KYUSS
...And The Circus Leaves Town
1995 - Elektra
ANDREA CERASI
30/09/2017
Introduzione Recensione
Dalla sabbia incandescente e fangosa rappresentata in "Wretch" al sole di fuoco che sprigiona magmatiche scintille di luce in "Blues For The Red Sun", fino a giungere al senso liberatorio e celestiale del ventoso "Welcome To Sky Valley", i Kyuss ci hanno raccontato le leggi del mondo e gli elementi che lo dominano. Una scelta mirata, ben studiata sin dall'esordio, e un legame indissolubile con la natura, sempre protagonista assoluta, immortalata sia nelle liriche che nel suono e palesemente evidente nelle copertine dei singoli album che dapprima sfoggiano l'oro della sabbia, poi il rosso vivo della lava, dunque il rosa pallido del tramonto arrivando all'azzurro dell'acqua. E così ci ritroviamo ad immaginare i quattro elementi sacri che muovono il cosmo: la terra, il fuoco, l'aria e l'acqua, quest'ultima evocata appunto dal quarto ed ultimo capitolo discografico della band californiana, "..And The Circus Leaves Town", dove l'umidità e l'astrattezza liquida sono i valori portanti. Come accennato, l'acqua è presente nella bellissima cover che mostra uno spettrale paesaggio di provincia sommerso da un'inondazione che ricopre strade e case. La peculiarità sta nel fatto che la foto è stata capovolta, ponendo in risalto proprio l'acqua, nella quale si specchiano case e lampioni. Un effetto ottico che inizialmente potrebbe trarre in inganno, ma poi, se guardato attentamente, rivela non solo fascino e originalità, ma anche numerosi significati nascosti; gli stessi significati che sono presenti nelle singole tracce che costituiscono l'album. "..And The Circus Leaves Town", dal titolo profetico che assomiglia tanto a un addio sofferto e malinconico, è un lavoro dominato dall'acqua, sorgente di vita, che in questo caso, data l'immagine al rovescio, trasmette anche un contatto divino, poiché mare e cielo si fondono, ingannando l'occhio umano, creando una sorta di passaggio per il mondo ultraterreno. L'addio del titolo è allegoria funebre, uno split annunciato attraverso un paesaggio desolato e triste, abbandonato in balia dell'esondazione, un villaggio preda di calamità naturali che hanno sterminato ogni forma di vita. Ma l'acqua non è solo portatrice di disastri, è anche e soprattutto fonte di vita, e da essa tutto si rigenera per continuare il ciclo della terra. Nel 1995, i Kyuss sono all'apice della popolarità, lo stoner è uno dei sottogeneri di metal che raccoglie più consensi, eppure, proprio a causa dello stress accumulato negli ultimi mesi, durante il lungo tour mondiale, la grossa pubblicità indotta dalla major Elektra e la pressione derivata dai tanti impegni, il nucleo della formazione è irrequieto e instabile e pronto ad implodere in un big bang dalle dimensioni pachidermiche che tutto inghiotte e tutto risputa fuori sbriciolato. Brant Bjork abbandona in seguito ad alcuni diverbi e viene rimpiazzato da Alfredo Hernandez, amico del bassista Scott Reeder, con il quale suonava negli Across The River. Rientrati dal tour e riordinate le idee, la formazione di Plam Desert prima rilascia il singolo "One Inch Man", che raccoglie grandi successi ed entra nelle classifiche di mezzo mondo, poi, alla fine di maggio, ecco che fa la comparsa sugli scaffali l'album tanto atteso dai fans. Qualcosa, però, sembra sia cambiato, e la trasformazione si avverte subito, sin dal primo ascolto: il sound è più pacato, il minutaggio dei brani è concentrato, le liriche sono pervase da nichilismo e remissione. Insomma, "..And The Circus Leaves Town" è un lavoro diverso dal solito, adagiato su toni maggiormente amari, dall'aspetto più grigio e cupo, ben rappresentato dall'art-work, e composto da canzoni meno strutturate, dal corpo snello e aleatorio, come fosse annacquato. Questo è l'album dell'acqua, e allora tutto diventa chiaro, tanto che la psichedelia gioca un ruolo fondamentale come mai prima d'ora, e viene meno l'aspetto roccioso e catastrofico dei precedenti dischi. L'energia è andata esaurita, benché in molte occasioni torna a palesarsi, e si preferisce puntare su un'intimità esasperata, frutto della penna di Garcia, presente come non mai nelle vesti di autore. Adesso i quattro elementi naturali sono al completo, il cerchio è chiuso e la band saluta il proprio pubblico con un'ultima gemma, prima di eclissarsi e di scindersi in milioni di brandelli.
