KUPID'S KURSE

Decahedron

2013 - Revalve Records

A CURA DI
GIACOMO BIANCO
14/11/2013
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Recensione

IKupid’s Kurse sono una giovane realtà che proviene da Bellinzona, Svizzera. Dopo anni di naturale assestamento i nostri arrivano per la prima volta ad assaggiare la dimensione live nel 2008, dopo aver completato quella line-up che propongono ancora tutt’oggi. Piccola postilla: prima di giudicare avventatamente il loro operato, vi prego di ascoltare l’album, perché onestamente non paiono proprio una band “alle prime armi”. Qua dentro ognuno sa il fatto suo e, concedetemelo, non sei un pivello se sei già salito ben due volte sul palco del Metalcamp (nella fattispecie in occasione dell’edizione 2010 e 2011). Anche se possono sembrare “giovani”, sono dei professionisti a tutto tondo.  Andando indietro di qualche anno, nel 2009 i Kupid’s Kurse avevano già pubblicato un mini-cd composto da 5 tracce, autoprodotto, intitolato “A New Beginning”. Tuttavia è nel 2013 che la band fa il botto con il disco d’esordio “Decahedron”, uscito per conto della nostrana Revalve Records. Se diamo un’occhiata alla copertina, che raffigura un asteroide dal quale fuoriesce un decaedro, possiamo capire che fin dall’artwork le cose in casa KK vengono curate nei minimi dettagli. Che dire altrimenti della produzione? La registrazione dell’album, oltre che per una notevole bravura dei musicisti, si fa notare per la pulizia del suono, che tuttavia non viene mai snaturato eccessivamente e che conferisce quell’aspetto freddo che giova complessivamente a creare atmosfera nell’album. Come accennato, la copertina reca come soggetto principale proprio un decaedro, un solido a dieci facce piane, quasi come a voler dire che tra le dieci canzoni che compongono la tracklist non ce ne sia una che prevalga sulle altre, ma che anzi si strutturino assieme per dare vita ad una figura perfetta. Sotto questo auspicio, partiamo subito con la nostra analisi dei brani! Fin dall’opener “Corrupted”, notiamo che le sonorità sono prettamente melodic death metal, con buone chitarre soliste che si ergono su massicci breakdown (di chiara matrice metalcore), che saranno un po’ il leitmotiv dell’intero album. Le vocals sono molto variegate e fin da subito notiamo che “Emi”, il cantante, si destreggia bene tra un growl gutturale ed uno scream più tagliente, seppur ancora un po’ acerbo. La tematica del testo è assolutamente fantasy: la band ci parla di un giovane che altro non ha conosciuto se non la schiavitù, costretto ad ubbidire ai suoi padroni sin dalla più tenera età. A questa vita di sofferenza viene sottratto all’improvviso, quando degli stranieri apparvero acclamandolo come il prediletto, riponendo in lui tutte le loro speranze. Il ritornello è affidato di nuovo allo scream, assai corrosivo nella sua espressiva malinconia, paragonabile a quella del protagonista che si smarrisce a contemplare nelle stelle tutto ciò che ha perduto, guastato dalla rabbia e dall’odio che cova nel fondo del suo animo. Un bridge, poi, si fa notare subito per i suoi inserti di pianoforte e arie, che esaltano lo struggente stato d’animo del nostro protagonista. Egli è diventato sì grande e forte, ma i suoi demoni interiori continuano a non dargli tregua. Conosce anche l’amore, è vero, ma nemmeno questo riesce ad evitargli il tormento di un’esistenza insicura, che lo porta a non fidarsi di nessuno. A questo punto della canzone i Kupid’s Kurse raddoppiano la durata del chorus, ma allo stesso tempo degenera completamente la figura del nostro protagonista. Un’opprimente tenebra interiore s’impossessa infatti della sua anima e lascia che la brama di vendetta annebbi la sua mente cosicché dalle parole si passi ai fatti: nessuno sopravvive alla furia omicida che alla fine ha avuto la meglio sulla sua coscienza, nemmeno le grida di terrore delle sue vittime sortiscono un vago sentimento di pietà. Persino il suo più caro amico è costretto a non guardarlo più negli occhi, lasciando l’anima del giovane ad un’eterna dannazione, consumata dalle fiamme delle vendetta stessa. Dopo un altro bridge di ottima fattura, dalla chitarra solista di “Jack” scaturisce un assolo veloce ed al contempo semi-melodico. L’ultimo ritornello ci lascia la figura di un giovane che, da ubbidiente servo, si è tramutato in un ferale