KREATOR

Renewal

1992 - Noise Records

A CURA DI
FRANCESCO NAPPI
05/12/2022
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Introduzione Recensione

È il 1992 ed il mondo, soprattutto sul suo versante occidentale, è in piena fase di cambiamento, in tutto e per tutto: dall'aspetto sociale passando per quello politico. La Germania si è riunificata, l'URSS è caduta, il 6 aprile in Bosnia scoppia la sanguinosa guerra tra bosniaci, croati e serbi; la tecnologia ormai spadroneggia ovunque, portando l'uomo a misurasi con nuove frontiere lavorative e sociali. Insomma, i primi anni 90 sono teatro di un moto che vede una profusione di importanti mutazioni ed eventi, conseguiti in importanti risvolti storici. Del resto, se gli anni 80 erano stati simbolo dello sfarzo, del consumismo sfrenato e quant'altro, il decennio successivo si presenta un po' nella maniera opposta. Tutti questi cambiamenti si riversarono anche sulla musica, heavy metal compreso.

Ma torniamo per un attimo alle generalità del discorso: quale stato europeo, in quel periodo, era stato investito da questi sconvolgimenti così importanti? La Germania, naturalmente. Lo stato tedesco, nel '92 era ancora un cantiere a cielo aperto: il muro di Berlino era caduto da appena tre anni e le cose stavano iniziando solo in quel momento ad assestarsi. Ma l'atmosfera fremeva ancora di quell'aura di rivoluzione scoppiata il nove novembre 1989. Questo clima fu completamente assorbito da Mille Petrozza e dai suoi Kreator, ormai da anni tra le band più affermate in campo thrash metal e senza dubbio la più importante formazione teutonica del genere. Gli anni 80 hanno visto la band nascere ad Essen e successivamente sfornare quattro album divenuti bibbia del thrash. Con l'arrivo dei nineties, i giovani musicisti diedero alle stampe "Coma of Souls", uscito nel 1990. Un album ancora legato in tutto e per tutto alle sonorità dei lavori precedenti, seppur con una dose maggiore di tecnica e melodia. Due anni più tardi quindi, dopo una splendida cinquina di album e una maturità raggiunta sotto tutti gli aspetti, i Kreator si ritrovano ad un punto di svolta. Gli anni 90 sono stati la morte del thrash metal: ciò che successe negli USA oramai è noto a tutti e non è necessario ripeterlo ancora; in Europa le cose non andarono meglio, con le band interessate che, dando anche un occhio al mercato, virarono verso stili differenti dai loro standard. Ma, puntualmente, i fans dell'epoca non videro di buon occhio questi cambiamenti, tanto da abbandonare quegli stessi gruppi che fino a pochi anni prima amavano e adoravano. I Kreator furono forse quelli che, tra tutti, finirono maggiormente nell'occhio del ciclone. Il '92 difatti determinò l'inizio della così detta "fase sperimentale" della band di Essen. Tra agosto e settembre, in America, i Kreator registrarono difatti Renewal, disco che, per l'appunto, fu uno spartiacque nella carriera del gruppo. Il thrash metal dei dischi precedenti venne accantonato in favore di un sound più freddo, secco, asciutto. Petrozza e "Blackfire", al suo secondo disco con i Kreator, suonano riff monocorde, meccanici, non c'è più quel guitar-work incalzante e nevrotico che aveva fatto la fortuna delle opere passate. Il tutto è sostenuto da una sezione ritmica monolitica, sicuramente meno veloce ma di forte impatto. Infine, Petrozza cambia anche registro vocale: non più il ringhio infernale che aveva divinamente caratterizzato i dischi del periodo d'oro, ma una voce più strozzata, che a tratti ricorda molto l'hardcore punk. A conti fatti, i Kreator suonano ancora thrash, si, ma con influenze provenienti dall'industrial e dal groove metal. Ovviamente, la violenza sonora rimane il marchio di fabbrica. La musica del gruppo non si è affatto addolcita, suona diversa, ma l'impatto è sempre quello di un calcio sui denti. Di certo, dopo aver raggiunto la gloria con i lavori scorsi, Petrozza altro non poteva fare se non rinnovarsi e attenzione, "Renewal" in inglese significa proprio "rinnovo". Sicuramente il titolo è voluto, non solo per gli argomenti trattati (ora arriveremo anche al punto liriche), ma anche per il cambiamento di sound dei nostri. Del resto le nuove epoche vanno affrontate con la dose giusta di innovazione e Petrozza, molto coraggiosamente, si butta a capofitto in questa sperimentazione sonora, a costo di mettersi contro i propri supporters. Dunque, i testi. Mille già da qualche anno aveva affinato la sua penna: lontani ormai erano i tempi dove il ragazzo di Essen parlava di morte, distruzione di massa, Satana e inferno. Adesso Petrozza fa riferimento, principalmente, a questioni politiche e sociali. E, essendo Mille stesso un tedesco, gli eventi che scossero la sua madre patria, lo travolsero pienamente. "Renewal" è la definitiva consacrazione di Mille come lirista impegnato, in ambito metal ovviamente. Nell'album, il musicista affronta tutti gli argomenti di cui abbiamo parlato ad inizio recensione. Li plasma sotto il suo punto di vista, analizzandone pro e contro. E si sente quanto egli stesso sia coinvolto in ciò che scrive, perché in molti casi riguarda la sua stessa nazione. E per raccontare certe cose, che tutti i membri dei Kreator, in quegli anni, stavano vivendo in prima persona, serviva appunto un approccio diverso alla musica. Un approccio più distaccato, più cupo, che facesse capire all'ascoltatore cosa la band avesse da dire. Un qualcosa che andasse a braccetto con i nuovi tempi che correvano. E i Kreator nelle canzoni di "Renewal" ci credono tantissimo, si può percepire sin dai primi ascolti quanto Petrozza e soci siano convinti di quello che fanno, pur avendo adottato importanti cambiamenti sonori. C'è fermezza, spirito, voglia, smania di dimostrare che i Kreator sapevano ancora essere loro stessi, pur con delle modifiche. Ahimè, all'epoca nessuno (o quasi) capì quest'album, solo dopo è stato rivalutato anche se la schiera di detrattori rimane tutt'oggi folta (questo astio è esteso per tutta la fase sperimentale della band, che si concluderà tra il 1999 e il 2000). Andiamo ora a vedere nel dettaglio queste nove tracce tanto discusse.