Hurricane
Hurricane (Uragano) è la traccia d'apertura di "..And The Circus Leaves Town" e perciò ha il compito di introdurre l'album, le sue tematiche e il nuovo stile adottato dalla band. Brevissima ma trascinante, il pezzo è un monolite pesante e quadrato che si adagia su una struttura composta da un testo concentrato in un unico blocco. Un sasso gigantesco, che non viene scalfito da spiragli melodici ma solo da martellanti colpi di batteria che ci conducono a una dimensione ossessiva e claustrofobica, dove il ritmo è serrato, incentrato costantemente sul dialogo tra chitarra e batteria, ma privo di assoli e senza cambi di tempo; tutto procede dritto come un treno, sparato a mille, e non si ha un attimo di respiro tanta è la foga. Garcia recita la litania senza prendere fiato, la sua voce è meno imperiosa del solito e appare più astratta, tanto che molti criticheranno questo suo nuovo modo di cantare apparentemente svogliato, ma forse studiato per dare ai pezzi dell'ultimo album maggiore astrattezza e liquidità, perdendo forse in potenza ma aumentando la sensazione di sbrodolamento mentale, di ipnotismo, come se la canzone, da roccia, si stesse sciogliendo trasformandosi in acqua. Non a caso il testo ci dice che l'uomo ormai non sente niente, non vuole provare niente, perché la vita fa male, è uno stato di disperazione costante, e allora meglio l'atarassia, l'assenza dei sentimenti, il vuoto dell'anima, per non provare dolore. La vita è un soffio di vento e lui non riesce a respirare, forse non vuole farlo, e si abbandona al nulla, facendosi trascinare dalle note musicali in una sorta di limbo, in questo uragano di sensazioni che lo trastullano, lo scuotono, lo scaraventano in aria, spazzato via come un insetto. L'uragano è la sua mente, ma l'uragano è anche fuori, e sta martoriando il suo corpo inerme, investendolo e conducendolo alla morte. Probabilmente è ciò che l'uomo cerca, dato che la vita ormai non ha più senso alcuno. Insomma, nichilismo assoluto, nella tradizione Kyuss, ma non solo, perché con il maggior impegno in fase di songwriting da parte del vocalist, i testi della band si fanno ancora più plumbei e amari. Freddi, proprio come la cover del disco.
One Inch Man
One Inch Man (Uomo Inferiore) è un brano concentrato, di breve durata e dal ritmo ipnotico poco incline ai cambiamenti. Niente assoli, niente feroci cambi di tempo, niente intro o outro. Dritti al punto. Homme e Reeder sfornano una base portante grassa e danzereccia, dove a emergere maggiormente è proprio il basso, mentre Garcia è uno sciamano del deserto che declama la sua amara concezione della vita. Non alza mai la voce, cercando di mantenerla sempre sulla stessa tonalità media, caratteristica questa che è lo scheletro dell'album stesso, scandito da ritmi sinuosi e morbidi, così come le qualità di questo brano, dotato di un simbolico e funzionale videoclip che ben si amalgama al concetto espresso nelle liriche. Non solo la parte strumentale, e quindi tutta la sezione ritmica, tralascia la ferocia del passato, le accelerazioni improvvise e le pesantissime bastonate doom, ma anche il testo è un elogio alla pacatezza e alla frustrazione. Si tratta di un'anima solitaria, uno che si sente inferiore a tutti gli altri e perciò ne risente. Un uomo che vale un pollice, che si sente sempre cinque passi indietro agli altri. Qui emerge lo stress totale di un uomo, forse un'accusa da parte di Garcia nei confronti degli altri componenti della band, forse un'enigmatica critica nei confronti degli altri musicisti, che proprio in quel periodo vivono un rapporto particolarmente fragile, fatto di litigi, fratture interne, rimproveri e molto altro ancora. Ma il tempo è prezioso ed è inutile perderlo andando dietro a tali considerazioni, tali problematiche che non fanno altro che provocare dolori. Il protagonista si sente preso in giro, fottuto dal suo stesso giro, ma non ha più le forze per controbattere, dunque si ribella, manda a quel paese tutti quanti e si ritira in se stesso. Vivere da soli è meglio che stare con gli altri. Il testo nichilista e deprimente si sposa perfettamente con una melodia claustrofobica ma, allo stesso tempo, soffice, appena accennata nelle strofe, costruita appunto su una base non molto vigorosa ma che sa trascinare l'ascoltatore, avvolgerlo con la sua anima calda e desertica, ben rispecchiata nel video, dove la band suona nel deserto mentre viene spiata da qualcuno, o da qualcosa, forse un insetto, che aleggia nell'aria e gira attorno ai musicisti, si nasconde e poi riprende a librare, ritrovandosi in spazi chiusi dove una donna (o meglio la sua ombra) sta ballando con sensualità. Tre minuti intensi, non proprio rilassati e distesi, ma tutto sommato senza picchi energici che uno si spetterebbe da un singolo dei Kyuss. Un gran pezzo, più astratto del solito, che molti hanno interpretato come la rivelazione di una disfatta sessuale, nel senso che il nostro protagonista viene accusato di avercelo piccolo e di aver fatto una magra figura per questo difetto fisico; deriso e insultato dalla donna di turno, gli è crollato il mondo addosso, rifugiandosi nella sua desolazione ed escogitando la vendetta. Io invece credo che il senso enigmatico ed ermetico delle liriche sia, come al solito per questo gruppo, più profondo di quanti sembri.
