KORN
Follow the Leader
1998 - Immortal/Epic
DAVIDE PAPPALARDO
04/09/2017
Introduzione Recensione
Prosegue la nostra disamina sulla discografia della band cardine del fenomeno nu metal, uno dei movimenti musicali che più hanno caratterizzato la fine degli anni novanta e gli inizi degli anni duemila; parliamo naturalmente dei Korn, capitanati nel 1998 da Jonathan Davis (voce), Head e Munky (chitarre), Fieldy (basso) e David Silveria (batteria), il gruppo che ha fatto esplodere nel mondo tale genere proprio con il disco qui recensito: "Follow The Leader - Segui Il Capo". Infatti, se è vero che il crossover ed i suoi derivati sono ormai, dalla fine degli anni ottanta, una realtà decisamente presente in ambito underground e alternativo, rimane il fatto che per la maggioranza delle persone la fusione di rap, hip hop, elettronica, metal urbano e tendenze hardcore sia qualcosa di sconosciuto. Un substrato musicale, ma anche sociale e culturale in America, pronto ad esplodere e raggiungere uno status che perdurerà per circa tre anni, portando alla nascita di un numero sconvolgente di band, molte morte nel giro di un disco, e passaggi radiofonici e su canali musicali che, fino a poco tempo prima, mai avrebbero mandato durante il giorno qualcosa con anche solo un riff appena più pesante o distorto. Naturalmente, dietro le quinte, le cose si muovono già da un po' di tempo: un anno i prima i Limp Bizkit (futuri discepoli e poi nemici-amici dei Nostri) hanno pubblicato il loro debutto: "Three Dollar Bill, Y'all", ed i Korn stessi nel 1996 hanno incominciato a comparire sulla bocca di diverse persone e ad avere posti alti nelle classifiche dedicate grazie a "Life Is Peachy, mentre i Faith No More, padri spirituali del movimento, portano in tour con loro i già citati Limp Bizkit, anche se non proprio con il benestare della band stessa, come testimoniato anni dopo in alcune interviste. C'è poi molto, molto altro di cui parlare, se veramente vogliamo capire cosa rappresentano questo disco, questo anno, e quello che accadrà da li a poco; gli anni novanta hanno visto un'ondata di cinismo culturale che ha investito la musica, la filmografia, l'arte, una risposta all'opulenza ostentata degli anni ottanta, ed allo stesso tempo un continuo ed uno sviluppo della contro-cultura di quegli stessi anni. Il grunge, l'alternative, l'industrial metal/rock, l'elettronica più acida e lisergica, il sarcasmo più nero, l'incontro-scontro tra culture costrette a vivere assieme nei ghetti americani e per le strade di Los Angeles, tra quella hip hop e quelle metal, hardcore, punk, i contrasti reali tra le varie comunità etniche che sfociano anche in violenza, i problemi esistenziali in una società sempre più cosmopolita, ma allo stesso tempo isolante e fredda, portatrice di schizofrenia e malessere. Uno "Juggernaut" culturale che non può non avere vari epigoni, tra cui appunto il disco che stiamo analizzando; screech, cantato in rima sincopata, vestiti larghi, atmosfere urbane sature e languide, elettronica notturna e liquida incontrano chitarre ad accordatura bassa, batteria incalzante, cantato aggressivo e punte di growl, senza dimenticare le cornamuse, tocco personale che caratterizza spesso la band in quegli anni. Chi già ha presente i lavori precedenti non si ritroverà disorientato, ma basta dare un ascolto all'album per capire come mai proprio quest'ultimo sia stato il cavallo di Troia nel mondo mainstream: il songwriting si fa più diretto e concentrato, pur senza eliminare la ferocia di fondo e la rabbia schizofrenica di Davis, che anzi sarà uno degli elementi più affascinanti per un nuovo pubblico fatto per la gran parte da adolescenti arrabbiati e disagiati, gli elementi hip hop vengono messi ancora più in rilevanza anche grazie ad ospiti quali Ice T e slimkid3, i ritornelli sono più incalzanti ed entrano in testa. Aggiungiamo una promozione ferocie su canali televisivi con video di prestigio che puntano su elementi culturali cari al proprio target (si pensi a "Freak On A Leash" con il suo video prodotto da Todd McFarlane, padre di Spawn, fumetto simbolo degli anni novanta, mentre il suo collaboratore Greg Capullo sarà autore della copertina del disco), e per contrasto il mondo musicale di allora saturo di boy band e pop star destinate a bruciarsi nel giro di poco tempo, e la ricetta è pronta per qualcosa di nuovo che farà subito presa tanto sugli ascoltatori, quanto sulla stampa sempre attenta verso i nuovi fenomeni da incensare. Detto questo, il lavoro si colloca all'interno della discografia del gruppo come parte di una quadrilogia" ideale, capace di definire i suoni e i modi del nu metal, completata con il successivo "Issues", e quindi sono inevitabili i confronti ed i collegamenti con il debutto, il secondo lavoro, ed il quarto qui appena citato; siamo nella fase della fioritura, quanto piantato qualche anno prima ha ora completa emanazione e riconoscimento, ed i Korn sono pronti per conquistare il mondo. Seguiamo quindi i toni teatrali e disperati di Davis, le chitarre in loop di Head e Munky, il basso greve di Fieldy e la batteria cadenzata di Silveria in un lavoro cardine per la storia della musica.
It's On!
