KORN
Untitled
2007 - Virgin Records
DAVIDE PAPPALARDO
22/07/2016
Introduzione Recensione
Prosegue la nostra analisi a ritroso della discografia di un nome cardine della così detta scena nu-metal, ovvero i Korn, non a caso uno dei pochissimi gruppi "sopravvissuti" all'ondata groove/metalcore, ed ancora oggi in piena attività; siamo nel 2007, e sono passati due anni dal precedente "See You On The Other Side", ovvero il primo disco della band licenziato dalla "Virgin Records", il quale aveva visto i Nostri avvalersi della collaborazione del team di produzione conosciuto come The Matrix (Lauren Christy, Graham Edwards, Scott Spock), specializzato in musica pop e con all'attivo collaborazioni con nomi quali Avril Lavigne, Britney Spears, Shakira, senza dimenticarsi dell'apporto di Atticus Ross, produttore di buona parte dei lavori post 2000 dei Nine Inch Nails. Un team che diede al loro sound un'impronta marcatamente più laccata ed elettronica. L'operazione naturalmente aveva attirato le critiche di chi era legato al suono decisamente più urbano e duro del primo periodo della band (in ogni caso ormai da tempo non estranea all'uso di elementi di elettronica), ma in generale la critica ed il pubblico sembravano premiare la scelta sia a livello di opinioni, che di vendite; forti quindi dei risultati, il gruppo proseguiva sulla sua strada, mantenendo alla regia Ross, mentre il precedentemente nominato gruppo di produzione viene estromesso dopo una fase iniziale durante la quale i Korn non erano soddisfatti dei risultati e del suono ottenuto. Il disco in seguito sfornato, "Untitled - Senza Titolo" (altrimenti noto come "The Ominous Root", per via del nome dell'opera di Richard Kirk realizzata per la copertina), conosciuto anche come "Korn II", diventa quindi più atmosferico, ma anche più "minimale" ed asciutto rispetto sia al passato, sia alle ultime produzioni basate molto su effetti pomposi di produzione, mostrando una band sempre più desiderosa di distanziarsi da un genere che, nel bene e nel male, aveva definito; alla base di questo disco troviamo la volontà dei Korn di diventare un gruppo di "rock moderno" con vari elementi presi dai gusti personali del frontman Jonathan Davis, non ultimi l'industrial rock e l'elettronica da classifica; questa volta comunque la critica sembra essere meno unanime nell'apprezzare il disco, e anche se non si può certo parlare di flop, soprattutto a livello di commerciale, anche il pubblico sembra in parte non ricevere con altrettanto entusiasmo un suono che alcuni reputano stanco e formulare a causa del songwriting più ridotto all'essenziale. Il cantante si accompagna qui al chitarrista James "Munky" Shaffer e al bassista Reginald "Fieldy" Arvizu, mentre il precedente batterista David Silveria abbandona il gruppo, sostituito in studio da Terry Bozzio (accantonato dopo la registrazione di sei tracce a causa di divergenze varie) e Brooks Wackerman dei Bad Religion; inizia inoltre qui la collaborazione con il tastierista Zac Baird, il quale caratterizzerà a più riprese il sound della band lavorando su futuri album quali anche l'ultimo "The Paradigm Shift". Un gruppo che affronta per molte ragioni, sia musicali, che di formazioni, un periodo di rivalutazione e ricostruzione, tradotto qui in un songwriting trattenuto, il quale rinuncia a molti melodrammi e teatralità che tanto avevano fatto in passato la fortuna dei Nostri, e anche ai ritornelli grandiosi, sostituiti invece spesso da andamenti altresì sempre in qualche modo epici, ma molto più composti; questa è la principale caratteristica, anche sul piano ritmico, dell'album, e allo stesso tempo la fortuna e la sfortuna di questo disco. Se infatti da una parte una certa maturità è richiesta per non rimanere a vita vincolati in uno specifico schema (e indipendentemente dall'opinione personale nei confronti della band, bisogna riconoscere che hanno fatto tutto tranne che cercare di vivere di rendita sul ricordo dell'ondata nu-metal), è anche vero che l'estremo virtuosismo e la tecnica non sono mai state le prerogative principali del gruppo, e riducendo le cose ai minimi termini, la questione sale a galla: la voce di Davis (tolti gli artifici da studio) ha delle debolezze evidenti, e la linearità della batteria e delle chitarre non permettono quegli stacchi e spezzati che donavano enfasi al sound del progetto; insomma, la svolta "alternative" non funziona sempre e del tutto, perché nonostante l'aiuto di nomi di un certo calibro, mancano a volte le basi per lo sviluppo di un certo tipo di suono. Dei Korn che qui "scappano da loro stessi", ma che ancora non approdano ad un'identità definita, lasciandoci con alcuni buoni brani, ma anche la sensazione di un lavoro di passaggio, necessario nella loro discografia come banco di prova per alcune soluzioni poi sviluppate diversamente in futuro, integrando elementi salienti della loro tradizione, necessari per il loro tipo di sonorità; concetto probabilmente reiterato dal fatto che nella prova successiva, ovvero "Korn III: Remember Who You Are", proveranno a fare marcia indietro verso il passato, ma mantenendo anche questo stile minimale, fallendo però in quel caso per altre ragioni, salvo poi riprendersi successivamente.
Intro
Si parte con la "Intro" e le sue soavi note classicheggianti, coadiuvate da archi campionate; ecco che essa evolve poi in un piano da attrazione circense, unito a suoni di strumento a corda progressivamente più presenti. Un verso in lontananza di Davis segna la partenza di una marcia ritmica più serrata, la quale sottintende ora il falsamente allegro motivo, donandogli connotati inquietanti e minacciosi.