Winter Martyrium

Ad aprire le danze ci pensa la formidabile "Winter Martyrium", in italiano Martirio invernale. Una canzone fredda, alienante, che ci presenta i Kreator nella loro nuova pelle. L'inizio del pezzo è scandito da un lento ma possente incidere di batteria, sorretto dai riff glaciali e distaccati di Petrozza e "Blackfire". L'atmosfera intorno all'ascoltatore si fa sin da subito minacciosa, con queste chitarre che ricordano molto uno scenario post-industriale. Successivamente, il ritmo improvvisamente cambia con "Ventor" che adesso si lancia in drumming dal sapore tribale e preannunciante ciò che sentiremo di lì a poco; nel mentre le due asce si dilettano in note stoppate, quasi ad avvertire il massacro sonoro che sta per avvenire. Difatti dopo questo lungo intro, i Kreator danno il via alla prima, violentissima strofa, sorretta adesso da un "Ventor" piuttosto spedito e da delle chitarre molto minimali, secche ma potenti. Petrozza subito ci fa percepire le modifiche che ha apportato al proprio cantato, sfoderando delle vocals molto vicine al punk e più in linea con la nuova direzione musicale intrapresa dalla band. Le linee vocali sono coinvolgenti, nevrotiche e vedono Mille cantare di un testo molto cupo, incentrato sulla violenza e il controllo mentale, perpetrati dai potenti della terra contro la gente comune. Il clima che percepiamo è glaciale, arido ma al contempo la canzone è potentissima e rabbiosa. Scorrendo le liriche, non appare chiarissimo se Petrozza faccia riferimento ad un particolare evento, ma ad ogni modo si può denotare la definitiva maturazione del giovane nel trattare determinati argomenti. Mille parrebbe cantarci di un individuo ipnotizzato dalle masse e ignorato da tutti. Costui dentro di se cova un forte odio. Questo personaggio è distaccato, freddo, talmente freddo che il testo recita "love is colder than death and in coldness we'll remain" - l'amore è più freddo della morte e nella freddezza rimarremo-. Ciò lascia presupporre dunque che la figura in questione non provi emozioni. "Freedom lies in chains" - La libertà sta nelle catene -, recita l'ultimo passaggio della prima strofa, e qui si possono interpretare due chiavi di lettura: la prima vede l'uomo schiavizzato appunto dalla sua stessa condizione esistenziale, la seconda invece potrebbe lasciar intuire che il soggetto sia un pazzo schizofrenico, che cattura le persone e appunto le incatena, tenendole in uno stato di prigionia. Giunge impetuoso il ritornello, meno veloce ma comunque frenetico, sempre con "Ventor" in primo piano col suo drumming granitico. Petrozza qui estremizza ancor di più le vocals, arrivando quasi al limite dell'urlo, e con tutta la rabbia che ha in corpo canta dei sogni, i quali sono stati distrutti contro ogni norma e di come questa sorta di virus sia stato diffuso per tutta la terra, instaurando un dominio senza forma. Naturalmente, anche il soggetto del testo è stato influenzato da questa "malattia" e ora si ritrova imprigionato nella sua stessa follia. Forse, Petrozza narra di un singolo individuo per far riferimento addirittura a tutta l'umanità, un'ipotesi senza dubbio plausibile vista la natura pessimista del musicista tedesco. Parte la seconda strofa e si torna di nuovo in apnea col drumming di Ventor a troneggiare. Va detto che se la produzione di questo album giova ad uno strumento, quello è proprio la batteria. Difatti la prova di "Ventor", batterista sempre sottovalutato e da alcuni giudicato l'anello debole dei Kreator anche nel periodo di maggior successo, è davvero ottima e il suono decisamente più nitido e secco mette in mostra tutte le capacità del drummer tedesco. L'autore adesso, in modo abbastanza velato ma percepibile, compie un attacco verso la religione: difatti la seconda strofa si apre col verso "Dead civilization on a mission, lead by gods" - Civiltà morta in missione, guidata dagli dei -. Potrebbe essere chiaramente un riferimento a tutta la gente morta per cause religiose, lasciatasi influenzare fin troppo da individui fanatici. E sappiamo quanto Mille sia sempre stato contro la religione, quindi è ipotizzabile che qui lui non si tiri indietro nell'attaccarla ancora una volta. Tutto ciò, dice Petrozza, è volto a creare un'etichetta che possa poi voltare le spalle alle vita, un qualcosa che dunque serva per far si che la vita termini. Su di questo viene costruita un'assurda cultura che colpisce i singoli sottoforma di scossa, rendendoli poi insani di mente come il nostro protagonista. Uno stacco inaugura un imponente bridge, sorretto da una splendida quanto monolitica melodia di chitarra. "Ventor" alterna patterns lenti ad altri più serrati; su quest'ultimi Petrozza urla il verso "Wide awake to the end" - sveglio fino alla fine-. Successivamente si ritorna al tupa tupa più classico e con esso si procede verso la fine del brano. Petrozza canta un'ultima strofa dove narra di incesti e crisi, tutti atti perpetrati senza una reale ragione, probabilmente solo per il gusto di far del male o di provarlo all'interno di se, in qualsiasi forma. L'autore dice anche che l'uomo è costretto ad affrontare gabbie individuali, il che potrebbe voler dire che il male, i demoni da combattere, sono in primis quelli dentro di noi. C'è spazio per "Blackfire" nel dilettarsi in una breve sezione solista, inserita però al momento giusto e donante quel pizzico di dissonanza che ben si sposa col clima generale del brano. Arriva il ritornello che travolge ancora una volta tutto con la sua furia e, di fatto, pone fine a questa splendida opener.