Thee Ol' Boozeroony
Thee Ol' Boozeroony (Vecchio Bevitore Irlandese) è una strumentale dall'incedere pesantissimo, il basso di Reeder è impressionante, mentre la chitarra di Homme esegue per tutto il tempo dei sinistri e alquanto stranianti riff, delle distorsioni che creano confusione cerebrale, come se tendesse a provocare all'ascoltatore delle vertigini. Non ci sono cambi di tempo, si tratta di un pezzo conciso, doom fino all'osso e dalla struttura basilare, eppure in grado di sprigionare magia, tanto che colpisce sin dall'attacco regalando grandi emozioni, e anche traveggole, dato il martellante suono del basso. Il titolo ci potrebbe suggerire l'andazzo: un uomo che esce da un irish pub, barcollante per il troppo alcool ingurgitato, e che a mala pena riesce a stare in piedi. Ha la vista sfocata, la mente annebbiata da litri di birra, e così procede a tastoni cercando la via per casa. Il suono desertico dei Kyuss ha spesso celebrato inni all'alcool e a ogni sorta di stupefacente, non a caso "stoner" è un termine inequivocabile, ma in questo caso la sensazione di ebrezza e di vertigine prima del crollo e del rigetto è evidente. Hernandez picchia duro sulle pelli, i suoi colpi sono agili e vigorosi, ci trastullano in questa notte alcolica, preda di paure e di malinconie. Forse il vecchio bevitore irlandese, schiavo dei rimpianti, ha deciso di affogare tutto il dolore nella birra, per dimenticare le ingiustizie della vita. I suoni distorti e ipnotici prodotti dalla sei-corde dai toni ribassati di Josh Homme sono quasi frustate dietro la schiena, dei colpi precisi dietro la nuca, a indicare gli amari ricordi che popolano la mente del poveretto. La batteria esegue delle rullate, sono i battiti del cuore dell'ubriaco, che accelerano e si scatenano quando questi si accascia a terra per rigettare tutto ciò che ha bevuto. Due minuti e mezzo di passione viscerale e di energia mai del tutto sopita ma tenuta col freno a mano.
