KYUSS
Kyuss - Welcome To Sky Valley
1994 - Elektra
ANDREA CERASI
31/08/2017
Introduzione Recensione
La foto in copertina, ad opera di Alex Solca, è una di quelle destinate a restare nell'immaginario collettivo; praticamente impossibile, tra i metallari di tutto il mondo, non riconoscere l'immagine del terzo album dei Kyuss. Un tramonto roseo, una strada asfaltata che taglia il deserto e si perde nell'orizzonte, un cartello che dà il benvenuto ai viaggiatori nella piccola cittadina di Sky Valley, poco distante da Palm Desert, luogo originario della band californiana. L'immagine non solo è affascinante e romantica, con quel sole rosso ardente che sembra omaggiare il disco precedente, ma è anche e soprattutto iconica, immortalata per rappresentare l'intero stoner metal e gli elementi che lo contraddistinguono: suoni desertici, assoli aridi, atmosfere solitarie ed estive, testi nichilisti e visionari; insomma, in questa fotografia c'è proprio tutto, lo si percepisce alla prima occhiata. Continuando ad analizzare l'immagine che campeggia sul disco, un'ombra cala sulle dune decorate da cespugli secchi e solitari, avvertendoci che siamo al crepuscolo del giorno, e allora gli occhi focalizzano il popolare cartello, illuminato dalla luce dell'obiettivo, che cita il titolo, o presunto tale, dell'album in questione. "Welcome To Sky Valley" è in realtà un titolo adottato dai fans e dalla critica, dato che i Kyuss hanno sempre lasciato il dubbio sul nome ufficiale affibbiato al lavoro, dapprima nominandolo temporaneamente "Pools Of Mercury", poi semplicemente con l'eponimo "Kyuss", infine la resa di fronte alla popolarità riscontrata dalla bella cover e quindi l'adozione di tale titolo. Una storia che ricorda inevitabilmente quella dell'omonimo album dei Metallica, conosciuto ormai da tutti come "Black Album", a testimonianza di quanto una copertina possa influenzare la popolarità di un'opera, discorso che oggi, nell'epoca del virtuale e dell'invisibile, assume un valore maggiore, indicando l'importanza della fisicità della musica e il lavoro degli illustratori il cui scopo è quello di rendere visivo e concreto il contenuto sonoro, che è per definizione astratto. In questo caso, la Valle del Cielo rappresenta alla perfezione la musica racchiusa in circa 50 minuti, snodandosi come una vipera tra la sabbia in un misto di psichedelia, hard rock, doom e punk, tutto mischiato in un unico calderone agitato da droghe pestilenziali e veleni narcotizzanti, ed è, al contempo, l'emblema spirituale della band americana, testamento stesso di un'epoca. Più volte rimandata l'uscita per problemi legati all'etichetta, "Welcome To Sky Valley" segna un'importante passaggio, quello dalla piccola casa di produzione Dali Records alla major Elektra, capace di cavalcare l'onda dell'interesse suscitato dallo stoner e di garantire al gruppo sicurezze economiche e staff professionale per sfondare a tutti gli effetti sul mercato internazionale. Il produttore Chris Goss, già collaboratore dello strepitoso "Blues For The Red Sun", rassicura pubblico ed etichetta sul piano organizzativo già mesi prima della data di uscita del disco, rilasciando sintetiche conferme sulla maturità del prodotto e sulla sperimentazione in atto da parte dei musicisti. Insomma, tutto fa presagire l'ideale seguito dell'album del 1992, assunto a simbolo di perfezione, manifesto dello stoner metal dal quale tutte le formazioni dello stesso ambiente prenderanno spunto e ne saranno influenzate. Certo è che il successo inaspettato del precedente capolavoro e l'estenuante tour mondiale assieme ad alcuni giganti del metal mettono a dura prova i nervi dei ragazzi californiani, tanto che, nel giro di pochi mesi, si creano attriti e screzi di varia natura e che, alla fine, portano alla dipartita il bassista Nick Oliveri, prontamente sostituito da Scott Reeder, ex Obsessed. "Kyuss - Welcome To Sky Valley" è un'ulteriore evoluzione nel breve cammino artistico dei quattro ragazzi di Palm Desert, poiché è destinato a fare il botto sin dall'uscita, nel giugno 1994, mettendo in mostra una maturità voluta, cercata e infine trovata, grazie a brani complessi, allucinati, spirituali ma anche viscerali, raggruppati in tre movimenti. Dieci canzoni suddivise in tre atti, tre blocchi magmatici che si susseguono senza sosta, tanto che, nelle primissime versioni, le tracce non presentano pause, risultando un continuum narrativo composto da tre corpi distinti. Non un concept, come si potrebbe immaginare, soltanto la voglia di sperimentare e di stordire l'ascoltatore, salvo poi riproporre l'intero lavoro con la suddivisione in dieci tracce distinte, tanto per non appesantire l'ascolto e diluirne gli effetti.