assassino il quale, perdendo la sua anima, è diventato solamente l’ombra di quello che era un tempo. Una canzone davvero molto buona, d’impatto, che riesce nel tentativo di presentarci questi Kupid’s Kurse in tutte le loro caratteristiche fondamentali: chitarre ritmiche serrate, chitarre soliste taglienti che si avvicinano addirittura a partiture black, sezione ritmica pesante e schiacciasassi, vocals varie ed espressive. Come ultima cosa mi piace sottolineare l’incipit “A long time ago, in a galaxy far, far away”: chissà se tra i nostri cinque amici svizzeri c’è qualcuno fan dell’epica saga spaziale di Star Wars? Il secondo brano è “Foreboding Visions”, che si apre in maniera molto meno veloce. Il tiro è sceso nettamente, come per lasciare intuire all’ascoltatore che, oltre all’assalto all’arma bianca, i Kupid’s Kurse sanno anche muoversi su terreni più melodici. Ottimo il riff di chitarra che struttura il verso, capace di variare in un secondo momento grazie ad un drumming che si fa più lineare e meno pestato sul crash. Questa volta il tema è – come da titolo – rappresentato da visioni premonitrici di un destino non sicuramente “rose e fiori”, anzi presagiscono solo un infausto avvenire di distruzione e morte. “Cez”, il batterista, al minuto 1:17, si lancia in un pattern di blast-beat dove le liriche parlano di un pianeta, il nostro, su cui è solo più la Morte a sorridere. Il nostro mondo si è forse autoannientato da solo? Un breakdown spacca il pathos angosciante della suddetta desolata descrizione, così come compaiono di nuovo le tastiere che certamente danno un risvolto molto moderno alla composizione. Devastante la potenza evocatrice della successiva strofa: nei campi, tra “moncherini neri di quello che un tempo erano alberi”, illuminati dalla luce opaca di un Sole che sta pure morendo, troviamo solo montagne di ossa e teschi umani. Quale fatale olocausto può essere questo? Chi può aver mai perpetuato tanto male verso gli uomini? Certo è che “il monolite di ossa” richiama alla memorie le efferatezze di Tamerlano, conquistatore mongolo-turki celebre per aver eretto pile di teschi grazie alle sue vittime. Dopo questo momento, il riff portante del brano viene ripreso in concomitanza dell’attimo in cui il protagonista si chiede perché tocchi proprio a lui soffrire di queste atroci rivelazioni (e qui i KK riprendono la tematica dell’eletto). Non dimentichiamoci infatti che tutto ciò che è stato descritto finora non è altro che un insieme di visioni, ma quanta certezza abbiamo che esse rimangano tali e che non si concretizzino al più presto, visto anche l’andazzo di questo mondo degenere? Un’altra sequenza di blast-beat al minuto tre prelude al lungo finale della canzone: c’è spazio ancora per un chorus, ma sono soprattutto le parti di elettronica ad esaltarsi, che ben s’intonano con il loro suono “da astronave” in un contesto decadente e per nulla benaugurante. Molto buona anche l’idea di una chiusura col pianoforte, lo strumento forse più adatto a sottolineare l’intensità emotiva di un così triste fato. “The Blight”, terzo brano in scaletta, è la canzone che dà lo spunto per l’artwork della copertina. La song rimette la quinta e parte in maniera davvero dirompente. Questa volta tocca al growl l’onore di dirigere le vocals, con lo scream relegato a parti coristiche. La storia narrata è quella di un meteorite schiantatosi al suolo che, grazie al suo bagliore intrigante, attrae un uomo, desideroso di aprirlo ed incurante di cosa si celi al suo interno. Il primo verso è assolutamente double-face: se la prima parte è in blast-beat con chitarre dirottate verso sonorità più black, la seconda è certamente molto più metalcore nella sua totalità, dalla linee di chitarra alla stessa batteria. Il ritornello è molto sui generis per via delle strane parti elettroniche utilizzate, che creano un effetto vibrante che ricorda molto, tanto per capirci, quello usato nei vecchi film per riprodurre il suono dei fantasmi. Il secondo verso abbandona le sferzate in blast-beat, dando un effetto più omogeneo, ma sono le lyrics ad incuriosire: cos’è strisciato fuori dal cuore del meteorite, che contamina tutto ciò che è intorno? E’ un semplice alieno oppure una “forma” a noi ignota, che neanche riusciamo a concepire? Mentre il primo ritornello parlava di quando si era abituati a vivere una vita