Starting Over
Si termina quindi con le ultime note del piano forte in solitario, anticipando la partenza del primo brano vero e proprio, ovvero "Starting Over - Ricominciando", caratterizzata da una batteria cadenzata sospesa su atmosfere eteree, la quale si accompagna ad effetti elettronici sommessi, ma vorticanti. Il cantante sospira le sue parole con il suo tipico stile falsetto, mentre in sottofondo le chitarre si fanno sempre più pesanti nei loro giri grevi; al trentanovesimo secondo si collima in un ritornello sincopato fatto di batteria spezzata e giri di chitarra nervosa, dove Davis si da a ripetizioni vocali ossessive. Esso va ad infrangersi verso una cesura fatta di riverberi, loop e ritmica minimale, la quale riduce il tutto ad un'ossatura essenziale; troviamo quindi un nuovo cambio, dove un effetto di synth dal groove vorticante e dal sapore cosmico riprende gli andamenti iniziali, con relative evoluzioni. Non ci stupiamo dunque se ancora una volta giungiamo al ritornello sorretto da scosse minimali, il quale però questa volta vede anche un assolo spettrale e stridente; al secondo minuto e dieci un fraseggio malinconico si dispiega insieme a piatti e rullanti, mentre Davis si da ad un cantato struggente sottolineato da languidi suoni liquidi. Viene creata così una sessione piena di pathos, la quale poi sale d'intensità grazie a marce di chitarra e ad una batteria un po' più movimentata, senza però esplodere; non è difficile pensare agli umori uggiosi e new wave di album come "Untouchables", anche se qui la prova vocale del cantante mostra alcune debolezze rispetto al passato. Si prosegue quindi su tali note fino alla conclusione, seguendo lo schema asciutto e minimale che caratterizza tutto il pezzo, e anche l'album; insomma un biglietto da visita adatto per presentarci il lavoro qui recensito. Il testo introduce un tema che caratterizza molto del mondo tematico dell'album: il ripensamento e le considerazioni riguardo alla vita di Davis, riflessioni nate a causa di una malattia al sangue, scoperta mentre era il frontman si trovava in Europa, la quale lo aveva quasi portato alla morte. Secondo queste liriche, dobbiamo affrontare le nostre paure, anche se siamo knock out rantolando sul pavimento, semi incoscienti, entrando nel nulla e chiedendoci perché esistiamo; siamo invitati a giocare, ad entrare in questa dimensione, ad affrontare ed affrontarci, pugnalando nel cuore gli ostacoli, mentre il tempo è stato a lungo sprecato nel farlo a pezzi; mediante le nostre stesse mani. "We are the hurt inside your head - Lost in the void of what is dead - Constantly twisting things I said - Happiness is boring, need pain instead - Noi siamo il dolore nella tua testa - Persi nel vuoto di ciò che è morto - Sempre stravolgendo le cose che ho detto - La felicità è noiosa, ho bisogno invece del dolore", prosegue il testo: la situazione di stallo nella quale ci troviamo riprende sempre dall'inizio il suo bieco processo, continuamente. Sembriamo quasi assuefatti, drogati, e non possiamo sopportare che il tutto sia finito. Strisciamo sul pavimento parlando da soli, e chiedendoci cos'è che dobbiamo affrontare, mentre attraversiamo una porta chiedendoci se tutto è stato uno spreco, cercando di trovare il nostro posto. Vengono quindi ripresi i versi precedenti, prima di dirci in modo disperato che il protagonista è strappato via da ogni cosa che gli era vicina, non riuscendo ad affrontare la realtà. Un protagonista che ci invita a sua volta a scappare da lui. Egli richiede però al contempo ed intrinsecamente di essere preso, pronto alla fine che sente come incombente. Un misto quindi di paura, rassegnazione, autocommiserazione, seguendo lo stile tipico del cantante, più legato al susseguirsi di pensieri, piuttosto che ad una narrazione logica di eventi; una serie di flash che attraversano al sua testa, mentre si trova sul pavimento colpito dagli effetti della malattia.
Bitch We Got A Problem
"Bitch We Got A Problem - Troia, Abbiamo Un Problema" parte con un riffing vorticante e stridente, il quale presto lascia spazio ad un basso ben presente e alla batteria cadenzata, mentre Davis si alterna a parti striscianti ed aperture melodrammatiche sottolineate da chitarre come sirene d'allarme; tasti di piano si uniscono intanto in sottofondo, annunciando il ritornello dal gusto quasi "free-jazz", date le sue dissonanze di chitarra in bella mostra, sulle quali il cantato si da a ritornelli ritmati ancora una volta controllati e meno esplosivi rispetto al passato. Si notino gli effetti vocali applicati sulla voce del Nostro, i quali donano al tutto un sapore ancora più alienante; riprendiamo quindi senza grosse sorprese con l'andamento strisciate di poco prima, giocato su riprese drammatiche improvvise, le quali spezzano il movimento principale. Ritorniamo quindi come da copione sulle coordinate del ritornello dal gusto caotico, il quale si accompagna sulle vocals di Davis e sulle dissonanze stridenti di chitarra; questa volta esso lascia poi posto ad una mitragliata di chitarra filtrata unita a giochi sonori da studio, la quale evolve con toni apocalittici, salvo poi dare spazio ad un suono che non può non ricordarci certi momenti baritonali alla Nine Inch Nails, probabilmente merito della mano di Atticus Ross. Arriviamo così ad una sezione dove un cantato quasi rap viene sottolineato da riff epici; riecco quindi l'ormai familiare ritornello, il quale avanza con il suo gospel fino alla cesura nervosa fatta di fraseggi spezzati ed altri momenti che ancora richiamano al già citata one man band di Trent Reznor. Una conclusione caotica che firma quindi un brano che mostra alcuni spunti interessanti, ma che mette in mostra anche come il songwriting usato sia a volte troppo scarno per il suono dei Nostri, soprattutto viste le ripetizioni e la formula molto basilare delle soluzioni adottate; insomma dei Korn che puntano alto, anche e in buna parte grazie agli aiuti in studio, ma che non sempre sono all'altezza degli ambiziosi obbiettivi prefissati. Il testo crea un monologo interiore dove il protagonista dialoga con se stesso, offrendo anche considerazioni varie sulla natura stessa dell'auto analisi, caratterizzate tutto tranne che la tranquillità; per ogni persona che il Nostro ha provato ad essere, ce ne sono almeno altre dieci dentro di lui, e subito dopo si rivolge con ironia alle "prossime amate" (il che lascia presagire che una donna non riesca a stargli vicino, in virtù della sua mente così complessa), dichiarando che le ama così tanto da non essere mai lì per loro. Gli altri sono ostili, come se fossero stati feriti, e lui cerca il loro polso per sentire i battiti di qualcuno, per valutare la loro situazione dopo che hanno avuto a che fare con lui. E' facile capire quindi che c'è un problema, chiedendosi quale dei tanti se stessi è quello vero, realizzando la propria probabile schizofrenia, e le mille voci che sente, e che non si fermeranno fino a che non rovinerà tutto. "All the searching we do inside - Is a futile attempt to SIFT WHAT WE'RE MEANT TO NEVER KNOW - IT'S ALL SCREWED UP HOW THE RIVER FLOWS - Tutto il ricercare che facciamo dentro - E' un futile tentativo di VAGLIARE QUELLO CHE NON DOVREMMO MAI SAPERE - E' TUTTO SBAGLIATO NEL MODO IN CUI SCORRE IL FIUME", prosegue il testo, con l'uomo che sapendo di cercare di nascondere a se stesso la cosa, inizia a chiedersi se sia dopo tutto lui la bestia oscura che si prosciuga da sola dall'interno. Proseguono quindi le parole precedenti in un clima distopico e folle, dove s'instaura il dialogo delirante con se stessi, mentre ci percepiamo come diverse entità messe tutte insieme in un'illusione d'identità ed unità.