Gardenia
Gardenia (Gardenia) è il polverone che introduce l'album, simile nello spirito e nelle movenze al singolo di successo "Green Machine", che aveva lanciato "Blues For The Red Sun" nelle classifiche di tutto il mondo. L'andamento heavy prende il sopravvento, Reeder si destreggia subito al basso, non facendo rimpiangere il grande Oliveri, e la sua tecnica è (ovviamente) corposa e spassionata. La chitarra di Josh Homme svetta su tutto, un terremoto che presto ci travolge, una nube di polvere che si alza dal terreno e galleggia nell'aria. Un'auto da corsa sfreccia nel deserto, ancora una volta abbiamo un elogio alla velocità e alla sensualità dei motori, metafora di allucinazioni perverse, carnali, ma anche di droghe che liquefano la mente. La carrozzeria cromata del muso dell'auto brilla sotto i raggi del sole, acceca i passanti, sfila per farsi ammirare, mettendo in mostra le modifiche al telaio, come fosse un transessuale orgoglioso della sua trasformazione. Il contagiri è al massimo, Bjork replica con repentine rullate dietro le pelli, veloci e possenti come il motore del veicolo, intanto Garcia ci infetta con la sua voce demoniaca, sepolta sotto quintali di terra che la rendono sporca e velenosa. Il pilota è sotto stupefacenti, guida come un forsennato, spinge sull'acceleratore; uomo e macchina ora sono la stessa cosa, vanno di pari passo, la mente è il motore, le gambe i pedali, le braccia il volante. Le droghe che friggono il cervello bruciano benzina, assomigliando tanto a petrolio che fuoriesce dalle marmitte. La bambina, ossia la vettura, è vogliosa di sesso, perde benzina da tutti i pori, come sudore sotto il sole cocente, dunque l'atto carnale avviene repentino. La morbosità nei confronti delle macchine, sinonimi di donne, di prostitute, è una costante delle liriche dei Kyuss. È malattia, è perversione, inevitabile effetto delle droghe. A questo punto si può anche supporre che Gardenia sia il nome dato all'auto. La fase strumentale è fenomenale, il ritmo accelera e rallenta costantemente, si improvvisa una jam tra i musicisti, il basso si confonde con la chitarra, poi lascia il posto alla batteria, mentre Homme ci delizia con una serie di riff sfuggenti dal retrogusto funky. Reeder è imperioso, si crogiola con la sua ascia, gonfiando il suono e devastando l'ascoltatore, investendolo con una serie di soli. In tutto ciò John Garcia si fa da parte, lasciando spazio alla musica, per poi tornare grintoso come prima, quasi balbettando per trasmettere confusione e stordimento.