Renewal

La seconda canzone è la title-track, per l'appunto RenewalRinnovo in italiano. Un pezzo bellissimo, carico di groove e di tensione e con un testo nuovamente velenoso. Fu anche girato un video, che vedeva la band vagare in un deserto. Un'intro breve quanto cupa ci fa precipitare subito nel clima della canzone, poi "Ventor" inizia a scandire il più classico dei quattro quarti e le chitarre suonano un riff molto scarno e minimale. Eppure, tutto funziona alla perfezione, il brano acquista subito la potenza necessaria divenendo un mid-tempo tanto semplice quanto incredibilmente efficace. Petrozza, rispetto al pezzo precedente è impegnato su linee vocali più "pacate", cantando in modo però altrettanto incisivo il testo da lui scritto. L'autore parla del rinnovo, appunto, al quale il mondo è andato incontro nell'arco degli ultimi anni. Però il punto di vista dell'autore su questo nuovo corso parecchio pessimista. Petrozza scrive di imperfezione, di nuove vite generate dall'innocenza, di disperazione, disillusione, tormento, schiavitù di massa, resurrezione. Praticamente alterna cose brutte ad altre benevole, come a voler dire che questo nuovo ordine mondiale che si è creato, porterà si nuova speranza, ma non cancellerà tutto il male che è stato perpetrato fino a quel momento. In più, il testo è scandito dal cantante attraverso delle rime ben oculate, tant'è che la canzone, per quanto dura, è facilmente memorizzabile. Il ritornello piomba con prepotenza, aperto da un fantastico riff di chitarra, il quale oserei definire quasi solenne. L'atmosfera si inasprisce ulteriormente, il groove è notevolmente rallentato ed ecco allora Petrozza, con fare addirittura maestoso, cantare di questo rinnovamento della mente per liberare il dolore da dentro di noi. Successivamente il brano ritorna sulle sue coordinate, tenendo l'ascoltatore in pugno. Malgrado i cambiamenti, Petrozza scrive di veleno femminile, aggressività maschile, segreti mai svelati, l'arte di mentire, tutte cose che per lui trionfano sul rinnovamento della vita. E tutto sommato, almeno in parte, il musicista tedesco ci vede giusto. Un nuovo ritornello ci conduce verso il break centrale, dominato dalla freddezza delle chitarre, sorrette da una sezione ritmica "addomesticata" ma straordinariamente incisiva. A seguire, un breve assolo di Frank "Blackfire" porta al punto dove la tensione del brano esplode definitivamente: sul riff che tende ad aprire il ritornello, Petrozza urla, in uno stato che è un mix tra rabbia e disperazione, "renewal of my mind!"- rinnovo della mia mente -. La canzone ha raggiunto il suo punto di estasi, scaricandosi di tutta la tensione accumulata abilmente fino a quel momento. Adesso, com'è giusto che sia, la band libera tutto attraverso un'ultima strofa che indirizza il brano verso la conclusione. Quasi descrivendo un nuovo scenario socio-politico, Petrozza scrive di uomini moderni che abbracciano la luce, credenti della guerra, ingannatori della pace, politici, finti musicisti. Tutta gente che deve essere combattuta con una resistenza, scaturita da un percorso che non avrebbe mai dovuto avere inizio. A conti fatti, possiamo dunque dedurre che per Petrozza, essenzialmente, non è cambiato nulla. L'uomo, malgrado la nuova vita che si prospettava all'epoca, rimane sempre privo di scrupoli. Un ultimo ritornello chiude i giochi, ponendo di fatto fine ad una title-track veramente di spessore e che racchiude alla perfezione l'anima dell'album.

