KLOGR
Black Snow
2014 - Zeta Factory
GIACOMO BIANCO
17/03/2014
Recensione
A metà Ottocento, gli studiosi tedeschi Weber e Fechner giunsero ad elaborare un’equazione in grado di quantificare esattamente il rapporto tra stimolo fisico e sensazione: detta in altre fascinose parole si tratta della relazione tra anima e materia. La formula di Weber-Fechner gettò le basi di quella che sarà definita psicofisica, ovvero il primo tentativo di dare alla psicologia una dimensione autonoma – non più di dipendenza dalla filosofia –, inserendola nel settore delle scienze sociali. Che mai diamine staremo leggendo, direte voi, cari lettori? Non si tratta chiaramente di un trattato di storia della psicologia sperimentale, bensì di una doverosa premessa alla recensione che vi state accingendo a leggere. La sopraccitata legge di Weber-Fechner, difatti, si esprime mediante l’equazione . A noi non importa affatto sapere il significato di tale accozzaglia di simboli (per questo c’è internet), ma ci basta essere a conoscenza che quest’equazione, se letta all’inglese (ovvero kay-log-are), genera il moniker della band che mi appresto a recensire. Dopo tutto questo polpettone matematico non ci resta che aggiungere un dato fondamentale: i Klogr sono una band tutta italiana, formata dal singer/chitarrista Gabriele Rustichelli, detto Rusty, dai chitarristi Eugenio e Giampi, dal bassista Joba e dal drummer Ste. A scapito della scarsa nomea che abbiamo all’estero in àmbito musicale, i nostri Klogr non possono che darci lustro con il loro nuovissimo lavoro Black Snow, secondo full-lenght della band, che segue a distanza di tre anni il debut Till You Decay. Accolto caldamente dagli addetti ai lavori, questa loro ultima fatica consolida quanto di buono portato avanti in questi primissimi anni di vita, già segnati però da una distinta e marcata linea di condotta che ha portato i Klogr ad esibirsi dagli States alla Francia, dal Belgio all’Olanda, dai paesi baltici alla Scandinavia. Insomma, come si dice in giro “chi semina raccoglie”, ed i Nostri, a quanto pare, stanno cominciando a cogliere i loro primi, succosi frutti. Da quell’11/11/11, il Ground Zero Live dei Klogr, la band si è trovata a collaborare con diverse personalità in evidenza nel panorama metal/rock internazionale, da Maki dei Lacuna Coil a Logan Mader, produttore di Machine Head e Soulfly, passando per Olly Riva (ex-Shandon), attualmente nei The Fire. Fondamentale per i Nostri si è dimostrato l’apporto dei Timecut, band italiana con la quale hanno inaugurato una fertile collaborazione, tant’è che due terzi di quest’ultimi si trovano ora in pianta stabile nei Klogr. Prodotto definitivo di questa sintesi di persone ed interessi è appunto Black Snow, energico album di un moderno alternative metal, granitico quanto vuoi, ma anche capace di far balenare un proposito di riflessione contrario a quella cultura contemporanea che sembra alienare l’uomo dai giusti propositi in nome del mero profitto. Il disco si presenta con una copertina stilisticamente moderna, in cui prevalgono le tonalità scure e fredde (ad eccezione di una macchia liquida azzurra al centro). Un grosso fiocco di neve nera si staglia nel mezzo, con i suoi lati affilati come lame. Il paesaggio che si riesce ad intravedere di dietro è ciò che rimane di una casa, o peggio di una città. Macerie sono sparse ovunque a terra, anche nel retro di copertina. Il presagio che induce questo artwork è qualcosa di molto vicino all’apocalisse, all’auto-annichilimento da parte dell’uomo. Ma concentriamoci ora sulla tracklist.
