KORN

Requiem

2022 - Loma Vista Recordings

A CURA DI
DAVIDE PAPPALARDO
24/02/2022
TEMPO DI LETTURA:
6,5

Introduzione Recensione

Quasi trent'anni di carriera e quattordici album: un traguardo che i Korn hanno raggiunto con il loro ultimo album "Requiem" uscito per l'etichetta Loma Vista Recordings. Risultato in cui probabilmente molti non avrebbero creduto in un passato non troppo lontano, durante il quale molte band nate durante l'ondata nu metal di fine anni novanta/inizio duemila sono sparite o hanno avuto lunghi periodi di silenzio, salvo tornare in tempi recenti con gli auspici di un revival del genere. I californiani invece hanno perseverato, tra cambi di formazione, cambi di suono non sempre visti con favore dal pubblico, e una parte della critica sempre pronta a considerarli come spettri di un periodo musicale da dimenticare. La band, che ad oggi vede nella formazione Jonathan Davis alla voce, James "Munky" Shaffer e Brian "Head" Welch come chitarristi, Reginald "Fieldy" Arvizu al basso (anche se al momento della stesura di questa recensione risulta essere in stato di fermo momentaneo), Ray Luzier alla batteria, ha vissuto a partire dal 2013 una sorta di seconda giovinezza segnata dall'album "The Paradigm Shift" e dal ritorno di Welch nei ranghi che ha portato a una sintesi della direzione alternative metal con inserti elettronici intrapresa negli anni duemila con le radici nu metal del gruppo, inizio di un percorso che ha portato a risultati ancora migliori con i successivi "The Serenity of Suffering" e "The Nothing". Sulla scia di questi dischi arriva quindi il prima citato nuovo album, caratterizzato da nove tracce (dieci nella versione giapponese del disco) che sembrano seguire questa direzione, anche se con un piglio più melodico e legato al lato "pop" della band; per capire però le varie facce dei Korn e cosa s'intende con certe affermazioni, è bene fare un excursus sulla loro carriera. Nati a Bakersfield in California nel 1993, la band è nata dalle ceneri dei L.A.P.D e dei successivi Creep quando James Shaffer, Reginald Arvizu, David Silveria assoldarono Brian Welch e Jonathan Davis, precedentemente cantante degli SexArt. Con questa formazioni i Nostri raggiungeranno l'estetica e il suono che daranno forma al movimento nu metal e porteranno la band al successo: un mix di oscurità e pesantezza debitrici del crossover e del post-metal anni '90 (con particolare attenzione verso la lezione di Faith No More, Godflesh, Fear Factory, Helmet, White Zombie) contaminata da ritmiche hip-hop e condite con vocals che si destreggiano tra growl improvvisi e parti rap. I testi del cantante, legati a temi di abuso, bullismo, droghe, traumi, completano il quadro e creano una formula che in poco tempo conquisterà gli adolescenti americani e non, anche e soprattutto quella parte fino ad allora non particolarmente vicina al metal; lo stesso Davis era più un amante della new wave e della musica dark (si narra che fino al consulto con un veggente egli sia stato restio a unirsi al gruppo), e la sua figura da freak e reietto era decisamente lontana da quella tradizionalmente attribuita ai cantanti metal. Album come l'omonimo debutto, "Life Is Peachy", "Follow The Leader" ed "Issues" prima lanciano e poi cementificano la presenza dei Korn nelle classifiche e reti musicali come MTV stabilendo quello che possiamo considerare il periodo d'oro della band e del genere con cui verranno sempre inevitabilmente associati. Con gli anni duemila però la popolarità del nu metal andrà man mano calando, e quasi intuendo la cosa i Nostri incominceranno a integrare elementi più sperimentali ed elettronici nel loro suono a partire da "Untouchables", proseguendo con i successivi "Take A Look In The Mirror" e "See You On The Other Side". Da qui inizierà un periodo fatto di fortune alterne dove il pubblico non risponderà come prima alle uscite del gruppo, mentre la critica non perderà l'occasione per usarli come esempio contro quella corrente che prima la stampa aveva osannato ed elevato, e poi inevitabilmente sotterrato con critiche e derisioni. Il primo tentativo di tornare ai vecchi sfati da parte della band si registra con "Korn III: Remember Who You Are", disco però privo di vera convinzione e molto di mestiere, che soffre della mancanza della chitarra di Welch, creatore di molti riff iconici del passato del gruppo. Con il molto criticato "The Path Of Totality" Davis cercherà di fondere il suono dei Korn con il suo amore per la dubstep creando un album crossover dove il cantato e le chitarre dei nostri si uniscono alle trame elettroniche spezzate e vorticanti di Skrillex, Noisia, Excision e altri nomi del mondo elettronico mainstream americano. Se è vero che il risultato finale non sarà il momento migliore (ma nemmeno il peggiore) della loro discografia, è un fatto anche che qui vengono lanciati i semi per i successivi sviluppi che vedranno una commistione tra interventi elettronici e suoni più in linea con il passato permessi dal ritorno nei ranghi di Welch. Arriviamo quindi a oggi e a "Requiem", opera che in parte segue il percorso elegante del precedente "The Nothing" stemperandone però le oscurità e offrendo una linea musicale che suona un po' pilotata e meno convincente rispetto alle opere recenti della band, dotati di più personalità ed energia. Non un fenomeno nuovo per la band, che spesso ha avuto album di mestiere nel corso della sua carriera, ma che segna un primo mezzo passo falso dopo una sequenza in crescendo di dischi capaci di rielaborare senza rivoluzionare la loro ormai consolidata formula.