Asteroid
Asteroid (Asteroide) è un lungo brano strumentale aperto da alcuni giri di basso. Il ritmo cala illudendoci di ascoltare una ballata acida, ma è soltanto l'introduzione, perché Homme esplode con un grasso riff che ci trastulla e ci trascina nel mondo Kyuss, dove la psichedelia ha un ruolo fondamentale. Giungono echi spaziali di Hawkwind, come se fossimo proiettati nel cosmo infinito e il nostro cervello fosse sbrodolato dall'abuso di sostanze psicotrope. Oramai siamo narcotizzati e ci culliamo nell'universo, viaggiando tra le stelle proprio come viaggiatori spaziali. La prima metà del brano si smorza così, lentamente, sfumando nel silenzio, poi riprende come all'inizio, con il basso di Scott Reeder e la chitarra di Homme che intavolano un lisergico dialogo. Le serpi emettono il loro tipico sibilo, strusciano nella sabbia in cerca di riparo e vanno a nascondersi sotto le rocce. Si avverte questa sensazione di pericolo imminente, come abbandonati nel deserto a morire di stenti, dunque ecco che la sezione ritmica si potenzia, è la tormenta, dove Bjork comincia a pestare come un dannato, proprio come un meteorite che si sta schiantando sulla terra, poi lasciando spazio alle percussioni di Peter Moffet, musicista punk ospite in studio. L'asteroide è pronto alla collisione, un magma incandescente che brilla in cielo e che lascia una scia luminosa dietro di sé. L'impatto sarà devastante, gli strumenti si preparano per il colpo finale, per il terremoto magmatico che verrà, consapevoli che ogni essere vivente, in quella zona di pericolo, sarà spazzato via. Bjork anticipa tutti colpendo con ferocia, l'impatto è potentissimo, le asce si impennano in un vortice di suono incredibile, la polvere schizza ovunque e il cielo si adombra. Resta il silenzio, che si trascina per qualche secondo sorvolando sul gigantesco cratere appena formato. Un buco, un senso di vuoto che prosegue con la terza parte del primo movimento.
Supa Scoopa And The Mighty Scoop
Con Supa Scoopa And Mighty Scoop (Supa Scoopa E Il Grande Scoop) si chiude il primo atto, il primo monolitico e mastodontico movimento. Homme esordisce con un assolo straniante, accompagnando la calda e polverosa voce di Garcia che ci introduce nella dimensione di questa traccia dal titolo enigmatico, simile a un gioco di parole. Il doom alla Black Sabbath fuoriesce dagli altoparlanti e ci investe i padiglioni auricolari, potenza ipnotica ma non rallentata, anzi, il ritmo è abbastanza veloce, capace di investire tutto e tutti. Doom metal e psichedelia, le droghe aleggiano nell'aria in questo capolavoro incredibile di sperimentazione e improvvisazione suddiviso in due grandi corpi sonori. Si tratta di un brano sulla morte, o almeno così sembra, visto che con i Kyuss bisogna sempre interpretare il nichilismo e l'astrattezza dei loro testi. Pare che qualcuno sia morto e che adesso galleggi in un limbo pacifico che loro chiamano casa. Forse la morte è metafora di trip mentale, di annullamento vitale del cervello, come se si fosse in coma, e allora i ragazzi si calano la dose per raggiungere la catarsi ed entrare nell'oscura dimensione che ha catturato il loro compagno o la loro partner. Ma la morte non è vista come un evento tragico e deprimente, tutto il contrario, ovvero come liberazione dai mali terreni e dalle disperazioni che affliggono il mortale. I ragazzi ridono davanti alla dipartita dell'amico/fidanzata, vogliono raggiungerlo al più presto, perché sentono il bisogno di stare tutti assieme, ancora una volta. L'amore e l'amicizia sono due sentimenti importanti, fondamentali, in tutti i mondi e in tutte le dimensioni. La seconda parte della traccia è occupata dalla musica, perciò niente più parole, ma solo asce che fendono l'aria, martellate che colpiscono le pelli, cori inquietanti in sottofondo e tanta tanta sabbia per un finale da brividi con una lunga coda strumentale che aumenta questo senso si intimità, di smarrimento nel limbo, di allontanamento dalle persone care, ora più che mai distanti anni luce, proprio come i pianeti nella vastità dell'universo.