Evolution
"Evolution - Evoluzione" ci accoglie con un'atmosfera pesante, diremmo quasi doom, dove il basso e i colpi pesanti di batteria creano un suono greve delineato da alcuni effetti oscuri di tastiera in sottofondo; al decimo secondo Davis interviene con un cantato alternato tra toni aspri e punte più ariose, sdoppiate con un greve effetto "alla Manson". Impossibile non pensare ai pezzi cantati a suo tempo dal Nostro per la colonna sonora del film "La Regina Dei Dannati" (film del 2002 di Michael Rymer legato alla figura del vampiro Lestat, dove il frontman dei Korn ha anche prestato la sua voce per le parti cantate nel film stesso), soprattutto per i toni striscianti e gotici, e per l'aria generale molto teatrale; arriviamo così al trentesimo secondo, dove scosse nervose di chitarra annunciano il ritornello altresì melodico, basato su voce e fraseggio, il quale poi si apre in arie più evocative e ad una prova vocale tutto sommato esaltante da parte di Davis. Seguono quindi suoni psichedelici e riprese della marcia iniziale, con tutto i contorno di suoni grevi e ritmiche striscianti; ancora una volta la formula è chiara, e dunque è l'ora della ripresa del ritornello trascinante, supportato da piatti e giri circolari mai troppo violenti. Riecco l' ennesimo ritorno all'alternanza con il suono più sommesso e drammatico, il quale fa da ponte verso la ripresa del ritornello portante; esso è il perno del brano, mettendo in mostra un'epicità spesso latitante nel disco (non a caso si tratta del singolo scelto per il disco). Questa volta la sua conclusione lascia posto a batteria tribale e momenti "fusion", sui quali Davis si da ad un cantato prima ansale, poi gridato, sorretto da riff nervosi di chitarra; ma non bisogna preoccuparsi, infatti il coro del ritornello ritorna a piena forza, sottolineato da ronzii vorticanti. Il suo andamento viene ora ripreso da tastiere evocative e giri di chitarra in loop, ripetuto fino all'improvvisa conclusione; un episodio coinvolgente, che rispetta in ogni caso la natura più sperimentale dell'album, ma mette anche più carne al fuoco. Il testo usa il concetto dell'evoluzione per criticare il comportamento dell'essere umano, e i suoi effetti distruttivi sull'ambiente, e di conseguenza su se stesso; scaviamo con le punte delle dita nel terreno sul quale siamo, cercando ossa fragili, le quali risultano essere forse le nostre, già preventivamente sepolte a causa del nostro comportamento scellerato, il quale potrà condurci unicamente verso una definitiva meta. Ci dispiacciamo per il fatto che non crediamo in una speranza, ma l'evidenza ci porta a questo; è solo l'evoluzione, e non osiamo negare la bestia interiore, la quale controlla la nostra mente, e ci chiediamo se meritiamo di morire, dominati da questo animale chiuso dentro di noi. "Close up to get a real good view - I'm betting that the species will survive - Hold tight, I'm getting inside you - (Evolution) - And when we're gonna find these bones - They're gonna wanna keep them in a jar - The number one virus caused by - (Procreation) - Avvicinati per avere una vista migliore - Scommetto che la specie sopravviverà - Tieni duro, sto per entrare dentro di te - (Evoluzione) - E quando troveremo le ossa - Le vorranno tenere in un contenitore - Il virus numero uno causato dalla - (Procreazione)" prosegue il testo, mentre il pianeta sta andando verso la distruzione. Tra milioni di anni, le generazioni future diranno (studiandoci) che eravamo tutti dei poveri degenerati, né più né meno; vengono quindi ripresi i versi precedenti, invitandoci poi a darci una guardata attorno, chiedendoci poi perché meritiamo di morire. Come spesso accade, quando Davis tenta di affrontare temi di portata universale, usa comunque se stesso come prospettiva, e segue sempre un flusso non lineare di pensiero e considerazioni; si può quindi far rientrare il tutto nel quadro dell'analisi post malattia, con in questo caso però una deriva universale.
Hold On
"Hold On - Tieni Duro" si introduce con dei colpi di bacchetta subito seguiti da un'aria maestosa di piatti e chitarra; Davis parte con un cantato ritmato sottolineato da fraseggi graffianti ed alcuni momenti di elettronica evocativa. Al quarantunesimo secondo una punta vocale melodica fa da input per il ritornello arioso dove il cantato assume toni che potremmo definire pop, mentre le chitarre proseguono con il loro schema fatto di riff ad accordatura bassa; esse vengono poi interrotte da alcuni effetti di disturbo, conferendo al tutto una connotazione alternativa. Ci ristabiliamo quindi sulle coordinate iniziali, evolvendo ancora una volta verso l'appassionante ritornello, il quale questa volta si dilunga grazie a momenti tribali dove le vocals di Davis si danno a cori melodici poi seguiti da stridenti effetti elettronici, e di seguito da riff più sostenuti, in una breve marcia; riecco quindi al ripresa del momento precedente, il quale prosegue fino all'improvvisa conclusione del breve episodio, raccolto in circa tre minuti di durata che passano molto velocemente. Un altro tassello in un quadro che fa del minimale e delle intrusioni da studio il suo forte, cercando di creare una situazione sperimentale ed "alta"; il gioco a volte funziona, ma rimane spesso la sensazione di un disco dove i Korn inseguono più un'idea di maturità data da elementi esterni, piuttosto che da un'evoluzione naturale del loro suono di base. Si notino i vari effetti usati di tastiera e i "disturbi" pseudo-industriali, presi a piene mani dal mondo alt-rock anni novanta e duemila, i quali a volte sembrano posizionati nel altrimenti scarno songwriting più per presenza, piuttosto che per una narrativa musicale coerente che li richiede; questo snatura in parte il suono dei Nostri, i quali come detto non hanno le competenze tecniche per raggiungere i livelli richiesti per le forme di sperimentazione tecnica a volte tentate, mettendo così in mostra dei difetti che in passato erano ben celati da scelte più adatte a loro. Il testo torna alle considerazioni sulla vita, causate nel cantante dalla malattia che l'ha quasi ucciso. Tagliando la corda per slegarci da ogni cosa, proseguiamo in modo di andare alla deriva, d'ora in avanti; senza direzione ed affezioni, mentre guardiamo l'anima galleggiare, vivisezionati e risorti, ma ancora non sapendo il perché, con una malattia che ci divora come un mostro. Siamo invitati a tenere duro, nel giusto e nello sbagliato, con tutti i nostri sensi e difese; un nuovo arrivo, dove ancora la nostra sopravvivenza non è certa, e ci chiediamo dove sia la virtù, ed in che dimensione ci troviamo quando sentiamo dolore. "It's a weakness, it's a sickness - in the gene pool - Show no mercy, people here say - "Kill the damned fool" - This illness is like a monster that is - eating us alive - E' una debolezza, una malattia - Nel pool genetico - Le persone qui dicono di non mostrare pietà - "Uccidi il dannato idiota" - Questa malattia è come un mostro che - ci divora vivi" continua il testo, ripetendo poi versi precedenti prima di chiedere di non essere mai lasciati andare; una serie di immagini dunque legate all'andare alla deriva al ricominciare cercando nuove vie, fallendo però spesso e desiderando in qualche modo un aiuto per non essere abbandonati.