L’album si apre con “Zero Tolerance” e migliore inizio non si poteva avere. Dopo dieci secondi di chitarra quasi palm-muted, il brano esplode con una potenza pazzesca. Il suono è curato alla grande, ogni strumento “esce” davvero bene. La distorsione delle chitarre è molto “terrosa” ed apporta al sound quel tocco moderno, che molto va oggigiorno. Il riff di chitarra è tanto semplice quanto martellante ed ossessivo: una volta entrato nelle vostre teste difficilmente ne uscirà. Fino al chorus, la song è pesante e poco melodica, ma noterete che netta è la contrapposizione tra verso e ritornello. Qui, infatti, voci femminili armonizzano quella di Rusty, sempre molto decisa e convincente per le proprie peculiarità. Il ritornello in questione è assai musicale, carino per le armonie, ma un occhio di riguardo è sempre rivolto verso la potenza esecutiva. Non appena si è concluso il chorus, la canzone pigia per un attimo il freno, con un breve break in cui appare distinto il basso di Joba, macinante e con un bel sound metallico. La pausa dura pochissimo ed ecco che il brano riprende col suo straordinario riff battente. Al pari della prima sezione, il verso alterna al riff delle parti con dei bei passaggi sui tom, che appesantiscono – in senso buono – la composizione. Grazie al ritornello possiamo definitivamente giudicare il loro genere: partendo da un buon impianto alternative metal molto pestato e quasi per niente melodico – dove però si risente molto dell’influenza alternative rock –, si giunge sistematicamente ad un ritornello che si caratterizza invece per qualità opposte: musicalità, ricerca del bello e dell’armonioso, tendenza ad “aprire” i versi invece che rinchiuderli in partiture serrate e mozzafiato. Insomma, mentre i versi sono claustrofobici, i chorus sono di più ampio respiro. Per quanto riguarda le lyrics, Rusty ci parla di come spesso l’intolleranza sia solo un’altra stupida barriera d’abbattere, specie se in un mondo come il nostro, già piagato da ogni ingiustizia o crimine. Tuttavia l’uomo, a causa della sua continua avidità, non sa resistere alla tentazione d’arricchirsi sempre più, anche quando tutto attorno sta andando a rotoli. A causa del suo comportamento scriteriato, l’essere umano non può che agire per il proprio tornaconto, prevaricando quelli che invece vorrebbero un mondo migliore, con più giustizia ed uguaglianza. Ritornando sul piano musicale, dopo una doppia schematica sezione verso+chorus, ecco che a 2:24 un bridge cambia i connotati alla composizione, giacché da qui a poco ci si imbatterà nel primo assolo dell’album, affidato a Eugenio, disarmante per la potenza con cui irrompe la sua chitarra “urlando”, cercando di emergere da pattern ritmici di assoluta pesantezza, mentre il wah-wah applicato non può che far pensare a degli influssi hammettiani. Una volta finita la parte solistica, una breve sezione con stacchi prelude all’ultimo ritornello, eseguito senza variazioni, ma che comunque chiude alla grande questa canzone, complice anche un’outro che riprende l’assillante riff per riproporlo fino alla fine, dove un urlo in solitaria chiude questa fantastica song. Secondo brano in scaletta è “Refuge”, che fin dall’inizio sembra volersi riattaccare al discorso introdotto con la precedente canzone. Refuge inizia infatti con una potenza devastante, dove importanti stoppati s’alternano a scelte dissonanti ma davvero azzeccate. Questo è un brano incentrato sull’emarginazione, sul distacco dalla società (“We are part of the same self denial”), dalla quale forse è meglio estraniarsi per non finire inghiottiti in vortici d’invidia, di concorrenza, d’ogni cattiveria possibile. Quasi come un luogo protetto, un nido pascoliano, il rifugio che ci accoglie può anche non necessariamente essere fisico: può rappresentare un luogo interiore dentro il quale ognuno di noi cerca riparo dalla vita, che sempre più sovente ci viene incontro nemica, foriera di cattive notizie. Dopo la micidiale intro, fatta di tutta potenza, il verso viene concepito meno irruento, scandito ad ogni suo inizio da un urlo del cantante. Il riffing è preciso e vivo, ed accompagna davvero bene la splendida voce di Rusty. Ad ogni fine strofa, due versi hanno lo scopo di trasportarci al ritornello e, per farlo, si caratterizzano in maniera diversa dagli altri, delineandosi grazie ad un motivo più arioso. Il chorus è estremamente melodico per le linee vocali, che procedono pure a rilento, pronunciando distintamente ogni singola