Gloria Lewis
Gloria Lewis (Gloria Lewis) è solenne, dall'animo blues che trasuda in ogni nota. La voce di Garcia è sensuale e morbida, ci culla in una dimensione drammatica ma tutto sommato confortevole. Il ritmo pacato e blando ci racconta di alcuni sentimenti intimi che scatenano irrequietezza e rabbia, ma la cosa originale è il contrasto creato dalla base ritmica, leggiadra e basata su un unico riff ripetuto per quattro minuti, e delle liriche spaventose, piene di odio, che rivelano una relazione burrascosa tra il nostro uomo e la sua donna, ormai ex, che si chiama Gloria Lewis, appunto. Garcia è pensieroso, ha l'animo cupo, è incazzato nero col mondo, siede su una collina per guardare l'orizzonte e riflettere sull'accaduto e la brezza del vento gli solletica il viso; proprio in quel momento ricorda la sua amata/odiata ragazza. Le sussurra che se proprio vuole divertirsi, dovrebbe prendersi un uomo selvaggio e meno legato alle emozioni, uno diverso da lui, che per dimenticare si deve gettare a capofitto nell'alcool, tanto è profondo e romantico. L'uomo arriva a minacciarla, le dice di non andare a trovarlo, perché adesso si è rinchiuso nel seminterrato di casa e non sa come potrebbe reagire, forse addirittura ucciderla con un proiettile piantato sulla fronte. Un buco nero, in mezzo agli occhi, lo stesso che ora prova l'uomo all'altezza dell'animo, o del cuore, tanto è il dolore che prova e che lo sta paralizzando. La paralisi cerebrale e fisica sembra la stessa protratta dall'ipnotico e ossessivo riffing generato dalla chitarra di Josh Homme, il quale procede indisturbato senza cambi di tempo, seguito a ruota dai suoi compagni. Questo è un brano molto particolare, bidimensionale, dal testo rancoroso e malvagio e dalla sezione strumentale pacata, e ciò lascia interdetti, inoltre la struttura è basilare, una strofa soltanto e due refrain ripetuti da un Garcia davvero ispirato e dalla voce sabbiosa che sputa veleno contro la sua donna. Possiamo etichettare questo pezzo come una semiballata amara, frutto della penna nichilista e selvaggia dello stesso vocalist, estremamente sintetico ma dallo spirito affilato che si rispecchia nel grigiore generale dell'album.
Phototropic
Phototropic (Fototropico) prosegue su toni smorti, grigi e dalle sfumature azzurre, un poco sbiadite, dai tratti tragici e allucinati. Suoni evanescenti e gelidi che sembrano liquefatti si fanno largo in uno dei migliori brani della band, capace di ingannare persino l'ascoltatore più preparato grazie a un'indole dinamica e vivace, capace di cambiare pelle da un momento all'altro, in modo repentino. Il fototropismo è il processo secondo il quale una pianta, stimolata dalla luce del sole, cresce generando la fotosintesi. Abbiamo così un altro inno alla natura, una musica istintiva capace di creare un legame fortissimo con il mondo che ci circonda e un significato profondo e prezioso che tutti noi dovremmo custodire. Così come una pianta cresce lentamente alla luce del sole e abbeverandosi di acqua, la traccia parte da uno stato di catalessi, di sonnolenza, un momento che si prende metà della durata totale, dipanandosi tra riff sognanti, vagiti acustici, pulsazioni instancabili di basso che ci fanno immaginare la crescita del vegetale. Le radici, mano a mano che il pezzo si distende, crescono e si rafforzano, piantandosi saldamente al terreno, dunque giunge il cambio di tempo, dove le chitarre, come rappresentazione di queste radici, si rafforzano e affondano nella terra. Hernanzez si dà da fare dietro le pelli e cresce di intensità, poi subentra Garcia e intona la cantilena in onore degli alberi, ricordando a tutti che la musica dei Kyuss rievoca sempre la natura più selvaggia, la omaggia, la venera e la rispetta. L'albero cerca la luce, e quindi il sole, e si protende per assorbire più calore possibile al fine di crescere sano e forte; attraverso salde radici, l'albero non cadrà mai, nemmeno sotto le peggiori intemperie. La band sterza bruscamente a metà minutaggio, trasformando la ballata immaginifica in una cavalcata disperata che mette in mostra gioie e dolori, ombre e luci, tonalità limpide e tonalità pallide di tutte le vite presenti nel mondo, e perciò anche le nostre, in questa alternanza ciclica che non ha mi termine.