"It's On! - Eccoci!" parte con un suono vibrante, destinato poi a dare spazio ad una batteria cadenzata, raggiunta da arpeggi spettrali e chitarre grevi dai fraseggi striscianti; ecco ora un verso di Davis, seguito da riff in loop delineati da effetti squillanti. Toni languidi di matrice hip hop fanno da sfondo alle declamazioni del Nostro, intento a raccontarci come gli eccessi, l'alcool, le donne, le feste, non fanno altro che aggravare i suoi problemi: ci dice che dobbiamo salvarne un po' per lui, è quello che gli piace, lui "vuole giocare, e sappiamo che è tempo per questo". Qualcosa ci chiama, e non possiamo smettere di cadere, eccoci qui. I suoni notturni e malevoli si prodigano in evoluzioni in crescendo, destinate a portarci verso nuove sequenze grevi, un ponte verso il ritornello epico ed arioso; ora dobbiamo capire che è colpa sua, mentre gli angeli lo pugnalano dentro, nulla cambia, semplicemente si adatta al momento. Effetti elettronici fanno da cesura, e di seguito torniamo sulle coordinate serpeggianti, dove le vocals del cantante passano dal lascivo al disperato nel giro di pochi secondi: una volta che ci nascondiamo dentro, che cosa possiamo combattere? Non possiamo mai sconfiggere noi stessi, e questo non ci piace. Qualcosa ci chiama, "ma non possiamo smettere di cadere": ritroviamo i passaggi precedenti, i quali esplodono di nuovo nel ritornello trascinante ed evocativo, pieno di pathos e movimenti emotivi. Un arpeggio sottile fa da cesura, completata da voce sospirata: "This time. This... time. For me, inside. Put me inside. Hold me, this time. Put me inside. Come on! It's on! - Questa volta. Questa...volta.Per me, dentro. Mettimi dentro. Tienimi, questa volta. Mettimi dentro. Avanti! Eccoci!" declama il testo, coadiuvando l'ultima sequenza dai giri aggressivi e dalle grida rauche, terminate da un'esclamazione in solitario; un episodio che mette bene in chiaro la natura del disco, tra movimenti diretti, istanze urbane e parti ariose che sanno di liberazione.
Freak On a Leash
"Freak On A Leash - Lo strano Al Guinzaglio" ci accoglie con un fraseggio squillante e terso, dalle atmosfere sulfuree e tese; esso si dilunga fino ad uno stop in cui Davis viene introdotto da una parte parlata, mentre tratta della realtà dell'industria musicale e del sentirsi al guinzaglio, controllati da essa, e sfruttati mentre vengono fatti soldi sulle proprie spalle. Qualcosa ha preso una parte di noi, qualcosa di perduto e mai visto, ed ogni volta che incominciamo a credere, qualcosa viene strappato e preso da noi. Nel frattempo il loop creatosi prosegue nelle retrovie, costante ed ossessivo, pur nella sua pacatezza quasi sfrontata: "Life's got to always be messing with me. You wanna see the light. Can't they chill and let me be free? So do I. Can't I take away all this pain? You wanna see the light. I try to every night all in vain, in vain. - La vita deve sempre fregarmi. Vorresti vedere la luce. Non possono calmarsi e lasciarmi essere libero? Come faccio io. Non possono portare via tutto questo dolore? Vorresti vedere la luce. Ci provo ogni notte, inutilmente, inutilmente." continua il testo, alternando il cantato normale con parti filtrate dal sapore lisergico ed estraniante, esprimendo uno stato di disperazione e disagio palpabile, l'idea di non sentirsi libero e di non essere in pace. Riff grevi e vocals nasali ci prendono per mano, portandoci verso il ritornello esaltante: a volte non possiamo prendere questo posto, a volte non possiamo sentire la nostra vita, a volte non possiamo sentire la nostra faccia, ma non ci vedranno mai cadere in disgrazia. Qualcosa ha preso una parte di noi, noi e l'altra persona "non eravamo destinati ad essere, se non una semplice scopata momentanea"... ci sentiamo come uno "strano al guinzaglio", sentendoci come se non avessimo uno sfogo, e ci chiediamo quante volte ci siamo sentiti morti, vogliamo vedere la luce, ma nulla nella nostra vita è gratuito. Troviamo versi sincopati e folli, sottolineati da suoni dissonanti e fraseggi serrati: lo scopo è quello di esplodere in un movimento roccioso con rime aggressive e punte gutturali. Dobbiamo lottare per qualcosa, è questo che viene ripetuto ora dal cantante; ci ritroviamo quindi ancora nel ritornello, protratto fino al raggiungimento di una coda ariosa con tanto di effetti cosmici e chitarre dissonanti, parte finale del brano.
Got The Life
"Got The Life - Vita Presa" inizia con un bel motivo di chitarra incalzante e strutturato da cimbali ritmati di batteria, un andamento che va continuando, fino ad infrangersi contro una cesura greve, la quale poi prosegue tra chitarre squillanti e le vocals di un Davis altisonante e diviso tra parti languide e asserzioni; egli tratta del peso della fama, e del chiedersi se ne vale la pena, nonostante i vantaggi pratici ed economici che essa porta. L'odio, a volte, in qualche modo, prende a calci la porta, il nostro è qualcosa dentro, non lo seguiremo nemmeno. Chiediamo qualcosa di vero, non seguiremo nemmeno la cosa, ma ci prepariamo... Scosse hip hop con parti vocali pesantemente trattate si fanno strada nel songwriting, dando al tutto una punta sperimentale; con l'odio ci sentiamo fregati ancora, ed è dovuto alla merda che abbiamo dentro, e dora tutti seguiranno. Ci viene dato nulla, se non il sentire. L'atmosfera acida sale di tensione, trovando sfogo naturale nel ritornello epico e robusto, giocato ancora una volta su cori trascinanti ed aperture ariose: Dio pensa che non vedremo mai la luce, e ci chiediamo chi vorrà vedere, Dio ci dice che abbiamo già la vita. Chitarre ossessive e falsetto sognante dominano la scena, fino al ritorno verso linee ben più sfumate e nervose; un basso che suona come un disturbo sottintende una sessione cadenzata con vocals sospirate e chitarre arpeggiate dal gusto notturno: "Each day I can feel it swallow, inside something they took from me. I don't feel your deathly ways. Each day i feel so hollow, inside I was beating me, You will never see, so come dance with me. Dance with me - Ogni giorno posso sentire che ingoia, dentro c'è qualcosa che mi è stato preso. Non sento i tuoi modi mortali. Ogni giorno mi sento così vuoto, dentro mi distrugge. Non lo capirai mai, quindi vieni a danzare con me. A danzare con me." declama ora il testo, dipingendo visioni disperate di vuoto interiore e mancanza di speranza. Si degenera in suoni sempre più caotici, aggiungendo versi squilibrati, ma non ci sorprende il fatto che il tutto collimi nuovamente nel ritornello ispirato, un vero e proprio climax tanto musicale, quanto emotivo. Ora il movimento si protrae fino al raggiungimento di ripetizioni vocali stagliate su una ritmica ossessiva; il gran finale prevede chitarre dissonanti in solitario, summa del discorso musicale e narrativo qui affrontato.