Reflection

La tracklist procede con "Reflection", ossia Riflessione. Con i suoi sei minuti abbondanti, "Reflection" è il pezzo più lungo del disco, nonché uno dei migliori. Oltretutto, rispetto agli episodi precedenti, è un brano anche più strutturato, dimostrando come i Kreator sapessero giocare con trame un po' più ricercate (ovviamente nulla di trascendentale, rientra tutto nelle capacità base di Mille e compagni). Un arpeggio di chitarra elettrica, dal sapore quasi grunge, apre le danze, con "Ventor" in sottofondo a destreggiarsi sui piatti, in maniera piuttosto delicata. Un'intro diversa dal solito, anche perché vede un Petrozza che letteralmente sussurra, con fare molto credibile, i primi versi del testo. Le liriche stavolta sono molto criptiche ma allo stesso modo affascinanti. Qui Petrozza lascia liberare il lato più cupo della sua persona, dando vita ad un testo che parrebbe idoneo per una band gothic metal, eppure anche qui il musicista tedesco fa centro. La prima strofa vedrebbe appunto delle persone ormai decedute, e dirette verso i cancelli del purgatorio, lanciare incantesimi di inganno e donando la luce ai ciechi. Queste anime ora sognano con gli dei della guerra e andrebbero alla ricerca dei veri portatori di vita. Si parla di "innocente liberazione", quasi a voler sottolineare come per queste persone sia stato meglio lasciare la vita terrena, piena di orrori e sofferenza. Successivamente, il brano si plasma sul consueto metal della band, dando il via alla seconda strofa, caratterizzata da un riff molto semplice ma efficace ed un drumming minimale di "Ventor". Delle visioni di tragedia prendono vita e fanno a pezzi le anime, tutte partenti per il purgatorio, alla ricerca del perdono divino. Notevole è il verso "Heavenly illusions burning, as they leave this darkened crypt behind" - Le illusioni celesti bruciano, mentre si lasciano alle spalle questa cripta buia -. Quest'ultima, probabilmente, è la terra stessa, la quale viene appunto abbandonata in fretta da questi spiriti. Un improvviso bridge strumentale, sorretto da un potente ed espressivo riff di chitarra e da un drumming più movimentato, da colore e varietà al pezzo, per poi ricondurlo subito sui binari originari, dando il via alla seconda strofa. Qualcosa a questo punto, per le anime in cammino, pare non andare. Un'aura di fronte ad esse si protende, forse è proprio Dio stesso, mentre le lacrime cadono dagli alberi. Petrozza scrive che queste entità, forse, stanno facendo ritorno a casa, quindi sulla terra, ma loro vogliono perdersi in quel luogo nuovo, perché sulla terra non vogliono più starci. Ma c'è qualcosa che guida gli spiriti, e costoro non vogliono perdere la via. A questo punto, un nuovo bridge fa capolino ed ecco che i tempi rallentano nuovamente, lasciando spazio ad una sezione dal sapore doom, un qualcosa di veramente inedito per i Kreator. Un riff dalla straordinaria potenza evocativa descrive da solo un paesaggio senza vita, desolante; Petrozza, con la voce leggermente filtrata, canta di riflessione di rinascita, cimentandosi in uno stile di canto decadente, un qualcosa mai sentito prima dal musicista tedesco. Quando tutto sembra scivolare verso il pessimismo assoluto, ecco che i Kreator improvvisamente abbandonano il doom per lanciarsi in una furiosa sezione di puro thrash, sulla quale continua la strofa: l'autore scrive di un ipotetico dio dell'universo, al quale le anime dicono di annusare come l'atmosfera sia permeata da un odore di morte e distruzione mentre la natura, perita anch'essa, ha perso ogni armonia. In più, continua Petrozza, queste anime danno l'impressione di sapere cosa il dio dell'universo sogna; nel mentre delle strane ombre oscurano lo schermo. Quest'ultimo verso potrebbe significare che la morte totale della terra è avvenuta e che la divinità di cui Petrozza scrive, l'aveva appunto sognato. Il brano prosegue spedito su queste coordinate, con "Ventor" a tessere il tappeto di doppia cassa mentre le due asce macinano riff al vetriolo. La canzone cambia nuovamente tono: il ritmo rallenta di nuovo, pur mantenendosi sostenuto, mentre le chitarre continuano a suonare potenti e granitiche, delineando l'ennesimo passaggio azzeccato di songwrting. Petrozza vomita con rabbia nuovi versi, i quali vederebbero ora le anime in una dimensione di vita diversa, osservare dall'alto il mondo che conoscevano: guardano mentre tutto ciò a cui erano legate viene distrutto, chiedendosi se non dovrebbero stare laggiù anche loro. Ciò che vedono gli spiriti è il riflesso di un'altra vita, ancora più oscura di quella che loro hanno sofferto, dettata da barricate che creano divisioni. E a quest'ultima parte, si collegano in maniera diretta le parole seguenti: niente dei e niente dittatori, ossia le figure che da sempre creano divisione nell'umanità. Viene anche cantato il verso "don't force me to return" - non costringetemi a tornare-. Colui che lo dice potrebbe essere uno degli spiriti stessi, il quale non può continuare a sopportare la distruzione perpetrata dagli altri uomini che ha investito il mondo. Dopo un brevissimo riassaggio di doom, il brano torna sui suoi binari originari, avviandosi pian piano verso la fine. Le anime ora sembrano rivolgersi direttamente a Dio, chiedendo di prendere la loro mano e di intervenire per fermare tutto il male che sta facendo affondare il mondo. Nel frattempo, altre ombre oscure minacciano tutti i continenti. In chiusura, i Kreator ci regalano ancora un passaggio veramente bello nonché particolare: le chitarre tornano ad essere fortemente evocative attraverso note dotate di drammatica melodia; "Ventor" dona più dinamicità alla sezione dilettandosi in dei patterns piuttosto tecnici. Petrozza canta, seguendo la melodia delle chitarre, l'ultima disperata strofa, la quale descrive uno scenario di completo annientamento: i cieli sono divenuti neri con il suono delle sirene a pervaderli; sinfonie di tristezza suonano libere e ombre malvagie si fanno largo mentre la guerra è ormai finita. Il pianeta non è destinato a riprendersi, dicono le anime. Nessuna salvezza dunque alla fine, la canzone si conclude nel pessimismo cosmico, lasciandoci però anche riflettere quanto Petrozza sia maturato come scrittore. Ad ogni modo, un brano splendido, disperato, carico di pathos, sia musicalmente che liricamente.

Brainseed

Dopo la potenza solenne di "Reflection", si torna a pestare duro, anzi, durissimo, con "Brainseed", che tradotto significa Seme del cervello. La canzone è un thrash furioso caratterizzata da un forte accento industrial, dettato da una particolare percussione metallica. Il brano infatti inizia scandito proprio da questo suono freddo e alienante (per quanto elementare), proiettandoci subito nella dimensione della canzone. A seguire, un graffiante riff di chitarra da il via al thrash metal della band, cattivo e robusto. Petrozza ha ancora tanta ira in corpo e la sfoga su un nuovo testo che si scaglia contro chi ci controlla. Sull'acida trama tessuta dalle due chitarre, Mille canta di come la filosofia che permea le nostre menti, sia quella di una razza che piange, che si sottomette, che esita a mostrare la propria intelligenza mentre sono ben visibili i traumi passati. La tirannia personificata ci domina, dice l'autore. Giungiamo al refrain, semplice quanto efficace, sia nella musica che nelle liriche: Petrozza canta il verso "Seeds of distorted thoughts, planted into the brains of us all" - Semi di pensieri distorti, piantati nel cervello di tutti noi -...   un verso evidente, che testimonia, a detta dell'autore, quanto le nostre menti siano controllate e tenute in pugno da chi sta "sopra di noi". Musicalmente c'è un potentissimo giro di batteria, sorretto sempre dalle glaciali chitarre, che apre ad un breve passaggio strumentale, il quale sfocia in un lacerante urlo del singer che canta "Burn the brain" - Brucia il cervello -. Torna a farsi sentire l'accento industrial del brano, il quale apre ad una nuova sezione, leggermente meno intensa e più controllata dal punto di vista sonoro, e ad una nuova strofa: Petrozza scrive che in questo freddo mondo la sua generazione non si piegherà più al sistema vigente e che quelli come lui andranno dritti, avanti per la loro strada. Subito dopo ecco un indovinatissimo assolo di "Blackfire": il chitarrista non segue una melodia ben precisa ma più che altro suona un solo che doni dissonanza e freddezza al brano e che in più, accentui quanto cantato un attimo prima da Petrozza. Successivamente, il singer canta di nuovo la stessa strofa. La canzone a questo punto procede fulminea verso la conclusione, tornando alle sonorità iniziali. A supporto, un'ultima strofa a chiudere il cerchio. Il panico è diffuso tra la gente - scrive Mille - la quale si comporta in maniera passiva, forse anche a causa di una generale inconsapevolezza che vige. La disgrazia alla fine trionfa. Un ultimo chorus e poi cala il sipario, in modo secco e deciso. Canzone riuscita in tutto e per tutto, semplice ma compatta e soprattutto dotata di genuina aggressività.