El Rodeo
El Rodeo (Il Rodeo) procede su un riff glaciale di Josh Homme, quasi una cantilena, e poi prosegue col supporto del basso di Reeder e della batteria di Bjork costruendo un ritmo funky che dondola l'ascoltatore e lo costringe e danzare come fosse in stato di catalessi. Garcia, gode di maggiore spazio come compositore e songwriter, complice anche l'abbandono del batterista Brant Bjork, maggiore autore, assieme a Homme, dei pezzi formati Kyuss. Qui Bjork ancora è in formazione, ma già si intuisce che qualcosa gli frulla in testa e ormai non partecipa più molto alla stesura dei nuovi brani, sintomo che i tour, gli impegni, i litigi con i compagni, lo stanno allontanando dal gruppo. Trascorre quasi metà pezzo, poi ecco un cambio di tempo improvviso, fulmineo, guidato dalla batteria angosciante di Brant Bjork che trasforma la base ritmica in una cavalcata doom, con tanto di nuvolone nero e minaccioso che incombe sulle nostre teste e dai lampi scagliati sulla terra dai velenosi riff di chitarra e di basso che si amalgamano e creano il panico. Timidamente, Garcia interviene a narrare quello che, apparentemente, sembra un elogio alle droghe; il rodeo, ossia l'atto di cavalcare un toro o un cavallo scalciante, rappresenterebbe lo stordimento a seguito dell'assunzione di droghe. Il cervello sbriciolato, confusione totale, la giostra è divertente, incarnata proprio dallo stupefacente che interroga la sua preda, John Garcia stesso, essendo l'autore del testo, e lo costringe a inginocchiarsi e a godersi gli effetti dello stordimento. Il divertimento è gratuito, ma dopo, svanito l'effetto, Johnny sarà lo stesso di prima? Probabilmente cadrà di nuovo nella depressione, si sentirà solo e triste. L'andamento si protrae a lungo, trasformandosi in una lunghissima coda finale, dominata da un Garcia che sembra implorare il suo padrone, la droga, di non abbandonarlo e di continuare a cullarlo tra le sue braccia astratte, facendolo cavalcare questo toro invisibile ma molto divertente. La doppia ritmica del brano è fantastica, per metà quieta e danzereccia, come se si stessero aspettando che le droghe facciano effetto sulla mente dell'uomo, mentre la seconda parte, invece, accelera forzatamente per proiettarci nell'incubo, nel vortice di suoni e di voci che popolano la mente del protagonista.
Jumbo Blimp Jumbo
Jumbo Blimp Jumbo (Dirigibile Gigante) è un'altra strumentale gestita dalla chitarra di Homme, qui vero protagonista, il quale si diletta in una lunga serie di riff, distorsioni e viaggi celesti del tutto improvvisati, almeno fino all'esplosione finale dove assistiamo alla genesi di una coda forzuta e basta sulle possenti rullate di Alfredo Hernandez e sul vigoroso basso di Scott Reeder, con il quale ha un'intesa perfetta. Fissiamo in alto il cielo, e allora questa jam sembra rappresentare una nuvola che si muove placida prendendo varie forme, trasformandosi nelle più disparate immagini. Si ha una sensazione liberatoria, un senso di vuoto, di atarassia, di assenza di emozioni, o più che altro di dolori. La pace dei sensi giunge calma e soffice alle nostre orecchie, scandita dai tre musicisti coinvolti, al quale Garcia è costretto a lasciare la scena e a farsi da parte. L'idea per il pezzo è nata proprio guardando in alto e puntando le nuvole, osservando il loro movimento, la loro leggiadria; così il titolo, spesso improvvisato e privo di senso nella musica dei Kyuss, qui rispecchia bene quanto espresso. Un dirigibile enorme, dalle dimensioni spropositate, che si libra da terra e sale verso le nuvole, sparendo oltre e superando la sfera terrena che appartiene alla materia, per approdare chissà dove, forse nel cosmo, dominato dalle stelle e dall'infinito. Lo spazio si fa grande, l'universo ci inghiotte ma, tutto sommato, ci sentiamo tranquilli, poiché non abbiamo timore, siamo rilassati e in pace con noi stessi e con gli altri. Il dirigibile si innalza e guarda il mondo dall'alto, offrendo un'altra ottica.
Tangy Zizzle
E con Tangy Zizzle (Sfrigolio Piccante) siamo proiettati nell'universo a bordo di una navicella spaziale. Si attacca subito con un commento sessuale, come scandito al microfono di una navicella, che ci fa intendere che siamo nello spazio. Non a caso si parla di una relazione morbosa, ossessiva, dove l'uomo è uno stalker malato e posseduto dalla sua "prostituta personale", ossia la droga, che lo manda in orbita ogni volta che viene assunta e lo eccita da morire, per una sensazione extrasensoriale unica. Eppure, nonostante le difficoltà, si tratta di amore, un amore strano, perverso, controproducente e decadente, ma è una condizione di schiavismo che alletta il nostro protagonista, perché la sua mente è ormai degenerata, divenuta un buco nero dentro al quale soffia il vento e dove l'orizzonte si infrange. La sezione ritmica spinge con un certo andamento che trasmette caldo e afa, tanto che sembra di trovarsi su una spiaggia con le onde del mare che bagnano i piedi, Homme ed Hernandez sono in primo piano e gonfiano il suono con un bel duello di asce, mentre Garcia si veste da guru e ammonisce sui danni provocati dagli acidi, vomita parole disilluse nelle due strofe e urla la sua confusione nel dirompente ritornello: "Dove vuoi che vada?" chiede alla sua divinità, "Mi va bene tutto, io ti seguo". La resa dell'uomo nei confronti del vizio che lo sta uccidendo è ancora più evidente nella seconda parte del brano, quando il vocalist afferma di mandare a quel paese tutti gli altri, tutti gli insegnanti di vita, perché si sta meglio da soli e si impara a vivere con le proprie forze. Questo è il totale senso di libertà, dove ognuno deve fare ciò che sente, persino annientarsi con le proprie mani. Due minuti folli, tenebrosi, allucinati e velenosi, scanditi da un up-tempo energico che ricorda la vera natura schiacciasassi dei Kyuss, in questo "..And The Circus Leaves Town" un po' dimenticata, messa da parte per favorire una dimensione più intima, cupa e onirica, che rende l'album sicuramente meno metal e più squisitamente rock.
