KORN
Korn III: Remember Who You Are
2010 - Roadrunner Records
DAVIDE PAPPALARDO
24/05/2016
Introduzione Recensione
Nel 2010 i Korn avevano superato un periodo pieno di cambi ed elementi esterni come ospiti nei live, nonché collaborazioni con produttori di videogiochi e colonne sonore per film d'animazione. Il precedente disco, "Untitled" aveva raccolto pareri critici contrastanti, tra alcuni entusiasti per il suo approccio più sperimentale e scarno, ed altri che lo vedevano come l'apice di una crisi d'identità incominciata da tempo, avvalorata dall'abbandono del batterista David Silveria e dalla fine della collaborazione con il team di produttori conosciuto come "The Matrix" (Lauren Christy, Graham Edwards, Scott Spock), iniziata con il disco "See You On The Other Side" del 2003. Le vendite in ogni caso non sembrarono certo da bancarotta, anzi, ma stando ad alcuni elementi, sembrò effettivamente che alcune considerazioni avessero colpito, almeno in parte, i Nostri, aprendo dunque la strada palla realizzazione di "Korn III: Remember Who You Are", ovvero il disco qui recensito, pubblicato per la "Roadrunner Records" nel 2010. Esso infatti volle essere, sotto molti aspetti, un ritorno alle origini, ovvero a quel sound nu metal dal quale la band si era sempre più allontanata negli anni, non senza polemiche e dichiarazioni di disaffezione presso la stampa; il nuovo batterista, prima solo in sede live e ora anche su disco, Ray Luzier, si accompagna a Jonathan Davis (voce), James "Munky" Shaffer (chitarra), e Reginald "Fieldy" Arvizu (basso). Il tutto è posto sotto l'ala protettrice di Ross Robinson, lo storico produttore che in pratica ha dato vita la fenomeno del nu metal a fine anni novanta curando i primi lavori dei Korn stessi, degli Slipknot ed anche dei Deftones. Una dichiarazione d'intenti sancita da un lavoro registrato senza l'uso di Pro Tools ed altri effetti di studio, i quali invece avevano pesantemente caratterizzato gli album precedenti; del resto, come dichiarato dallo stesso Davis: "è tutta questione di vibrazioni", cioè di volontà di esprimersi in maniera diretta priva di troppi fronzoli. Un disco il quale, in virtù di questo, abbandona le tendenze elettroniche ed "industriali" del percorso recente. Anche i temi della release, tra storie di disagio sociale, abusi, disaffezione, sembrano volersi ricollegare al passato, così come le immagini di copertina che alludono ad indicibili eventi di violenza sui minori nella provincia americana. Un'operazione che un po' sembra studiata a tavolino, ed in realtà presenta non pochi difetti, primo tra tutti il fatto che, per svariate ragioni i Korn del 2010 non sarebbero più potuti essere quelli degli esordi: l'energia di un tempo e la rabbia appartenevano ad un'età più giovane rispetto ai quasi quarantenni di "Korn III..", i quali sembrano scimmiottare con non molta reale convinzione un suono in cui prima credevano e che, per forza di cose, nel 2010 era andato un po' perdendosi. In ogni caso, la cosa convince molta della stampa, specie chi li aveva attaccati in precedenza, anche se non manca chi nota nell'operazione un non convinto riciclaggio qui in atto di stilemi ormai desueti, nonché scelte poco spontanee e molto programmate messe in atto. Se infatti un certo minimalismo aveva caratterizzato il disco precedente in funzione di un certo sperimentalismo "post-rock", qui abbiamo spesso ossature prive di carne, dove la voce di Davis, tolti gli aiuti vari di produzione, mostra molte debolezze rispetto al passato, e dove le chitarre vorrebbero essere aggressive come un tempo, godendo però si dell'accordatura bassa, ma non della furia istintiva dei primi dischi. Insomma, una sorta di crisi di mezza età si in questo caso, per un gruppo che aveva sempre avuto il pregio di guardare avanti nel bene e nel male e di non essersi mai legato troppo ad un genere che aveva contribuito a creare, ma che è stato anche la morte artistica per chi ne ha sempre e solo seguito i dettami, anche fuori tempo massimo. Sembra però che l'operazione sia servita a sfogare questi bisogni, dato che da lì a poco i Nostri scioccheranno non pochi con la fusione dubstep di "The Path Of Totality", dove torneranno a mischiare le carte, anche se non sempre con risultati eccezionali.
Uber-Time
Si parte con la intro "Uber-Time - Super-Tempo" e con un discorso campionato sul quale si delineano prima suoni ariosi e tesi, poi arpeggi delicati, sui quali si aggiunge un ritmo galoppante dal gusto molto "southern"; si avanza dunque mentre il dialogo recitato conosce riverberi e strani suoni squillanti, sovrapponendosi poi fino al suono disturbato che sfocia nel primo vero e proprio brano del disco.