100°
100° (100 Gradi) apre il secondo atto, e lo fa nel migliore dei modi, ricordando l'incedere di "Gardenia". Veloce, potente e diretta, si snoda in poco più di due minuti tra muscolosi riff di chitarra e repentini cambi di tempo guidati da Brant Bjork. L'ambientazione è infernale, probabilmente si sta parlando di un'anima costretta a subire una punizione in uno dei gironi infernali. La vittima chiede perdono, supplica pietà, grida di essere nel giusto, di non essere peccatrice, ma intanto è in ginocchio con la testa china, circondata da 100 gradi di calore che gli consuma la pelle. Una lenta agonia rappresentata dalla voce strozzata di Garcia, il quale si inerpica in un contagioso ritornello che ci racconta dell'esistenza di un posto per ognuno di noi, circondato da fiamme e da verità rivelate che ci bruciano gli occhi, ci rendono ciechi e sordi. Si prosegue con la seconda parte, strutturata come la prima, dove l'anima, presunta innocente, invoca ancora una volta la grazia, ma i gradi aumentano e allora questa sogna di trovarsi in un luogo totalmente diverso, in un palazzo bianco fatto di ghiacci e di neve fresca, ma tutto è una stupida illusione, l'inferno è lì e la sta martoriando. L'agonia non avrà mai termine, la vittima è condannata a patire per l'eternità per un peccato di cui noi non possiamo esserne a conoscenza. La colata lavica si protrae per poco, purtroppo, terminando brevemente ma lasciandoci con una sensazione di stordimento, confusi dal frastuono degli strumenti e dall'amara melodia del refrain che si staglia in mente e che sembra picchiare duro come la coda del demonio.
Space Cadet
Space Cadet (Cadetto Spaziale) è una lunga ballata acustica, ricca di acidi e di immagini allucinogene. Il misticismo sonoro è dato da un grande Scott Reeder e da un Josh Homme davvero ispirati. Siamo in mezzo al deserto, il sole è alto in cielo e picchia sulle nostre teste, l'afa aumenta in maniera esponenziale e ci spezza il respiro. L'asfalto ribolle e la sterpaglia lungo gli argini della strada non accenna a muoversi in assenza di vento. Garcia è soffice morbido come non mai, sussurra di trovarsi da solo sulla scogliera del mondo, così in testa si staglia immediatamente l'immagine del Grand Canyon americano. L'uomo contempla il cielo, sommerso dai raggi di sole che gli bruciano la pelle, e osserva silente l'orizzonte incantato. Misticismo e intimità sono gli elementi cardine di questo splendido pezzo, un capolavoro senza tempo, dove il nostro protagonista, sulla cima del mondo, sta aspettando qualcosa, con la mente piena di pensieri, le mani affondate nella sabbia, gli occhi all'insù. Ma il mondo, il suo mondo, forse identificato nell'amore per una donna, non giunge, gettandolo nello sconforto. Homme si esibisce in un grande assolo acustico, poca tecnica ma tanta magia, per poi riprendere il riffing principale e lasciare, ancora una volta, spazio al vocalist, sempre più amareggiato e in trepida attesa. Oltre a una voce calma e sussurrata, adesso è persino modificata, come se il suo corpo, nell'attesa sotto al sole, si stesse sciogliendo fino a ridursi in vapore. Ed ecco che l'allegoria prende forma attraverso la sagoma di una donna, colei che ha spezzato il cuore al suo uomo. Sembra così lontana, come un'allucinazione, un miraggio nel deserto, e sicuramente non si aspetta nulla da lui; è così evanescente ed astratta che l'uomo soffre da morire, sente che una parte di sé è andata via per sempre. No, c'è la consapevolezza che lei non tornerà mai più, la disperazione è affidata ai sussurri del cantante e alla delicata chitarra di Homme, mentre Bjork sembra replicare, attraverso il tamburello, le palpitazioni dell'uomo, o forse i suoi ricordi, che sfumano lentamente al tramonto del giorno. Il sole si nasconde dietro le montagne rocciose, cala la notte e il buio porta il silenzio, l'oblio. Il vuoto dell'anima è lo stesso che si intuisce in ogni singolo pezzo di questo album, probabilmente la metafora più utilizzata dalla formazione californiana, come a trasmettere un buco nero, su nell'universo, che voracemente si avvicina e tutto ingurgita.
