KINGCROW
Eidos
2015 - Sensory

ANDREA CERASI
05/05/2016











Introduzione Recensione
Uno dei tanti orgogli della nostra penisola: parliamo dei romani Kingcrow, attivi ormai da venti anni e, col tempo, diventati punto di riferimento della scena progressive italiana. Originariamente formati a Roma dai fratelli Diego (chitarra) e Manuel "Thundra" (batteria) Cafolla nel lontano 1996 con il nome Earth Shaker, decidono di cambiare il proprio monicker in Kingcrow, ispirati dal racconto "The Raven" del maestro del terrore Edgar Alla Poe. Nel 1997 inizia la loro avventura in studio con il rilascio del demo "Eyes Of Memories", seguito tre anni dopo da "Hurricane's Eyes", nel quale vengono cementate le basi tipicamente prog unite ad un'evoluzione stilistica di forte impatto emotivo che affonda (e sprofonda) le proprie radici in atmosfere intimiste e crepuscolari. Questa evoluzione, legata a una già spiccata maturità, consentono alla band di firmare il loro primo contratto e licenziare, nel 2001, il disco di debutto dal titolo di "Something Unknown". Ora, da quel remoto esordio sono trascorsi molti anni e tanti cambi di line-up si sono succeduti all'interno della formazione capitolina. Nel frattempo, la band ha pubblicato altri interessanti lavori che sempre più li hanno consacrati all'interno della scena metal nostrana, ma anche internazionale, tanto da arrivare a partecipare al "Gods Of Metal" del 2008 e ad intraprendere tour europei, americani e canadesi in compagnia di Redemption (guidati dal vocalist Ray Adler dei Fates Warning) e Jon Oliva's Pain. Fino a giungere, nel 2013, alla firma con la Sensory Records, etichetta americana fondata nel 1997 e specializzata, appunto, nel progressive metal, sotto la cui supervisione si muovono diverse ottime band internazionali come Wuthering Heights, Zero Hour, Delain, Circus Maximus e Canvas Solaris. Descrivere il sound dei Kingcrow (Francesco D'Errico - basso, Ivan Nastasi - chitarra, Cristian Della Polla - tastiere, Diego Marchesi - voce, Diego e Manuel Cafolla - chitarra e batteria) non è per nulla facile, dato che nella loro musica vengono inglobate molteplici influenze che si sono accavallate e fuse negli anni, creando un ibrido stilistico davvero emozionante e nelle cui vene scorrono sonorità che rimandano direttamente a mostri sacri quali Porcupine Tree, Opeth, Dream Theater, Orphaned Land (con i Rush sempre nel cuore), ma che al tempo stesso non risultano "imposte". Nel senso che i Nostri, in un certo qual modo, contemporaneamente se ne "discostano" grazie a un concetto musicale altamente personale e originale, senza che esso risulti mai eccessivamente derivativo o scontato. E proprio il culmine di tale percorso sperimentale giunge con l'ultima fatica in studio, che reca stampato in calce il solenne titolo di "Eidos", ovvero "Forma", parola greca che esprime un concetto altamente filosofico che sta a significare "la vera essenza delle cose" e dalla cui radice derivano le parole italiane "Idolo" e "Figura". La pura essenza delle cose è illustrata in una copertina simbolica e misteriosa che mostra la foto, scattata a Bracciano, di un uomo (è in realtà il batterista Manuel Cafolla), in abito elegante, incappucciato e con le gambe immerse nelle acque del lago, che stringe in mano un orsacchiotto di peluche, ma è anche ben delineata nella musica, in un album che punta alla profondità delle sensazioni e ai misteri che avvolgono l'animo umano. Un prodotto, dunque, che si pone come interessante e particolare sin dalla primissima impressione, quella "visiva" per l'appunto; e che non si smentisce neanche quando andiamo ad immettere il nostro disco in un qualsivoglia lettore. Del resto, la band ha dei trascorsi ben udibili, ed importanti. E' lecito dunque aspettarsi (anche parlando aprioristicamente) un qualcosa di intrigante, sui generis, per nulla banale o "scopiazzato". Non ci resta altro da fare, dunque, che immergerci in questa nuova avventura, indagando a fondo l'anima ed il sound di questi misteriosi capitolini. Una realtà che sicuramente risulterà arcana e particolarissima, e che ci coinvolgerà in un ascolto impegnativo ed intrigante.