Oildale (Leave Me Alone)
"Oildale (Leave Me Alone) - Oildale (Lasciami Solo)" subito ci accoglie con un riffing a corde basse in pieno stile Korn vecchia scuola. Ecco che al ventiquattresimo secondo Davis interviene su un fraseggio a marcia, il quale conosce un crescendo completato da un groove minaccioso; esplode quindi il ritornello arioso ed epico, dove la voce filtrata del nostro si unisce a linee melodiche sentite. Si torna di seguito al motivo precedente, passando ai suoni striscianti con ritmica felpata, mentre ancora sentiamo la tensione sottintesa gestita da chitarre e batteria, la quale si esprime presto con chitarre nervose e piatti cadenzati; torniamo quindi al ritornello in una struttura abbastanza semplice e basata su pochi elementi. Al secondo minuto e venticinque il tutto s'interrompe con bordate sincopate e suoni stridenti, in una sequenza poi sviluppata in un movimento che vorrebbe essere schizofrenico, specie nelle vocals disperate di Davis; ed è qui che notiamo uno dei problemi del disco, ovvero la mancanza di energia, quello che vorrebbe essere un momento drammatico come gli interludi del passato, risulta a dire il vero un esercizio di stile poco ispirato. Si riprende poi con i montanti distorti, reiterando il ritornello e i giochi ritmici di batteria, poi coadiuvati da suoni obliqui e grida piene di effetti; la coda finale vede una sequenza quasi tribale, fermandosi poi con un verso, dando spazio ad un inaspettato favoreggio acustico, il quale chiude il pezzo. Il testo si riferisce ad una zona suburbana di Bakersfield, la città dove I Korn sono cresciuti; notiamo quindi, anche da questo particolare, come i Nostri vogliano effettuare un'operazione amarcord a tutto campo, ritornando anche testualmente alle origini, facendo naturalmente riferimento al passato tormentato del cantante, vittima di bullismo. Le liriche dunque, oscure e pregne d'odio, sembrano voler comunicare proprio questo: diciamo agli altri, a mo' di sfida, di guardarsi e sentirsi mentre si sentono così bene, tormentandoci. Non resistono alla voglia di prevaricarci, di sottometterci, sentendosi grandiosamente nel dire o nel fare stronzate. Chiediamo di essere lasciati in pace, da tutto e da tutti, perché in questo mondo, è evidente, persone sensibili come noi non sono le benvenute. Anche ci ci ama ci tradisce, il nostro cuore si spezza a causa delle numerose cadute. Sentiamo sulla nostra pelle tutto l'odio che ci recano e portano, mai sazi: "What a pus, Think you're so tough, I take this shit, All I had was Love in me, It was so good, But that wasn't enough, You ripped it away - Ma che fighetta, pensi di essere un duro? Io mi prendo tutta questa merda. Tutto quello che avevo in me era l'amore, era bello, ma non abbastanza, l'hai strappato via", prosegue il testo, menzionando poi l'ipocrisia e la mancanza di rispetto altrui. Il protagonista considera gli altri come dei pezzi di merda unicamente capaci di succhiare via la vita altrui; chiediamo quindi in un ultimo disperato verso di essere lasciati in pace.
Pop A Pill
"Pop A Pill - Fatti Una Pillola" parte con un fraseggio ritmato e sincopato, sul quale si delineano rullanti sempre più robusti; ecco quindi un groove graffiante vecchia scuola, il quale richiama le origini della band. Davis viene introdotto da una sequenza spezzata dove assume toni dalle rime divise tra voce suadente e grida; al cinquantatreesimo secondo prende forma il ritornello altisonante, giocato su ritmi pomposi e cori ariosi come di costume per i Nostri. Senza grosse sorprese riprende poi la parte precedente intervallata con alcuni giri più stridenti; non tarda quindi a ripresentarsi il ritornello trascinante, forse anche troppo presto, il quale questa volta collima in coretti eterei, versi ansiosi, e montanti di chitarra. Ecco quindi una cesura imperante con bordate squillanti ed esercizi tecnici, la quale poi viene contrastata da una sequenza strisciate con suoni di basso ed arpeggi stridenti; ritroviamo quindi suoni più veloci, i quali si uniscono a vocals ariose e passaggi emozionali. Ci fermiamo all'improvviso con una sorta di "sezione segreta", dove arpeggi lenti e recitazione disperata da parte di Davis (ancora una volta si cerca di evocare i monologhi del passato, con scarso successo) creano una sorta di siparietto narrativo, il quale si conclude con una ripresa nervosa del ritornello basata su attacchi di chitarra e batteria, promulgati fino alla vera conclusione, al quale da posto ad effetti statici, i quali continuano fino alla partenza del brano successivo. Il testo si riferisce ad un tema molto caro al Davis degli ultimi anni, ovvero la dipendenza da farmaci antidepressivi e gli effetti che essa provoca. Una dipendenza che scaturisce esattamente quando prendiamo definitivo contatto con la realtà, capendo quanto essa faccia schifo. Proprio quando vediamo chiaramente e sentiamo tutto, sappiamo che la felicità viene raramente trovata, sembra quasi non esistere; per questo prendiamo una pillola, sentendoci felici sebbene in maniera artificiale ed assolutamente temporanea. Con i sensi offuscati, sentiamo i nostri sentimenti strisciare su di noi e scivolare via. Dobbiamo prendere la nostra medicina perché è tutto fuori dal nostro controllo e non possiamo viverne senza, abbiamo bisogno di un qualcosa che ci renda inconsapevoli del tutto. Se il nostro cervello funziona, vediamo infatti i tristi colori della depressione e ci sentiamo bruttissimi, disgraziati, inutili. Sappiamo che la felicità è difficile da trovare, e per questo prendiamo una pillola. "I don't give out anything around me.. I don't give out anything, i do this to shut off the voice, within, within, within! I don't give out anything - Non concedo nulla intorno a me, non voglio dare nulla. Lo faccio per zittire la voce dentro! Non concedo nulla." prosegue il testo, ripetendo poi in modo conclusivo i versi precedenti.