normale, senza paure né pene e con un futuro davanti, ora la situazione è nettamente cambiata: solo desolazione è fuoriuscita dal meteorite ed allo stesso modo tutti i sogni d’una vita sono andati in fumo. Un’indecifrabile parte parlata – forse è proprio la voce dell’alieno – si frappone ad un possente breakdown (che ricorda il filone deathcore tipico degli Attila). Dopo un ultimo verso e rispettivo chorus, c’è ancora tempo per un rapidissimo assolo che lascia ben presto la strada al breakdown di cui prima, che ora chiude la canzone. The Blight si colloca un gradino sotto le altre due canzoni precedenti, in virtù di scelte stilistiche particolari ma non da condannare (vedasi l’inserto elettronico del chorus). Altre soluzioni invece sono più discutibili, come l’idea di porre ancora il breakdown a fine canzone: una volta sortisce l’effetto desiderato, un’altra ancora perde la sua efficacia e rischia di far cadere il brano sotto l’accusa di essere scarso per la banalità d’idee. Se per giunta, dico io, non c’è motivo di attaccare i KK con questa accusa, certe soluzioni musicali potevano essere certamente riviste meglio.  Quarta traccia è “A Dreamless Machine”, che fa subito drizzare le orecchie per il riff che ricorda gli Amon Amarth. La band varia leggermente la tematica proposta, offrendoci uno spunto alternativo interessante: a parlare è questa volta una macchina, dotata di propria coscienza, originariamente progettata per servire gli umani. Ossessionata dalle loro emozioni, essa sviluppa una propria sensibilità che la porta addirittura ad interrogarsi sulle sua capacità di comprendere le emozioni ma di non riuscire a sperimentarle. La macchina arriva persino a contemplare il creatore affinché si sveli il mistero della sua tremenda condizione. Dal punto di vista musicale, parti più melodic death si alternano a versi sparati in blast-beat, così come il vocalist avvicenda sapientemente growl e scream, giocando sulla tonalità differente dei due cantati. Il ritornello è molto aperto, accarezzato dalla tastiera, mentre le chitarre di Jack e “Rob” s’intrecciano alla perfezione nelle loro melodie. Piccola nota di disappunto è il basso di “Igor”: purtroppo finora non è stato possibile distinguerlo chiaramente – un po’ come impone il genere d’altronde – anche se maggior spazio, a dir la verità, lo meriterebbe. Dopo il secondo chorus, attorno al minuto 2:21, Jack si esibisce in uno dei migliori assoli dell’album, molto melodico, che risalta anche grazie alla chitarra ritmica di Rob, che tesse una trama tanto semplice quanto malinconica. A questo punto la canzone si avvia alla chiusura non prima però di un altro verso, che riprende quello iniziale, in cui troviamo la nostra macchina, addirittura definita “paradossale”, che manifesta chiaramente l’intenzione di divenire qualcosa che prima nemmeno riusciva ad immaginare. Ripresa del riff iniziale e canzone che termina: ancora un buon brano da parte dei Kupid’s Kurse. “Engulfed by Darkness”, quinto pezzo dell’album, si apre con il vento che aveva chiuso la canzone precedente. Un dolce arpeggio di chitarra acustica sembra fare capolino in una valle buia e ventosa, ma poi tocca subito a Cez scandire il tempo con il suo rullante. La canzone arriva così ad una sorta di seconda introduzione, questa volta elettrica, con arpeggi distorti da cui esplode poi un terrificante doppio urlo growl/scream su di un tappeto di blast-beat che non può non esaltare la loro matrice più black. Ancora una volta il verso si mostra maggiormente “core”, molto dinamico nella sua partitura. Le lyrics parlano di un uomo che è tornato alla vita dopo la sua morte: un processo inverso che gli fa notare come le preoccupazioni di prima (la cura per la religione, la paura dopo la morte, la speranza di una vita eterna) siano in realtà cose futili, in quanto la sua nuova condizione di “purificatore” gli impone solo la preoccupazione di ripulire questo mondo da tutte quelle falsità che lo avevano assillato finché in vita. Dopo un verso variegato per la sua ritmicità, nel ritornello compare per la prima volta quello scream assolutamente tipico del metalcore, congeniale alla sezione ritmica di basso e doppia cassa che macinano un breakdown accattivante. Nella seconda parte della canzone, al posto del breakdown viene piazzata invece una parte dove i tamburi “tuoneggiano” impetuosi, collegati al verso grazie ad un efficace e brevissimo stop ‘n’ go. Al minuto 3:50 ecco un altro breakdown, molto lento e pestato, alla cui conclusione pare quasi di ascoltare venature di groove metal. Chiusura del brano affidata di nuovo ad un riffing melodic death incisivo, con le solite inserzioni elettroniche messe di contorno, mai in primissimo piano, mai del tutto relegate a mero sottofondo di riempimento. Sesta traccia è Misanthropic Entrapment”, quanto mai espressiva già a partire dal titolo: del resto come non vergognarsi delle atrocità che il genere umano sta commettendo sin dalle proprie origini? In seguito il testo amplificherà il senso di vergogna fino ad uno stadio senz’altro misantropico, dove alla stessa vergogna si affiancherà anche il disgusto più totale verso coloro che predicano di curare il mondo, non consci che invece sono loro stessi i primi ad ammorbarlo sempre più. Il brano si apre con un intreccio melodico di chitarre su un ritmo non proprio forsennato come ci si aspetterebbe. La scossa arriva ancora una volta dal verso della strofa, nuovamente e sempre più orientata verso il deathcore più puro, con ritmiche accelerate che sfociano sovente in blast-beat. Il ritornello invece è più d’ampio respiro, con parti più estreme ed altre più concentrate sulla linea melodica da seguire, scandite a tocchi di ride dall’ottimo drummer Cez. A questo punto è doveroso dare merito ai Kupid’s Kurse: dove ci si potrebbe aspettare l’ennesimo breakdown, i nostri musicisti optano invece per un semplice riff, che si gioca su poche note, ma che sicuramente colpisce di più per il suo senso d’innovazione. Quello che poteva essere il discorso di un semplice essere umano, capiamo essere invece il punto di vista di un’entità superiore che, sin dai tempi più remoti, ha osservato la razza umana nel suo progresso tecnologico (sicuri che non sia anche regresso culturale?). Per capire quello che è definito “il difetto insito nella razza umana”, questa creatura ha commesso lo sbaglio più grande che potesse: da essenza superiore qual era, si è calata nel corpo mortale di un uomo e, camminando in mezzo alla gente, ha capito di essersi intrappolata dentro una vera “prigione materiale”. La nuova condizione gli è d’ostacolo in quanto i limiti propri della natura umana gli impediscono di trovare una soluzione efficace per uscire da questa gabbia. Come prima nel ritornello l’essere diceva che non aspettava altro che la fine dell’umanità, per vedere così cancellata anche la miseria che portava con sé, ora è costretto ad aspettare la fine per liberarsi da questa situazione oppressiva e senza via di fuga. Un piccolo – e carino – bridge prelude poi ad un assolo in cui, a dire la verità, colpiscono di più le note di tastiera che riecheggiano come cori maledetti. Dalla seconda parte dell’assolo invece traspare la bravura (in questo caso prettamente tecnica) del solista Jack, che si esercita in parti in sweep-picking. Alla pari della quarta canzone, Misanthropic Entrapment si chiude così riprendendo il riff iniziale. “The Possession”, settimo brano, si apre d’impatto con un riffing molto buono (caratteristica comune a tutti i brani, vien da dire) accompagnato deliziosamente da una parte di batteria davvero gustosa per i passaggi sincopati sul ride. Se i primi due versi della strofa sembrano evocare quasi una disgrazia in stile “Un tranquillo weekend di paura”, capiamo subito che la situazione è assai diversa: qualcosa che era assopito da tempi immemori si è ora risvegliato ed ha assalito nel buio della notte un uomo e la sua compagna, addentratisi nei boschi per una passeggiata di piacere. Dopo una breve fuga, culminata con la sua cattura, l’uomo capisce che non c’è più nulla da fare e non riesce ad impedire alla creatura di impossessarsi del suo corpo. L’andatura sempre metalcore del brano (caratteristica, come potete vedere, sempre più palese con l’avanzare dell’album) ben evidenzia la sensazione di paura mista alla foga dello scappare per non essere catturati, peggio ancora se si scappa da qualcosa di cui si ignorano le sembianze. Giunti a quello che può essere considerato il refrain della canzone, i Kupid’s Kurse danno sfogo di nuovo alla loro parte più melodica, azzeccando la soluzione in quanto nel ritornello, solitamente ed in genere, sono site le componenti che più colpiscono