Demon Cleaner
Demon Cleaner (Il Demone Pulitore) è una canzone particolare e dal testo che ha più significati. I fraseggi fuzz, zanzarosi, si accavallano l'uno sopra l'altro e Garcia è ipnotico e sofisticato, dalla voce pulitissima. È proprio di pulizia che si sta parlando, ed è divertente scoprire che Homme scrisse questa traccia in seguito a diversi incubi che lo scuotevano da ragazzino, quando doveva recarsi dal dentista. Il demone schiaritore è, infatti, il dentista, il quale si avvicina al ragazzo con sguardo sorridente e siringa in mano, pronto ad operare e fare una bella pulizia. La pulizia dei denti è anche metafora di pulizia interiore, fuga dai propri demoni, eliminazione dei peccati. È interessante notare come la band sia abile a dare un senso profondo e intimista persino a una semplice paura adolescenziale, arricchendo la narrazione con messaggi profondi e polivalenti. In questo caso, la paura del medico si trasforma in una storia religiosa, carica di spiritualità, laddove il corpo deve essere liberato dal peccato mortale, dai demoni che lo possiedono, come fosse un esorcismo, e il dentista, il pulitore, viene identificato nel prete che scaccia via il male che affligge la vittima. Il prete, o forse Cristo, è il salvatore, il liberatore, colui al quale il poveraccio si aggrappa con tutte le sue forze. Il ritmo non eccede mai in velocità, nonostante la profondità e la foga ossessiva del testo, il ritmo rimane sempre piuttosto calmo, scandito dal docile riff di chitarra e dalla carica della batteria, mai pronta però per scalciare definitivamente, rimanendo impaziente fino alla fine. La melodia non apre spiragli dolci anzi, il sentore amaro ci accompagna per tutto il minutaggio, salvo poi convergere nella lunga e brillante coda finale, la quale si carica di nuovi messaggi biblici, perché ci avverte che gli impostori sono tra noi, cercano di prendere il nostro posto, di plagiarci, di attirare l'attenzione. Non bisogna ascoltarli, non bisogna dare adito alle voci interiori dei demoni, quelle che ci dominano, ma dobbiamo svuotare la mente, il vuoto come pulizia dai dolori e atarrassia, in attesa che il salvatore che finisca l'operazione e ci ridoni il sorriso smagliante di un tempo, di quando eravamo giovani, puliti e innocenti.
Odissey
Odissey (Odissea) apre al terzo atto, quello più corposo e dall'anima eterogena, tanto che si va da pezzi sparati, tipicamente heavy metal ad altri più liquidi ed eterei. Questa traccia appartiene alla prima categoria, aperta da un riff sinistro, oscuro e polveroso, e poi si scatena l'inferno, con tanto di basso in primo piano a ricordarci di scuotere la testa. Alla guida della cavalcata metallica troviamo un Garcia davvero gigante, interprete strepitoso del canto di un viaggio allucinato e pericoloso che lui e il compagno Josh fecero qualche anno prima, al ritorno da una festa in Nevada, quando la loro auto si ruppe all'improvviso. I due decisero di tornare a piedi, rischiando persino la vita, da soli nel deserto e sotto il sole cocente, senza nessun aiuto, iniziando una sorta di disperata odissea per tornare a Palm Desert. Lungo il tragitto i due fumarono spinelli di scarsa qualità e terminarono le poche provviste che avevano con sé. Sfiniti, disidratati e disperati, riuscirono a salvarsi grazie all'acqua contenuta nei cactus, piante molto diffuse in quelle zone al confine tra Nevada, Texas e California. Ovviamente anche in questo caso, il testo è stato mascherato da senso mistico-religioso, come una sorta di pellegrinaggio spirituale, dove i protagonisti combattono contro la bestia che è in loro, risvegliata dal caldo atroce e dall'entrata in circolo degli stupefacenti. Lo scompiglio dell'anima, il fuoco che arde non solo fuori nella landa desolata ma anche dentro il cuore, la pace è ancora lontana, la si cerca assumendo droghe, avviandosi a incominciare un lunghissimo trip mentale senza ritorno. La fase centrale è quella più concitata, dove Reeder si esibisce in un grande assolo sovrastando i riff alienati inscenati da Homme, che un po' danno la sensazione del forte calore, del sole a picco, e della disidratazione che i due stanno provando. Poi tutto ritorna nella norma, Garcia riprende a urlare la sua disperazione, il ritmo accelera in una nuvola di saette e scintille e tutto viene travolto dalla ruggine che offusca l'atmosfera mettendo in ombra l'intero ambiente.