Fear Is A Place To Live
"Fear Is A Place To Live - La Paura E' Un Luogo Da Vivere" prende forma con una ritmica sincopata non dissimile da quella dei pezzi precedenti, la quale si fa sempre più pulsante, collimando in una sezione funk con le vocals in rima di Davis e d i fraseggi felpati di chitarra; al contrario di quanto ci si può aspettare, l'inevitabile ritornello non è un'esplosione, bensì una calma sequenza dal gusto rilassato, sulla quale strutture di chitarra distese e voce ariosa si uniscono fino ad una cesura ritmica. Essa poi riprende il movimento precedente ripresentandoci la stessa evoluzione già vissuta; largo quindi ancora al ritornello avvolgente, il quale nella sua tranquillità funziona egregiamente, più di certi attacchi forzati che invece compaiono spesso nel disco. In ogni caso i Nostri non si fanno subito mancare una parte dalle chitarre a sirena ed il cantato maniacale, il quale evolve con sospiri e toni malevoli che ancora una volta generano un crescendo che vorrebbe essere drammatico; ma anche ora invece di esplodere, si riprende con i toni distesi, contrapposti però ad una marcia aggressiva, la quale si ripropone ad intermittenza. Si arriva così al finale, relegato a suoni quasi ambient con spettri di fraseggi languidi; un songwriting decisamente essenziale, figlio degli ultimi Korn, il quale qui però vorrebbe rivestirsi con i manti del passato, riuscendo solo in parte. Il testo tocca il tema della falsità delle persone e dell'essere sfruttati e traditi da esse; sentiamo tutti intorno a noi, la loro voce ci circonda e rassicura, un coro di personaggi i quali ci dicono quello che tutti vogliamo sentire. Ci dicono che siamo bellissimi, pieni di talento, che hanno bisogno di noi, che ci tenderanno sempre una mano e ci saranno per noi, qualunque cosa possa accadere. Da dove scaturisce, quindi, la paura? Essa diviene un luogo da vivere quando il nostro castello in aria crolla, mostrandoci le persone che ci circondano sotto la loro vera forma, nella loro vera essenza. Prontissimi a togliersi la maschera dalla testa, mostrando la faccia che nascondono, in qualunque momento. Una faccia orribile, la quale risulta essere quella effettiva. Il volto della menzogna e del tradimento, di chi ci ha sfruttati fino all'osso ed ormai non ha più bisogno di noi, tradendoci beceramente. Ormai li vediamo e riconosciamo da un miglio di distanza, nonostante essi continuino ad agire come dicono. "Fake ass people surround me, digging their claws right in me, they're always nice to begin but I always get fucked in the end - Facce da culo mi circondano, scavando con gli artigli dentro di me. All'inizio sono gentili, ma poi alla fine mi fottono" prosegue il testo, ripetendo poi tali parole in modo ossessivo fino alla fine, con una seconda parte tutta dedicata alla falsità altrui.
Move On
"Move On - Vai Avanti" parte con feedback e piatti cadenzati, aprendosi subito poi a montanti circolari dal groove ben delineato; al ventisettesimo secondo Davis arriva con un cantato sospirato, sottinteso da chitarre spezzate e suoni sospesi. Lentamente la tensione sale con una batteria più robusta e vocals più presenti, collimando in un ritornello dove purtroppo i limiti vocali del cantante, privo di filtri, si sentono tutti, creando imbarazzanti paragoni con il passato; chitarre e drumming mantengono il tutto pulsante, mentre suoni onirici in sottofondo danno un'atmosfera seria; si ritorna quindi ai movimenti liquidi precedenti, i quali per l'ennesima volta vogliono ricreare i siparietti del passato. Largo quindi all'evoluzione in crescendo già incontrata, dove si cerca di dare l'idea di una rabbia che monta, la quale però è molto spenta; eccoci di nuovo quindi nel ritornello pulsante, il quale ora ci porta ad una cesura funerea con fraseggio e coretti. Essa esplode in quello che vorrebbe essere uno sfogo sincero fatto musica, ma che invece risulta un attacco privo di mordente; riprende quindi il fraseggio con effetti vocali distesi sopra, il quale non può fare altro che portarci ad una nuova riproposizione del ritornello. La coda finale si basa su bordate drammatiche e loop vocali, generando un flusso musicale che ci trascina fino al grido conclusivo; un episodio che incanala molti dei difetti del disco, proprio perché forse è tra quelli che più cerca di essere aggressivo, senza però avere l'essenza dell'aggressività, ma solo l'immagine. Il testo sembra descrivere un punto di rottura, un crocevia importante ormai drasticamente raggiunto. Siamo in una posizione delicata, ormai ammettiamo a noi stessi di non riuscire più a fingere per fare contenti gli altri, ed in generale tutti coloro i quali ci si stringono attorno. Ci sentiamo fuori luogo, qualcosa non va, ci sono emozioni nuove nel nostro mondo affettivo, che ormai lo dominano e lo sormontano. Emozioni che mai avevamo provato prima d'ora, fra fastidio e disillusione. Nel mentre cerchiamo di aggrapparci stretti ad un qualcosa che non riusciamo a trovare. Non possiamo controllare gli eventi intorno a noi, e non possiamo consolare lo stress dentro: solo quando spegniamo il cervello capiamo di essere ancora capaci di andare avanti, ed è questa la sensazione di atarassia che ricerchiamo. Vogliamo che gli altri capiscano che cerchiamo di fare felici tutti, prendendoci prima cura di noi stessi. Siamo in ginocchio, lo stress ci fa sanguinare, siamo come accoltellati. "What the fuck do you want from me, i am just a human being, living my life to please everyone. I can't do this anymore, being everybody's whore - Ma che cazzo vuoi da me, sono solo umano. Vivere la mia vita per compiacere gli altri.. non è cosa che posso più fare. Non posso più essere la puttana di tutti!!" prosegue il testo, terminando poi con la ripresa dei versi precedenti.