Karmic Wheel

Si ritorna ora ad un pezzo più strutturato e di lunga durata. I sei minuti di "Karmic Wheel", che tradotto significa ruota karmica, sono particolari e forse, rappresentano l'episodio meno riuscito dell'album. Questa è la canzone senz'altro più sperimentale di "Renewal", dove i Kreator si allontanano dal thrash, avvicinandosi a generi totalmente inesplorati per loro come l'alternative metal (che proprio in quegli anni era esploso). Il testo narra della figura di Budd Dwyer, un politico statunitense accusato di frode e altri crimini. Questi si suicidò in diretta tv nel 1987, dopo che aveva tenuto un congresso dove ribadiva la sua innocenza. L'estremo gesto fu eseguito con un revolver che Dwyer tirò fuori all'improvviso. L'uomo morì sul colpo. In seguito si scoprì che molto probabilmente Dwyer era realmente estraneo alle accuse, ma oramai era troppo tardi. Singolare quanto coraggioso per Petrozza parlare di una vicenda così spigolosa, riguardante per altro un politico non della sua terra d'origine. Fu comunque una vicenda che scosse parecchio l'opinione pubblica, specie per come era avvenuta, e un occhio critico e attento come quello di Mille ha colto la palla al balzo. Un lento tempo di batteria scandisce i primi secondi della canzone, poi subentrano Fioretti col suo basso e le due chitarre, le quali iniziano a tessere un riff minaccioso e lugubre. Petrozza ancora una volta si cimenta in delle linee vocali che seguono molto il riffing delle due asce e si cimenta in un cantato molto trattenuto, per lo meno a tratti. Nelle liriche, l'autore parrebbe riconoscere l'innocenza di Dwyer. Difatti, quasi impersonando il politico stesso, Petrozza scrive di una protezione che possa salvarlo da un mondo che ha perso la libertà. L'era che si sta vivendo è caratterizzata dall'odio, la pace ormai è dimenticata. La salvezza, richiesta verso qualcuno, forse intesa addirittura come il suicidio stesso, pare essere l'unica via per sfuggire a tale realtà. A seguire, un fraseggio di chitarra, un po' troppo statico, conduce verso il fugace ritornello, suonato più velocemente, dove Petrozza canta la frase "the karmic wheel is turning, faster than before" - la ruota karmica sta girando, più veloce di prima -. Il brano riprende poi il suo modico andamento ciondolante, passando alla seconda strofa, la quale, ad una lettura attenta, può sembrare che descriva proprio l'attimo che ha determinato il suicidio di Dwyer: Petrozza scrive del desiderio d'esser ricoperto dell'essenza del sangue vitale; da Dio proviene la scintilla mentre l'esistenza, ormai terminata, lascia nuovi ornamenti. La psiche viene bruciata dal paletto di cristallo, e forse è così che doveva andare, sin dal principio. Adesso, volendo analizzare questi versi secondo la chiave di lettura delineata prima, si potrebbe dire che: l'essenza del sangue vitale è ovviamente il sangue stesso che fuoriesce dallo sparo mortale che Dwyer si è autoinflitto volontariamente. L'uomo probabilmente sentiva la necessità di raggiungere Dio, di conseguenza è come se quest'ultimo lo avesse chiamato a se. L'esistenza che lascia nuovi ornamenti può essere intesa come le tracce di vissuto, ovvero la famiglia e tutte le sue cose che Dwyer lasciò quando morì. Infine, la psiche che viene bruciata dal paletto di cristallo può essere letta come il cervello che appunto viene attraversato dal proiettile che Budd si sparò in bocca. E tutto questo forse doveva avvenire sin da quando lui nacque. Un'analisi del tutto personale che però potrebbe essere giusta, conoscendo anche il modo di scrivere di Petrozza. Segue un nuovo ritornello il quale sfocia poi in un breve bridge avente una maggior carica drammatica, dove Petrozza canta che la ruota del karma gira sempre, fino alla fine dei nostri giorni. A questo punto sopraggiunge una sezione tanto particolare quanto inutile e forzatamente lunga nell'economia della canzone: il brano sostanzialmente si ferma, lasciando posto ad un etereo arpeggio di chitarra, sorretto da una flebile batteria. In sottofondo, si possono udire proprio le ultime parole che Dwyer proclamò durante il suo ultimo congresso. Il tutto dura parecchio tempo, più di un minuto e mezzo, fino all'udire delle urla che testimoniano il suicidio davanti a tutti del politico. Adesso, senza è dubbio è stato coraggioso nonché azzardato inserire l'audio originale delle ultime parole di Budd Dywer, una trovata di forte impatto. D'altro canto, come già detto, ho trovato inutile, anzi, quasi pretenzioso costruire sul monito del suicida, una sezione musicale. Perché a conti fatti, la musica in questo frangente del brano (già di per se non esaltante) trasmette veramente poco. Arrivati a tal punto, la canzone si avvia verso la fine e lo fa impostando l'ultima strofa su un doom metal dai caratteri piuttosto epico/drammatici. Gli ultimi versi narrano dell'avvenuta liberazione di Dwyer dall'incubo nel quale ormai viveva: ora è in un mondo dove vige l'onestà, dove c'è una consapevolezza che va ben oltre il cinico intelletto industriale, il quale da sempre guida le mente di politici e affaristi. Il protagonista ovviamente mai dimenticherà la sua vita e ciò che ne è stato, ma ora finalmente ha trovato la libertà, una libertà imperfetta. A seguire, un nuovo ritornello che sfocia nei versi finali, i quali dicono che la ruota del karma girerà per sempre, fino alla fine dei giorni. Un brano che definire brutto sarebbe sbagliato, ma a differenza di quanto sentito prima, regala poche emozioni e lascia parecchi dubbi. Non si capisce dove i Kreator volessero andare a parare, forse volevano davvero sperimentare forme di metal diverso con questo pezzo, ma il songwriting non ha mai un guizzo vero e proprio. Il testo merita, come sempre il buon Petrozza si impegna al massimo per scrivere liriche che colpiscano l'ascoltatore e lo facciano riflettere.