parola. Subito dopo riappare l’intro, con dei tocchi preziosi sul charleston da parte di Ste, che arricchiscono la partitura affinché non sia sempre la medesima. A 2:17 un cambio si fa notare, oltre che per l’eccellente sezione ritmica, anche per il malinconico giro di chitarra; a 2:32 tocca poi ad un arpeggio pulito, sorretto da una struttura tambureggiante di batteria, accompagnato solo in un secondo momento dalle vocals, che ritornano quanto mai in chiave agrodolce, dimostrando sia tatto che aggressività. Effetti di delay e riverbero accentuano le aeree strutture chitarristiche mentre a 3:01 incomincia il melodico assolo di Rusty, impreziosito da alcune “schitarrate” da vero boss. C’è ancora spazio per un doppio ritornello, in cui la seconda strofa è pesantemente stravolta da un cantato più aggressivo, quanto mai più vicino alle tonalità metalcore. Intro reprise e la canzone termina dopo quattro minuti e venti, una lunghezza non esorbitante che però la colloca tra i primi tre brani dell’album per estensione, sintomo che la band ha preferito esibirsi in composizioni tendenzialmente più brevi, forse perché più a loro agio per l’impatto che sanno ricreare. E’ comunque una scelta che molte band dovrebbero condividere, piuttosto che dilungarsi sempre in canzoni senza fine e con le parti ripetute all’inverosimile. “Draw Closer”, terzo brano dell’album, è aperto da una chitarra pesantemente distorta e ronzante, ma subito il brano si tramuta in un mid-tempo granitico. Il verso cantato è strutturato in due parti: nella prima chitarre stridenti sottostanno alla sezione ritmica, mentre nella seconda la band entra con tutto il pieno d’orchestra. Facilmente si giunge al primo ritornello, al solito melodico, dove in quattro versi la voce di Rusty – nonché la facile musicalità del chorus stesso – ci calamita l’attenzione, stampandosi nelle nostre orecchie. Le vocals giocano sui botta e risposta tra la linea principale ed i cori, enfatizzando la tematica fantasy del brano. Le lyrics infatti parlano di una promessa di smettere – forse da parte di un assassino – di uccidere, giacché il suo mondo sta decadendo. Certo è che le liriche sono intrise di velato ermetismo, dal momento che si fa cenno alla “black snow” che sta cadendo: che sia il discorso inverso della vera neve che, con il suo bianco immacolato, rende tutto così puro? Se fosse così, questa neve nera sarebbe invece un presagio di sventura e catastrofe. Terminato il chorus, viene ripreso il riff portante, mentre il secondo verso, per le sue chitarre semi-stoppate, ottiene un profilo vincente ed azzeccato. Secondo ritornello ed ecco che arriviamo all’assolo di Rusty, a dire il vero abbastanza calmo e ragionato, di certo estremamente valido ma che, paradossalmente, si contende il primo piano con la sezione ritmica, davvero eccezionale. C’è tempo ancora per i penultimi due ritornelli e Refuge si chiude dopo neanche quattro minuti, lasciando comunque un gradevolissimo ricordo. “Hell of Income” parrebbe da subito avere un impianto più tradizionale e regolare, a causa del tempo quadrato e dall’incedere lineare della batteria. Il verso è cantato con voce pulita, quasi suadente, accompagnato da un tranquillo lavoro del drummer Ste e dei chitarristi Giampi ed Eugenio. Le note di chitarra si fanno dilatate e stridenti, vagamente melancoliche, e nel frattempo Rusty canta – con linee vocali bellissime – di come ci si possa trovare imprigionati in una situazione che difficilmente presenta sbocchi salvifici. Voci filtrate ci introducono al ritornello, questa volta più uniforme al resto della canzone, caratterizzato da estrema musicalità, anche quando le urla si fanno più potenti. A questo punto la canzone rallenta ulteriormente, con un buon break quasi atmosferico, che conferisce quell’alone misterioso di cui vi parlavo prima nell’introduzione. Il successivo verso è decisamente più estremo, ma solo nella sua seconda parte, quando il cantato diventa graffiante e ruvido; in questo modo pure le chitarre s’incattiviscono di punto in bianco, soluzione apprezzabile perché mai me lo sarei aspettato. La canzone sta acquistando progressivamente brio, ma ecco che un altro stop smorza ogni velleità di velocizzarla. In questo secondo break è il basso a disegnare la melodia assieme ad una chitarra stridula. Lead vocals e cori cozzano contro per l’intensità del contrasto, ma alla fine a prevalere è la linea più melodica, che quasi si è fatta cantilenante. Niente assoli e la song termina