poi lo scatto degli strumenti e parte una danza cadenzata dall'animo doom, cosparso di catrame e di fango. Il suono del deserto riecheggia tra le pareti del Marquee Club di San Francisco e la platea è in fibrillazione. Homme produce un riff che annichilisce, allucinato e maligno, mentre Scott Reeder seppellisce tutti con la sua ascia a quattro-corde dal suono monolitico e penetrante. La cassa toracica vibra al passaggio della macchina da guerra messa in piedi dai Kyuss, un caterpillar che schiaccia tutto il pubblico accalcato sotto al palco. La minaccia prende forma nel momento in cui Garcia si mette dietro al microfono, intonando una cantilena di morte, di amara vendetta. Un uomo è finito giù in un fosso, il cadavere è stato dato alle fiamme, bruciato con un po' di benzina con l'accendino del killer. Lui è come il sole, divinità incendiaria e vendicativa, che non può passare sopra al torto subito, e allora si vendica uccidendo. Ma il tutto è una stramba metafora per indicare un risveglio da un lungo sonno, forse lo stordimento dovuto a una vita dedita alle droghe, dove l'uomo sfida se stesso. L'anima si rigenera continuamente e si cade di nuovo nella tentazione, le droghe rendono schivi. Il nemico è più vicino di quanto sembri, perché è dentro di noi. Il brano ha una struttura quadrata, scarna, spogliata di tutte le rifiniture dell'hard rock, il refrain si memorizza all'istante, d'impatto, solido, nel quale Garcia urla al rivale "che stai pensando, brutto bastardo?" mentre questi è in preda alle fiamme e si dimena al suolo. Il deserto è covo di segreti, sotto le sue sabbie vengono sotterrati misteri e ricordi, perché questa è la legge del più forte, la legge della California più desertica e imprevedibile. La band macina che è una bellezza, Brant Bjork è inquieto e lancia robusti fendenti alle pelli, tanto che i suoi colpi rintoccano nell'aria. I toni si intensificano nella rudimentale fase strumentale, dove Josh Homme tenta un solo abrasivo, cocente e alienante, intanto l'uomo muore tra atroci sofferenze.
Conan Troutman (Live)
Conan Troutman - Live (Conan Troutman) prosegue il mini concerto californiano, ed è guerra e potenza allo stato puro: due minuti condensati in una voragine magmatica espressa dal suono desertico e massiccio della band, qui in fase decisamente heavy, che trastulla il pubblico accalcato sotto al palco. Trattasi di una vera e propria mina pronta ad esplodere in migliaia di scintille condensate in un paio di minuti soltanto. L'amore è confusione, un misto di sentimenti astratti che forgiano l'animo, e allora Garcia vomita parole nichiliste che non vogliono dire nulla: la libertà di respirare a pieni polmoni, il seme dell'amore piantato negli organi e visto come gabbia, schiavitù emotiva scomparsa con la dipartita della partner. Il cervello è in preda alle droghe, fritto per il caldo e per il colpo ricevuto, restano solo il silenzio e la solitudine. Ci sono due brevi blocchi, due rocce che svettano nella sabbia del deserto, lunghi un minuto ciascuno, che non sono altro che una dedica d'amore verso qualcuno di importante. L'amore è il sentimento della libertà, quello più vicino al significato di droga, che fa sentire liberi, leggeri, spensierati e senza controllo. L'esplosione delle emozioni è sottolineata da una sezione ritmica che non cede il passo, non si ferma mai a elucubrazioni mentali passive, ma i pensieri si accavallano l'uno sull'altro in un magma confuso come le liriche criptiche che sono un vero enigma senza senso. La donna, ormai lontana, si è ripresa la sua vita mentre l'uomo, che probabilmente si chiama Conan Troutman, resta a contemplare l'infinito, scaturito dal breve e pungente assolo di Homme che lo ridesta dal torpore nel quale è stato scaraventato. Bjork picchia duro sulle pelli, alterando questa condizione confusionaria, facendo tremare le casse dello stereo, mentre il basso di Scott Reeder aumenta di intensità, accelerando i suoi battiti fino ad esplodere.
Freedom Run (Live)
Freedom Run - Live (Corsa Per La Libertà) è l'unica traccia del bootleg a non figurare nell'ep "Demon Cleaner", qui inserita per completezza. Ipnotica sin dall'inizio, quando Homme emette dei suoni estranianti e caldi, come provenienti dallo spazio infinito, fomentando e ipnotizzando il pubblico. L'eco delle parole di Garcia rimbomba a lungo nelle casse, stordendo al primo colpo. Dunque Oliveri subentra col suo basso imponente, spezzando il ritmo e cullandoci verso nuove frontiere sonore. Homme e Bjork tornano in vista e danno inizio a una danza entusiasmante e calibrata, dall'animo pacato e morboso. Garcia è un grande interprete, la sua voce è screziata dalla polvere e dalla ruggine, una bufera impossibile da quietare, che trasporta con sé incubi e fantasmi di un passato lontano. Ancora una volta è l'amore in tutta la sua vastità il protagonista delle liriche, un uomo dal cuore innamorato che attraversa il deserto, il sole cocente e i pericoli delle dune, per essere con la sua donna (o forse con la sua divinità?) e per riconquistarla dopo la separazione. È il canto disperato di un uomo sofferente, che attraversa una crisi mistica, deciso a riappropriarsi di ciò che gli spetta: la fede, ma non è dato sapere se si tratta di una fede religiosa o di un atto di fede nei confronti del proprio partner. La melodia è suadente, i suoni magmatici fanno da contorno, la libertà è stare con la propria metà; la corsa per la libertà è il sentiero che porta alla felicità, la felicità di amare, di essere libero di esternare sentimenti ed emozioni. La band prosegue la cantilena dal cuore blues, attraverso suoni grassi e colorati, alzando i toni nella seconda parte. Homme esegue portentosi assoli che trasudano pathos e malinconia, calore e passione, per poi dare vita a un delizioso interludio strumentale, dialogando con Oliveri e Bjork. Il basso risulta muscoloso, pulsa che è una bellezza e si prende la scena finale, facendo la parte del leone, scandendo perfettamente l'unione tra la coppia, quando l'uomo, libero finalmente dal peccato e dalla schiavitù mentale (probabilmente ripulito dalle droghe) raggiunge la sua musa e le sussurra all'orecchio di amarla. Il pubblico esplode in applausi scroscianti per la performance appena vista.