Dead Bodies Everywhere
"Dead Bodies Everywhere - Corpi Morti Ovunque" parte con un tamburo pulsante, seguito da suoni elettronici vorticanti ed una melodia da carillon tra il dolce ed il sinistro; essa va ad infrangersi contro un riffing improvviso, una vera e propria scarica graffiante e risoluta, strutturata da un drumming cadenzato. Ora ci blocchiamo su suoni diafani, mentre Davis tratta con fare sospirante delle sue esperienze come assistente in un obitorio, e contemporaneamente della volontà di suo padre, il quale non valeva che il figlio entrasse nel mondo del music business, che conosceva molto bene. Ci invita a venire dentro e vedere, dicendo quello di cui necessitiamo, ci viene chiesto qual è la nostra visione, e cosa ci aspettiamo, mentre non possiamo credere a quella bugia. All'improvviso tutto si alza, tra riff circolari ruggenti e grida appassionanti e sdoppiate, metro di paragone epr un malessere esistenziale vivo e reale: Siamo stati malati, diciamo a nostra madre, con un padre folle, affrontando la vita, con corpi morti ovunque. Ci viene chiesto perché vogliamo essere dei bravi figli, facendo sentire gli altri come nessun altro. Montanti grevi e perversioni vocali malevole s'intersecano tra di loro, ma all'improvviso ci ritroviamo nell'atmosfera strisciante di poco prima: "Let me strip the plain, let me not give in.Free me of your life, inside my heart dies. Your dreams never achieved, don't lay that shit on me. Let me live my... life. - Lascia che io spogli l'evidenza. Non farmi arrendere, liberami dalla tua vita. Il mio cuore muore dentro. I tuoi sogni non realizzati, non addossare a me questa merda. Lasciami vivere la mia...vita" ci narra ora il testo, mostrandoci un sentimento di libertà richiesta, di volersi allontanare da una vita che non è propria. Ancora una volta al tumulto segue la quiete, in questo caso rappresentata da temi vagamente ambientali ed il ritorno della melodia iniziale di carillon; un fraseggio stridente soppianta il tutto insieme a giri arpeggiati di basso e versi in sottofondo: un crescendo improvviso ci trascina di seguito in una bella sequenza siderale con loop dissonanti e drumming incalzante, sulla quale Davis ripete come gli altri vogliano che noi fossimo qualcosa che non potremmo mai essere. Si ripete ancora il ritornello, una cantilena minacciosa nella sua apparente tranquillità, destinata a degenerare nella ripetizione ossessiva del titolo del brano; il finale è lasciato ad una digressione completata dall'ultima comparsa del carillon, in una chiusura che rimanda all'inizio.
Children Of The Korn
"Children Of The Korn - Figli Dei Korn" vede la partecipazione di Ice Cube, ed inizia con una ritmica rap sulla quale abbiamo parti in rima e duetti con un Davis malevolo e dal recitato quasi maligno; le due voci parlano dei fan della band, ed anche di quelli dell'ospite del pezzo, in particolare delle reazioni dei loro genitori verso la loro musica, considerata solo rumore. Chiediamo l'attenzione di tutti i genitori, chiedendo di andare dall'analista locale, nella chiesa, e nel dipartimento di polizia, perché tutto sta crollando. In sottofondo il songwriting si mantiene ibrido e schizofrenico, tra carrarmati fatti chitarre ed elementi urbani. Guardando negli occhi di suo figlio, Davis rivela un vuoto che abbiamo sentito nel giorno, ed ecco che si parla di come tutto sia follia, e di come tutto riguardava la figa, come ottenerla, ma una ragazzina come noi, non l'ha mai gradito. Chitarre grevi ed aperture sincopate si alternano in una struttura minimale, ma potente, accentuando i giochi di aggressività e dilatazione; fumando nei vicoli e facendo casino con una doppia pompa, portiamo i nostri uomini con noi ad una festa, un doppio viaggio, e festa, con hardcore, ragazzine e troie da scopare. Sfidiamo a prenderci con il cazzo in mano, siamo in forze, la generazione xxx che pensa solo all'erba, a fumare e fare sesso perverso. Ice Cube ripete come non sita scherzando, e chiede di smetterla di non prenderlo sul serio, ed è così che arriviamo al ritornello dominato proprio dal rapper, sottinteso da riff oscuri ed atmosfere piene di tensione: "And the children are born. Your feeling through me, I, I We're the children of the Korn. Cos a bag of my life Then I got it, so far. It's open day like me. Insanity Go figure, once a fag Now a player baptised and born, and the Children of the Korn. - Ed i figli sono nati. Il tuo sentimento mi attraversa, a me, a me, siamo i figli dei Korn. Perché è una parte della mia vita. E sono arrivato fino a qui, fino ad ora. E' un giorno aperto come me. La follia sistema tutto, una volta un finocchio, oggi un vincente fatto e finito, insieme ai figli dei Korn" declama il testo, esprimendo un senso di unità con i propri fan, e l'idea di essere arrivato anche grazie a loro. Ritornano i motivi precedenti, tra paesaggi lisergici portati avanti da Davis e rap nervoso in sottofondo da parte di Ice Cube, dandoci la cifra di un ibrido che è una dichiarazione d'intenti in merito al suono dei Korn e alla loro cultura, non solo musicale, di riferimento. Siamo i primi nati, che l'autorità si fotta, colpiamo il culo altrui con la nostra calibro quaranta, e se l'altro ci vedrà dopo scuola, sarà meglio che corra alla macchina. Buffone della classe, già sa di essere una star, i nostri figli dei Korn sono nati dal porno e modi deviati, ora sembriamo sconvolti, seduti in un labirinto, in una confusione color porpora, ed è meglio che ci controllino il polso, perché nulla sembra passare. In tutto questo torna il ritornello oscuro, sempre presentato da un Ice Cube combattivo accompagnato da chitarre grevi e sature. Una cesura hip hop vede monotonie elettroniche e loop vocali, con un gusto decisamente anni novanta; Davis segue poi il ritorno dei riff dissonanti esprimendo la sfiducia da parte dei genitori dei suoi fan nei suoi confronti, ed ecco che Ice Cube parla di come ci chiediamo cosa ci diranno dove fare skate, chi frequentare, come scopare, baciare, chi amare, chi criticare. Ci viene detto come vivere, che qualcosa deve cedere, o i figli o i genitori, e non saranno i figli. Diciamo stronzate perché la vita è una stronza, e sappiamo che lo è, tutti cercano di diventare ricchi, tutto quello che vogliamo fare è vivere. Quest'ultimo concetto viene ripetuto ad oltranza con una voce sospesa sul clima sincopato, organizzando una coda finale strisciante e funky, portata avanti fino alla conclusione del pezzo, segnata da un "BITCH!" di Ice Cube in bella mostra.