Kiss
"Kiss - Bacio" è la "ballad" del disco, la quale parte con un fraseggio evocativo e languido, presto raggiunto da ritmi filtrati, e da passaggi acustici con tanto di violini e voce soave di Davis; l'atmosfera sale quindi fino al minuto e sei, dove rullanti ripetuti e pianoforte creano un ritornello dove il cantato disperato e riff circolari si uniscono in una marcia trattenuta, al quale implode senza epiche liberazioni. Segue un momentaneo silenzio desolante con alcuni vortici elettronici, il quale poi da nuovo spazio alla ballata iniziale e ai suoi suoni malinconici; riprende quindi il ritornello più serrato, ancora una volta impiegando tasti di pianoforte e pulsioni ossessive. Esso questa volta collima in suoni dal gusto jazz e fraseggi calmi, mentre Davis ci sorprende con un cantato da orchestra, il quale prosegue nei suoi toni sognanti anche durante la ripresa del ritornello marciante; si prosegue su queste coordinate molto essenziali, devolvendo poi in una sezione di solo cantato, suoni di tastiera, e marcetta. Essa crea una coda finale, la quale ci trascina verso la conclusione dove rimane solo la voce di Davis; ennesimo esperimento dove il tutto si riduce all'ossatura, usando elementi classici e parti acustiche per convogliare un'atmosfera formale e triste. Il testo tratta del rammarico per una storia finita, e del misto tra nostalgia e rancore che rimane dentro; alcuni negano e cercano cose che non arrivano, e ci chiediamo se ci sentiamo come idioti, mentre i luoghi in cui siamo scappati durante la vita scompaiono, e "dobbiamo" tutto ciò ad una persona. Sentiamo come se stessimo rimpicciolendo, e non c'è nulla che può prenderci, e farci continuare a respirare; ci chiediamo cosa dobbiamo fare, perché non riusciamo a far finire il dolore, andando dritti in un tunnel, realizzando di aver fallito in più di qualcosa. Ci chiediamo perché quel fatidico bacio non abbia voluto rivelarsi vero, e perché il suo ricordo non ci lascia andare avanti, continuando sempre a respingerci. "The last thing I would like to do before I go away - is cry there next to you (next to you) - Cry and talk about the good old days and where they've gone - And now how much I hate you - L'ultima cosa che vorrei fare prima di andare via - è piangere vicino a te (vicino a te) - Piangere e parlare dei vecchi bei tempi e di dove sono finiti - E di quanto ti odio" prosegue il testo, ripetendo poi i versi di poco prima, e sancendo poi come sentiamo il sangue gocciolare dal nostro corpo e cadere sul terreno; nel finale viene ossessivamente chiesto perché veniamo sempre respinti, in una non accettazione della fine di qualcosa che ancora sentiamo come vera, dentro di noi.
Do What They Say
"Do What They Say - Fa Quello Che Dicono" unisce in apertura fraseggi grevi e suoni di pianoforte, saldando poi il tutto con ritmi metallici e spezzati di drum machine ed effetti tetri di tastiera, regalandoci una progressione sincopata che ricorda andamenti trip-hop; arrivati al quarantatreesimo secondo la tensione fin'ora trattenuta viene rilasciata in un ritornello epocale dove un loop di fraseggio si unisce a sirene stridenti e alle vocals ossessive di Davis. L'effetto è magistrale, dandoci uno dei momenti migliori di tutto il disco, capace davvero di convogliare un effetto emotivo nell'ascoltatore; l'andamento è granitico, quasi da pezzo stoner, funzionando egregiamente. Ecco che all'improvviso riprendono i ritmi metallici, uniti ad accordature stridenti e parti di pianoforte; ennesimo momento alla Reznor, il quale poi ancora una volta si lascia andare nelle sirene di chitarra e nel cantato epocale. Una cesura ci accoglie con il cantato sognante del frontman, mentre la ritmica asciutta prosegue unita a fraseggi acustici ed effetti ronzanti; ecco poi un bel riffing tagliente, il quale si delinea tra suoni notturni, salendo in una spirale che ancora una volta collima nel ritornello dai torrenti stridenti, il quale chiude il brano mantenendo l'atmosfera evocativa che lo caratterizza. Come detto un punto alto del lavoro, il quale sa qui usare in modo coerente e funzionale i nuovi apporti da studio, dandoci un pezzo sentito e dalle melodie tetre; insomma qui i Nostri centrano il colpo, mostrando delle potenzialità che verranno sviluppate in futuro, anche se con altri elementi. Il testo affronta un argomento di carattere ora più generale, ovvero il controllo dei poteri religiosi sulle persone ed in generale il reprimersi per imposizione sociale; camminiamo via quando siamo arrabbiati, e non c'è nulla da ottenere nel reagire, siamo abbastanza vecchi da sapere cosa succederà, e che ci sarà solo altro sangue. Siamo freddi e calmi, affrontando la morte verso la quale corriamo, dopo aver sofferto così a lungo in nome di Dio; facciamo quello che ci dicono, altrimenti porteranno via tutto, ed a quel punto preferiremmo essere morti piuttosto che andare avanti. "(Wait) Bite your lip, don't be cursing - (we must) We mustn't take God's name in vain - (in vain) - Blunt your knife, pull the curtain - (impulse) Impulses you must refrain - (Aspetta) Morditi le labbra, non imprecare - (non dobbiamo) Non dobbiamo nominare il nome di Dio invano -(invano) - Smussa il coltello, cala il sipario - (impulso) Impulsi che devi frenare" continua il testo, parlando poi con incertezza di qualcuno che portato questo peso, ma del quale non sappiamo con certezza, non ricordando nulla; vengono quindi ripresi i versi precedenti, reiterando il concetto di controllo da parte di altri, e del correre verso la morte incoscienti di tutto ed inconsapevoli.
Ever Be
"Ever Be - Esser Sempre" ci accoglie con un basso spettrale, il quale poi lascia spazio ad un andamento strisciante con batteria cadenzata e voce altrettanto dilungata di Davis, creando una sorta di greve cantilena, sulla quale si stagliano in sottofondo spirali di chitarra squillante; raggiunto il cinquantaquattresimo secondo esplode il bel ritornello melodico, giocato su cantato e giri circolari di chitarra, sottolineato da archi campionati usati nelle punte epiche in modo da creare un effetto orchestrale. Esso lascia però presto spazio all'andamento precedente, il quale procede lugubre fino all'improvvisa ripresa dell'elemento di poco prima, arioso ed evocativo nei suoi elementi classici; ecco che al secondo minuto e dieci ci si lancia in una cavalcata ad accordatura bassa e drumming pestato, sulla quale il cantante assume toni folli e serrati, creando una coda poi dilaniata da riff elettrici e con cori in falsetto. Riprende quindi l'ormai familiare ritornello con le sue arie classiche, mentre di seguito troviamo un momento di cesura dal sapore progressivo, caratterizzato da un gioco tecnico di chitarra che non lascia certo a bocca aperta, ma risulta essere funzionale al suo ruolo; esso si unisce poi a giri circolari e grevi più robusti, mentre Davis ci dona un'interpretazione vocale emotiva e sentita, costellata da rullanti marziali, creando un dinamismo che sale insieme ad effetti spettrali in sottofondo, fino al climax finale fatto di feedback e suoni stridenti, il quale conclude il brano. Uno degli episodi migliori del disco, e musicalmente tra i più maturi, non tediato da elementi usati in modo casuale, bensì con un songwriting coerente che riesce a far forza dei tipici elementi dei Korn di tarda carriera; ennesima dimostrazione che quando contenuti ed indirizzati nella giusta direzione, i Nostri sanno regalare episodi che non faranno certo mai gridare al miracolo, ma si dimostrano piacevoli ed anche trascinanti. Il testo sembra riprendere gli elementi di critica presenti in quello precedente, direzionandoli però in modo più personali verso qualcuno, forse (l'allora) ex membro dei Korn Brian "Head" Welch, il quale aveva lasciato la band qualche anno prima a causa del suo ritrovato credo cristiano, salvo poi tornare in futuro con l'ultimo lavoro del 2013 "The Paradigm Shift"; egli è considerato un'infezione, disgustoso fino alla fine, e ci chiediamo se non lo sapessimo già prima, il fatto che egli covasse in sé tutto questo. Rispondendoci definitivamente che si, lo sapevamo. Egli rappresenta tutto ciò che è sbagliato, e con una canzone idiota (altro segno che spinge fortemente verso l'ipotesi del riferimento mirato) lo dimostra, e questo è tutto ciò che lui sarà sempre, e non potrà farci nulla. Ripulito, egli abbaglia quando risplende, ma rimane corrotto dentro, e tutti ci cascano, ma noi lo sapevamo; vengono ripetute le parole precedenti, alternate con "Ever be, never be, want to be god - All to be, made to be, holding the son - Throwing it, breaking it, over your grave - Sending you back to the place you once came - Si sempre, non essere mai, mai voler essere dio - Tutto per essere, fatto per essere, tenendo il figlio - Gettandolo, rompendolo - sulla tua tomba - Rimandandoti nel luogo da dove sei venuto", reiterando così l'attacco pieno di astio, mentre nel finale si accusa il soggetto del testo di voler essere Dio, anche se governerebbe sul nulla visto che tutto è ormai perduto. Un Davis insomma come sempre pronto a portare facile rancore ed attaccare coloro che, a ragione o a torto, sente come traditori, slavo poi ricredersi nel tempo, anche in base alla convenienza; un aspetto della sua persona che caratterizza parte dei testi del gruppo, nel bene, e soprattutto nel male.