The Moth
La presentazione di "Eidos" è affidata alla sensoriale "The Moth (La Falena)", il secondo brano più corto dell'album, che con i suoi quattro minuti punta a risvegliare nell'ascoltatore emozioni sopite, proiettandolo in un mondo tetro, disperato, plumbeo, proprio come illustrato dall'art-work dove il cielo è coperto da minacciose nuvole. Un mistico arpeggio, accompagnato dal lamento del vocalist Marchesi, si espande nell'aria scaraventandoci in una dimensione misteriosa, dal gotico sapore che ricorda il suono dei Katatonia. Le chitarre di Cafolla e di Nastasi esplodono all'unisono creando un muro di suono quasi vertiginoso, capace di stordire ma anche di attrarre come un magnete, per poi fermarsi e ripartire in acustico in un intreccio che avanza placido come un magma dal retrogusto spagnoleggiante. Tempo della prima intensa strofa e ci troviamo davanti al refrain, profondo e dalla delicata melodia, esposto su una base ritmica ben solida e costruita su una corposa linea di basso e sulla batteria crescente di Thundra. Si prosegue con il secondo verso, questa volta più accelerato e con le due chitarre impennate che si divincolano tra potenti riffs e passi di flamenco, lasciando spazio a una sezione strumentale di grande impatto e sulla quale svetta l'ottima prestazione di D'Errico al basso, in grado di creare un break centrale davvero emozionante, prima di affidare la conclusione alle esoteriche tastiere di Della Polla. Ecco che torna il bellissimo ritornello che sfuma in un finale acustico/spagnoleggiante accompagnato da morbidi coretti in sottofondo. Il pezzo colpisce dritti a cuore, caratterizzando subito la dimensione oscura di un disco dove sono già intuibili le tematiche principali. La caducità della vita, infatti, è il soggetto del testo, il tempo che trapassa velocemente, striscia via come un serpente bruciando le nostre vite, mentre noi danziamo attorno al fuoco come falene impazzite, dominate dal caos dell'esistenza e in cerca di soddisfazioni. Eppure, anno dopo anno, accumuliamo soltanto rimpianti, sognando di essere altrove, di vivere altre vite, ma restiamo immobili, rievocando il passato e annegando nei ricordi, ci muoviamo proprio come falene cieche senza una direzione precisa.

Adrift
"Adrift (Alla Deriva)" non cambia le coordinate riprendendo il discorso introdotto da "The Moth" e intrecciando chitarra elettrica con quella acustica creando un altro paesaggio disperato nel quale sprofondare. Le tastiere, dal sapore ancestrale piuttosto ricercato, danno il via per l'esibizione di Marchesi, dal timbro solenne e cerimoniale, perfetto interprete di una musica farcita di dolore e di sofferenza. La strofa poggia su una sezione ritmica ipnotica e suadente che esplode quando arriva un chorus melodico e ben confezionato sul quale spunta la batteria equilibrata di Thundra. Parte la seconda strofa, ma questa volta la chitarra di Diego Cafolla si lancia in fraseggi catatonici che aggiungono pathos al brano, dunque arriviamo al secondo ritornello che termina dando inizio a una inattesa sezione elettronica (come fosse in loop) che si trascina in sinergia con estranianti effetti sonori prodotti dalle chitarre. Il ritmo accelera violentemente, tutta la sezione ritmica acquista potenza per poi fermarsi di nuovo lasciando spazio al conclusivo assolo di chitarra, morbido ed evocativo. Le liriche sono il racconto simbolico di un viaggio, un viaggio su una nave in pieno oceano che rappresenta, metaforicamente, i pensieri galleggianti nella testa del nostro protagonista. Quest'uomo galleggia sulle acque del mare e sopra di lui incombe un cielo terso che si prepara a sfogarsi con fulmini e saette. Comincia a piovere forte e una tempesta di abbatte sul poveretto, i simboli sono molto potenti, come le immagini che si palesano quasi come visioni. La tempesta è sinonimo di gabbia, di una vita scomoda, difficile, dalla quale l'uomo non riesce a liberarsi, perché sa che il proprio cuore non ha voglia di uscire in mare e di nuotare verso nuovi orizzonti. L'orgoglio è ferito, il cuore spezzato, i sogni bloccati su quella maledetta nave, eppure c'è ancora speranza, perché una luce si vede oltre le acque, è una nuova alba, un nuovo giorno che inizia e, nonostante tutto, c'è ancora voglia di lottare.