l’ascoltatore. Dopo il chorus finalmente si può percepire distintamente il basso, il quale percorre le medesime linee della chitarra, prima che siano le tastiere a salire sul piedistallo, mettendosi discretamente in luce, anche se tenute sempre sotto la soglia di guardia, per lo meno quanto riguarda il livello di volume. Verso fine canzone, precisamente al minuto 2:53, possiamo ascoltare un altro assolo melodico costruito su una parte ragionata e non estrema della sezione ritmica, che si ripete poi in un efficace (ma non velocissimo) blast-beat che chiude di colpo la canzone con un buon effetto complessivo. “Eyes” è l’ottavo brano ed è anche il primo ad essere recitato fin dal principio con un cantato metalcore. Notiamo subito che le tastiera qui si fa scorgere benissimo, con un sound davvero elettronico ed assolutamente moderno. In un evidente climax ascendente sia musicale che testuale, evidenziato appunto dalle tastiere di cui si è detto in precedenza, le lyrics ci parlano di un viaggio di ritorno verso la propria terra natale. Ecco che però, in una situazione di stravolgimento dell’ambiente circostante (paragonabile a quello de “La ballata del vecchio marinaio” di Coleridge), emerge dalle acque un mostro dimenticato, che fissa chiunque con i suoi infiniti occhi maligni. Con una timida reazione, gli uomini a bordo gli scagliano contro delle lance che lo trapassano, però, come se non fosse reale, quasi come se il mostro fosse una visione indotta. Un fugace tuono introduce al chorus, nuovamente death-oriented, che precede una parte dove la batteria si stoppa in favore di uno stacco chitarristico che rilancia le sorti del brano verso un incredibile rivelazione: gli occhi della bestia sanno scrutare all’interno dell’anima umana. All’improvviso si risveglia tutta la sua furia distruttrice e della nave non rimane più nulla. Furia distruttrice che viene replicata anche da una sezione ritmica parecchio azzeccata, particolarmente ispirata dagli influssi più thrash/groove dell’album. Un buon riffing, prima più veloce e poi più calmo, chiude il brano creando un effetto pulsante sull’ascoltatore, che rimane sconvolto per la dinamica della chiusura. Il penultimo brano, “The Modern Prometheus”, esordisce con un fischio che subito si tramuta in un inquietante battito cardiaco. In questa maniera, di colpo, il blast-beat irrompe come un pugno al volto, con le chitarre che mantengono tra di loro un veloce fraseggio musicale. A differenza del Prometeo della mitologia, incurante dei rischi che avrebbe dovuto affrontare per essersi eretto a difesa di un genere umano sottomesso ai soprusi degli dei, il suo “erede”, che altri non è se non un novello Dr. Frankenstein, pare ricreare effettivamente le vicende dell’omonimo romanzo di Mary Shelley. Dopo un’accurata selezioni delle parti corporee migliori, gentilmente concesse dagli obitori di mezzo mondo, chissà che dono intende fare all’umanità il nostro Moderno Prometeo...Dalla pazienza certificata dalla selezione e dalla perizia profusa nell’opera di ricostruzione della sua creatura, egli sembra più che altro ambire a maniacali mire divine. Musicalmente il brano si destreggia in veloci partiture decisamente moderne per gusto stilistico: infatti le chitarre sono tendenzialmente, rapide ma concedono anche break più lenti su cui ricadono armonici artificiali. Attorno al minuto 1:13 uno stacco di rullante prelude all’ultimo breakdown dell’album, la cui parte seguente ricorda molto i Machine Head di “Imperium”, anche se qui il prosieguo vira verso lidi ovviamente più estremi. Dopo una parte del testo che ricorda i Carcass più chirurgici, nel ritornello lo scienziato pazzo tradisce la sua brama di potere e capisce che determinate cose occorrono essere nascoste alla mente umana, proprio perché non accadano orrende assurdità come la sua. A questo punto però il protagonista comprende la sua pazzia, ma ora non può più ritornare indietro. Partiture decisamente deathcore hanno infine il compito di terminare la canzone, spaziando ancora una volta dal blast-beat al breakdown. E’ inevitabile notare che, ancora una volta, la chiusura è costituita dalla ripresa di temi e pattern già utilizzati in precedenza. Farcire un brano per il solo desiderio di allungarne la durata, ripetendo più e più volte lo stesso riff, può essere in effetti una scelta criticabile. Anche