Conan Troutman
Conan Troutman (Conan Troutman) potenzia ancora di più il suono della band, trattandosi di una vera e propria mina pronta ad esplodere in migliaia di scintille condensate in un paio di minuti soltanto. Ci sono due brevi blocchi, due rocce che svettano nella sabbia del deserto, lunghi un minuto ciascuno, che non sono altro che una dedica d'amore verso qualcuno di importante. L'amore è il sentimento della libertà, quello più vicino al significato di droga, che fa sentire liberi, leggeri, spensierati e senza controllo. L'esplosione delle emozioni è sottolineata da una sezione ritmica che non cede il passo, non si ferma mai a elucubrazioni mentali passive, ma i pensieri si accavallano l'uno sull'altro in un magma confuso come le liriche criptiche che sono un vero enigma senza senso. L'amore è confusione, un misto di sentimenti astratti che forgiano l'animo, e allora Garcia vomita parole nichiliste che non vogliono dire nulla: la libertà di respirare a pieni polmoni, il seme dell'amore piantato negli organi e visto come gabbia, schiavitù emotiva scomparsa con la dipartita della partner. Il cervello è in preda alle droghe, fritto per il caldo e per il colpo ricevuto, restano solo il silenzio e la solitudine. La donna, ormai lontana, si è ripresa la sua vita mentre l'uomo, che probabilmente si chiama Conan Troutman, resta a contemplare l'infinito, scaturito dal breve e pungente assolo di Homme che lo ridesta dal torpore nel quale è stato scaraventato. Bjork picchia duro sulle pelli, alterando questa condizione confusionaria, facendo tremare le casse dello stereo, mentre il basso di Scott Reeder aumenta di intensità, accelerando i suoi battiti fino ad esplodere. Insomma, due minuti condensati in una voragine magmatica espressa dal suono desertico e massiccio della band, qui in fase decisamente heavy.
N.O.
N.O. (No) è la cover degli Across The River, band proto-stoner degli anni 80 in cui militava Josh Homme e il suo amico italiano Mario Lalli, chitarrista anche lui, qui ospitato per l'occasione per intavolare un bel duetto che denota potenza e spirito doom. L'atmosfera si fa claustrofobica e la ritmica si tinge di oscurità attraverso fraseggi malsani e sinistri, mentre il suono fuzz è vigoroso, tipico del genere creato dagli stessi Kyuss, in questa occasione rigonfiato grazie alle due chitarre e al basso di Reeder che è talmente invadente che sembra addirittura una terza chitarra elettrica. A differenza del brano originale, molto più sporco e dall'attitudine punk, qui il tutto si velocizza e si rigonfia, rimarcando l'appartenenza a un genere preciso, dove il metal, duro e crudo, resta un punto fermo dello stile compositivo. Si parla di morte, del dolce trapasso, della linea di demarcazione sita tra la vita e la morte, e di quella breve parentesi in cui l'anima viene strappata via dal corpo e fluttua in una sorta di limbo a metà tra sogno e realtà. Garcia grida in faccia a tutti di essersi svegliato con un gran mal di testa e che non riesce a capire che giorno sia; si interroga, si chiede se sia morto e che, nel caso in cui fosse vero, invoca più tempo. Chiede a un'ipotetica divinità di avere più giorni, più vita davanti a sé perché sente di non aver concluso tutto, di non aver chiuso perfettamente il cerchio. A questo punto, dopo un'introduzione piuttosto ipnotica e ripetitiva, la composizione si snoda in un grandioso e sfarzoso bridge, nel quale i toni si fanno ancora più accesi e spicca, leggera, una buona melodia, sottolineata dalla voce adirata e un po' amareggiata del vocalist. Ora l'uomo è solo, sa di dover intraprendere da solo questo viaggio dantesco nell'oltretomba, così come ha affrontato precedentemente e in perfetta solitudine la sua misera vita, senza l'aiuto di nessuno. Il confine è stato varcato, la morte lo aspetta a braccia aperte come una mamma premurosa fa col suo pargolo spaventato. Tutto si riduce in cenere e in polvere, la litania è sempre la stessa sin dalla notte dei tempi, niente di nuovo, dunque.