Forgotten

"Forgotten" è la traccia di apertura del disco, aperta da un riconoscibilissimo motivo ad accordatura bassa, presto tempestato da riff circolari e da colpi di batteria contornati da cimbali rinforzanti. Atmosfere lisergiche introducono la voce di Davis, suadente e melodico, intento a parlarci di dubbi esistenziali, sensazioni di fallimento e sfiducia, e un senso di oppressione e mancanza di libertà, tutti temi abbastanza familiari per chi segue la discografia dei Korn almeno da qualche tempo. Digerendo l'inganno, egli si sente spezzato, e nonostante tutto sente che sia meglio così per lui, la situazione lo intriga e si sente assaltato, chiedendosi come è riuscito a farcela nonostante tutto. Il passo abbastanza semplice vede alcune contrazioni, prima di esplodere in un ritornello corale con alcune punte gridate, ma essenzialmente dai connotati melodici dove è sempre la voce del cantante il punto principale intorno a cui si organizza la materia sonora. Inchinandosi, il Nostro si chiede dove si trova, in qualche modo si trova a giocare secondo le regole di un'altra persona; spostando il velo capisce che il percorso che ha intrapreso non è il suo, tutti i suoi bisogni sono stati eliminati, e ciò che è rimasto viene dimenticato. Le atmosfere quasi cinematiche si consumano in un nuovo fraseggio strisciante e dalle ritmiche cadenzate, riproposizione dei modi iniziali su cui ritorna la voce quasi supplicante di Davis: vuole essere libero, ma non lo permettono, e la cosa lo fa cadere sulle sue ginocchia chiedendosi cosa deve fare per soddisfare gli altri. La sua voglia di fare è bruciata, deve finalmente ammetterlo. Inevitabilmente ritorniamo al ritornello arioso e altisonante, dominato da scale melodiche e collimante in un crescendo che ci conduce verso vocals sincopate e giri taglienti in un tripudio di elementi classici per il suono della band, solo condotti in una chiave molto levigata. Una cesura greve ci riconduce alla terza reiterazione del ritornello portante, mettendo in mostra un songwriting non molto elaborato, ma funzionale, dove sono le linee vocali a farla da padrona. Il narratore capisce che ha donato tutta la sua vita a qualcosa che la sta consumando, e un giorno dovrà decidere se lo merita, ma ci chiede di non sentirci male per lui. La musica termina con un brevissimo suono di chitarra leggero e con il titolo sospirato da Davis, lasciandoci con note coerenti con la natura del brano. Ritroviamo qui molti connotati dei Korn moderni, ridotti però sotto molti aspetti ai minimi termini e senza vere aggressioni sonore, seguendo una linea che possiamo denominare radiofonica senza paura di smentite.