Size Queen
Size Queen (Regina Di Dimensioni) flirta col reggae, essendo costruita su un giro di chitarra molto particolare. Rispettando la metrica, anche John Garcia intona una cantilena danzereccia, salvo poi crescere d'impatto, lanciandosi alla riscossa attraverso un paio di bridge sostenuti e rocciosi, dalla forza terremotante scaturita dalla batteria di Hernandez. Questo brano è carico di sensualità e non è difficile pensare ai movimenti sinuosi e fatali di una bella fanciulla che danza sulla spiaggia, bagnandosi i piedi con l'acqua. Già, proprio l'acqua è il tema principale del testo, poiché ci troviamo su una spiaggia a contemplare l'oceano. Il mare ha le stesse caratteristiche della donna: pulito, puro, ondeggiante, profondo. La femmina, così come l'acqua, è fonte di vita, perché capace di procreare, ma in questo contesto è anche messaggera di morte, perciò l'uomo protagonista la invoca per accompagnarlo a largo, dove si perderà nell'infinito e non tornerà più sulla terra. "Size Queen" è la traccia che più rispecchia la copertina del disco, dai toni blu, che per gli americani è il colore della malinconia e della paura, è la canzone più disperata e, al contempo, quella più stramba a livello di suono. La scarica metallica tipica dello stoner si accoppia con l'andamento ondulato tipico del reggae, creando un incrocio interessante e anche piuttosto intimo. Reeder e Homme si dividono i compiti, l'uno maggiormente presente nella fase reggae, l'altro nella fase hard rock. L'uomo, il pensieroso, il solitario, la vittima sacrificale, decide che è giunto il momento di tuffarsi in mare, lasciandosi tutto alle spalle. Si volta per un istante e nota le sue orme sulla sabbia che stanno scomparendo, dunque si china e si abbevera da quella sorgente di vita/morte. Chiude gli occhi e si getta. È impressionante notare come questo racconto, dall'animo sacro e biblico, possa sintetizzare la musica dei Kyuss, che dallo stoner acido e vertiginoso dei lavori precedenti, ha lasciato il passo a uno stoner più tragico e leggero, persino dalla struttura più snella. Tra i lamenti di Garcia viene fuori una fase finale impegnativa, dove il muro di suono torna ad erigersi riportandoci su lidi prettamente metallici.
Catamaran
Catamaran (Catamarano) è la cover degli Yawning Man, band nella quale militava il batterista Hernandez, e il titolo sembra appropriato per un lavoro incentrato sul valore dell'acqua. Il brano è caldo e liquido, sembra di essere a bordo di un catamarano che schizza sull'acqua; fa caldo, il sole brucia sulla pelle, gli scogli ci circondano, le onde ci cullano docili, l'aria è calda e non c'è ombra attorno. Insomma, tutto sembra tranquillo e sognante, una vacanza in un posto esotico, ma ecco che improvvisamente Garcia alza il tono e comincia ad urlare; l'effetto è straniante, stonato dal contesto, perché dalla strofa rilassante si passa a un refrain duro, arrugginito, dove il vocalist si avvicina a Dio, alla sua natura religiosa, ma allo stesso tempo ne è spaventato e ha paura di morire. Luci ed ombre, un contrasto molto utilizzato dalla band, ma anche realtà e illusione, vita e morte, sono tutti elementi che governano la vita di ognuno di noi. Le strofe, pacate e speranzose, si scontrano con il timore dell'oblio, e tutto ciò suscita forti emozioni. Intanto il catamarano slitta sull'acqua, procede la sua corsa così come noi proseguiamo la nostra vita. Garcia è un grandissimo interprete e nel contesto dell'album, proprio per dare voce alle sue visioni, adotta uno stile diverso dal solito, la grinta viene sostituita da una diversa impostazione, molto più soffice e sussurrata, proprio per dare origine ai suoi sogni, e quindi aprire cuore e anima. Sebbene questa "Catamaran" sia il prodotto di un'altra band, tra l'altro una band importante per i Kyuss perché vicina a loro per stile e per provenienza, non sfigura affatto all'interno di questo album anzi, calza a pennello. Homme e soci, complice l'entrata in formazione del batterista degli Yawning Man, l'hanno ripresa e lustrata a dovere, visto che l'originale è molto più sporca e idilliaca. Un remake pienamente riuscito, e anche un ringraziamento a una band amica, che non ha avuto affatto successo a livello commerciale ma che si è guadagnata un piccolo posticino nell'underground californiano dell'epoca. In linea con le altre composizioni dell'album, anche qui abbiamo un pezzo di soli tre minuti, tanto bello che dispiace finisca così presto.