B.B.K.
"B.B.K." parte con un suono vorticante di chitarra, presto però sostituito da un loop tagliente sconvolto da una batteria serrata unita a distorsioni elettriche; fraseggi dissonanti e scosse improvvise sottolineano di seguito le vocals filtrate di Davis, il quale tratta dello stato mentale confuso con il quale ha affrontato la creazione dell'album, tra sentimenti contrastanti legati alla paura di svendersi e all'euforia del successo, ma anche ai pensieri depressivi che perseguitano il Nostro. Gli altri hanno visto che siamo arrivati così tanto oltre, che ora chiediamo un luogo dove ventilare la rabbia, non stiamo però cercando di andarci, vogliamo solo essere portati via. Nuovi riff ossessivi dominano il songwriting con una calma nervosa pronta ad esplodere, dandoci un'atmosfera malata ed acida; ritornano i movimenti di poco prima, ed ora la vita a volte ci fa incazzare, e non è mai un bel viaggio per noi, ogni volta che raggiungiamo l'amore, ci viene portato via. Un fraseggio improvviso fa da cesura, preparandoci per il ritornello improvviso ed altisonante con baritoni di chitarra, chitarre dissonanti e drumming pestato: ora è notte, e suoniamo, chiedendo di avere un segnale e di ottenere pazienza, è l'ora di morire e ci viene chiesto se è quello che vogliamo. Rieccoci ancora sulla linea strutturata da contrasti elettrici, sempre con un cantato suadente; non c'è nulla di male nel voler essere amati. Ci chiediamo se ci sia qualcosa di sbagliato in noi, per una volta nella nostra vita vorremmo davvero essere liberi e stare in pace. Esplode di nuovo, dopo una serie di arpeggi delicati di alcuni secondi, il ritornello dalle cascate rocciose di chitarra: è' notte, e suoniamo, ed il testo prosegue con "Give me a sign this is day. Give me some guidance, so I pray. It's time to die. Is that what I want? (Take... take) Take me away. (Take... take) Taken away. Take me away. Taken... away. - Dammi un segno in questi giorni. Dammi una guida, in modo che possa pregare. E' tempo di morire. E' quello che voglio? (Prendi...prendi) Portami via. (Prendi...prendi) Portami via. Portami...via." dandoci visioni di morte e rassegnazione. Ecco che segue una cesura diafana con chitarre sospese in un'atmosfera onirica, presto però sostituita da riff circolari e batteria compatta; la tensione sale in una rima sincopata e schizofrenica, dove le ormai familiari scosse elettriche delimitano il fole cantato del frontman, non risparmiando ritmiche hip hop: Qualcosa che otteniamo, dobbiamo andare a casa, scappiamo a casa, chiedendoci dove si trovi. Il finale evde un'ultima proposizione del ritornello, contornato ora da epiche chitarre notturne, regalandoci poi nela coda conclusiva loop di chitarra ed effetti ripetuti con ossessione.
Pretty
"Pretty - Bella" s'introduce con riff filtrati dall'effetto alienante, aperti poi ad accordature basse e colpi secchi di batteria e piatti; al trentesimo secondo la musica cambia grazie ad arpeggi dilatati e vocals sognanti, con le quali Davis parla di un fatto nefasto ed orribile: durante i suoi giorni presso l'obitorio, Davis ebbe modo di vedere il cadavere di una bambina di un anno, violentata e uccisa dal padre, con le braccia e le gambe spezzate e piegate come se fosse una bambola rotta. Egli non ha realizzato, vede piccole gambe bianche rotte, il dolore tra le sue giunture. L'atmosfera lisergica passa ora a toni ben più aggressivi, sia nelle chitarre taglienti, sia nella voce ruggente del cantante: la sua bella faccia spaccata contro il pavimento, è una disgrazia, ci chiediamo per chi ci sentiamo in colpa, la pelle di lei. È così fredda, potrebbe qualcuno rubare una vita? Ora un fraseggio di basso vede un drumming serpeggiante, mentre il cantato etereo si prodiga in andamenti dale atmosfere evocative; chiediamo di risparmiarci la colpa, abbiamo delle cose da dire. "I see your pretty face, smashed against the bathroom floor! What a disgrace! - Vedo il tuo bel faccino, schiacciato contro il pavimento del bagno. Che disgrazia!" continua il testo con orrore manifesto, reiterando immagini legate a ricordi che si vorrebbero cancellare. I toni si aprono a connotati ariosi, mentre il cantato ci dona immagini di stupro e violenza, nonché di perdita dell'anima e dell'innocenza; si arriva così a terremoti elettrici uniti ai suoni iniziali, mentre Davis assume toni oscuri sospesi su effetti dark ambient in sottofondo: la rabbia accumulata si libera in una cascata fatta di riff ripetuti e colpi secchi di battria, una sessione destinata poi a lasciare spazio alle arie disperate già viste in precedenza. Un crescendo emotivo corona così il brano, in una malinconia destinata a consumarsi nelle ultime parole angosciate proferite dal Nostro.