Let The Dark Do The Rest

"Let The Dark Do The Rest" parte con un sinistro strimpellio di chitarra dai tratti squillanti, quasi una trama horror, presto esplosa da un riffing robusto contornato da arie altrettanto inquietanti; ma la voce di Davis ci tranquillizza con connotati anche in questa sede umani e delicati, dediti a una certa melodia suadente. Ci parla di come non senta niente, chiedendoci se per noi è diverso, non riesce a trovare quel qualcosa dentro di lui, la scintilla nel buio che lo sconvolga, e sa che non è giusto così. Trame d'insoddisfazione e senso di vuoto, che ci riportano quindi a tematiche non certo inedite per il gruppo, ma essenzialmente legate in modo indissolubile all'identità estetico-sonora portata avanti ormai da diversi decenni. I giri di chitarra sostengono ora aperture vocali dai bei motivi trascinanti, il cantato prosegue qui il su racconto fatto di rimorso e sofferenza: sta soffrendo da tempo, e la sua vita è stata un casino che lo tormenterà per sempre, iniziando qualcosa che l'oscurità accresce dentro di lui. Il tutto è molto controllato, e anche il trotto seguente fatto di arie sinistre e growl molto levigati ha una brevissima durata e una natura domata che non può non farci pensare alle aggressioni del passato e come qui il tutto sembri una riproposizione volutamente ripulita. Subito dopo si ripresentano i motivi iniziali, riportandoci alle evoluzioni già incontrate; l'inferno ha fatto del suo meglio per farlo conformare, e ora non è rimasto nulla, non c'è prezzo per i ritratti neri che si trovano dentro di lui e che pulsano dentro. Riecco i ritornelli sottolineati da accenni di elettronica EDM, questa volta destinati a confrontarsi con una coda dalle chitarre dissonanti e dal coro pieno di pathos e sensazioni emotive che ci riportano a connotati rock e ai lavori solisti di Davis. Andando avanti un'oscurità lucida riempie la sua anima, chiedendosi come farà a stare così solo, costantemente ridicolizzato, mentre l'unica cosa che vorrebbe fare e andare avanti e vedere cosa il futuro ha in serbo per lui. Dopo una brevissima cesura sospesa si ripresenta per l'ultima volta il ritornello, puntellato da alcuni growl fino alla concluse sincopata che cerca di regalare alcuni timidi tentativi di aggressione conclusiva. Incomincia a essere abbastanza chiara una certa linea seguita nell'album: strutture incentrate sui ritornelli, molta attenzioni verso le voci melodiche e sparute rievocazioni dei tratti più duri del passato, ma molto ammorbiditi e resi funzionali alle parti prima descritte.

Start The Healing

"Start The Healing" è il singolo dell'album, una traccia abbastanza lineare che, per gli standard di questo disco, si presenta come una delle più serrate pur mantenendo anche in questo caso una natura prettamente melodica. Ecco quindi che dopo un fraseggio greve che cresce in levare, esplode un loop fatto di giri circolari su cui si dispiegano le vocals ritmate di Davis. Questa volta il testo sembra voler essere più positivo rispetto alla media della band, presentando tentativi di redenzione e di liberazione dalla rabbia, ripensando anche a errori del passato. Il cantante ci chiede se davvero vogliamo andare con lui, è difficile per uno sconosciuto vedere le cose che ha vissuto, ci chiede se siamo pronti ad affrontare la paura di andarcene, in modo da poter respirare e non vivere più con il pericolo. C'è sempre qualcosa che cerca di rientrare dentro di noi, che cerca di spingerci a lasciarci andare, e quindi ci viene chiesto se davvero vogliamo credere e cercare di raggiungere un minimo di distanza dalla rabbia. Esplode ora il ritornello melodico fatto di punte vocali filtrate ed altisonanti cesellate da parti più taglienti, qui leggermente più convincenti rispetto ad altre comparsate fatte nel disco. Davis riflette sul fatto che avrebbe dovuto fare il bravo in passato, avrebbe dovuto farsi indietro, ma non riusciva a lasciar andare e non poteva fare altro. E' convinto di poter eliminare queste sensazioni, spezzare il dolore e incominciare a guarire, ripensando a come in passato avrebbe dovuto sopportare e non indietreggiare in certe occasioni, ma non poteva superare certe cose nello stato in cui era. Riprendono ora le trame elettriche, sempre a supporto della voce soave e sospirata del cantante; ci chiede se davvero vogliamo andare con lui, in una farsa che taglia come un rasoio, e ci chiede se siamo pronti a sanguinare dalle cicatrici, riuscendo alla fine a strappare da dentro di noi gli invasori. Ma come sempre certe sensazioni trovano modo di rientrare in noi, in un ciclo continuo: inevitabilmente ci si ricollega al ritornello e al suo misto di linee melodiche e aggressioni. Collimiamo così verso un ponte fatto di un motivo leggiadro e cantato altrettanto delicato, dove tutto quello che sente esplode in fiamme, guardando un'anima che è spezzata e danneggiata. Ogni notte ha lo stesso desiderio, continuando a sperare di non impazzire. Parte di seguito un trotto roccioso, sul quale le vocals si fanno man mano sempre più aggressive; più ci caschiamo, più si attacca in noi un certo malessere, in un ciclo dove non finisce mai il nostro tormento. Torniamo quindi al rammarico del ritornello e alle considerazioni sul passato,sottolineate da alcune parti operistiche di tastiera in un climax che si accomiata con chitarre ribassate e growl ripetuti. Una traccia tutto sommato di livello più alto rispetto alle precedenti dell'album, che pur mantenendo una certa linea melodica mostra un po' più di "denti".