Spaceship Landing
Spaceship Landing (Atterraggio Spaziale) rappresenta l'addio alle scene, il termine del viaggio, l'atterraggio spaziale dopo una lunga avventura per i vari mondi e i vari universi. Undici minuti attraverso i quali la band mette in luce tutto il suo cammino, partendo da sferzate doom screziate di ruggine per arrivare a intermezzi spaziali e allucinogeni, passando per inserti onirici molto intimi. Qui dentro c'è tutta la filosofia dello stoner, i diversi stili che hanno reso grande questo sottogenere, ma c'è anche una foga sperimentale fuori dal normale, che molti hanno inteso come confusione ma che secondo me invece dimostra genio e sregolatezza di una band unica al mondo. Il ritmo della batteria è marziale, le strofe sono gonfiate da linee di basso grasse e ripiene, mentre la chitarra è pachidermica e luciferina. Garcia intavola un dialogo con se stesso, la sua metà oscura, e appare a tutti gli effetti delirante come un folle che parla da solo. Disturbo di personalità, questa dovrebbe essere la colonna portante delle liriche, poiché l'uno dice all'altro di essere stanco di dover fare sempre tutto insieme, perché si è inseparabili. Da questo momento in poi l'uno non darà più ascolto all'altro, lo combatterà fino ad espellerlo. Il suono generale è conforme alle linee del disco, dunque si nota un clima decadente, di remissione, come se l'uomo, in quanto mortale, sia in piena balia degli eventi e non può far nulla per ribellarsi. I Kyuss dipingono un mondo immaginario, costituito da immagini astratte e metafisiche le cui basi sono le emozioni dilatate del genere umano. Emerge il basso, il ritmo rallenta trasformandosi in un doom possente e caldo, così giunge la consapevolezza di essere un uomo fottuto, pazzo da legare. Homme esegue un assolo estremamente semplice, ma è il basso a impressionare per potenza di suono. I toni si smorzano, resta un leggero brusio di sottofondo, dunque si riprende a spingere, ricominciando da Hernandez. Nella seconda parte la voce di Garcia si fa più astratta, modificata, come annacquata, e riversa parole di rammarico, parole disperate perché ormai ha parlato troppo, è in balia del suo gemello oscuro che vive proprio dentro di lui. Questo è un lunghissimo bridge liquido, di grande fascino, ma la sensazione di remissione e di decadenza giunge poco dopo, quando su un riff acustico il vocalist cerca di riappacificarsi al suo alter-ego; gli dice che va tutto bene, che hanno solo esagerato e che adesso hanno solo bisogno di riappacificarsi e di ritrovare la serenità per continuare a vivere. Il ritmo è blando, ma riprende quota verso la fine, per l'ultima intensa fase di questa dinamica traccia che sembra comprendere tutti e quattro gli elementi della natura: aria, acqua, terra e fuoco. Un brano complesso, frutto del genio di questi musicisti che hanno sempre osato sperimentare. L'opera termina qui, ma non si chiude del tutto, perché dopo interminabili minuti di silenzio si palesa la hidden track "Day One", meravigliosa e brevissima ballad dedicata alla morte di Kurt Cubain e che già abbiamo esaminato nella recensione del singolo "Demon Cleaner".