Slow Down
"Slow Down (Rallenta)" è una traccia eterea che si distende su un testo alquanto breve ma pur sempre intenso. Marchesi sospira per introdurre un brano sofferto e ritmato, costruito su riffs taglienti e sonorità ipnotiche che prendono il via dopo alcuni secondi di introduzione. La sezione ritmica richiama i Queensryche per via delle trame futuristiche che le chitarre riescono ad imprimere e per la voce modifica in prossimità del ritornello, mentre la batteria di Thundra svolge un lavoro dannatamente eccelso che cresce di intensità sorretto dalle due asce e da un basso lisergico. In realtà, si tratta di un pezzo particolare, dotato di una struttura poco delineata e dall'andamento piuttosto libero, tipicamente prog, dotato di un fascino magico che lo rende molto astratto, proprio come una caduta dal cielo fino allo schianto a terra. Ma i toni restano sempre rallentati, la velocità non è mai eccessiva, giusto ogni tanto, durante il chorus, assistiamo a una piccola accelerazione ma il clima generale è molto disteso. Gli intrecci chitarristici danno una sensazione di vertigine, specie nella fase centrale, dove figura un grandissimo assolo che dà inizio a un break tortuoso incentrato sulle ritmiche forsennate della batteria e su un riffing davvero serrato che si protrae a lungo prima di lasciare spazio all'ultimo refrain. Un brano viscerale, a tratti violento, a tratti sognante. Il testo, come già accennato è breve e ripetitivo, e si pone apparentemente come una piccola critica alla frenetica società che ci divora, poiché ogni anno lancia nuove mode da seguire. Ogni anno ci si traveste pur di adattarsi ai tempi, si vive una vita diversa e si perde, volta dopo volta, una piccola parte di animo, di purezza, in nome dell'accettazione, per prendere parte a un mondo in continua evoluzione (o involuzione?), e se non si riesce a stargli dietro, che importa! Basta attendere poco per abbracciare una nuova moda. Bisognerebbe rallentare per ritrovare se stessi, la vera essenza delle cose, citando appunto il titolo dell'album.

Open Sky
Si prosegue con "Open Sky (Cielo Aperto)", emozionante ballad funerea, nera come la pece, interpretata divinamente dal bel timbro di Marchesi e formata da catacombali linee di basso egregiamente suonate da Francesco D'Errico. Ma il tocco di classe in più avviene grazie al tappeto sonoro composto dalle gotiche tastiere di Cristian Della Polla, che dona un'aria quasi perversa e infernale a questo magnifico e melodicissimo brano costruito su solo tre strofe ma che risultano essere corpose e quadrate. Il ritornello è quasi mascherato perché è la prosecuzione diretta del verso, dunque trascorre poco tempo e ci si ritrova all'improvviso nella sezione centrale dominata da intrecci chitarristici e assoli eleganti che gettano un'ombra di disperazione e di sconforto per poi intensificarsi fino ad esplodere nella terza strofa nella quale il vocalist alza il tono in un crescendo da applausi. Cinque minuti e mezzo che volano via in un baleno, trascinati da una melodia pazzesca e da un senso di vuoto che prima affligge l'ascoltatore e poi lo conquista. Roba da pelle d'oca, in più dotata di un testo esistenziale dalle immagini molto potenti e criptiche. Parla di un uomo che si ritrova a camminare da solo con se stesso e a pensare alle sue paure e alle sue sofferenze. Riflette sulla sua vita, sul suo passato e sul suo futuro, e non sa il motivo per cui è così triste, ma è così che si sente, e così alza lo sguardo al cielo limpido e osserva strani giochi di luce che formano delle sagome poco definite e che potrebbero essere tutti i suoi sogni dispersi nell'aria. Li fissa e capisce che la sua essenza è lì in mezzo, dispersa tra quelle figure, perciò sente di abbandonare la materialità del proprio corpo per seguire quelle scie oscure e vagare con la mente, affogando nei propri desideri e sentimenti.