Lost In The Grandeur

"Lost In The Grandeur" si apre con un drumming martellante che rallenta in alcune sezioni contornate da suoni stridenti di chitarra che richiamano alcuni giochi alienanti presenti nei primissimi dischi della band e mutuati dal post-metal dei primi anni novanta. Si crea quindi un gioco di botta e risposta che ci conduce verso una trama sincopata dai movimenti spezzati, su cui si organizzano le vocals leggiadre di Davis. Vengono ripescati alcuni dei topoi preferiti dal cantante, quello del sentirsi tradito da qualcuno, forse se stesso, e il bisogno di ritrovare la via perduta e la sua vera identità. Ci chiede cosa facciamo mentre ridiamo strappando il suo cuore, il dolore è stimolante per lui che è stato fin troppo insensibile sin dall'inizio. Si chiede perché non può difendersi da i demoni che ha dentro e che vorrebbe strappare da sé, anche se si chiede se è davvero meglio così, ora che ha gettato via certe cose in cambio di alcune parti in sostituzione. La linea spezzata si apre dopo alcuni rullanti in un ritornello fatto di tastiere liquide (praticamente uguali a quelle già comparse in altre occasioni precedenti) e vocals che seguono l'ormai scontato andamento "pop" che caratterizza il lavoro. Perso nella grandezza, ci chiede di essere aiutato a ritrovare la via, sa che suona cime un cliché, ma ha fatto tutto quello che gli è stato detto e ora è nauseato da chi ha fatto finta di essere finora. Riff circolari ci riportano alle parti striscianti e sincopate, dove il cantato rimembra il passato e le cose tristi che ruotano intorno a lui, in qualche modo queste visioni gli fanno sentire qualcosa, anche se non dura, e per questo fa di tutto per fuggire, ma le brutte cose sembrano seguirlo e circondarlo, e non può essere diversamente. Rieccoci sulle coordinate dal ritornello dalle tastiere spettrali e dal cantato melodico, che ci porta a una cesura dai suoni sommessi e dalla batteria distante e sospesa, su cui Davis sospira supplicante con parole languide: sente un suono costante, e si chiede cosa farà oggi e quale gioia ruberà, trascinandolo inevitabilmente verso il basso. Ora ci spostiamo verso un growl controllato, contornato da bordate marziali e costanti. Il cambiamento segna testi più disperati, dove si parla di perdita di controllo e di sentirsi intrappolato in verità che sono bugie, mentre tutto monta dentro e gli fa odiare la vita quotidiana portando qualcosa di doloroso, greve, ma non si arrende e non permetterà a tutto questo di portare via la sua anima. Subito dopo si aggancia la terza ripetizione del ritornello melodico, in un songwriting ormai palese che fa da scheletro per la maggior parte del disco; il finale evde alcuni suoni stridenti che ci riportano ai motivi iniziali.