Realitatskontrolle

Ancora sperimentazioni con la sesta traccia, stavolta intitolata in tedesco, "Realitatskontrolle", che in italiano significa controllo della realtà. Questa non è una canzone vera e propria, ma un brevissimo brano strumentale dai fortissimi accenti industrial. Addirittura, ascoltando la traccia, potrebbero tornare in mente i veterani della musica industriale tedesca, gli Einsturzende Neubauten. Difatti a caratterizzare questi ottanta secondi, ci pensano strane ed inquietanti voci distorte, secche percussioni metalliche e chitarre dissonanti. Nulla di che, non certo il più felice degli esperimenti musicali. Tutto sommato, siamo di fronte ad un semplice intermezzo che apre alla parte finale del disco.

Zero to None

Dopo due episodi non esaltanti, l'album finalmente riprende quota con la più muscolosa "Zero to None", ovvero Da zero a nessuno. I Kreator qui ritornano al thrash dopo le sperimentazioni dei brani precedenti, e lo fanno con un pezzo "in your face". L'apertura è affidata ad un prepotente riff di chitarra elettrica che rilancia il platter sui binari della cattiveria. "Ventor" accompagna con un drumming non velocissimo ma preciso e compatto, poi un break da il via al classico 4/4 sul quale Petrozza canta la prima strofa, stavolta con un timbro molto vicino al punk. Il leader del gruppo stavolta si concentra sul terrorismo radicale, probabilmente di stampo religioso: la devozione verso Dio è tale da portare ad essere dominati da essa, la quale afferra gli uomini e poi scompare. Chi abbraccia questo credo così estremo, si ritrova a dover prendere una direzione che viene intesa come vetro che deve essere rotto. Giunge il ritornello che vede una variazione nel riffing, il quale si fa un po' più nervoso, dando la giustà tonalità al refrain. Qui Petrozza scrive (e canta) di uccidere il radicale e che l'istinto di distruggere ciò che resta vive in tutti. Come a voler dire che, una volta che se ne è ucciso uno, l'istinto di eliminare tutti quelli restanti sopraggiunge. Parte la seconda strofa, la quale si concentra sulle figure dei patrioti, i quali probabilmente sono i seguaci dei leader radicali. Costoro vengono indicati come gente confusa a causa degli ideali degli "uomini distrutti" che li guidano. Segue nuovamente il ritornello, il quale sfocia poi in un bel bridge dove le vocals di Petrozza si fanno più evocative, sorrette anche da un riffing di maggior impatto. Il singer canta che le guerre terroristiche, impiegate da chi le fa con tutto il cuore, tutta l'anima e tutta la fiducia, sono radicali. Il sogno è poterle sconfiggere, evitando ogni tipo di sommossa. Irrompe "Blackfire" che dona colore al brano con un bell'assolo, piuttosto lungo. Il solo si snoda lungo una base strumentale che per lo più è rimane immutata, ma l'abile chitarrista suona preciso, tagliente e pulito. La canzone procede verso la fine ed ecco che ritorna lo stesso bridge di prima, con le liriche uguali. Poi, il tutto sfocia in una strofa finale, posata su un andamento in mid-tempo: l'autore scrive che malgrado la speranza, la pace e la fiducia, è la disperazione a trionfare e a prendere tutti. È l'inferno di Dio ad essere radicale. La canzone a questo punto termina. L'ultimissimo verso indica in modo evidente come l'attacco di Mille sia effettuato contro il radicalismo religioso.