qua, con uno stop netto e deciso. Si vola così a “Life Is Real”, canzone dedicata a tutti i nerd. Scherzi a parte, il brano è un invito a prendere parte alla vita reale, alla vita vera, incitando a reagire ed a non lasciarsi soffocare ed appagare. Le liriche si mettono contro a chi definisce la vita “una merda”, “uno spreco di tempo”, mettendolo in guardia che la vita è una cosa vera, non è finzione: qui non sono accettate scuse, si gioca sul serio. Il piglio con cui inizia il brano è obiettivamente più deciso rispetto alla song precedente, anche se ancora una volta il verso cantato si caratterizza per una sezione d’accompagnamento particolare, con suoni sinistri e quasi spaziali, almeno fino a che non subentrano i chitarroni belli spessi. Il ritornello, di contro a quanto detto finora, costituisce una sezione dura, risoluta e ben collegata col riff principale. Il brano è orientato alla pesantezza, senza tralasciare tuttavia alcune soluzioni più melodiche. La voce del singer è ovviamente in linea col resto del brano: essa si è fatta più graffiante e potente. A 1:58 un breve assolo noisy di Eugenio s’incastra alla perfezione con il tessuto sonico della canzone. La base ritmica s’inspessisce sempre più e così l’assolo può riprendere in tutta libertà, questa volta con maggiore musicalità. Un ulteriore doppio chorus avvia l’ascoltatore alla chiusura della canzone, non prima che un’ultima agguerrita sezione chiuda effettivamente le danze. Il giro di boa si completa con “Heart Breathing”, inaugurata da un arpeggiato dolce dolce, dal quale però il basso di Joba ne esce con grande impatto, grazie ad un sound per niente oscuro ed ovattato, ma pieno di toni e con un bel riflesso metallico. La voce del singer Rusty è tranquilla ma calda, in piena sintonia con un testo riflessivo, in cui il protagonista si confessa, seppur in preda a dei rimorsi. Il suo senso di colpa deriva dal fatto che non è riuscito a proteggere una persona importante per lui, anche se una speranza per il domani esiste ancora, dal momento che “Your Heart Breathing [is] a brand new start”, come per dire che se il cuore batte, c’è ancora ottimismo. Le linee vocali scorrono via innocue, addolcite dal resto della band, almeno fino al ritornello, dove zampilla in abbondanza tutta l’influenza alternative rock: chitarre dense, voce bene in primo piano, motivi decisamente orecchiabili, tutti fattori che lo rendono effettivamente il brano più commerciale del disco. Il secondo verso è completamente diverso, essendo più distorto e calcato nelle plettrate, sostanzialmente un tutt’uno con il chorus. A 2:21 ecco un bridge che spezza l’andamento fin troppo lineare del brano, apportandogli quei dieci secondi di carica metallica, anche se non è oggettivamente questa la canzone da cui aspettarsi ritmiche serrate e dirette. Heart Breathing è la song più tranquilla e riflessiva dell’intero lotto, ma devo dire che lascia meno il segno di una Refuge o Draw Closer qualunque. Il discorso “pesantezza” viene ripreso prontamente con la settima “Failing Crowns”, secondo brano più lungo dell’album con i suoi 4:34. L’incipit è di quelli duri, deciso alternative metal con venature addirittura groove. Il riffing è mobile ed ispirato, ed il batterista Ste gioca col doppio pedale. Il pre-verso è sicuramente connotato dai grassi riffoni chitarristici, ma anche i break di solo basso e batteria non possono che arricchirlo. I tocchi sul charleston che danno il tempo, nei primi quattro versi cantati, fanno presagire che la situazione stia per velocizzarsi/appesantirsi: si parte da semplici tocchi, poi si passa a colpi secchi sul rullante ed infine ad un vero e proprio marasma sui tom. Così il verso riprende il riff principale, con l’aggiunta di armonici artificiali, prima che un ritornello “piacione” cominci a catalizzare l’attenzione su di sé. La voce è melodica al solito, anche se si sente che Rusty sta spingendo sull’acceleratore per imprimere quella cattiveria che è richiesta. A 1:58 un pre-chorus ci mette su binari ritmicamente più movimentati, ma a 2:39 un inserto con clean solo, accompagnato da un fluttuante basso, destabilizza l’intera canzone. Le vocals trovano l’occasione per esprimersi su toni meno accentuati, prima che a 3:20 un mozzafiatante break ci introduca ad una parte semi solistica di chitarra, noisy quanto basta. Come sta ripetendo ora l’ultimo ritornello, tutto sta decadendo, in un’ardua corsa contro il tempo, che pure sta scorrendo inesorabilmente. Ogni potere