Whitewater
Whitewater (AcquaBianca) è la composizione più ambiziosa dei nostri, un capolavoro siderale dall'impatto devastante e dall'animo puro e delicato, che rappresenta il vero fulcro del disco, intesa proprio come title-track di "Welcome To Sky Valley", perché riporta a un legame con la natura, a quella valle del cielo tanto immaginata. Una struttura liquida prende piede sin dalle linee di basso, sinuose ed evocative, che danno inizio a una semiballad fatta di misticismo e magia. Le strofe sono eteree, anche il modo di cantare di John Garcia, quasi fosse posseduto dallo spirito del brano, e allora danza sensuale su parole astratte ma che riconducono a un'unione con la natura. Il pezzo, infatti, è una vera e propria elegia nei confronti di Madre Natura, divinità alla quale tutti noi dobbiamo l'esistenza. Il ricongiungimento all'utero materno è intimo e rigenerante, salvifico per la nostra anima e per il nostro corpo. Il sole, padre del mondo, è alto in cielo e osserva tutto, i suoi raggi sono amorevoli; la valle sottostante, fitta di vegetazione e di linfa vitale, è la vagina di Madre Natura. Garcia diventa uno sciamano e in preda all'euforia urla di sentirsi a casa, in pace con se stesso. Metà minutaggio vola via in questo modo, dunque ha origine una brillante fase strumentale, con tutti gli strumenti quieti, timidi, che inducono a riflettere sulla vastità del mondo e su tutte le sue bellezze. Homme e Reeder si alternano sul proscenio e dialogano tra di loro in una fase piuttosto concitata ma mai invadente. Le rocce del deserto sembrano liquefarsi sotto il calore, trasformandosi in lava fusa, richiamando ad alta voce la grande tradizione della psichedelia anni 60, per un tributo a Doors e Pink Floyd davvero impressionante e dalla durata considerevole che praticamente si mangia tutta la seconda parte della canzone, per una coda strumentale divina e astrale, come a ricondurci all'universo e alla sua misteriosa genesi. Mentre la musica è cauta e dolce, cullando sogni e ricordi, le liriche sono pervase da una spietata poesia: adesso le montagne si stanno muovendo, gli alberi sono scossi dal vento e ondeggiano furiosi, così giunge aria di tempesta che spazza via tutto in un batter di ciglia. L'apocalisse è arrivata sulla terra, portando con sé l'oblio, il vuoto, ancora una volta, che tutto risucchia come ventre materno e dona la morte, così come aveva donato la vita miliardi di anni prima.