Europe after the rain

È il momento adesso di uno dei brani migliori dell'album, nonché uno dei più tellurici. "Europe after the rain", che significa l'Europa dopo la pioggia, è un pezzo thrash/industrial di tre folli minuti, un'incredibile scarica di adrenalina. Un riff deciso aggredisce subito l'ascoltatore mentre "Ventor" inizia a scandire il tempo con colpi secchi sul tom. Il brano poi deflagra subito in una furia incontrollata: la sezione ritmica pesta veloce, le chitarre sfornano un gustosissimo quanto furibondo riff thrash e Petrozza si cimenta in un cantato schizofrenico e nevrotico, al limite dell'urlato. L'amaro testo mette in luce tutto il pessimismo di Petrozza riguardo il futuro dell'Europa in quel periodo: secondo l'autore infatti, malgrado i recenti avvenimenti quali la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell'URSS, fatti che hanno portato ad un abbattimento significativo di barriere, l'Europa rimane comunque preda della stessa malattia che l'aveva caratterizzata fino a quel momento. E di conseguenza, l'autore sceglie di abbandornarla. Petrozza scrive di governi indecisi, di regimi brutali indistruttibili, che paragona addirittura a perversioni bizzarre. Il musicista dice che non riesce a ricordare chi lui e la gente comune siano davvero e chi li ha influenzati per arrivare fino a tal punto. Il ritornello irrompe tramite l'uso di note di chitarra stoppate, le quali, danno un tono più "epico" al chorus. Petrozza vocalmente segue la melodia suonata dalle asce e con un tono di voce quasi rauco, urla a squarciagola che a provocare quest'escalation è stata la monotonia. E, malgrado alcune nazioni siano defunte, ci sono le potenti industrie a preservare i loro resti. Tutto ciò secondo l'autore non può essere tollerato e quindi l'unica strada è quella di lasciare il continente. "Ventor" riprende a stretto giro con l'andamento veloce in doppia cassa, sostenuto dal basso di Roberto Fioretti e dalla secca chitarra di Mille. Sopra questo tappeto ritmico, "Blackfire" suona un buon assolo, il quale fa da tramite per l'avvio della seconda strofa. Questa inizia col duro attacco di Petrozza contro l'intero apparato socio-governativo, accusato di accettare i neo-fascisti e di perseguitare gli anarchici (un verso questo che si rifà molto alla filosofia punk, ma del resto si sa che Petrozza ha sempre profondamente disprezzato la politica di destra). E con ciò ha inizio, sempre secondo l'autore, una nuova era. Segue di nuovo il ritornello, il quale apre ad un interessante sezione: un bridge lineare ma di impatto introduce una sezione che fa emergere nuovamente il lato industrial che la band stava esplorando in quel periodo. I tempi rallentano un po' e il brano si plasma su un pulsante andamento dove a risaltare sono il basso di Fioretti (finalmente) e dei minimali campionamenti elettronici. A dar man forte all'insieme, ci pensano degli altrettanto minimali ma efficaci arpeggi di chitarra. In tal modo, i Kreator riescono a ricreare un'atmosfera molto fredda e distaccata che ben caratterizza questo tratto del brano, anche a livello lirico. Difatti, qui Petrozza interpreta il testo parlando più che cantando, facendolo oltretutto tramite l'uso della voce filtrata. Egli dice che non può farcela a vedere questa nuova conformazione dell'Europa, non riesce ad ignorare tutto ciò. La gente è divenuta ancor più materialista, le ragioni hanno perso ogni significato e l'ottimismo che c'era prima si è tramutato in disperazione. Significativo il verso "tomorrow i'll be gone" - domani sarò via - cantato oltretutto nell'unico momento nel quale la canzone torna a farsi più elettrica. Ciò va a sottolineare la convinzione dell'autore di lasciare il vecchio continente. La canzone inizia ad avviarsi verso la fine ed ecco che il thrash ritorna a farsi sentire, prima con il bel refrain, successivamente con un brevissimo assolo che preannuncia un'ultima strofa. Un nuovo complesso ora mantiene in piedi le industrie, una nuova malattia è in atto. Petrozza si dichiara legato a tutti gli oppositori, coloro che resistono a questo nuovo settaggio socio-politico, ma coloro che la pensano come lui sono sempre più difficili da trovare. Giunge un ultimo ritornello e di colpo il brano si conclude. Una grande canzone che trasmette enorme carica, compensata da profonda riflessione data dal testo.

Depression Unrest

Siamo arrivati alla fine di questo "Renewal" e la chiusura spetta ad un altro pezzo decisamente riuscito e ancora venato di industrial. "Depression Unrest", tradotto in italiano disordini depressivi, è una canzone piuttosto lineare ma dal forte impatto. Il brano è introdotto dapprima da suoni di voci distorte, poi si fa largo un delicato arpeggio di chitarra che potrebbe lasciar pensare ad un brano particolarmente melodico. Invece, dopo una manciata di secondi, ecco che Petrozza e "Blackfire" sfoderano un pesante riff stoppato, seguito a ruota dal trattenuto quanto lineare drumming di "Ventor". Una piccola particolarità che caratterizzerà tutto il pezzo, è il cigolio del pedale della batteria, un effetto voluto per dare al pezzo un'atmosfera più fredda. Petrozza si cimenta in un cantato più distaccato e meno rabbioso del solito, basandosi su linee vocali che seguono a menadito il tema della chitarre. Le liriche sono incentrate sull'odio, e iniziano con l'autore che scrive della fine di tutte le religioni e che nuovi cambiamenti sono in atto. La paura ormai permea la quotidianità e basta una scintilla d'odio per far si che esploda tutto. Arriva il pre-chorus e il brano acquista un po' di dinamicità e forza evocativa grazie a delle chitarre più incisive. L'autore scrive che adesso il suo destino dipende esclusivamente da se stesso. Ed è una prova che egli deve superare. Arriva il ritornello vero e proprio, sottolineato sempre dalla medesima base strumentale introdotta prima; qui Petrozza, con toni vocali più drammatici, enfatizza questi disordini di depressione. Il cielo è colmo di scintille, le quali continueranno a cadere, fomentando ancor di più odio e violenza. La seconda strofa irrompe subito dopo facendo ripiombare la song nel suo stato di alienazione. Petrozza scrive di pregare per il perdono, un perdono che probabilmente deve provenire da Dio per tutto il male commesso dall'uomo. L'autore è in attesa di un segno, senza dimenticare tutto il male che sta infettando il mondo. La scintilla dell'odio si diffonde come un parassita, una maledizione che proviene dall'ovest. Ecco quest'ultimo verso, sotto la mia personale chiave di lettura, potrebbe far intuire che Petrozza ce l'ha sopratutto con il cuore dell'occidente, quindi tutte quelle nazioni che stanno ad ovest della Germania, che sono a dirla tutta gli stati più potenti del continente, a parte la Germania stessa ovviamente. Segue un altro ritornello, modificato nel testo: l'autore dice che mentre le culture muoiono, le scintille, quindi l'odio, continueranno a cadere. Per Petrozza quindi, il mondo è destinato al collasso. A questo punto, la parte finale del brano è dominata da un lungo assolo di "Blackfire". Come in tutti gli altri casi presenti in questo album, anche qui non si tratta di un solo virtuoso o comunque particolarmente tecnico, come era invece nell'album precedente "Coma of Souls", ma più dissonante, atonale e in grande di dare un tocco finale di aridità al pezzo. A scandire gli ultimi istanti della canzone c'è un altro ritornello, dopodiché su "Renewal" cala il sipario.