All In The Family
"All In The Family - Tutto In Famiglia" prende il via con un riffing roboante segnato da bordate squillanti, una marcia sula quale subito dopo si uniscono i toni ritmati dell'ospite Fred Durst dei Limp Bizkit; insieme a Davis tratta semplicemente di una battaglia verbale tra i due, allora ancora in buoni termini tra di loro, un dissing legato alla cultura hip hop. La voce nasale del secondo interviene, unendosi in duetto con Durst sopra suoni malevoli che alternano elettronica urbana e chitarre grevi e disturbate: ci si chiede che cos'è questa lingua sciolta, mentre Davis dichiara di volere solo una Pepsi, ma ecco che partono insulti tra i due, arrivando al paragone tra i propri genitali, ed anche le proprie band. Seguono poi una serie di giochi di parole intraducibili basati sul nome dei due gruppi, in una sequenza interrotta dal ritorno dei toni più "metallici" segnati dalla parte cantata di Davis; egli si occuperà dell'altro, e sa che lui lo sente, dandogli del finocchio e non risparmiando allusioni al sesso orale praticato nei confronti del proprio padre. Durst si ripropone con le sue arie rap, chiedendo chi cazzo si creda di essere Davis, pronto a rispondere sarcastico con un suadente "me", ed ecco che nasce un botta e risposta destinato ad aprirsi di nuovo ai toni precedenti, tra chitarre abrasive e minacce varie. Eccoci quindi in sessioni sature di distorsione, in un'atmosfera per certi versi monolitica ed asfissiante; colpi stridenti s'intersecano tra i versi gridati di Davis e le risposte di Durst, e il testo non risparmia riferimenti a quest'ultimo, definito un buffone, mentre il frontman dei Korn declama il suo odio, corrisposto. Ma ecco che arriva la sorpresa: tutto è in famiglia, in un'unione chiara e sacra. Torniamo alla struttura ormai familiare, dominante un pezzo abbastanza schematico nel suo songwriting ibrido, ma con zone ben delineate: intanto paragoni ironici con Vanilla Ice, battute infantili con giochi di parole, e dichiarazioni di guerra prendono piede. Chitarre drammatiche, tappeti di distorsione, loop ossessivi sono gli ingredienti del piatto qui servito. Si passa, dopo la ripresa del ritornello militante, a nuove rime con battute sulla carriera dei Nostri, senza risparmiare riferimenti all'omosessualità e all'incesto, in chiave goliardica; Davis contrattacca con frasi sulla bestialità e le doti "orali" di Durst. Grosse sorprese non ce ne sono, anzi il pezzo è giocato in modo ipnotico sulla riproposizione di momenti ben precisi: il finale offre una marcia ritmata, la quale prosegue fino alla conclusione segnata da un verso finale di Durst.
Reclaim My Place
"Reclaim My Place - Reclamo Il Mio Posto" si accende con un riffing filtrato e squillante, presto convertito in una marcia annunciata da un verso veloce di Davis, supportata da arpeggi grevi e batteria combattiva; il cantante si dà poi ad un cantato leggero e suadente, contrastato dagli strumenti a corda cadenzati, dove parla della sua vita, di come prima di entrare nei Korn egli fosse considerato un reietto da tutti, e di come nonostante il successo, senta ancora l'odio dentro di sè. Non riesce a mettersi nei panni altrui perché si sente stupido, non riesce nemmeno ad odiare, e si chiede se è colpa sua o del destino, vuole solo avere pace. I loop precedenti si ripetono in modo ossessivo, mentre ora i toni vocali si fanno più altisonanti: che gli si dia qualcosa da dire, qualcosa di incredibile, mai detto. Tutto ciò che sente è disgrazia, chiede di cancellare tutti ed avere il suo posto; dopo questo crescendo emotivo torniamo ai toni di poco prima, in qualche modo contemporaneamente finto angelici e sinistri, grazie alla voce nasale di Davis e alle chitarre ad accordatura bassa che si uniscono alle melodie. Nel passato era conosciuto come un reietto, non aveva amici e veniva attaccato perché era debole, quindi si è messo a cantare come un disperato, e per questo è entrato nel gruppo, pensando che esso non se la sarebbe mai presa con il proprio cantante. Vengono ora ripetuti i versi precedenti, riproponendo le sequenze di chitarra adrenaliniche, i ritornelli pieni di pathos, i motivi ipnotici, degenerando poi in una coda con fraseggi allucinati ed atmosfere lisergiche; all'improvviso suoni delicati ci portano verso ritmi tribali e vocals striscianti. Si guarda intorno vedendo piccole facce stupide, qualcosa che non può mandare via, ma che anzi fa proprio, ma gli altri non vedranno mai e non saranno mai come è lui veramente, e se proprio vogliono stare, che almeno si facciano avanti. Disturbi elettronici e chitarre meccaniche aumentano la tensione, destinata ad esplodere in un attacco nervoso dalle aperture aggressive: "You think you can't relate? You'll never ever find. You think you feel my hate? Look at me and you will find. My fate you always raped? I will always be the son. You want to fuck with me? Come on, fucking play! - Pensi di non poter comprendere? Non lo scoprirai mai. Pensi di sentire il mio odio? Guardami e lo scoprirai. Il mio destino che hai sempre violentato? Sarò sempre il figlio. Vuoi scazzare con me? Avanti, fatti sotto!" prosegue il testo, delineando ancora una volta una volontà di scontro. Un fraseggio breve fa da cesura, presto però soppiantato dalla ripresa dell'ossessione ormai familiare; questa volta si prosegue fino ad un nuovo stop, rappresentato da suoni convergenti e da un Davis diviso tra voce disgustata e coretti. Si chiede semplicemente ma che cazzo è questa situazione, ripetendo la cosa ad oltranza; la tensione degenera in bordate di chitarra unite ai disturbi taglienti già incontrati, un gran finale devastante che si consuma in un feedback finale che chiude il brano, ma non senza un ironico campionamento di chitarra conclusivo.