Lead The Parade
"Lead The Parade - Dirigi La Parata" ci sorprende con suoni quasi noise, stridenti, I quali poi lasciano il posto a piatti strisciatati e riff circolari; ecco quindi una cavalcata greve dai loop ossessivi, pestata dal drumming, la quale poi genera una marcetta cadenzata dove Davis si da ad un cantato molto "pop", amplificato da suoni di chitarra melodici . Si esplode di seguito in un ritornello sincopato con grida e bordate pulsanti, il quale poi trova sfogo in suoni malinconici e versi ispirati, in una sezione molto breve presto interrotta; riecco quindi la ritmica marziale iniziale, la quale evolve ancora seguendo i dettami precedenti. Alla conclusione del ritornello notturno, questa volta allungato, troviamo un groove claustrofobico, il quale ci conduce presto ad una cesura minimale basata su batteria e voce, in una sorta di jam session lounge; essa naturalmente è preambolo per la ripresa dello struggente ritornello, con vocals effettate e code dai farsetti doloranti. Il finale è relegato ad una sorta di "post canzone" dove suoni elettronici creano effetti estranianti, riproponendo la sperimentazione che aveva caratterizzato gli ultimi Korn; tutto sommato un pezzo convincente per la media del disco, pur con un songwriting sempre molto basilare basato su pochi elementi ripetuti spesso in sequenza. Il testo si riferisce ai sintomi depressivi e al tentativo di riprendere il controllo per non crollare del tutto. Perduti e soli siamo fuori dal giro, ripetendo il processo ogni giorno senza mai fermarci un attimo. Una parata che percorre sempre le stesse strade, il giro è sempre quello. Lo conosciamo a memoria e siamo come totalmente schiacciati da questa insensata routine, pesante come una frana, come un macigno gigantesco. I nostri sogni, coltivati con tanta passione, sono ormai persi. Siamo in balia di un qualcosa che non possiamo controllare, non ci resta altro da fare che gettare tutto all'aria, disinteressandoci di ogni cosa potenzialmente positiva. Tuttavia, una speranza ancora c'è, e risiede nella nostra forza di volontà: dobbiamo fare le nostre scelte con onestà e coerenza, riuscite a fare le cose giuste, controllare la parata e dirigerla dove noi vogliamo.. altrimenti, questa merda ci ucciderà. Tutto il contrario delle nostre intenzioni, siamo noi che vogliamo uccidere tutto questo, fare la cosa giusta, passare il test e raddrizzare la nostra vita tormentata. "This curse is my own, it follows me home, Its like a child that wants to play, the thoughts in my brain, the subconscious pain, makes me think why do i stay - Questa maledizione è solo mia, mi segue sino a casa.. è come un bimbo che vuole giocare. I pensieri in testa, il dolore nel subconscio.. mi fanno chiedere perché rimango", prosegue il testo, ripetendo poi tutta la parte precedente in modo molto ossessivo, dando un'idea disperata e farneticante dei pensieri del Nostro protagonista.
Let The Guilt Go
"Let The Guilt Go - Lascia Andare Via La Colpa" ci accoglie con un gusto "live" dovuto a voci in presa diretta, sulle quali abbiamo rullanti striscianti; al settimo secondo prende forma il brano vero e proprio, fatto di giri distorti e batteria pulsante, sui quali Davis si da ad un'interpretazione vocale questa volta convincente. Fraseggi distorti creano una cesura sulla quale la sua voce gracchiante ripete il titolo del brano; ecco quindi il ritornello convinto e potente, il quale ci da una delle parti migliori del disco con la sua struttura propositiva, la quale conosce poi una coda ricca di suoni stridenti. La parte precedente si ripropone, ma in chiave ancora più presente, anche grazie a parti vocali ben trattate; riecco quindi al cesura preparatoria e l'esplosione del ritornello, il quale si protrae con tutta la sua energia. Questa volta però a sorpresa ci si ferma con vocals ariose e drammatiche unite a rullanti cadenzati, degenerando poi in un monologo con fraseggi in sottofondo, il quale si fa sempre più ossessivo fino ad un urlo; ecco quindi nuovi melodrammi sonori, fino ad una sequenza lounge di batteria e distorsione. Riparte il ritornello ormai familiare, il quale viene violato da alcune dissonanze, salvo poi riprendere con il suo corso, in un'alternanza riproposta anche nella conclusione; qui poi arpeggi e feedback ci trascinano verso al degna conclusione di una traccia che si dimostra come detto un punto alto di tutto l'album, non a caso scelta come singolo. Il testo tratta questa volta del fare pace con sé stessi: lasciarsi il passato alle spalle, accettando gli errori propri ed altrui. Tutte le menzogne e i tradimenti ci torneranno indietro, la disonestà ci farà a pezzi e ci divorerà, il dolore e la rabbia, la sofferenza e la vergogna.. le voci nel cervello ci tormenteranno di sicuro. L'unico modo per sfuggire a questo colpo di boomerang è quello di prendere coscienza del nostro status ed ammettere i nostri sbagli, essendo contemporaneamente vogliosi di rimediare agli errori. Tenendoli come moniti per il futuro e fonte di esperienza, non come fantasmi urlanti e dediti alle persecuzioni più violente. Dobbiamo "far andare via la colpa", anche se ci verranno dette cose che porteranno ad altre, le quali ci faranno tornare sui nostri passi dandoci dolore. Dovremo tenere duro ed andare per la nostra strada. Molti vogliono affliggersi finché il nostro cervello non si friggerà letteralmente, non facendoci (titto ciò) più riuscire ad uscirne. Si ripetono quindi i versi appena detti: la descrizione di chi spreca le propria vita "per colpa della colpa": "I'm such a stupid fuck, listening to my head and not my gut, constantly thinking and thinking, and thinking, And thinking and thinking and thinking - Sono un tale idiota, ascolto la mia testa e non l'istinto. Penso costantemente, penso, penso, penso", prosegue il testo, riprendendo poi fino alla conclusione le parole precedenti, in un ennesimo Mantra ossessivo.