se ciò non deve intaccare il voto complessivo di questo disco, tuttavia questa scelta va tenuta nella giusta considerazione. Arriviamo così a “Lunar Mutation”, ultimo brano della tracklist e primo ad aprirsi in maniera sinfonica, scelta che ricorda addirittura i Dimmu Borgir di “A Succubus in Rapture” nelle sue parti più atmosferiche. Sinistri ululati di lupi e stacchi di batteria spianano la strada al growl più gutturale mai sentito fino ad ora. La canzone cresce di ritmo grazie ai tom e timpani di Cez, sui quali le chitarre di Jack e Rob impastano un suono molto metallico. Capiamo fin da subito che le parti vocali ci narrano della sfortunata condizione di un lupo mannaro. E’ bello sottolineare che esiste una differenza tra il lupo mannaro ed il licantropo: quando il primo è costretto a trasformarsi anche contro la propria volontà, il licantropo decide invece a piacimento il momento della trasformazione, neppure mai smarrendo la propria ragione (ovvero la componente umana). A tal proposito il verso “A force that I can’t win” non lascia dubbi sulla natura del protagonista della vicenda. Sulle medesime parole di questo verso, cambia anche il riffing, arricchito da armonici ed impreziosito da parti ritmiche che s’impennano fino a raggiungere ritmi altissimi. La maledizione della sua natura è duplice: infatti, oltre a patire le conseguenze della trasformazione, egli si ricorda chiaramente delle efferatezze commesse nelle “notti cremisi” (chiara allusione al colore del sangue). E’ dura vivere a contatto col ricordo delle facce delle proprie vittime, e dunque ecco che il ritornello diventa così il suo testamento: prima che gli influssi lunari compiano il loro dovere, il mutaforma invoca il “bacio d’argento” della propria amata. L’allusione ad un rimedio (anche definitivo) non è poi tanto velata e ci lascia capire quanto questa condizione sia logorante per un mostro, sì, ma pur sempre con l’anima di un uomo. Il ritornello è definito dalle melodie di chitarra, sempre in linea con i già sperimentati stilemi melodic death. Verso metà canzone, che ricordiamo essere nettamente il brano più lungo dell’intero album, un bridge colora la canzone con tinte ossianiche, quasi infernali, in cui si avverte chiaramente la maledizione che gravità sul protagonista (e qua le tastiere giocano un ruolo fondamentale). Al minuto 4:36 la chitarra solista ci regala l’ultimo assolo dell’album (a somme fatte, forse addirittura il più valido), sotto al quale si dipana un accompagnamento bello davvero, stilisticamente variegato. Dopo nemmeno un minuto esatto dall’assolo, sono le tastiere ad accentrare l’attenzione su di sé, con un suono da vero organo degno di un horror movie. Quella che potrebbe sembrare una lunga chiusura in calare, non dura invece più di una manciata di secondi giacché i ritmi tornano subito altissimi. Emblematici sono gli ultimi versi. La donna non ha saputo mettere fine alla sofferenze dell’amato compagno e così il misfatto si è compiuto: in preda all’ennesima trasformazione, il lupo mannaro non ha saputo resistere alla tentazione rappresentata da un corpo così grazioso e l’ha brutalmente assassinata. Immaginiamo quale possa essere la rabbia ed il rancore che l’uomo coverà dentro di sé per sempre... oppure almeno fino alla prossima trasformazione! Eccoci così giunti alla conclusione di quest’album. I Kupid’s Kurse sono riusciti nel loro intento di colpire l’ascoltatore. D’accordo: potrà non essere un lavoro assolutamente innovativo, ma d’altronde chi riesce ad essere un innovatore oggigiorno? Ciò non deve però togliere il merito di aver dato libero sfogo alle loro influenze stilistiche, coniugando, essenzialmente, in un’unica visione musicale due matrici fondamentali: quella death e quella metalcore. A questi due correnti principali vanno poi ad aggiungersi molti influssi minori, dal black al groove, passando per il thrash o l’industrial. Insomma, se questo è solo l’inizio del cammino chiamato Kupid’s Kurse, non resta che augurare loro un futuro radioso ed aspettare ansiosi il prossimo lavoro. Battesimo del fuoco ampiamente superato, che ne sarà della riconferma del secondo album?


1) Corrupted
2) Foreboding Visions
3) The Blight
4) A Dreamless Machine
5) Engulfed by Darkness
6) Misanthropic Entrapment
7) The Possession
8) Eyes
9) The Modern Prometheus
10) Lunar Mutation