Love And Luxury
"Love And Luxury - Amore E Lussuria" parte in quarta con un ritmo spezzato di chitarra che ci ricorda gli ultimi dischi del gruppo precedenti a questo, più urbano e funky, sul quale Davis prima recita greve le sue parole, poi si da al suo solito cantato nasale delineato dalla batteria e da suoni corali; ecco che poi il tutto prende forma in un movimento melodico e scanzonato, sottolineato ancora una volta da un'elettronica eterea. Passiamo quindi ad una ripresa delle pulsazioni sincopate di poco prima, dando energia ad un'alternanza abbastanza semplice, la quale sfocia per l'ennesima volta in pochi secondi nel ritornello evocativo; questa volta però al minuto e ventotto troviamo un assolo delicato sul quale prende posto una marcia controllata di batteria ed il cantato sentito di Davis. Nonostante un crescendo più teso di feedback in sottofondo, non esplodiamo, bensì passiamo ad una sorta di gospel calmo e delicato, il quale collima nel solito ritornello; esso si completa con vortici di chitarra dissonante, la quale richiama per l'ennesima volta la one man band di Mr Reznor, chiudendo un episodio molto basilare, dotato di belle arie, ma di ben poco altro, mostrando per l'ennesima volta la debolezza a livello di songwriting di molte tracce del disco. Il testo continua, senza molta fantasia, il tema di quello precedente, rafforzando l'idea dell'attacco nei confronti del credo e del comportamento dell'ex chitarrista, usando riferimenti ancora più diretti, come la biografia scritta poco dopo l'uscita dalla band; abbiamo letto il suo "piccolo libro" e ne ridiamo, accusandolo di necessitare di una ragione per vivere, perché da solo non è in grado. Egli credere ma si inganna, nascondendo la sua fragilità, avendo solo bisogno di una ragione per la canzone che canta e per tutto quello che fa. Il tutto ha così un senso perfetto per lui, e ci chiediamo con sarcasmo allora perché sente il bisogno di esternare continuamente tutto quello che sostiene, quasi volesse mostrarlo ad ogni costo per ottenere giudizi positivi e rassicurazioni. Abbiamo sentito quello che aveva da dire, e non era nulla di nuovo. "You need a way to get along - A way to carry on - A symptom for the pain you're making - And surely you should know - That everywhere you go - There's acid in the words your faking - Hai bisogno di un modo per sopportare - Per andare avanti - Un sintomo per il dolore che stai creando - E sicuramente dovresti sapere - Che ovunque vai - C'è dell'acido nelle parole che fingi", continua il testo sempre più aspro, ripetendo poi i versi di poco prima; egli ha scritto le cose dette, e quindi è meglio che ora si prenda le sue responsabilità, credendo davvero in ciò che ha scritto. Ha venduto il libro e la sua anima, nel danno del tradimento lo mandiamo ora al diavolo, ripetendo poi fino al finale parole di accusa.
Innocent Bystander
"Innocent Bystander - Passanti Innocenti" viene introdotta da un suono tagliente costellato da tamburi e voce filtrata di Davis, la quale conosce arie diafane in un movimento contratto e drammatico; esso esplode in un ritornello che unisce una certa epicità e melodia con momenti tritacarne che pescano dal repertorio classico del gruppo, con tanto di punte di cantato più "gutturali", fatto per essere cantato mentre lo si ascolta. Passiamo quindi ad un fraseggio controllato, sul quale abbiamo ancora una volta le arie sognanti del Nostro, il quale assume però qui una connotazione ambigua, potremmo dire inquietante; largo quindi alla ripresa contratta del ritornello trascinante, tempestato da piatti e groove squillanti. Al secondo minuto si struttura una coda ad accordatura bassa, sulla quale Davis declama i suoi versi, mentre di seguito si apre una locomotiva di chitarra sottolineata da suoni orchestrali dal buon effetto, presto coperti da giri più distorti; ecco quindi evocative dissonanze baritonali, le quali poi lasciano posto la familiare ritornello, ora più pestato nella sezione ritmica, il quale collima in un tripudio di suoni stridenti, prima di concludersi con un breve effetto ambientale. Breve, veloce, indolore: la maniera migliore per descrivere il brano, il quale passa come un pensiero, lasciando comunque delle buone impressioni grazie al suo ritornello e ad un uso accurato di elementi da studio da parte del sempre presente Ross. Il testo sembra seguire il metodo del flusso di coscienza per illustrare una persona che non compie nessun male direttamente, ma che spesso incita gli altri a farlo ad altri ancora, forse una considerazione sul cantante stesso; sappiamo che non è da noi trattenerci, ma questa volta sapevamo che bisognava essere silenziosi per evitare di far danni. Siamo degli spettatori, dei motivatori, e chiediamo agli altri di stare zitti e fare le cose, mentre noi siamo solo degli spettatori innocenti; gli altri hanno spaccato loro stessi in due (e li invitiamo a farlo), ma giuriamo o meglio fingiamo di non avere nulla a che fare con ciò che è avvenuto. Vengono poi ripetute le parole di poco prima, mentre si prosegue con "Standing at the edge here - Enough for me to hover by the bit here - Enough you see I kiss you with my head - fear - So wrong that they will never reap our deaths clear - Rimanendo sull'orlo qui - Abbastanza per me per librarmi un po' - Abbastanza, vedi, per baciarti con la mia testa - paura - E' così sbagliato che non ripuliranno mai le nostre morti", lasciando poi posto ad un finale ossessivo; un testo insomma sarcastico dove ci si professa spettatori innocenti, mentre in realtà si è catalizzatori di comportamenti altrui disastrosi. Distruttivi, certo, ma non per noi.