The Past
"The Past - Il Passato" ci sorprende con delle bordate grevi dal gusto industriale/post-rock, le quali delineano un andamento ripreso poi da fraseggi, e di seguito da colpi di batteria e giri squillanti; esplode quindi un bel groove dalla linea melodica ben definita. Esso si ferma con suoni liquidi, i quali poi si uniscono a chitarre striscianti e cantato lascivo di Davis, arrivando ad un'oasi sonora di apparente tranquillità; ecco quindi il ritornello potente fatto di vocals filtrate e giri possenti di chitarra. Si torna quindi ai ritmi da marcia e ai suoni spettrali, in un'atmosfera acida che ricrea in modo convincente il passato, continuando una seconda parte del disco più convincente; riecco poi le cesure seguite da attacchi melodici pieni di carica, i quali ora si fermano con una cesura liquida dal cantato sommesso e greve. Qui chitarre dissonanti prendono piede, seguite da fraseggi ritmati e drumming deciso, dandoci poi un groove funky dalle ripetizioni vocali ossessive, aprendosi a strutture acide presto completate dal ritornello; esso si libera in una ripetizione portata avanti fino alla coda ariosa, dove troviamo inediti assoli struggenti in una conclusione dal gran respiro, per un episodio molto evocativo. Il testo sembra continuare il tema di quello precedente, descrivendo un passato che tormenta e continua a tornare. In molti scelgono di arrendesi e di trincerarsi in un passato ossessivamente ridondante, volendo quasi metter su un gioco che duri. Nel bene o nel male, il passato fa sempre meno paura del futuro, ed è proprio per questo che in molti decidono di rimanerci, pur comunque soffrendo le pene dell'inferno, scivolando pericolosamente in un'apatia priva di colore. L'amore senza affetto è come l'odio senza dolore, la vita è una connessione separata dal cervello: chiediamo agli altri se possono vedere il dolore nei nostri occhi, ed il tradimento travestito da altro, non possiamo più vivere con le bugie altrui, e non possiamo fidarci nemmeno degli amici. "You wanna lay in the past, you'll do anything to make your pain last - Tu vuoi rimanere nel passato, vuoi fare di tutto affinché il tuo dolore duri" prosegue il testo, ripetendo poi in una filastrocca aggressiva le parole precedenti fino alla conclusione.
Never Around
"Never Around - Mai Intorno" inizia con un feedback presto seguito da un fraseggio spezzato con dissonanze, il quale evolve in una cavalcata circolare sottolineata da alcuni effetti squillanti; ecco poi all'improvviso un suono suadente, sul quale si stagliano vocals melodrammatiche e narrative, coniugate egregiamente con gli arpeggi di chitarra. Un montante epico prende piede, dilungandosi con i suoi toni più serrati, collimando in un ritornello pulsante dal groove distorto e dalla batteria be presente; esso va poi ad infrangersi verso una nuova cesura lenta e pacata, dove la voce di Davis si arricchisce di filtri. Riecco quindi il crescendo precedente, andando poi a riproporre il ritornello dalla metrica compulsiva; ora passiamo a parti grevi ad accordatura bassa, le quali implodono in una sessione tribale concitata. Seguono poi fraseggi stridenti, alternati con la cavalcata di toccata e risate; un songwriting più decisamente più vario della media, che proporne anche vocette in farsetto in un atmosfera per l'ennesima volta acida ed onirica. Motivi taglienti si delineando in sottofondo, fino all'esplosione del ritornello ossessivo, il quale viene alternato a suite lounge dal gusto quasi jazz, con drumming cadenzato ed accordature basse; fischiettii completano il quadro, degenerando in una chiusura cosmica che richiama il fieldrecording, e la quale s'inoltra con sapore sperimentale nel brano successivo. Dei Korn che qui osano un po' di più, ottenendo buoni risultati e continuando la sequenza più positiva fin'ora incontrata.; il fatto che qui non si cerchi di scimmiottare il passato, la dice lunga sulla vera natura dei Nostri, anche se loro per primi sembrano essersela dimenticata. ll testo tratta del tormento della mente tediata da pensieri malsani ed ossessioni dovute alla vita ed alle sue difficoltà: l'odio è intorno a noi se riusciamo a vederlo, qualcosa sta succedendo e le dita puntano proprio verso di noi. E' come se l'esistenza intera ci accusasse, ritenendoci colpevoli di tutte le nostre paure e fallimenti. Come se noi fossimo i responsabili, e non una vita che sembra far di tutto pur di mettere in difficoltà le proprie creazioni, i propri figli. "The lying, The cheating, The hellish nights alone, While I am weeping, Just searching Love is never around, All the waiting, Betraying, The one thing I hold sacred in my life is left hanging, And I'm never around - Le bugie, I tradimenti, le notti infernali da solo, mentre piango, cercando l'amore chenon c'è mai. L'attendere, il tradimento, l'unica cosa che considero sacra nella vita è appesa ad un filo, e io non ci sono mai", continua il testo, mentre capiamo che solo lasciando andare ogni pensiero negativo saremo davvero liberi, cercando di godere di quanto di positivo abbiamo ricevuto, uccidendo il malessere alla base. Se rigiriamo al cosa e ci guardiamo dall'alto, capiamo cosa succede: stanchi degli altri, ma non di noi. Vengono ripetuti i versi precedenti, in un lungo testo ripetitivo come da stile dei Nostri, dove più che una narrazione lineare, abbiamo un flusso di coscienza distorto dalla rabbia e dal dolore.
Are You Ready To Live?