Justin
"Justin" parte con un fraseggio graffiante e stridente, continuato poi in un movimento sincopato, adagiato su una batteria cadenzata ed un basso ben presente; arriviamo quindi fino ad un'invettiva di Davis, seguita da un riffing tritacarne ripetuto in loop. Egli parla di un ragazzo chiamato Justin, il quale ha espresso come ultimo desiderio, prima di morire di cancro all'intestino, d' incontrare i Korn, ovvero suoi idoli. Tagliamo corto con le stronzate quindi, ed è su suoni diafani e lisergici che prosegue il cantato: lo vediamo suonare, e lui guarda da un'altra parte, la nostra luce brilla forte, e l'abbiamo trovata finalmente. Le chitarre si aprono nuovamente a suoni taglienti, mentre toni malevoli con riverbero s'impossessano del cantato; siamo nello spazio con lui, partendo insieme a lui. Torniamo quindi al movimento strisciante di poco prima, il quale però sale d'intensità grazie ai piatti cadenzati ed alle chitarre che acquistano progressivamente velocità: "You're gonna die! Wanna meet me, why? I wish I had your strength. Inside your soul escapes. - Morirai. Vorresti incontrarmi, perché? Vorrei essere forte come te. Dentro la tua anima fugge" declama ora il testo, mostrando i pensieri che Davis ha mentre riflette sulla vicenda qui descritta, i motivi del ragazzo che lo idolizza, quando è lui a rispettare quest'ultimo per la forza con cui vive i suoi ultimi momenti di vita. Arriviamo così alla riproposizione del breve ritornello di poco prima, ammaliante nel suo cantato nasale unito a loop circolari di chitarra: questa volta però collimiamo in chitarre cosmiche ed arie siderali, mentre Davis ripete i suoi sentimenti, di come voglia che l'altro pianga in lui, che lo aiuti, un ragazzo che sta morendo mentre lo ascolta. Quasi una volontà di trascendere lo spazio ed il tempo fatta musica, e ciò diventa ancora più visibile nella frase "Tu sei vivo", gridata con toni ruggenti dopo un fraseggio vorticante, seguita da un nuovo riff roccioso, presto sconvolto da tratti sincopati. La sequenza continua con una cavalcata lanciata ed ossessiva, sulla quale prendono piede gli ormai familiari toni vocali filtrati; il finale viene quindi lasciato ai suoni più progressivi e dilatati, in una sorta di prologo sonoro. Un episodio semplice e che passa in fretta, ma molto diretto e dal testo che trascende il suo argomento senza entrare in dettagli privati, bensì prendendo spunto dall'accaduto per esprimere emozioni più che discorsi compiuti.
Seed
"Seed - Seme" prende piede con un fraseggio mellifluo e notturno, raggiunto da effetti stridenti che sembrano quasi usciti da un film di fantascienza anni cinquanta; la sessione ottenuta continua per quasi un minuto, interrotta dall'attacco di un riff granitico e battagliero, ruggente nei suoi suoni grevi. Ora abbiamo invece fraseggi sospesi e scosse elettriche improvvise, incastrate tra rullanti cadenzati; Un Davis filtrato ed alieno parla di suo figlio Nathan, e di come lo ammiri, vedendolo ancora puro e lontano dai problemi della vita. Ogni giorno diventa un po' più duro, e sembra che non possa fuggire, e ricorda un luogo in cui vorrebbe esser rimasto, si sente perso dentro, sotto pressione, sotto pressione e diretto verso quel giorno; e nella sua testa si chiede se ha advvero bisogno della fama. Raggiungiamo quindi il ritornello ritmato ed esaltante, saturo di giri circolari ad accordatura bassa e vocals filtrate piene di pathos: "Every time, god damn, I look at my son (seed), I see something I can't be. Beautiful and care free, that's how I used to be. Like some god damn fucking freak, I'm so pressured, I'm so worried, something takes a hold of me, something I can't believe. - Ogni volta, maledizione, che guardo mio figlio (seme), vedo qualcosa che non posso essere. Bellissimo e senza preoccupazioni, è come ero anch'io. Come un qualche maledetto deviato. Sono così sotto pressione. Ho paura che qualcosa mi controlli, qualcosa in cui non posso credere." esprime qui il cantante, contrapponendo l'innocenza del figlio alla sua esistenza piena di problemi, incapsulando un rammarico esistenziale misto a nostalgia. Ritorniamo sui suoni dilatati e lisergici, tra striature improvvise ed atmosfere liquide, ma il tutto è destinato a tornare all'attacco di poco prima; si trova sdraiato nel letto di notte e si chiede se deve seguire questa strada, l'unica cosa che ha adesso, ovvero la fama. Segue un arpeggio quasi psichedelico, sul quale Davis parte con voce soave in falsetto: vede questa faccia così bella ed innocente, la guarda e capisce che è la sua, ovvero sia che è del sangue del suo sangue, sia che rimanda alla sua stessa infanzia. Collimiamo in un riffing aggressivo unito a screech hip hop e frasi convulse, in un pandemonio metafora di confusione mentale pronta ad esplodere. Ma così come è iniziata, la tempesta cessa, dandoci una quiete rappresentata da un ennesimo fraseggio liquido e spettrale; riecco le turbolenza cacofoniche, seguite fino ad un falso finale. Dopo pochi secondi di silenzio, è l'ultima emanazione del ritornello a chiudere i giochi, terminata da ultimi versi disperati e da una dissolvenza abrasiva.
Cameltosis
"Cameltosis - Alitosi" vede la partecipazione del rapper Slimkid3, un brano che riguarda un rapporto amoroso con una persona che già sappiamo ci farà del male. Esso parte con un suono strano, dai toni e ritmi hip hop giocati su loop stridenti e grevi; ecco che il cantato dell'ospite prende piede su fraseggi leggeri e tocchi delicati di chitarra. Dovevamo sapere sin dall'inizio dove saremmo finiti, abbiamo scambiato alcune informazioni con lei, l'abbiamo chiamata e fatto conversazioni semplici con lei, non stiamo giocando, teniamo il nostro passo, ed ecco che due scintille sono diventate un fuoco. Come una ninfa nel parco, danzando nella pioggia, chiediamo dia vere la nostra dose, sperando che qualcosa sia rimasto da ciò che c'è stato succhiato via. Interviene Davis con un cantato da film horror, in duetto con il rapper, ma poi il primo mostra i suo toni vocali reali, in un ritornello arioso: questa volta non potremo mai amare un'altra troia, se lo fai due volte sei fottuto, ed il concetto viene ripetuto due volte con buona misura. Ritmi tribali e suoni dissonanti completano il quadro, e di seguito torniamo alla sequenza contratta di poco prima; si ripetono tutte le evoluzioni già incontrate, dove Slimkid3 chiede di essere liberato da dolore, vergognandosi di un gioco in cui perde sempre, promettendo di non cantare mai più una canzone, se non dopo aver capito chi è veramente. Un uomo fuori ritmo con il suo programma, che cerca un qualche collegamento interno; si ripropone subito dopo il ritornello galoppante, il quale ora si blocca con ritmiche hip hop seguite dall'ormai familiare rap dell'ospite. Lei è l'epiteto della dolce miseria, più è dolce la stretta, più profondo è il dolore che dà, è un angolazione regolata dal sesso, una gatta da sesso pericolosa e calda come un guantone, che calza con relazioni astratte testando la sua pazienza si arriva al limite, una masturbazione emotiva scopando con il proprio amore, e fottendo la propria vita ed ogni altra cosa. Ritroviamo il ritornello d'obbligo con la sua batteria cadenzata e le sue chitarre squillanti, questa volta portato avanti ad oltranza fino ad una cesura ritmica dai colpi sincopati e metallici; esso si conclude lasciando spazio alla chiusura della traccia, segnata da un effetto come di un razzo in partenza.