Killing
"Killing - Uccidere" ci sorprende con un panzer di chitarra decisamente più robusto rispetto a quanto ci ha abituati il resto del disco; esso crea una marcia greve e militante, la quale aggiunge poi suoni dai loop squillanti ed il cantato altisonante di Davis, creando un movimento ritmato e drammatico. Riecco quindi gli attacchi incisivi, dandoci un suono ai limiti del industrial metal nelle sue pulsioni metalliche; ma non dobbiamo aspettarci un esplosione, infatti invece al quarantottesimo secondo troviamo un breve ritornello arioso, suggellato da giri dissonanti e cantato nasale. Riprende quindi l'andamento iniziale, il quale conosce le stesse evoluzioni di poco prima, ovvero irrobustendosi prima della ripresa melodica del ritornello; esso termina poi con un improvviso stop segnato da un colpo di batteria e dissonanze, lasciando posto da un momento ambient dal fraseggio subacqueo, il quale non può non ricordare certi episodi di "Untouchables". Ecco che, forse per la prima volta nel disco, veniamo sorpresi davvero grazie ad un esplosione di cantato in growl e giri quasi doom/grind nella loro pachidermica pesantezza distorta, i quali ci rimandano direttamente agli inizi di carriera della band; un momento metal, il quale però presto collima in arie elettroniche e cantato arioso, alternato con la violenza imperante in un movimento contratto dai cambi improvvisi, il quale si dirige dopo una dissonanza industriale verso una marcia greve, al quale esplode in un delirio noise con effetti stridenti ed ossessione in growl, collassando poi in un finale rumorista. Probabilmente il pezzo più interessante di tutto l'album, capace di presentare momenti legati al passato remoto del progetto, ma in un contesto coerente con il loro ultimo stile; l'uso di chitarre più pesanti ed il ritorno del growl richiamano insomma quelle arie deviate e sature che tanto hanno caratterizzato i Nostri. Il testo tratta dell'abitudine umana di sopportare gli abusi, abituandosi ad essi e sopportandoli anche inventando scuse con noi stessi, pur di accettarli; gli uccellini volano in circolo, richiamati poi da un guanto che li attende, e ci chiediamo perché non volano semplicemente via, dato che di sicuro già hanno capito che c'è una pistola che sparerà loro. Eppure continuano a rimanere, a causa di quello che dicono gli altri, metafora evidente atta a simboleggiare la minimizzazione di comportamenti distruttivi e la conseguente colpevolizzazione delle vittime. Stiamo uccidendo ogni singolo sentimento, gli uccellini volano sempre in circolo, richiamati dal guanto, in un gioco sordido che ha paura di noi, e noi abbiamo adorato alcuni falsi dei correndo verso di loro come i cani di Pavlov, per nascondere la vergogna e spazzare via la fiamma; vengono quindi ripetute le parole precedenti come in un mantra, constatando come siamo tutti impostati per cancellare in modo stupido. "Somebody told me once - Beat them 'til they start to get used to it - Next thing they're lining up - Qualcuno una volta mi ha detto - Picchiali fino a farli abituare a ciò - Alla prossima faranno la fila" chiarifica ora il testo, chiedendoci con ossessione nel finale se stiamo uccidendo i sentimenti dentro di noi; un testo basato quindi su pochi concetti ripetuti, mostrando i pensieri del Nostro su particolari della vita sui quali si sofferma dopo esperienze personali.
Hushbaye
"Hushabye - Ninna Nanna" è la seconda "ballad" del disco, la quale si apre con un fraseggio sognante e batteria lenta e cadenzata, creando una melodia soave sulla quale Davis adotta un registro altrettanto controllato; ecco però che al quarantacinquesimo secondo un verso in salire introduce il ben più energico ritornello, dove il Nostro si da a versi sentiti mentre le chitarre assumono toni più grevi, pur non esplodendo mai in violenze. Ritorniamo quindi al movimento iniziale, terso e calmo, con le sue arie da musica tradizionale, con elementi che ci aspetteremmo più da una band anni sessanta dedita ad un blues/rock; ma al minuto e trentasette un fraseggio di basso e batteria tribale alzano l'atmosfera, portandoci alla ripresa del ritornello quasi da celebrazione sommessa, questa volta costellato da un bel riffing e cantato dalle punte più aspre. Si delinea quindi un momento molto rock dai giri incalzanti, dove Davis alterna toni più lascivi e cantato arioso; esso va ad infrangersi verso l'ennesimo fraseggio delicato, il quale prosegue anche quando riprende il familiare ritornello, il quale ci porta verso la conclusione del breve brano, affidata ad una ripresa dell'andamento di poco prima, suggellato da un ultimo verso del cantante e da una breve coda ambient; una sorta d'intermezzo potremmo dire, piacevole, ma tutto sommato con ben pochi elementi, uno dei momenti "meno Korn" di tutto il lavoro. L'intento è chiaramente proprio quello di distaccarsi dal loro modus operandi tradizionale e mostrare la capacità di variare il registro pescando dalla tradizione musicale del rock a trecentosessanta gradi, ma nei risultati si rischia un po' di noia; come spesso ripetuto quando si vuole giocare alto bisogna averne tutte le competenze, e non sempre questo è il caso con la band californiana. Il testo delinea una sorta di ballata dal romanticismo nero, dove si parla, tra amanti, del suicidio come modo per rimanere assieme e scappare dal dolore; questa domenica soleggiata rappresenta un buon giorno per andarsene, anche se crediamo che l'altra nostra metà voglia che restiamo, instaurando con essa una sorta di dibattito pressoché infinito. Ci chiediamo perché, in una ninna nanna, essa non sia pronta ad andarsene con noi, preferendo andare avanti con questo patetico show altrimenti noto come vita; "You say you'd love to - But you've lots left to do - Almost decided to stay 'cause of you - And I hate to tell you to exchange your dreams - For a one-way ticket, no return - Dici che ameresti farlo - Ma hai ancora altro - Stavo quasi per rimanere per te - E odio dirti di cambiare i tuoi sogni - Per un biglietto di sola andata" prosegue quindi il testo, proseguendo poi con una cantilena continua fatta di perché, donandoci una ninna nana malata che invita al suicidio per riparare ad un'occasione buttata. Un testo breve, con poche interazioni, giocato più sulle ripetizioni piuttosto che su nessi logici, dai connotati tragici; il vero punto d'ispirazione per esso non è dato saperlo, ma di sicuro parte da pensieri poco felici.