Disconnect

"Disconnect" parte con un riffing roccioso, presto convertito in fraseggi ariosi, ripetuti fino a una cesura sinistra; ecco suoni squillanti su cui si giostrano ritmiche cadenzate e le vocals appassionate di Davis. Torniamo al tema portante dell'album, la sensazione di qualcosa che bolle dentro di noi e che vuole esplodere, il conflitto con la realtà, le bugie, il dolore che portano dentro. Non può semplicemente esprimere le cose che ha nascosto dentro di sé, vorrebbero farlo implorare di lasciar andare la lezione che è stata impartita. Le bugie sono verità ridefinite, luci più oscure nascoste agli occhi. Il suono si mantiene abbastanza costante, e anche l'introduzione del ritornello non crea un grande contrasto, semmai una sorta di accentuazione del discorso sonoro; troviamo riff ben orchestrati, vocals melodiche e sotto-trame malinconiche di tastiera che fanno da tappeto. Il dolore che prova non può essere nascosto, è oscuro in modo surreale, un sentimento divino in una dualità che allinea (notiamo qui un certo gusto per i contrasti tematici e gli ossimori già presentato in precedenza nell'album con l'accostamento tra bugia/verità e luce/oscurità). Troviamo qui alcuni degli esercizi vocali più trascinanti di tutto il disco, mostrando un Davis che nelle parti pulite è decisamente convincente e a suo agio, molto più che in quelle aggressive. Riprendiamo quindi con i temi sonori plumbei e striscianti, mentre il cantato suadente prosegue con le sue narrazioni. Il Nostro non riesce a lasciar perdere, il concetto di luce e oscurità lo scinde, una cerca di trascinarlo, l'altra gli da la forza di combattere. Riecco le evoluzioni iniziali, attraversando paesaggi sonori squillanti e collimando nelle grandiosità ariose del ritornello emotivo, la parte migliore di tutto il pezzo e tutto sommato uno dei punti più alti dell'album nella sua interezza. Seguono però a ridosso una serie di bordate squillanti su cui Davis scandisce aggressioni ritmate: egoismo, indulgenza, l'andare avanti con il perdono, il buon senso, le immagini, tutto quello che si prova è disconnesso. Non con molta sorpresa si palesa di nuovo il ritornello, creando la parte conclusiva della traccia e firmandosi con un'ultima sequela di bordate.

Hopeless And Beaten

"Hopeless And Beaten" ci accoglie con suoni lenti e monolitici, quasi d'estrazione doom, regalando una certa atmosfera monolitica alla parte iniziale del pezzo. S'instaura poi un fraseggio secco e dal trotto ripetuto sul quale compaiono le vocals delicate del cantante, intento a esprimere il suo stato di malessere e il suo bisogno d'aiuto da parte di qualcuno. Non riesce a mettere la coda da parte, e nessuno può farglielo fare, quindi disobbedisce mentre la cosa che ha dentro si nutre di lui. Privo di speranza e abbattuto, ha provato a lungo a liberarsi, ma quel qualcosa che ha dentro gli ha lasciato effetti, e ora non è più sicuro di essere se stesso. Il tutto viene declinato tramite alternanze di cantato pulito e growl, creando un ritornello semplice e basato sul contrasto tra melodie, anche di tastiera, e aggressività. Riprende quindi il trotto precedente, presentando nuove descrizioni: si ritrova a provare compassione mentre il suo dolore è in mostra, sentendo che bolle dentro mentre diventa difficile disobbedirgli, sentendo il bisogno di essere stretto mentre sente salire il tutto, non potendo più vedere. Tornano i growl sottolineati da chitarre rocciose, creando una parte abbastanza convincente per gli standard del disco e segnando una seconda parte del disco che pur senza far gridare al miracolo, si dimostra più convincente rispetto alla prima metà dell'opera. Si ripropone il ritornello con le sue interazioni tra le diverse anime del cantato, e collimiamo con un passaggio abbastanza emotivo dove in sottofondo troviamo cori dal gusto anni '60 che ben si adattano alle linee melodiche adottate da Davis. Non riesce più a ricordarsi nulla, sa solo che era intrappolato con un laccio, e ora vorrebbe riuscire a convogliare una versione di se stesso migliore, priva di sdegno, nulla però batte il dolore che ha lasciato dietro, e solo il tempo calma la sofferenza, ma allo stesso tempo lo abbatte anche. Dopo alcune bordate riprende il corso roccioso e monolitico, che collima nel ritornello duale, portandoci verso la conclusione della traccia, ma non prima di alcuni esercizi ritmici dai passi roboanti.