My Gift To You
"My Gift To You - Il Mio Dono Per Te" ci accoglie con epiche cornamuse unite a piatti di batteria, poi fraseggi ruggenti e dilatati, in un'atmosfera altisonante che va a scontrarsi dopo qualche secondo con riff rocciosi dalle falcate monolitiche, prendendo ritmo con un trotto possente. Davis s'introduce con un cantato suadente, in una canzone dedicata all'allora moglie del cantante, ovvero Renee, una sorta di canzone d'amore deviata, dove non manca la rabbia esistenziale ed accenni di rancore nei confronti di quest'ultima; di certo non una ballad, nel suono utilizzato. Ecco il "suo gioiello", non molto tempo fa, "nascondersi dietro le ombre della sua anima spezzata"; egli si chiedeva perché voleva sempre qualcosa che non può avere, ed ora si chiede perché provava a dirgli come le cose sarebbero potute essere. Gli arpeggi si dilatano ed il cantato si fa ora angelico ed arioso, ma toni più perversi si organizzano in sottofondo, creando contrasto voluto: la gola di lei è ciò che possiamo prendere, e chiediamo se senta il dolore, soprattutto quando i suoi occhi vanno al contrario, le chiediamo se ama "scorrere nelle nostre vene", mentre il suo cuore smette di battere: un orgasmo nero dai risvolti necrofili. Torniamo quindi alla marcia precedente, tra loop ossessivi e vocals malevole nel loro andamento contratto; eccola, con la sua anima spezzata che strofina il suo pacco, esaltata, prendendo il controllo. Lui si chiede perché ha rovinato qualcosa che aveva da sempre, e perché "ha provato a dirgli che era così fredda". Riecco di seguito il ritornello sospeso tra chitarre, piatti cadenzati e versi con tono nasale; questa volta esso va a scontrarsi con una cesura liquida e dilatata, dominata presto da suoni vorticanti ed arpeggi sinistri. "Here I am, just a man. Feeling the pain, gives me life. Relieving us is my plan. I'd do anything to see through your eyes. Just to see through your lies - Eccomi qui, semplicemente un uomo. Sentendo il dolore, mi dà vita. Darci conforto è il mio piano. Darei ogni cosa per vedere attraverso i tuoi occhi. Giusto per vedere tramite le tue menzogne." declama ora Davis con tono disperato, mostrando il suo risentimento verso la compagna. Si passa ad un growl ruggente, che dichiara tutto l'odio verso di lei, unito a scosse elettriche e compulsive, e destinato a degenerare in una cacofonia prima rabbiosa, poi disperata e raggelante nel suo pianto non più trattenuto; chitarre in feedback trascinato, il tutto verso una cesura con bordate concentriche e suoni sinistri in sottofondo. Ritroviamo aperture ariose con l'ultima proposizione, angelica, del ritornello, ripetuto ad oltranza fino alla conclusione del pezzo.
Earache My Eye
"Earache My Eye - Orecchioni Per Il Mio Occhio" è la traccia "segreta" del disco, cover di un brano del duo comico americano Cheech And Chong (ed è proprio Cheech il cantante qui ospite), la quale tratta con toni goliardici del battibecco tra un figlio che non vuole andare a scuola e che mette su un vinile di una star glam inventata, tale Alice Bowie (il riferimento ad Alice Cooper e David Bowie non è molto nascosto), ed un padre esasperato che non esita ad usare le maniere forti con lui; nella riproposizione dei Korn, viene toccata solo una parte della canzone, escludendo lo schetch qui citato e concentrandosi sulla descrizione goliardica del ragazzo protagonista. Partiamo con un lungo dialogo tra vari protagonisti, dove si parla senza molto nesso logico di battute su droga, compagne, rutti e flatulenze varie; arriviamo così al minuto e mezzo, dove un arpeggio ritmato si unisce ai versi onomatopeici della strumentazione. I toni si innalzano grazie a cascate di chitarra ruggente, mentre prende di seguito piede il cantato, altrettanto su di giri e folle; nostra madre ci parla dicendoci come vivere, ma non l'ascoltiamo perché la nostra testa è come un setaccio. Nel frattempo fraseggi stridenti s'inseriscono nella struttura, alternando le parti più dirette e dando groove e ritmo al tutto. Nostro padre ci ha disconosciuto perché indossiamo i vestiti di nostra sorella, ci ha beccati in bagno con dei collant; ecco che i fraseggi funky s'interrompono con un suono dissonante, seguito dalla ripresa del movimento sincopato. "Il nostro coach di basket ci ha buttati fuori dalla squadra, perché indossavamo tacchi a spillo e ci comportavamo come dive". Le chitarre si prodigano in loop feroci di chitarra, mentre ormai il delirio domina il testo. "Legheremo il nostro pene ad un albero, legheremo il suo pene ad un albero", concetto poi ripetuto con vocals modificate e demoniache; "il mondo sta per finire e non ce ne frega nulla, fintanto che avremo la nostra troia, e che si fottano gli altri". In sottofondo ritroviamo le alternanze tra dissonanze, stop improvvisi, cesure e trotti graffianti. Ora parliamo di soldi, presentando il risvolto del racconto, ovvero il successo raggiunto dal ragazzo, ora una rockstar: egli ha molti soldi, possiede centri commerciali, parcheggi, ed azioni in borsa; la musica passa ad una sorta di doom greve, con chitarre ossessive ad accordatura bassa, mentre risate e frasi folli si uniscono a parti di rap urbane tenute in sottofondo. "Get your groove off. Let's bring it back one more time Jonathan. Jonathan on them drums, getting ever slower. more grooving, slow that shit down. crazy slow, come on, death, right here, slow, ah. Don't give a fuck, break it out. You even know, Boy George is on heroin. We don't give a fuck, Rick James is in the crack house. I'm fucking paying, that's all that matters. Ha, ha, ha, ha, aahh, ha, ha, ha - Smettila con il tuo ritmo. Riproponiamolo ancora una volta con la batteria Jonathan , rallentando ancora di più, aggiungendo ritmo, la morte è qui, ah, fottitene, spacca tutto, sai anche che Boy George si fa di eroina. Non ce en fotte nulla, Rick James è in un luogo di spaccio, pago io ed è tutto quello che conta." è su quest'ultimo delirio che il brano rallenta in modo asfissiante, diventando un insieme di feedback e ritmi monolitici: seguono bordate decise, ma sempre dal passo pachidermico, mentre le vocals vengono filtrate con connotati da film horror ed effetti squillanti delineano il movimento. Il finale vede una jam session dissonante, perfetta conclusione di un pastiche folle chiuso da una risata rauca.