Conclusioni
"..And The Circus Leaves Town" è l'epitaffio che ogni band sogna, un'opera sublime, l'ennesimo capolavoro partorito da una band unica, sebbene sia meno intenso nel songwriting e abbia una struttura più semplice rispetto ai due album precedenti. Gli elementi della natura sono dunque sotto ai nostri occhi: terra, fuoco, aria e acqua; i Kyuss riescono in un'impresa non solo senza precedenti, essendo loro stessi inventori del desert metal, ma ancora oggi ineguagliata. Quattro elementi sacri per quattro album magistrali e ricchi di significato, capaci di creare un legame tanto forte quanto iconico con il mondo che ci circonda. Ma anche le storie più belle hanno un loro ciclo e devono giungere al termine; anzi, più le storie sono luminose e imponenti e più bruciano in fretta, consumandosi nel giro di poco tempo. In soli cinque anni i Kyuss hanno rivoluzionato una scena musicale e gettato nuove coordinate stilistiche, ma il tempo ha reclamato i suoi adepti, mandando la nave a naufragare sugli scogli, scossa da uno tsunami che ha rigettato le acque sulla terraferma, inghiottendola in un sol boccone. No, la band non avrebbe potuto proseguire il suo cammino, non con questo tiro e con questi risultati, e forse è meglio che sia andata così, chiudendo con onore con un capitolo gigantesco per qualità e per importanza. "..And The Circus Leaves Town" esce il 30 maggio 1995 e vende subito centinaia di migliaia di copie, eppure, appena finisce l'estate le vendite scemano terribilmente e i singoli spariscono dalle classifiche e dalle radio. Il cambiamento culturale è impressionante, la gente abbandona il rock per gettarsi su generi più commerciali, tanto che da questo momento in poi il rock duro non avrà mai più importanti introiti commerciali, rimpicciolendosi fino a diventare roba di nicchia e divorando migliaia di band. Lo stoner, così come il grunge, spariscono dalle tv nel giro di pochi mesi, sostituiti dal brit pop e dall'elettronica che fanno sfaceli tra i giovani ascoltatori. Il cambiamento culturale è drastico, in più ci si mettono le critiche negative nei confronti dell'album a far calare l'interesse nei confronti della band, dato l'elevato tasso di psichedelia e di toni distesi che avvolgono "..And The Circus Leaves Town" che spiazzano l'ascoltatore dell'epoca, il quale si aspettava roboanti riff e colate di acciaio e che invece si era ritrovato ritmiche sognanti e mid-tempo pacati, anche se poi non mancano di certo le classiche cavalcate desertiche. In tutto questo trambusto, la band è irrequieta e delusa, i componenti non vanno più d'accordo e vengono rimproverati dalla Elektra per aver saltato alcune date live. Il tour viene cancellato per motivi interni al combo e all'inizio dell'autunno, nell'ottobre dello stesso anno, i Kyuss rilasciano un'intervista nella quale dichiarano la fine della loro avventura. In breve, ognuno dei membri si getta su progetti personali e nonostante le numerose offerte, tra l'altro condite da cifre e da compensi astronomici, per un'eventuale reunion, tutti rifiutano tirando dritti per le proprie strade. La leggenda dei Kyuss termina qui, con questo quarto capitolo, rivalutato negli anni tanto che oggi viene considerato un pelo sotto ai due precedenti capolavori, e che si presenta con un suono sperimentale, più intimista e cupo, più snello, disilluso e mistico, probabilmente frutto delle tensioni interne e del periodo buio che la band sta vivendo. Acque torbide, verrebbe da dire, dato il tema portante trattato dagli undici splendidi brani qui presenti e che ci riportano alla condizione generale della formazione americana: nervosa, abbandonata dallo storico batterista, snobbata, mese dopo mese, dalle radio, sempre più disinteressate all'hard rock. Il circo lascia la città, questa volta per non farvi ritorno, lasciando un paesaggio spettrale, affogato da suoni torrenziali e da tetre visioni. Allucinazioni, droghe, disperazione e dolore vengono sospinti dalla corrente che tutto trascina generando morte e distruzione. Ma le acque che bagnano il villaggio prima o poi si placano, vengono riassorbite dall'arido terreno, lo concimano, facendo germogliare ancora la vita e lasciando il silenzio regnare sulla vallata. Ed è in questo silenzio consolatorio che riecheggia la consapevolezza di un meraviglioso congedo.
2) One Inch Man
3) Thee Ol' Boozeroony
4) Gloria Lewis
5) Phototropic
6) El Rodeo
7) Jumbo Blimp Jumbo
8) Tangy Zizzle
9) Size Queen
10) Catamaran
11) Spaceship Landing