si sta eclissando per sempre e mai più risorgerà. Possiamo dunque notare come sia tipico dei Klogr scrivere testi un po’ disfattisti ed esiziali, dove la catastrofe sembra sempre preannunciata, anche se un bagliore di speranza (una via di fuga, soprattutto) pare spesso esserci, a costo che si sappia rischiare ed osare anche l’impensabile. Al brano non resta che concludersi in bel modo ed è così che archiviamo un’altra ottima song, in linea col trittico iniziale, che finora rimane intaccato, lassù. Con l’ottava canzone, “Guilty and Proud”, non ci discostiamo molto dal finale del precedente brano. Dopo un’intro sulle medesime coordinate stilistiche, abbiamo un verso ritmato dalle plettrate chitarre, mentre nella sua seconda variante Ste effettua passaggi precisi tra charleston e ride. Dopo un verso abbastanza breve, il ritornello è di nuovo di quelli commerciali ma, a parte alcune linee vocali azzeccate, non riesce a far decollare il brano, che sembra assestarsi su ritmi un po’ troppo spenti. Ulteriore riprova l’abbiamo col secondo verso, davvero troppo moscio nella scelta di lasciare la batteria – anche se per poco – da parte. Anche le lyrics non paiono nulla di eclatante: le solite tematiche disfattiste appaiono qui un poco monotone, conferendo un senso di piattume alla canzone. Dopo il secondo ritornello, un lento bridge apre la strada a delle vocals con un po’ più di cattiveria metalcore, ma non serve più di tanto per risollevare questo episodio del disco: l’impressione è che Guilty and Proud sia un filler, anche se l’assolo di Eugenio (2:20) è pregevole e costituisce la parte migliore della canzone. Senza trattenersi ulteriormente sulla canzone, si arriva così a “Plunder”, ma la sensazione è che possiamo davvero essere incappati nel momento “molle” del disco. Il riff iniziale non è niente di particolare e così anche il ritornello pare un po’ scontato. Ad ogni modo, il riffing è piuttosto corposo, con parti soliste che rendono un po’ meno pesante il tutto. Il testo, di fantasia, è in linea con la proposta dei Klogr: di chiari riferimenti non ce ne sono, in quanto si parla di un’errata causa che ha comportato problemi e danni a diverse persone. Se proprio dobbiamo trovare un lato negativo di quest’album, è proprio questo: i testi, talvolta, paiono troppo chiusi e comprensibili solo dall’autore. A 2:30, un break con arpeggio pulito accompagna la chitarra ritmica sempre distorta, mentre poi tocca ancora ad una sequela di ritornelli a chiudere la canzone, ma purtroppo questa Plunder è davvero un episodio anonimo. Non appena cominciamo a chiederci perché ci stiamo arenando, incominciano le note incalzanti di “Room to Doubt”, che ci autorizzano a pensare a momenti migliori. Dopo alcuni colpi di batteria, il riff si presenta come uno di quelli potenti, con un buon fraseggio di chitarra. Il verso al principio è sostenuto da strani effetti di chitarra, ma poi riprende un ritmo deciso che lo porta a sfociare nel chorus, dove la voce stranamente appare più sgraziata, ma non per questo meno efficace. Il brano è in linea con le tematiche finora trattate, misterico quanto basta quindi, con le solite trame che da uno stato di oppressione portano poi ad una soluzione. Degli interessanti bridge sono messi in posizioni strategiche: uno dopo il primo ritornello, uno immediatamente prima del secondo chorus. A metà canzone (a 2:12) un intermezzo davvero efficace concede una pausa alla canzone. Partendo da una base arpeggiata, la chitarra solista di Rusty, stridula e sinistra, disegna un assolo molto bello, piuttosto melodico all’inizio, ma con davvero tanta verve quando subentra tutta la band. Room to Doubt ha il pregio di aver certamente risollevato le sorti dell’album, quando sembrava che ormai le idee stessero venendo a mancare. “Severed Life”, undicesima traccia, nasce dunque sotto una buona stella. La canzone inizia in una maniera davvero terremotante ed il riffing si presenta di qualità indubbiamente migliore, paragonabile ai primi episodi del disco che, come abbiamo visto, sono sicuramente i più felici. Dopo un’intro selvaggia e davvero potente, caratterizzata fortemente dalla matrice alternative, il verso è in bilico tra il sogno e l’illusione, con i suoi suoni dilatati e dissonanti. Una scarna sezione ritmica lascia poi spazio a delle chitarre estremamente dense, mentre è poi un ritornello in-the-face a condurre le danze. Le lyrics trattano di una vita spezzata, cui non sarà riservata alcuna veglia funebre, né