Penance To Sorrow

"Penance To Sorrow" si presenta con un effetto in levare che presto si apre in una sequenza vibrante di bordate sottolineate da colpi secchi di batteria; il suo corso viene però interrotto da un fraseggio notturno che diventerà motivo portante del brano. Un passo felpato accompagna le vocals altrettanto striscianti e melodiche di Davis, intento a narrarci immagini di dolore interiore e ricerca di risposte che non riesce a trovare dentro di sé. Le cerca fuori, e sente che a ogni passo il pavimento sotto i suoi piedi si sgretola, e non riesce ad andare avanti. Una voce sembra ricordargli che soffre da una vita, chiedendogli per cosa (dialogo segnato dal passaggio verso un registro più aspro). Si apre di seguito un ritornello emotivo dai tratti molto pop dove il cantante produce scale altisonanti piene di passione: non può spezzare questa situazione, il dolore è sacro, la depressione non è lontana e non può farci nulla, i pezzi non combaciano essendo troppo rovinati, distrutti dal dispiacere. Torniamo ai movimenti precedenti segnati da parole soavi e ritmica marciante, segnando una traccia dalla struttura sommessa e controllata; il narratore sente la sensazione che torna dentro di lui, troppo forte, lo rende insensibile. Strappa le cuciture, ma in qualche modo lui riesce a riattaccarle, per ora. Si ripresentano i crescendo precedenti, che vanno a portarci di nuovo al ritornello incentrato sulle vocals del nostro; ora esso s'infrange contro un trotto claustrofobico dalle corde grevi e dal cantato suadente puntellato da momenti in growl. Qualcosa lo guarda da dentro di lui, e sa che non sarà mai libero, vorrebbe che andasse via, ma allo stesso tempo non crede che se ne libererà mai. Il climax non può non essere dato una doppia ripetizione del ritornello portante, che va a concludersi con una coda aggressiva cesellata da un effetto come di sega elettrica.

My Confession

"My Confession" si apre con una sequela di ritmi sincopati dal gusto urbani, che ci riporta al passato della band, sensazione rafforzata poi dalle vocals ritmate e striscianti che prendono poi piede su un fraseggio squillante. Davis è intento in un dialogo con se stesso, ricordandosi della sofferenza che ha passato e dei tratti negativi dell'umanità. Chiede all'altra metà di lui se può vederlo e sentirlo, perso nel suo ego, gli umani sono ingannevoli e malvagi, e il suo desiderio lo ha derubato; ora è troppo tardi, non può fuggire, è diventato triviale, ma siccome non vuole ammettere tutto questo e lo nega, decide di fuggire dentro a un nascondiglio. La lunga "filastrocca" viene interrotta da una cesura dai tratti ritmati, arricchita da giri circolari e vocals altisonanti: lui sa com'è la situazione, ma è troppo debole per impegnarsi, preferisce nascondersi dentro di lui. Si tratta dell'incipit per un ritornello arioso in linea con quelli degli altri brani, abbastanza generico e non il punto forte della traccia. Nulla è messo in mostra, il Nostro rimane fermo spaventato, non voleva rompere la pace, e vorrebbe solo che le cose svoltassero, ma in realtà si consuma in un inferno che ha creato lui, pensa alle sue azioni e pensieri infettivi privi di speranza lo dominano. Questa è la sua confessione aperta, ma che non lo porta a risolvere le cose. Passi dai giri circolari ci portano alla ripresa degli andamenti striscianti, pronti a evolvere secondo i modi già incontrati; purtroppo per lui ci è dentro fino al collo, deve accettare di essere un'assurdità. Deve andare avanti con i suoi conflitti, impoverito e privo di onore, e deve smetterla di ossessionarsi sulle cose mentre si disfa diventando un parassita. Non ci sarà mai controllo, ciò che adora lo consumerà alla fine. Giudizi severi che collimano con il ritornello lento e dai cori ariosi, ripetuto fino al raggiungimento di alcuni esercizi di rullanti e suoni dissonanti, seguiti da trotti squillanti e vocals angeliche: solitario, dorme nel letto che lui stesso si è fatto, il risultato è un'inutile farsa. Il finale vede come da abitudine una terza ripetizione del ritornello, cesellata da bordate conclusive.