Conclusioni
"Muchas Gracias: The Best Of Kyuss" non è una raccolta pienamente riuscita, infatti il senso di divagazione, di confusione e di "presa in giro" aleggia per tutta la durata del disco. Personalmente, già trovo insopportabili le antologie, o le cosiddette collezioni di brani, ma credo che anche tali lavori dovrebbero rispettare una determinata atmosfera, rendendo tutto il minutaggio compatto e unitario. Saltando invece da pezzi registrati in studio ad altri proposti nelle loro versioni primordiali, e ancora, da brani eseguiti live durante il concerto ad altri che si pongono come semplici jam, ci si trova di fronte a un lavoro dispersivo che può accontentare soltanto gli irriducibili fans della band e che della band hanno tutto. Ad esempio, ci si imbatte in pezzi leggendari e fenomenali quali "Thumb", "50 Million Years Trip" o "El Rodeo" e in altri di poco conto quali "Mudfly", "Flip The Phase" e il quasi inedito "Shine", strumentale ripescata solo nel 1996 per lo split con i Wool, misconosciuta band stoner. Tra l'altro, le quattro tracce live, presenti nell'ultima parte del disco, non sono altro che riprese dal raro bootleg "Live At The Marquee Club" e già inserite nell'ep "Demon Cleaner" del 1994. Bisogna comunque ammettere che persino gli scarti dei Kyuss possono benissimo rivaleggiare con la concorrenza, essendo dotati di quel tocco magico in più che in molte band latita; ad esempio c'è l'apertura "Sandpiper", B-side prelevato dal singolo "Gardenia" e che da solo vale quanto un'intera carriera. "Muchas Gracias" non fa luce sulla immensa carriera dei Kyuss e scontenta molti, soprattutto chi non conosce bene la band californiana e si approccia alla sua musica per la prima volta, ma se si fanno caso alle sfumature che emergono tra i solchi del disco si possono osservare cascate di sabbia che tutto travolgono, polveri velenose che aleggiano nell'aria soffocando i passanti, torrenti in piena e pronti a straripare allagando tutto il paesaggio e tempeste elettriche che si scaricano al suolo. Inoltre, ci sono echi spaziali che provengono dall'universo e che riecheggiano nelle nostre teste come richiami cosmici che plagiano le menti e ci inducono a guardare oltre le stelle. La musica stoner è un viaggio nel deserto e nello spazio infinito, alla costante ricerca di se stessi, ma è anche l'ultimo importante vagito rock 'n' roll in grado di conquistare il mondo prima della decadenza culturale iniziata a fine anni 90 ed esplosa nei primi anni 2000. Ecco, i Kyuss sono tra le ultime rockstar a tutti gli effetti, di quelle che vendono tanto e sono sulla bocca di tutti, che testimoniano un'epoca e per i quali bisogna passare obbligatoriamente per capire un determinato stile musicale. Nel 2000, quando esce questa raccolta, lo stoner rock vive la sua seconda generazione, meno importante in termini di successi economici rispetto alla prima rappresentata dai Kyuss, appunto, ma anche da Monster Magnet, Melvins, Sleep, Fu Manchu e Clutch, ma altrettanto imponente a livello di qualità, pur restando maggiormente di nicchia, come del resto tutto l'hard & heavy, ridimensionatosi drasticamente nel passaggio da una decade all'altra. Nel 2000, la band è bella che sciolta e i vari membri sono presi da altri progetti, Josh Homme però è l'unico che raccoglie enormi successi con i suoi Queens Of The Stone Age, tutti gli altri si barcamenano nell'underground mettendo in piedi vari gruppi che non riceveranno mai grosse attenzioni. Non a caso, in tempi recenti, Josh Homme è l'unico a rifiutare la tanto attesa reunion, mentre gli altri si esibiscono col nome di Kyuss Lives e Vista Chino, raccogliendo comunque un briciolo del successo ricevuto con la formazione originale nei primi anni 90.
2) Shine!
3) 50 Million Year Trip (Downside Up)
4) Mudfly
5) Demon Cleaner
6) A Day Early And A Dollar Extra
7) I'M Not
8) Hurricane
9) Flip The Phase
10) Fatso Forgotso
11) El Rodeo
12) Gardenia (Live)
13) Thumb (Live)
14) Conan Troutman (Live)
15) Freedom Run (Live)