"Are You Ready To Live? - Sei Pronto A Vivere?" ci incontra con un roboante riffing in pieno stile della band, completato da suoni stridenti; ecco al interventismo secondo il cantato greve di Davis, sottolineato da chitarre spezzate nella sua metrica scomposta e da suoni drammatici appena percettibili. Si crea quindi un ritornello tribale reiterato grazie a batteria a rullanti e chitarre dissonanti; una cesura malevola da arie acide, presto violate da alternanze con il trittico di chitarra, voce, batteria. Un'atmosfera nervosa e malata domina il tutto, pur non risparmiandoci una sezione teatrale con voce in farsetto di Davis, la quale cerca di catturare l'essenza del passato; intanto chitarre e drumming salgono d'intensità orchestrale, dando manforte al cantato sempre più impostato sul dramma, con tanto di versi disperati, i quali risultano un po' comici. Il crescendo è costante, pur non esplodendo, ma bensì portandoci a suoni ancora una volta stridenti ed acidi, sui quali riparte il ritornello; riecco poi strane parti con sola batteria, cantato in bella mostra, sospirante, ed arpeggi delicati, le quali proseguono fino alla conclusione. Un pezzo che passa abbastanza in fretta, mostrando spunti buoni e parti ben suonate, ma anche alcuni dei difetti appartenenti ai brani della prima parte; non insomma un punto alto, ma nemmeno uno dei peggiori. Il testo tratta dell'errore del vivere per gli altri, spingendoci quindi a vivere solo per noi stessi, non fingendo mai con nessuno. Mai annullarsi per una persona, per quanto cara essa possa rivelarsi. Dobbiamo esser capaci di mantenere in tatto il nostro mondo, la nostra coerenza, pensare prima di tutto a prenderci cura di noi stessi; per poter, di conseguenza, aiutare chi poi verrà a chiederci ascolto o consiglio. Essere sicuri di ciò che siamo e non di quel che sono gli altri. Sappiamo cosa essi pensano, sentiamo il respiro e le grida altrui.. ma quante volte, queste ultime, sono delle reali richieste d'aiuto? Quante volte provengono da una persona realmente bisognosa, quante volte non si riveleranno delle esche lanciate ad hoc per ingannarci? La nostra mente ci fa scherzi, non possiamo controllarla, essa è colpita dalla falsità intorno a noi. E' da non credere, testiamo sempre tutto quel che ci si avvicina, facendo scattare il nostro istinto di sopravvivenza. "Let me tell ya something, This shit is beaming, It won't leave me alone, My disease, I'm missing, You think you feel me, You think you know me, 'Cause I'm the hell in your head - Lascia che ti dica una cosa: questa merda rimbalza, non mi lascia in pace. La mia malattia.. sto perdendo, credi di sentirmi, di conoscermi, perché sono l'inferno nella tua testa" prosegue il testo, mentre subito dopo viene ripreso il verso precedente. Nel finale ci viene chiesto varie volte in modo ossessivo se siamo pronti a vivere, negandolo, ma anche affermando che stiamo sprecando tempo, in un contraddittorio monologo. Ennesima manifestazione del dissidio mentale che domina la mente di Davis.
Holding All These Lies
"Holding All These Lies - Mantenendo Tutte Le Bugie" segue la linea precedente, con un'introduzione di batteria ritmica e giri circolari, la quale passa a suoni sincopati; naturalmente interviene Davis, incastrandosi tra le chitarre frammentate, mentre poi asperità dissonanti introducono il ritornello arioso giocato su voce e suoni melodici. Si riprende di seguito dopo una breve pausa con l'andamento precedente, il quale mantiene il cantato lascivo tipico del Nostro; si ripropongono, abbastanza scolasticamente, le evoluzioni precedenti, con ritornello arioso e cesure ritmiche con rullanti. Questa volta segue poi un arpeggio delicato con disturbi improvvisi e voce supplicante; ecco poi una marcia di chitarra dai fraseggi graffianti e dissonanze "psichedeliche" in sottofondo. Gli elementi conoscono un crescendo il quale collima in un suono acido, presto rimodulato sulle coordinate dei cori sentiti ormai familiari; troviamo poi melodie trascinanti e voce disperata, in un songwriting ben elaborato, giocato sull'unione di cantato disperato e musica evocativa. Si continua in loop su queste direttive, fino all'improvviso finale dove le grida lasciano posto a distorsioni e feedback, seguite da un Davis piangente in studio (sull'autenticità del tutto non possiamo mettere la mano sul fuoco); altro pezzo sui generis che scorre senza intoppi, ben suonato, ma che non sorprende nemmeno. Il testo tratta del distruggere chi si ama tramite le menzogne, cosa che purtroppo capita a tutti prima o poi nella vita; chiediamo se davvero gli altri vogliono vedere, non possiamo più sopportare, gli altri sono ingenui e noi siamo nulla, siamo disgustosi e molto altro. Mantenendo tutte le bugie dette sentiamo di aver rovinato l'altra persona, il morire è un processo che abbiamo atteso, questo è il momento per il dolore e la verità; "Do you really want to see the Torment, hatred of this world, Hand in a book and I believed it All it brought me was pain and more - Davvero vuoi vedere il tormento, l'odio per questo mondo, ho messo la mano su un libro e ci ho creduto. Mi ha portato solo dolore ed altro." prosegue il testo, ripetendo poi tutti questi versi molte volte fino alla conclusione, dove dichiariamo di non aver mai voluto far del male, come in una confessione piena di colpa.