Worst Is On Its Way

"Worst Is On Its Way" s'introduce con misteriosi suni quasi industriali, presto raggiunti da un riffing roccioso sottolineato da suoni alieni di tastiera. Su questa configurazione roboante si adagiano le vocals di Davis, che ci parla della sensazione del peggio che sta arrivando, di qualcosa che monta sempre più dentro, pronta a esplodere. Dobbiamo guardarci intorno, qualcosa sta incominciando a fare scherzi e si sta disperdendo; continuiamo a essere circondati dai problemi, travestiti come ostali sul suo percorso. Esplode ora un ritornello dalla ritmica pulsante e dalle orchestrazioni di tastiera: qualcosa lo chiama mentre scorre in lui, non può fuggire, respira dentro di lui, e capisce che il peggio sta arrivando. C'è sempre qualcosa, la vita continua a non far andare le cose come vorrebbe, si sente dannato, pensieri dannosi lo divorano e le immagini sono luoghi familiari da cui non può fuggire. Si ripete praticamente subito il ritornello, mostrando una struttura dove ha un certo peso nell'economia della traccia, seguito poi da una cesura dove suoni squillanti e ritmiche sincopate creando un crescendo che esplode in una parte dal growl ritmato che ci sorprende perché ripresenta un motif caro ai primissimi Korn e che offre un momento nostalgico. Ritroviamo quindi le arie del ritornello con la loro essenza melodica, ripetute con le tastiere cinematiche prima di ricadere negli attacchi vocali aggressivi. La conclusione della traccia vede dei suoni dissonanti che vorticano nell'etere prima di perdersi nell'oblio.

I Can't Feel

"I Can't Feel" è la traccia bonus presente nell'edizione giapponese del disco, e si tratta per ironia della sorte probabilmente di uno dei pezzi migliori, almeno a livello di costruzione e scelte di suoni, di tutto l'album. La cosa ci fa domandare se la scaletta sia stata davvero ponderata nel modo migliore, dato che molte persone non sentiranno la traccia ritrovandosi con una versione "depotenziata" di un'opera già con le sue debolezze. Dopo alcuni dialoghi campionati parte un riffing roboante di chiara fattura legata alla band, contornato da un drumming incisivo e sottolineato da baritoni spettrali in sottofondo. Anche il cantato di Davis suona più vicino ai momenti migliori del passato, usando uno stile si controllato, ma in qualche modo comunque nervoso nei suoi andamenti ritmati, e completante il comparto musicale. Riguardandosi indietro nello spazio e nel tempo, ripensa a quando la vita era bella e lui era buono, prima che qualcosa lo catturasse tra le sue grinfie creando una rabbia silenziosa che lo ha rinchiuso in una gabbia lasciandolo senza una chiave e la possibilità di provare se qualcosa è vero o meno. Dopo le aperture più ariose ci aspettiamo l'inizio di un ritornello, ma questa volta il songwriting ci sorprende, e si ritorna al trotto iniziale. Reprimendo, il suo cuore è andato, quella cosa dentro lo ha derubato, ne è sicuro, e ora non vede più una speranza, piangiamo tutte le volte, ma la vita va avanti e tutto il dolore rimane tristemente con lui. Si ripresentano le aperture precedenti, questa volta però aggiungendo altre parti sottolineate da suoni sinistri; ecco che incontriamo il vero e proprio ritornello, non però un'esplosione, bensì un passaggio marciante dove è la voce drammatica di Davis a farla da padrona toccando un crescendo pieno di pathos. E' andata, a lungo ha provato ad andare oltre senza dolore e vergogna, provando a sentire l'odio che cresceva dentro, una bugia. Trema pensando al giorno in cui si è svegliato enulla era come prima, folle sente i demoni che danzano nella sua testa. Dopo una cesura che rappresenta un climax, chiudiamo il nostro viaggio con una ripresa dei tratti più ariosi che proseguono fino allo stop improvviso.