I Will Protect You
"I Will Protect You - Ti Proteggerò" è la conclusione della versione standard del disco, la quale parte con un suono di cornamuse, ennesimo elemento che richiama il passato del gruppo, ma usato in tutt'altro contesto; ecco quindi un fraseggio greve seguito dalla voce filtrata di Davis, sospirante e sottolineata da effetti, mentre in sottofondo troviamo un arpeggio delicato e suoni da nenia elettronica. Al quarantacinquesimo secondo una serie di riff perentori alzano il tiro, annunciando con le loro mitragliate il ritornello epocale fatto di drumming marziale e tastiere evocative; esso non dura però molto, ripresentando presto l'andamento delicato di poco prima, il quale evolve pari pari seguendo la linea già marcata. Riecco quindi il ritornello energico, il quale questa volta lascia spazio ad una cesura minimale con fraseggio squillante con piatti cadenzati, ripreso da scariche di chitarra più taglienti, e costellato da rullanti dal sapore tecnico; in sottofondo troviamo anche la voce campionata e manipolata in modo robotico di Davis, mentre suoni stridenti si dilettano in assoli progressivi. La suite creatasi va poi ad evolvere in una marcia gotica dalle arie evocative, salvo poi lanciarsi in una processione doom fatta di accordature basse e batteria cadenzata; sulla carta questo potrebbe essere il momento più rischioso per la band, ma incredibilmente il tutto funziona terribilmente bene, regalandoci una delle parti più riuscite di tutto il disco. Dopo quindi una serie di scariche contratte dal sapore metal, ritroviamo il ritornello arioso, il quale poi ci mostra nuovi esercizi ritmici con drumming marziale e riff nervosi di chitarra, mentre il cantato si fa sempre più gridato; il climax ci viene dato da una coda improvvisa dal sapore tetro e sperimentale, dove la voce in loop di Davis si accompagna a suoni dark ambient, scivolando poi verso feedback stridenti ed effetti da studio che suggellano la conclusione del lavoro. Il testo riprende il periodo durante il quale il cantante ha rischiato di morire, rivolgendosi alla moglie e ai figli, ovvero le persone a lui più care; si chiede cosa faranno, cosa proveranno quando all'improvviso se ne andrà, ormai ridotto ad un fantasma di ciò che era ieri, come toccheranno e raccoglieranno la bellezza ridotta in polvere. Ogni patto fatto, ogni cellula generata, è sia lui che loro, e chiede di ricordare che egli è loro, e nulla può essere più vero, in questa vita; "Hold you in my arms and hold you in my gaze - Singing with my dying breath - Underneath this earth I resurrect your soul and nothing less - Sorry for the space, if I could fill the void an ocean wouldn't hold the love - And everything I have and all I ever was is not enough - Ti tengo tra le mie braccia e ti tengo sotto occhio - Cantando con i miei ultimi respiri - Sotto questa terra resuscito la tua anima e niente di meno - Scusa per lo spazio, se potessi riempire il vuoto un oceano non potremmo contenere l'amore - E tutto quello che ho e che ho sempre avuto non basta" continua il testo, prima di ripetere il concetto iniziale sempre seguendo il solito modus operandi ossessivo, in un ennesimo mantra che si trascina fino al finale. Anche in questo caso è difficile dare una collocazione razionale al contesto, mentre è meglio pensare ad un frammento di pensieri vari legati alla situazione della malattia, ed in questo caso al desiderio di trovare legame in qualcosa; paura e bisogno di certezza si fondono in un unico elemento.
Sing Sorrow
L'album si accompagna a diverse versioni, alcune delle quali caratterizzate da delle tracce bonus che andiamo ora ad analizzare; la prima è "Sing Sorrow - Canta Il Dispiacere", la quale ci accoglie con suoni metallici ed oscurità ambient dal sapore esoterico, prima di aprirsi ad un riffing robusto accompagnato dalle vocals sospirate di Davis. Il brano va quindi acquistando consistenza, fino al passaggio ad un ritornello dai suoni spettrali e vorticanti, il quale si appoggia su un cantato sentimentale sorretto da loop granitici di chitarra; essi poi conoscono esercizi squillanti, prima di darsi alla ripresa del movimento iniziale, il quale sfocia ancora una volta nel ritornello calmo e malinconico. Al secondo minuto e diciotto abbiamo una serie di giri circolari più corposi, i quali creano un trotto poi delineato con rullanti e riff taglienti, creando un momento metal sul quale Davis si da ad un'interpretazione più isterica, completata poi da dissonanze e cimbali cadenzati; largo poi a climi più sognanti dai fraseggi notturni, procedendo verso la ripresa delle malinconie elettroniche e dell'andamento strisciate che domina il pezzo, collimando nel finale con un pianoforte sospeso su un arpeggio segnato da effetti elettronici. Il testo riguarda il dispiacere nella vita, creando una sorta di ode per tutti coloro che lo soffrono in varie situazioni e contesti; nella parte più profonda di noi risiede come un nemico sconosciuto, che non siamo mai stati destinati a combattere. Eppure, risiede ancor più in profondità un piccolo seme di purezza. Siamo accecati dalla sua luce, e dobbiamo cercare di rimediare alle cose, anche se non ne siamo palesemente in grado. Ci chiediamo se qualcuno sa dell'amore, e se a qualcuno importa di Dio, ed invitiamo chi è come noi a cantare il proprio dispiacere; un penny per i pensieri altrui, abbiamo paura, abbiamo bisogno di un po' bisogno d'aiuto. "When the stars don't ever heal - Do you fear you'll never feel? - What it is to be at peace - YOU'RE CRAVING A RELEASE! - Quando anche le stelle non curano - Non hai paura di non provare mai nulla? - Ciò che dovrebbe essere in pace - AGOGNI UNA LIBERAZIONE!" continua il testo, ripetendo poi i versi precedenti; non capiamo questo luogo, e né perché Dio ci abbia fatto così, abbiamo vissuto una vita che era buona, tranne che per una cosa da togliere, la quale ha preso il nostro mondo e ha lasciato solo dolore, rendendo inutile tutto questo tempo.
Overture Or Obituary
"Overture Or Obituary - Proposta o Necrologio" è il secondo bonus, annunciato da un riffing disturbato, il quale implode presto in un movimento imperante fatto di colpi secchi ed esplosioni di chitarra, sul quale Davis recita ritmato il testo; il discorso si sposta comunque presto su toni più melodici grazie a suoni squillanti ed arie "allegre" di tastiera, sottolineate da fraseggi ed arpeggi acustici. Il tutto viene alternato dalla ripresa delle pulsioni più marziali, le quali accompagnate dalle vocals rauche del cantante creano un'alternanza caratterizzata dal ritorno ai suono più melodici; ecco dunque che al minuto e quaranta un assolo progressivo prende piede, presto però interrotto a favore di un riffing serrato, il quale instaura una galoppo con effetti vocali filtrati ed atmosfere combattive supportate da tastiere liquide. Quest'ultime poi fanno invece da sfondo alla ripresa degli arpeggi minimali, seguendoli fino al finale; qui rullanti da marcetta e suoni languidi chiudono il tutto, mentre Davis declama le ultime parole quasi senza fiato, con fare sommesso; un pezzo atmosferico di buona fattura, il quale però non aggiunge molto a quanto già sentito nell'album standard. Il testo affronta un punto di svolta nella vita, che può essere la fine oppure un nuovo inizio, tema che possiamo ricollegare senza problemi alla malattia superata dal cantante, la quale poteva in effetti essere la sua fine; "I'm facing the light - But fading to black - I'm offering peace - As I'm stabbed in theback-Yet I'm feeling able - My house is made of steel - With paper for doors - Sto affrontando la luce - Ma mentre scompaio - Offro pace - Mentre vengo pugnalato alle spalle - Eppure mi sento capace - La mia casa è fatta d'acciaio - Con porte di carta" ci accoglie subito il testo, continuando poi nell'illustraci come abbiamo provato ad odiare gli altri, ma abbiamo provato rimorso, e come siamo incerti, poiché abbiamo perso una scommessa, aspettando di vedere se si tratterà di una svolta o di un necrologio. Teniamo la torcia, ma il pugno si sta sciogliendo, primi in linea, ma ultimi sulla lista. Si ripetono le parole precedenti, mentre poi ricordiamo come abbiamo provato a non strozzare gli altri, i quali però ora sono morti, e siamo incerti se dobbiamo pentirci; le interpretazioni possono essere diverse, dalla lotta con se stessi, ad un fatto di cronaca letterale, ma la cosa certa è il senso di incertezza e dissidio che sempre permane i testi del Nostro.