Conclusioni
Un disco che, come già detto. Ha segnato un'epoca e dato il via all'età del nu metal, sdoganandolo nelle case di ascoltatori bisognosi di qualcosa di nuovo, vicino alla loro realtà dove stili diversi di musica, vita, moda s'incontravano e scontravano; i Korn, già conosciuti da diversi ascoltatori alternativi o semplicemente più attenti, diventano gli idoli di diversi ragazzini alienati tanto dalla società, con i suoi schemi, regole, derisione del diverso, quanto dal pop dominante e dalle alternative più classiche (rock, metal tradizionali) che non sentivano propri. Un cavallo di Troia che ha aperto la strada per diversi nomi e che ha ispirato nel giro di pochissimi anni la nascita di molti progetti, qualitativamente più o meno buoni. Come si colloca questo lavoro nella discografia dei Korn? Sicuramente in alta posizione, pur non essendo di certo la cosa migliore partorita da Davis e soci; qui la durezza monolitica ed abrasiva degli esordi si coniuga con sperimentazioni più "funky", anche se la linea del genere di riferimento è ben chiara, lontani dalle escursioni in altri mondi che seguiranno dopo l'inizio degli anni duemila; i Nostri sembrano aver trovato qui una formula che riesce ad essere in qualche modo acida, malevola, ma allo stesso tempo abbastanza "cool" da permettere il passaggio su radio e stazioni televisive, mercati fino ad allora legati a ben altri generi. Un buona sponsorizzazione e scelte azzeccate quali i video già menzionati, il Family Values Tour poi continuato negli anni come evento di musica rock e rap, l'impatto culturale, collocano ora i Korn come capi di un movimento che sembra inarrestabile; in pochissimo tempo molto del metal tradizionale sembra scomparire dalle copertine e dalle attenzioni della stampa specializzata, in una sorta di innamoramento collettivo per questo nuovo ibrido che profuma di nuovo e di audace. Come tutte le relazioni così esplosive all'inizio, l'odio sarà poi dietro l'angolo, ma per ora le cose stanno così, con buona pace di molti puristi che non mancheranno per diverso tempo di ribadire il loro disgusto verso quello che percepiscono come un abominio musicale destinato a distruggere per sempre la musica che amano. Soldi, successo, copertine, una fama mondiale destinata a crescere sempre di più: la realtà dei Korn targati 1998 è questa, e di certo i Nostri non staranno fermi, sfruttando la cosa al massimo e godendo di eccessi vari, drammi privati e pubblici, realizzazioni di sogni una volta considerati miraggi, diventando rockstar a tutti gli effetti. Un successo commerciale mai più ripetuto a questi livelli dalla band, la fotografia di un momento topico sia per loro, sia per il mondo musicale di fine anni novanta ed inizio duemila, summa di un fermento culturale e musicale che ha voluto proprio loro come "facce da poster", e che per queste ragioni li vedrà anche come capri espiatori una volta che la festa sarà finita. A noi comunque interessa soprattutto della musica, ed essa è qui (per chi non ha pregiudizi di fondo) molto buona, con una fusione sentita come vera e viva tra trame hip hop, chitarre grevi e dissonanti basate su loop ipnotici dove l'assolo è bandito, cantato ora suadente, ora disperato, ora aggressivo, ora sincopato, e votato alla rima urbana e veloce; tutto è dosato in chiave emotiva, gli scenari e le atmosfere create sono spesso altisonanti e in sintonia con i testi, che alternano spaccati di vita, rapporti di amore e odio con lo "showbiz" e traumi indelebili, rimandando così all'estetica del gruppo, divisa tra graffiti urbani, sfondi gotici, riferimenti ad un'infanzia e un'adolescenza violate. Ora rimane naturalmente l'aspettativa per quanto seguirà, e non pochi pensano che la strada presa sarà quella di una maggiore commercializzazione del suono della band in vista di un successo ancora più grande. Ma in realtà le cose saranno diverse, ed il successivo "Issues" manterrà certi elementi di questo disco, riprendendo però alcuni aspetti più oscuri ed abrasivi dei dischi precedenti, confermando il fatto che, per quanto non avversi ai frutti del successo, i Korn hanno comunque ben chiara al momento la loro identità, nonché ciò che desiderano dal loro suono e dalla loro immagine. Il nostro viaggio proseguirà a ritroso, andando a raggiungere i primi passi ed elementi di successo della band, passando così al loro secondo lavoro,"Life Is Peachy", un'opera che per certi aspetti sarà un punto di partenza per il disco qui recensito, con alcuni esperimenti forse ancora acerbi, ma poi portati a piena fruizione proprio in questo lavoro.
2) Freak On a Leash
3) Got The Life
4) Dead Bodies Everywhere
5) Children Of The Korn
6) B.B.K.
7) Pretty
8) All In The Family
9) Reclaim My Place
10) Justin
11) Seed
12) Cameltosis
13) My Gift To You
14) Earache My Eye