Conclusioni

"Requiem" è in definitiva un classico disco di passaggio dei Korn, dove un certo tema elaborato e sviluppato nelle uscite precedenti, viene levigato e adattato a una formula ben imparata e impartita senza molte sorprese. Tanto la produzione a cura di Chris Collie quanto il songwriting adottato dalla band danno molto spazio alle atmosfere e alla melodia, ma manca in quasi tutti i pezzi del contrasto con le parti aggressive che in passato ha arricchito il suono della band nei suoi momenti migliori. Queste ultime infatti suonano senza forza e ovattate, e nei rari momenti in cui Davis tenta dei growl, essi suonano decisamente privi di mordente. La linea generale è più vicina al rock moderno piuttosto che al metal alternativo, e non troviamo qui ne le aggressioni acide e disturbate di "The Serenity of Suffering" ne le oscurità drammatiche di "The Nothing", lasciando solo lo scheletro di ritornelli abbastanza prevedibili, soprattutto per chi segue i Nostri da anni. I testi di Davis non hanno mai brillato per inventiva e si assestano su ripetizioni di temi legati al rimosso e al bisogno di redenzione che, quando non supportate da un comparto musicale abbastanza vario ed elevato, mostrano tutta la loro debolezza e la loro natura generica; detto questo, raggiunti ormai i cinquantanni, i musicisti coinvolti conoscono il loro mestiere e nessuna parte del disco può essere definita come suonata male o senza sapere quello che si vuole ottenere. Il problema è che il risultato finale è paragonabile al quinto o sesto sequel di una saga da Hollywood partita magari in modo interessante, ma poi diluita in una ripetizione sempre meno convinta e di puro mestiere delle sue idee. Qui gli elementi melodici degli ultimi dischi vengono isolati dal lato tagliente dei Korn e inseriti in un contesto più vicino al lavoro solista di Davis con "Black Labyrinth" piuttosto che alle uscite della band principale. O meglio, le parti più aggressive sono poco presenti, e usate per sottolineare alcuni passaggi, presentandosi come detto in versioni alquanto levigate e con un Davis che sembra stanco e più interessato a seguire una linea pulita e melodica. Inoltre troviamo in "Requiem" una delle caratteristiche più tipiche dei dischi "interlocutori" della loro carriera: la ripetizioni dei suoni e delle strutture usate nei brani, spesso con un senso di Dejavu che affatica l'ascolto dell'album e rende certi pezzi come superflui, soprattutto nella prima metà dell'opera. E quando questo succede in un disco di nove tracce (senza contare quella bonus della versione giapponese), significa che c'è un problema di fondo. Probabilmente, visto anche il tema di redenzione e superamento di periodi distruttivi che ogni tanto fa capolino nei testi, la volontà era quella di presentare un disco che rappresentasse questi temi con uno spirito più melodico e diretto; ma il problema consiste nel fatto che i Korn sono sempre stati un gruppo dove il minimalismo e la mancanza di aggressione non hanno mai giocato a loro favore. Non parliamo di virtuosi dello strumento o di musicisti capaci di creare complicate costruzioni avvincenti, e nemmeno di creatori di riff particolarmente innovativi. Questo non a demerito della band, ma per avere una visione realistica dei loro punti di forza e debolezza: quando "giocano" a fare rock più elevato, inevitabilmente cadono nella trappola della ripetizioni e della mancanza di più sostanza. L'album suona quindi come un punto di saturazione per i Nostri, la totale assimilazione del suono portato avanti da "The Paradigm Shift" in avanti che aveva sintetizzato i vari corsi dei Korn in un sincretismo convincente e a tratti addirittura maturo; ora quella maturità sa di stanchezza, e per quanto la natura radiofonica del disco abbia portato a buone recensioni da parte della stampa mainstream, il risultato finale non tiene assolutamente testa con gli ultimi nove anni di carriera della band. Va riconosciuto comunque il fatto che le tracce finali si mostrano più convincenti, pur non raggiungendo il livello di quelle migliori dei dischi precedenti, e se tutti gli episodi presenti avessero avuto questo livello, parleremmo ora di un album migliore nel complesso. Sono molte le domande che il disco lascia aperte riguardo al futuro suono dei Nostri, se è vero che in passato ci sono state delle riprese dopo dischi non eccelsi a livello di energia e composizione, è anche vero che ormai i gruppo ha raggiunto una certa età dove probabilmente l'interesse verso elementi integrali del suono dei Korn (growl, attacchi urbani e taglienti, parti particolarmente pesanti) è comprensibilmente scemato, e sembra chiara la volontà di seguire una linea più incentrata sulla melodia e le facili soluzioni. Come detto, si tratta do uno stile che inevitabilmente va a indebolire il suono del progetto, privo di fondamenta capaci di sostenere una svolta del genere. Restando nel presente, abbiamo un disco che non fa gridare allo scandalo e che è suonato in modo competente e con una buona produzione, e che in parte si redime nella sua seconda metà,vma che allo stesso tempo non può non rappresentare un punto di implosione per quella che possiamo considerare la terza fase della band.Staremo a vedere se i Korn riusciranno ancora una volta a cambiare pelle ritrovando allo stesso tempo la loro essenza. 

1) Forgotten
2) Let The Dark Do The Rest
3) Start The Healing
4) Lost In The Grandeur
5) Disconnect
6) Hopeless And Beaten
7) Penance To Sorrow
8) My Confession
9) Worst Is On Its Way
10) I Can't Feel
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