Conclusioni

Possa piacere o meno, questo è un disco che, ad ascolto terminato, non può lasciare indifferenti. "Renewal" è un album figlio del suo tempo, sia per quel che riguarda il lato musicale, sia per il lato lirico. E' un disco coraggioso ma allo stesso tempo sicuro. Si, perché si percepisce che i Kreator ci credono nella musica che hanno composto per quest'opera. Petrozza non ha paura di sperimentare, di mettersi al passo coi tempi, di strizzare l'occhio alle nuove mode musicali, incorporandole nel suo processo compositivo. Del resto, come già detto all'inizio della recensione, i Kreator avevano toccato l'apice, qualitativamente parlando, due anni prima con "Coma of Souls", quindi era anche ovvio che il nuovo lavoro dovesse qualcosa di diverso, per tutta una serie di fattori. Credo che, malgrado la valanga di critiche che furono scagliante contro i Kreator una volta pubblicato il disco, la colpa, al tempo, non fosse specificatamente la loro o di un'altra band. Anche ai Metallica, agli Exodus o ai Sodom, per citare altri gruppi thrash, americani ed europei, che nei primi anni 90 pubblicarono dischi dove il sound non era quello di prima, fu riservato lo stesso trattamento. Erano gli ascoltatori che erano probabilmente troppo chiusi mentalmente e non accettavano il minimo cambiamento sonoro da parte delle band che amavano. Se veniva proposto qualcosa che non rientrava negli standard, in questo caso del thrash, allora quel prodotto era da etichettare, priori, come immondizia. Ma gli anni 80 ormai erano terminati e con essi, il periodo di gloria di tanti artisti, non solo del thrash metal, ma anche di musicisti appartenenti a tutt'altri generi. C'è chi si mise al passo coi tempi e chi sparì nell'oblio. Quindi, credo semplicemente che Petrozza e soci, furono travolti dal marasma di frustrazione e sgomento che colpì i metallari del tempo, i quali stavano vedendo i loro idoli lanciarsi, uno ad uno, in percorsi musicali che loro disapprovavano fermamente. "Renewal" oggettivamente è un disco fatto bene, prodotto bene e suonato con la verve giusta. I Kreator non hanno cessato di essere cattivi, anzi, tutt'altro. Per certi forse, la band teutonica qui recupera un po' della sua violenza caratteristica che nel precedente disco era stata un filo messa da parte in favore di una musica più tecnica. Brani come "Brainseed" o "Europe After the Rain" sono pure scorribande di thrash "alternativo", veloci ed aggressive come da copione. Altri pezzi fanno della pesantezza e del pathos il loro punto di forza, basti pensare all'opener. E a proposito del pathos, a detta mia non si erano mai sentiti dei Kreator così evocativi e drammatici in certi punti del disco. Attraverso un songwriting magari più minimale, la band riesce a sfoggiare dei caratteri solenni fino ad allora rimasti inediti. E questo per me è uno dei vantaggi più significativi del disco. Al contempo, è decisiva l'atmosfera che permea l'intero ascolto, e qui di certo va fatto un plauso alla produzione. Per tutto il tempo, si respira un'aria freddissima, alienante, che trasuda pessimismo. Non c'è più la foga, l'adrenalina, le rasoiate dei dischi precedenti. In "Renewal" trionfa questo clima gelido, dettato anche dagli inserti industrial che la band inserisce, oltre che dalle liriche. A proposito di questo, come ho ripetuto più volte, Petrozza sa bene quello che scrive e non ha timore di esprimere ciò che pensa. I testi sono senza speranza, disfattisti, pieni di scetticismo verso l'umanità. Magari eccessivamente catastrofisti sotto alcuni aspetti, ma si può dire che Mille, al tempo, aveva trovato la sua maturazione a livello lirico. Si, un paio di passaggi a vuoto ci sono, ma credo che visto il nuovo corso intrapreso, sia concesso qualche errore in buona fede. Sulle prestazioni tecniche dei singoli, si può dire che "Ventor" è tra gli assoluti protagonisti: preciso, potente ma anche versatile quando serve. Il suo drumming secco e di impatto è messo ben in risalto dalla produzione. Rob Fioretti, che dopo l'uscita di quest'album abbandonerà la band, fa il suo mestiere come deve. Pregevole la sua linea di basso nella sopracitata "Europe After the Rain". Frank "Blackfire" non è forse nella sua dimensione migliore: essendo salito alla ribalta in dischi puramente thrash metal, quali "Persecution Mania" e "Agent Orange" dei Sodom prima e in "Coma of Souls" dei Kreator stessi poi, qui magari è costretto ad adagiarsi su uno stile troppo ritmico per lui. Ad ogni modo, si rivela un abile chitarrista, in grado di adattarsi alle situazioni. Difatti, i suoi assoli sono decisamente ben fatti nella loro dissonanza e danno quel colore necessario ad alcune canzoni. Infine, Petrozza. Il buon Mille innanzitutto apporta modifiche al suo cantato. Ad un primo effetto può far strano, ma se poi ci si fa l'orecchio, ci si accorge che le canzoni contenute nel platter in questione, non potevano essere interpretate diversamente. Spesso, la voce del singer è colma di rabbia, di rancore, e questo l'ascoltatore lo percepisce in maniera evidente. Le linee di chitarra invece spesso sono piuttosto minimale ma dal fortissimo impatto. Riff semplici ma studiati per essere freddi e duri. Pochissimo spazio alla melodia, se non quella che abbiamo descritto prima, ossia drammatica e solenne. In conclusione, questo sarà sempre un album che avrà i suoi sostenitori e i suoi detrattori; per me ovviamente non raggiunge i livelli dei lavori precedenti, ma in questo disco ci ho sempre sentito tanto potenziale ben espresso e penso che sia un lavoro che, a conti fatti, è uscito nel periodo perfetto pur lasciando intatta l'identità di una band che fino ad allora in Europa, aveva dettato la legge dura e pura del thrash metal.

1) Winter Martyrium
2) Renewal
3) Reflection
4) Brainseed
5) Karmic Wheel
6) Realitatskontrolle
7) Zero to None
8) Europe after the rain
9) Depression Unrest
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