altre esequie: c’è solo disperazione nel suo eterno futuro. Il brano propone generalmente momenti di calma – non assoluta ma di quel tipo che presagisce la tempesta – ad altri di pura rabbia sonora. La canzone non presenta assoli ma a 3:14 si apre una lunga sezione oscura, dove il ritmo è scandito e lento, il basso graffia e le chitarre volteggiano in aria come spettri. A 3:51 i ritmi s’alzano progressivamente, complici anche gli effetti di chitarra che apportano sempre un flavour futuristico e spaziale. Saranno poi i successivi ritornelli a chiudere la song. Eccoci giunti a “Ambergris (Whale Song)”, brano più lungo del disco, che ovviamente non poteva che iniziare con rumori d’acqua. Due chitarre, una in arpeggio e l’altra intenta a tracciare la linea melodica, si estendono su un tappeto di tastiere soffuse e vellutate. Il verso cantato si installata su questa soffice base, quasi sottomarina vien da dire. La voce di Rusty è dolce ma il testo è apertamente di denuncia contro le violenze che vengono perpetuate contro le balene, mansueti mammiferi marini, da sempre cacciati dall’uomo per carni, grasso e olio. Il chorus è quanto di più dolce e melodico si sia sentito nell’album, ed è davvero espressivo nei suoi soli due versi (“Call me there - Die with me/All my shame - For what we call man”), nei quali chi sta parlando sembra volersi assumere addosso tutti i mali dell’uomo commessi nella caccia contro le balene. La canzone ondeggia su ritmi lenti, e così è anche a 1:54 quando entrano le chitarre distorte. Il brano è una gemma di rara bellezza e Rusty fa il suo lavoro con grande abilità vocale, sfiorando vette mai toccate nemmeno in precedenza. A 2:21 l’assolo di Eugenio ci trasporta letteralmente in un incantato mondo subacqueo, con dei suoni che sembrano addirittura richiamare i versi dilatati delle balene. Inutile da dire, la scelta ardita di porre un lento alla fine dell’album ha pagato davvero moltissimo. Ambergris è una song fantastica e potrebbe essere considerata addirittura l’outsider del disco. Anche se i Klogr sono quelli cazzuti di inizio album, diretti e senza fronzoli, hanno pure dimostrato di sapersi muovere su territori davvero raffinati, dove le tematiche variano completamente da ciò che sono soliti promuovere.
Nell’attesa di ricevere loro notizie dalla tournée europea che intraprenderanno a fianco dei newyorchesi Prong, dei Klogr abbiamo incominciato a gustarci Black Snow, disco che saprà far parlare di sé. Fino alla penultima traccia, appare evidente che i Nostri diano il meglio nei brani più potenti, dove spesso viene inserito un chorus nettamente più melodico, ai fini di raggiungere quella musicalità che spesso ti fa entrare nelle teste – e nei cuori – dei propri ascoltatori. A ritmiche serrate e dirette si sono alternati riff di chitarra anche più complessi e ragionati, in aggiunti agli assoli che davvero non mancano. Ad una sezione ritmica potente e precisa, è degno di nota l’ambivalente lavoro di Rusty che, oltre ad essere dotato di una voce molto espressiva – irruente e melodica a seconda delle necessità –, è stato anche capace di sfoderare dei pregevoli assoli di chitarra. Se questi sono fondamentalmente i punti a favore, nota di demerito possono essere i testi, a tratti davvero intricati perché di difficile comprensione, seppure, ad una prima lettura, potrebbero non risultare così ostici. Altro punto che ha fatto storcere il naso è l’eccessivo numero di tracce del disco. Sia chiaro, dodici canzoni non sono poi molte, però quando raggiungi queste cifre quasi sempre poi ti ritrovi con filler poco validi (Guilty and Proud, Plunder), che fanno riflettere sul perché non siano stati eliminati da una scaletta qualitativamente di tutt'altra categoria. L'intero album, infatti, mantiene un trend assolutamente positivo, partendo alla grande con le prime tre eccellenti canzoni, attraversando una fase centrale dove comunque compaiono episodi degni di essere menzionati (Failing Crowns), per poi concludersi con quel brano assurdamente bello che è Ambergris. Black Snow è un album da ascoltare assolutamente, di facile assimilazione perché ti colpisce già dal primo ascolto, costituito su di un giusto mix di potenza e melodia che saprà accontentare sicuramente le diverse frange di metallari.
1) Zero Tolerance
2) Refuge
3) Draw Closer
4) Hell of Income
5) Life Is Real
6) Heart Breathing
7) Failing Crowns
8) Guilty and Proud
9) Plunder
10) Room to Doubt
11) Severed Life
12) Ambergris (Whale Song)