Conclusioni
La Valle del Cielo ci ha dato il suo benvenuto. Un liturgico, religioso, paradisiaco benvenuto nella dimensione Kyuss, un po' spaziale e un po' allucinogena, dove le polveri ci hanno arso gli occhi, l'afa ci ha spezzato il respiro e le stelle ci hanno accompagnato lungo il cammino, attraverso una strada notturna che sembra infinita. "Welcome To Sky Valley" ha la portata di un miracolo divino, non solo perché era difficile eguagliare "Blues For The Red Sun", manifesto del desert rock e simbolo di un'epoca di cambiamento, ma sembrava follia persino avvicinarsi alla sua grandezza sonora e simbolica. Invece i Kyuss superano loro stessi, ancora una volta, consegnando un'opera fondamentale, più evoluta che mai, capace di traghettare l'ascoltatore in un viaggio interspaziale fatto di allucinazioni, miraggi, colpi di sole, suoni ingrassati grazie all'utilizzo di amplificatori per basso attaccati alle chitarre e correggendo i microscopici difetti, se così possiamo definirli, del lavoro pubblicato nel 1992. Il piccolo passo eseguito dai singoli musicisti, la loro piena maturità stilistica e soprattutto la consapevolezza di essere inventori e leader assoluti di un intero sottogenere, trasudano dai solchi di questa pachidermica opera in tre monolitici atti scanditi in dieci tracce. Dieci più una nascosta, un piccolo divertimento funky intitolato "Lick Doo", nel quale la band improvvisa un'ironica jam, magari per scrollarsi di dosso la tensione e la serietà accumulata lungo il percorso. Credo che tutto sia stato studiato per creare scalpore, ogni cosa è in linea per creare una vera macchina da guerra, delle star planetarie pronte a conquistare tutti i mercati e allora, come un antico oracolo, il produttore e l'etichetta discografica hanno visto bene, predicendo un futuro di incredibili successi grazie a un album leggendario quanto il suo predecessore. Il sentimento primitivo, istintivo e genuino è qui sostituito da un'emozione consapevole, dall'esigenza di creare qualcosa di nuovo attraverso un minuzioso studio che porta la band a vendere centinaia di migliaia di copie e a consolidare un genere. Ogni cosa qui è al suo posto: il deserto è l'elemento base di questo tipo di musica, i suoi elementi sono un contorno necessario per avvicinarsi alla perfezione divina; "Welcome To Sky Valley" è la celebrazione di questo universo, un universo esplorato a bordo di una navicella spaziale, attraverso un vero e proprio viaggio cerebrale che sa tanto di allegoria spiritica. Album divino, viaggio astrale, ascesa dell'idolo sotto forma di suoni e parole, il viaggio è un percorso spirituale nel quale i musicisti ci proiettano con la loro energia, probabilmente scaturita dall'abuso di sostanze stupefacenti che sbrodolano la mente e che fanno perdere la percezione di sé e del mondo che ci circonda. In questa condizione di alterazione percettiva, il deserto prende vita e diventa simbologia di un modo di vedere le cose, di una dimensione misteriosa e pericolosa, e così, tale ambientazione può essere identificata con la nostra mentre annebbiata, confusa da suoni nebulosi e liriche vertiginose che i Kyuss mettono in scena in questi 50 minuti. L'aridità, il clima impervio e il sentimento di solitudine che pervade la musica si riscontrano durante l'ascolto di questo capitolo fondamentale del metal degli anni 90, metafora stessa dell'esistenza vuota dei singoli musicisti, delle loro giornate noiose tempestate dai caldi raggi di sole, dalle sinuose dune di polvere accarezzate dal vento che circondano le loro vite, dall'alcool che entra in circolo nelle vene e raggiunge la testa. Lo stoner è filosofia del "vuoto", di uno spazio nero dove affogano i sistemi solari e tutti i microcosmi, fino a sparire nel nulla più assoluto e che tutto divora, come belva famelica. "Welcome To Sky Valley" è il vuoto cosmico fatto musica, è pura filosofia esistenzialista, e il paesino di Sky Valley assume, qui, connotati celesti e magici, sposandosi alla perfezione con l'ideologia naturalistica dei Kyuss. Un nome un presagio. Forse il più grande album stoner di sempre.
2) Asteroid
3) Supa Scoopa And The Mighty Scoop
4) 100°
5) Space Cadet
6) Demon Cleaner
7) Odissey
8) Conan Troutman
9) N.O.
10) Whitewater