Haze
"Haze - Foschia" è l'ultimo bonus, presente nella soundtrack dell'omonimo videogioco, uno sparatutto in prima persona, della Ubisoft; esso parte con suoni squillanti e stridenti dal gusto urbano, i quali ci riportano allo stile più tipico della band, dal ritmo sincopato sottolineato da fraseggi e piatti. Ecco che Davis interviene con il suo cantato nasale mentre oscuri arpeggi si delineano in sottofondo caricando la tensione; essa si libera in un ritornello dove i suoni iniziali si uniscono a grida ruggenti e cori in falsetto. Riprende dunque l'andamento quasi tribale, in una struttura semplice e diretta, cesellata da un fraseggio greve di basso; dopo di esso riprende il ritornello drammatico, giocato sul serpeggiare greve ad accordatura bassa, il quale poi prende il posto principale, creando un andamento pulsante sul quale Davis sospira il testo. Segue un assolo dissonante, il quale instaura un clima lisergico perdurato dalla batteria ossessiva nei suoi piatti, fermato da una cesura greve; senza molta sorpresa riprende il ritornello, il quale si sviluppa lasciando poi spazio alla ripetizione in loop dei suoni giocati su strappi ritmici ripetuti fino alla conclusione. Il testo riprende i temi del videogioco per il quale è stata creata, trattando della manipolazione da parte di poteri forti, e la ribellione contro di essi una volta che è stata scoperta la verità; camminando soli nel nostro mondo pensiamo di fare la cosa giusta mentre distruggiamo tutto quello che si para davanti a noi, ma in realtà è stato fatto tutto invano. Vogliamo attraversare il fuoco ed il dolore, andare avanti con la violenza e la vergogna; "Taking this place to call my own - Raping my body without a face - Torching my soul as black as pitch - And I have no life to waste - Facendo mio questo posto - Stuprando il mio corpo senza faccia - Bruciando la mia anima fino a farla diventare nera come la pece - E non ho una vita da buttare" continua il testo, ripetendo poi i versi di poco prima. Abbiamo adorato gli altri e fatto tutto, perduti e senza speranza, facendo il loro gioco; ora possiamo solo attraversare il fuoco ed il dolore, andando avanti con violenza e vergogna; un testo molto breve e sintetico, che riassume i temi del videogioco, dandoci un testo che volendo può essere applicato a varie situazioni concrete della vita dove ci affidiamo del tutto ad altri, scoprendo poi di essere stati usati.
Conclusioni
Un disco di passaggio che da una parte fotografa i Korn in un determinato periodo della loro vita e della loro evoluzione musicale, e dall'altro funziona come banco di prova per tentativi, a volte riusciti, a volte meno, di staccarsi dal passato e di affermarsi come un gruppo rock in senso universale, dotato anche di capacità artistiche "nobili"; la scelta di ridurre il tutto all'osso, sezione ritmica e chitarre in primis, e di dare spazio ad effetti vari di elettronica ed orchestrazioni, segue proprio questo spirito, mostrandosi al contempo l'elemento più interessante nonché paradossalmente la debolezza stessa del disco. Inutile nascondersi dietro ad un dito: Davis non è un tenore, e per quanto Ross aiuti molto, le magie di produzione e le tecniche di songwriting non ortodosse tipiche di Trent Reznor (imitato in vari punti del disco) non sono assolutamente riproducibili da tutti, ed il rischio nel volerlo fare è di sembrare casuali e spezzare l'andamento dei brani, cose che qui a volte accade. I Korn non sono nemmeno i Tool, Mogwai o i Mars Volta, e le loro incursioni nel mondo art-rock mostrano tutti i loro limiti ed il bisogno per il loro songwriting di più corposità, e di un maggior numero di attacchi più robusti; dove eccellono è invece nell'uso delle soluzioni melodiche offerte dalla tastiera di Baird, la quale crea la giusta atmosfera, elemento saggiamente mantenuto d'ora in poi nel sound del gruppo. "Untitled" è un lavoro ambizioso, che vuole spesso ricreare i Korn, una band allora decisamente cambiata a livello di line-up e sempre più distante da quel nu-metal che i Nostri hanno portato alla ribalta, ma verso il quale hanno sempre mostrato ben poco nostalgico amore. Un disco che riesce nel darci alcuni brani interessanti ed alcune variazioni sul tema, ma fallisce nel trasportare il gruppo su un'altra direzione, mostrando una semplice verità, che i Nostri sembrano poi aver capito. In altre parole, fino a che essi utilizzano le influenze dovute ai loro ascolti personali in un contesto adatto al gruppo, possono ottenere buoni risultati, ma quando tentano di "diventare" quelle influenze, in tutto e per tutto, inizia il problema del confronto, dove perdono decisamente. Si potrebbe pensare che il successivo "Korn III: Remember Who You Are" sia un tentativo di ricollegare questo nuovo discorso con il passato, ed in parte è vero, ma esso funzionerà ancora meno a causa della mancanza dell'apporto di Ross, lasciando quindi solo il songwriting minimale unito con una ripresa non convinta di topoi sonori e stilistici di un passato che ormai non appartiene più ai nostri; insomma la crisi di idee peggiora, ma come abbiamo visto nelle precedenti recensioni del nostro viaggio a ritroso, sarà l'interesse crescente di Davis verso il mondo EDM e dubstep ad offrire un nuovo punto di partenza dove non ci saranno capolavori, ma una più convinta partecipazione da parte del progetto. Alcuni gruppi hanno forza nella tecnica, altri nella sperimentazione, altri nella capacità di far bene quello che sanno fare, cercando di non ripetersi, ma senza dimenticare quali sono gli elementi che giocano a loro favore; i Korn fanno parte decisamente della terza categoria, ed il gusto per la melodia ed il facile ritornello è la carta vincente di una formazione che non è mai stata, e mai sarà, all'insegna del virtuosismo. Il nostro percorso quindi ora continua andando sempre più indietro nel tempo: toccherà la volta prossima a "See You On The Other Side", il loro disco considerato da molti più "pop", il quale anticipava alcuni elementi qui incontrati, ma con un apporto melico a volte forse anche eccessivo, ma di facile presa, che è stato la sua fortuna.
2) Starting Over
3) Bitch We Got A Problem
4) Evolution
5) Hold On
6) Kiss
7) Do What They Say
8) Ever Be
9) Love And Luxury
10) Innocent Bystander
11) Killing
12) Hushbaye
13) I Will Protect You
14) Sing Sorrow
15) Overture Or Obituary
16) Haze