Bonus Tracks: Trapped Underneath The Stairs
Le tre tracce bonus partono con "Trapped Underneath The Stairs - Intrappolato Sotto le Scale" e con I suoi fraesggi squillanti, I quali sia accompagnano poi al cantato sincopato di Davis e alle arie spettrali in sottofondo; ecco di seguito un crescendo di rullanti di batteria, il quale trova sfogo in un ritornello standard con bordate circolari e cori melodici filtrati in studio. Riprende quindi l'andamento graffiante, riproponendo quanto vissuto poco prima; riecco quindi il crescendo con ritornello pulsante, riportando in gioco chitarre ad accordatura bassa e cantato settimo. Seguono asperità stridenti, le quali creano un groove claustrofobico; esso si ferma con suoni "dirge" e parti vocali striscianti e sospirate, completate da suoni tetri. Ecco che poi il cantato si fa ossessivo e in semi-growl pieno di effetti, mentre anche le chitarre si dedicano a fraseggi più presenti; si torna poi ai suoni cerimoniali, violati però da una distorsione, seguita dalla ripresa dei ritmi spezzati e delle urla. Si ristabilisce il ritornello familiare, il quale prosegue con suoni ed effetti in sottofondo; esso prosegue fino alla conclusione del brano affidata ad una ripetizione vocale. Il testo tratta di sentimenti di alienazione e "colpa", quest'ultima scaturita paradossalmente dall'essere diversi dagli altri. Siamo come affogati e sedati, aspettando pazientemente che la nostra mente si calmi, abbiamo paura di essere odiati perché siamo amareggiati, scottati, abbiamo accumulato un background di esperienze negative non indifferente. Siamo diversi, in qualche modo, da tutti. Intrappolati sotto le scale, affrontiamo le paure costantemente, ed è una cosa allo stesso tempo silenziosa e rumorosa. Siamo chi siamo, e non possiamo farci nulla, cerchiamo di nasconderlo, ma la nostra reale essenza continua a risultare; sentiamo che il mondo è diverso per noi, rispetto agli altri, ricordiamo chi siamo e non possiamo farci nulla. "I'm constantly debating why I'm always playing, Walking around with my head down I don't want to be like anyone, What the fuck could I have done? To deserve this terror somehow - Sto sempre a discutere con me stesso sul perché faccio sempre finta, andando in giro a testa bassa. Non voglio essere come gli altri. Che cazzo posso aver fatto, per meritare questo?" continua il testo, ripetendo poi i versi precedenti, ricordando poi che non possiamo nascondere quello che siamo. Anche se cerchiamo di reprimerlo torna su, siamo noi il nostro problema, e le medicine hanno smesso di funzionare da tempo; siamo sempre intrappolati in noi stessi.
People Pleaser
"People Pleaser - Servo Delle Persone" ci accoglie con arpeggi squillanti presto però sostituiti da montanti circolari e chitarre spettrali; un fraseggio tremolante fa ad cesura, unendosi poi al cantato disperato di Davis, il quale evoca efficacemente il passato, e a ritmi funky di chiaro sapore vecchio stile per i Nostri. Ecco l'inevitabile ritornello con cantato altisonante e suoni ossessivi di chitarra; riprendiamo poi con l'andamento precedente, dove il cantante non risparmia interpretazioni melodrammatiche e tutto l'armamentario che già conosciamo. Riprende quindi il ritornello tipico, questa volta completato d a dissonanze squillanti, seguite da arpeggi languidi e ritmica sospesa, in una sorta di sezione di raccoglimento; naturalmente l'esplosione seguente non ci sorprende, seguendo il modus operandi della band in modo abbastanza standard. Largo quindi a bordate e cantato sincopato di Davis dal piglio folle, così come a chitarre stridenti; torniamo di seguito ai fraseggi con farsetto, e al ritornello ossessivo con chitarre diafane. Esso si protrae a lungo con la ripetizione dei suoi motivi; ecco quindi uno stop con bordate graffianti, il quale segna un falso finale: esso lascia posto ad un fraseggio seguito da campionamenti vocali e feedback, il quale sale d'intensità con suoni quasi "kraut" e tribali, generando una coda oscura. Al contrario delle aspettative, il tutto prosegue a lungo in loop, sorprendendoci tutto sommato con una seconda metà di pezzo atipica, la quale richiama prepotentemente le inflessioni sperimentali del disco precedente; in conclusione si aggiungono disturbi elettronici i quali chiudono il pezzo, lasciano posto ai feedback nella chiusura. Il testo tratta del voler sempre accontentare i bisogni e le aspettative altrui, finendo per dimenticare dei nostri, morendo dentro. I nostri meccanismi vanno al contrario, ponendoci in una posizione subordinata ai capricci e alle volontà altrui. Un meccanismo che si alimenta girando sempre, e il nostro cuore a volte non regge, sanguinando fino a rompersi. Chiediamo come mai nessuno può dirci che cazzo succeda, perché non ci amiamo l'uno con l'altro, continuando a deludere gli altri. Perché non riusciamo mai a fare la cosa giusta, perché nessuno ci apprezza nonostante tutti ci cerchino per far questa o quella cosa. Ora scopriamo che è difficile vivere la propria vita, accontentando tutti.. mentre siamo morti dentro. Ci svegliamo non respirando, aggrappandoci alle coperte in modo stretto, chiedendoci che cazzo ci succeda, e capendo che non possiamo vivere così, cerchiamo in qualche modo di porre rimedio. Vengono ripetuti i versi precedenti, arrivando al punto di credere che gli altri vogliano portarci al punto di morire. "Oh my god can't take this shit, Feeling like a lunatic, Holding your problems, inside my hand, Holding motherfuckin' shit, feeling like a lunatic, A place for your bullshit to hide - O Dio mio, non ne posso più di questa merda, mi sento pazzo mentre tengo i tuoi problemi nella mia mano, tenendo della fottuta merda, sentendomi come un folle.. un luogo dove nascondere le tue cazzate." prosegue il testo, continuando poi con la ripresa dei testi; un nuovo monologo interiore che riporta al dissidio interno del narratore.
Blind
"Blind - Cieco" è la versione live del classico tratto dal primo disco dei Nostri; d è forse la vera nota dolente, mettendo a confronto forzato il suono delle origini, e la sua ripresa odierna. Ecco in apertura piatti martellati in modo cadenzato, mentre accenni di riff fanno la loro comparsa tra le esultanze del pubblico; si continua a lungo così, alzando le aspettative, fino al minuto e cinque, dove si aggiunge un arpeggio greve, seguito poi da riff cavernosi. Alla fine il tutto si unisce con un grido di Davis, scatenando il groove sincopato familiare per qualsiasi fan del gruppo; suoni squillanti ed acidi prendono posto, mentre la voce non proprio in forma del cantante ripete il testo. Segue il ritornello dalle scariche di chitarra, presto violato dall'andamento precedente, mentre Davis gioca in botta e risposta con il pubblico; si scatena poi il cantato schizzato, il quale però manca dell'energia dell'originale. Si ripetono quindi con ossessione i versi del ritornello, seguendo senza grosse sorprese la struttura originaria, fino alla conclusione ritmata che incalza fino alla chiusura; qui abbiamo qualche esercizio di stile tra suoni squillanti ed attacchi di batteria martellanti, seguiti dai ringraziamenti di Davis. Una ripresa che lascia un po' un sapore amore, con una band che esegue il tutto senza grande coinvolgimento e con un'energia, come detto, ben diversa dagli albori. Il testo tratta della dipendenza da anfetamine, e dalle sostanze in generale, problema che ha caratterizzato per molto tempo la vita di Davis, già in giovane età. Si parte con i versi "This place inside my mind, a place I like to hide, You don't know the chances. What if I should die?! A place inside my brain, another kind of pain, You don't know the chances. I'm so blind! - Questo luogo nelle mia mente, dove mi piace nascondermi.. non sai in quante occasioni. E se dovessi morire?! Un luogo nel mio cervello, un altro tipo di dolore.. non sai in quante occasioni. Sono cieco!", i quali mettono in chiaro lo stato mentale del Nostro, influenzato pesantemente dalle sostanze. E' un altro luogo, quello della dipendenza, in cui il cantante fugge per sfuggire al dolore. Un luogo nel quale sprofonda sempre più come in un sogno, vivendo una vita che sembra una realtà perduta. Una discesa talmente profonda che Davis sembra aver perso contatto con la sua vera esistenza, non riuscendo più a raggiungere il suo vero io. La sua autostima è bassa, e si chiede fino a che punto potrà sprofondare ancora più in giù, e se troverà un modo per andare oltre le nuvole grigie che coprono la sua mente. Non riesce però a vedere, accecato dalla dipendenza; un tipico esempio dei testi dei Korn prima scuola, brevi e descrittivi, basati su ripetizioni di ritornelli disperati e temi di alienazione, dipendenza, distacco da sé stessi e da tutto.
Conclusioni
In definitiva, "Korn III.." non risulta certo essere l'apice creativo per i Nostri, i quali sembra quasi si siano (da soli) rinchiusi in un cerchio nel quale loro per primi non sono del tutto convinti di voler più stare, cosa dimostrata dalla mancanza di energia e dai molti pezzi poco elaborati, uniti a qualche singolo più efficace e sentito. Il problema è che la formula è fin troppo evidente, messa in mostra più e più volte, seguendo uno schema preciso dove colpi di basso, sospiri e grida si susseguono senza grosse sorprese. Il gusto per il ritornello dei tempi recenti non scompare, dandoci dei singoli che rimangono in testa, ma anche vari episodi tedianti dove in realtà quelli che erano gli elementi del primo suono dei Korn vengono depurati di vari aspetti originali (niente cornamuse o cantato veramente pesante) in nome di un approccio commerciale che vuole solo un'immagine del vecchio suono del gruppo, spoglio della sua reale essenza. Sia le vocals, sia gli strumenti, non risplendono mai, e anche la produzione di Robinson, una volta capace di sottolineare suoni grevi e ritmi funk, è ora standard e porta tutto allo stesso livello; l'utilità del disco sta forse nel ricordarci ( e nel ricordare alla band) perché ormai non fanno più la musica degli inizi, e quanto il solo modo per andare davvero avanti sia trovare ispirazione in altro. Quando l'amore finisce, è altamente difficile che esso torni a comando, soprattutto dopo anni passati a frequentare ben altri lidi. E questo vale sia nel personale, sia nella musica: ormai, con conti in banca robusti e piccole tragedie personali da ricchi occidentali (tra litigi in casa ed astio verso manager e pubblicitari) alle spalle, i Korn non sembrano più potersi raccapezzare con quel che furono molti anni prima. Le tendenze adolescenziali e la millantata furia anti-sistema, nonché l'ormai trito cliché dei riferimenti all'abuso verso i minori, suonano tanto fuori tempo e senza base reale quanto i tentativi di basare tutto solo su basso, chitarra e batteria. Commercialmente parlando, però, la cosa funzionò abbastanza bene: il disco debuttò in classifica in alte posizioni, forse anche grazie alla massiccia pubblicità sul ritorno alle origini, mentre per ironia della sorte i singoli, probabilmente i pezzi migliori del lavoro, non vennero di molto considerati, facendo addirittura decidere alla "Roadrunner" di presentarne solo due. I Nostri colsero però l'occasione del successo commerciale andando in tour con altri nomi del passato nu metal americano, sopravvissuti all'ondata metalcore, tra cui Disturbed e Sevendust, stabilendo ancora una volta la loro identità di band che, se non più consacrata dalla stampa mondiale, era comunque lungi dall'aver perso ogni fan o possibilità di rendita. Se consideriamo tutto questo, la scelta che avverrà da lì a poco di pubblicare un lavoro in collaborazione con varie realtà dubstep ed EDM non è così scontata, ritornando alla vena sperimentale che ormai caratterizza i Nostri dall'inizio del nuovo millennio; ed ancora una volta, tra alti e bassi, non si tratterà di un suicidio commerciale, pur con tutta la critica non certo favorevole. Un nuovo espediente che indicò come quanto, in ogni caso, sappia tutt'oggi fare le scelte giuste del momento. Insomma, la carriera dei Korn continua con "The Path Of Totality", abbracciando le tendenze del secondo decennio degli anni duemila, su una direzione che dura ancora oggi; direzione forse dovuta, per contrasto, anche a quanto qui analizzato.
2) Oildale (Leave Me Alone)
3) Pop A Pill
4) Fear Is A Place To Live
5) Move On
6) Lead The Parade
7) Let The Guilt Go
8) The Past
9) Never Around
10) Are You Ready To Live?
11) Holding All These Lies
12) Bonus Tracks: Trapped Underneath The Stairs
13) People Pleaser
14) Blind