Fading Out - Part IV
"Fading Out - Part IV (Dissolvenza - Parte IV)" è, come intuibile, il proseguimento di un concept sonoro iniziato con l'album "Timetropia" (2006) e ripreso nel seguente "Phlegethon" (2010). Questa è la quarta parte che rappresenta un po' la chiave di lettura della musica dei Kingcrow, poiché raccoglie tutte le coordinate stilistiche della band, portando avanti un discorso iniziato molto tempo prima e forse ancora non concluso del tutto. Le chitarre aprono riportandoci per la seconda volta in un clima iberico, una specie di flamenco metallico che si palesa nel dialogo strumentale tra acustica e batteria. Emerge la voce che intona, quasi fosse una cantilena, la prima quartina per poi procedere incontrando un chorus sofferente e quasi sospeso, dove le chitarre di Cafolla e Nastasi prendono forma ricordando in maniera molto ravvicinata l'eleganza del depressive metal dei Katatonia. La seconda parte si struttura nella stessa identica maniera della prima, in una sorta di gioco speculare che si differenzia soltanto per l'utilizzo dei contro-cori durante i versi. La durata del brano è limitata (nemmeno quattro minuti) e i nostri si giocano tutto in un tempo brevissimo, realizzando una canzone rocciosa, più diretta rispetto alle altre presenti nel disco e meno agile ma dal piglio struggente che affascina sin dal primo ascolto. Troviamo ancora una volta un gioco di luci/ombre descritto nelle liriche, laddove la luce si infrange letteralmente sul gelido cemento creando un'ombra dentro la quale affoga. Il protagonista della vicenda osserva proprio il raggio di sole che viene inghiottito dalla sua ombra in strada e ciò lo induce a riflettere sull'esistenza, mentre sul mondo cala il tramonto ed il sole svanisce lentamente oltre l'orizzonte come fosse un lungo addio. L'uomo continua a camminare con la testa china, prosegue per la propria strada assorto tra i suoi pensieri, e decide di continuare vivere, tirando i dadi del destino cercando di trovare un po' di fortuna. Non gli resta altro da fare che guardare avanti, cerando di superare i problemi, di scansare i dolori, di provare a non desistere, a non arrendersi alle avversità. Non è il momento di porre la parola fine alla sua avventura.

The Deeper Divide
"The Deeper Divide (Il Divario Più Profondo)" si apre con la chitarra acustica, un arpeggio malinconico suggellato dalla sofferta voce del cantante. Quindi subentrano le tastiere che accrescono questo senso di sofferenza e di oscurità, infine giunge sottile un refrain struggente, laconico, dal piglio melodico che cattura all'istante grazie a una delicatezza intrinseca e una melodia sublime. Un breve tratto strumentale, con l'accompagnamento al piano di un ospite, ovvero Fred Colombo, ed ecco che arriva a supporto la batteria di Thundra Cafolla che tutto sovrasta dando energia e solennità. Riprende la seconda sezione che conduce a un bridge altamente liturgico e malvagio ma che ben presto si trasforma in una parentesi sognante e abbastanza solare per poi sprofondare ancora una volta negli abissi sonori attraverso i fraseggi catatonici e potenti delle due chitarre e dal dialogo tra un basso muscoloso e una batteria indemoniata che qui accelera il passo macinando che è una bellezza. Ecco che dopo questa lunga e intensa parte strumentale giunge il terzo ritornello che smorza il tutto, per poi terminare con la delicatezza iniziale, cioè sulle note della chitarra acustica che conclude il pezzo in un climax circolare e dall'epilogo melodico. Ancora un viaggio introspettivo, nei meandri della psiche umana, dove una persona sola e alienata si sente lontano dalla propria città ma riesce comunque a sentire i suoi rumori portati lì dal vento, in una magica e triste notte estiva. Questa persona ha ormai lasciato il passato alle spalle ed è fuggito lontano da casa, accusato di essersi comportato da bugiardo. Adesso che ha ammesso tutte le sue colpe è pronto a pagare con la vita, metaforicamente chiudendo la porta e gettando via la chiave, andando incontro all'oblio, alla sua fine. Non resta nient'altro da aggiungere se non salutare tutti e dire addio all'esistenza.

On The Barren Ground
E' la volta di "On The Barren Ground (Sull'Arido Terreno)", clamorosa e abbastanza classica escursione in campo progressive metal che strizza l'occhio allo stile dei Dream Theater, di cui la band romana ne riprende l'aggressività ma anche l'apertura melodica di un ritornello strabiliante e incastonato nella pietra. Un drumming roccioso dirige la sezione ritmica, coadiuvato dall'energia delle chitarre elettriche e da un basso sempre protagonista, specie nelle strofe. I primi versi stemperano questa aggressività introduttiva, la quale riprende quota proprio nel pre-chorus con l'esplosione di tutti gli strumenti. Il ritornello, come accennato pocanzi, è una botta di violenza ma anche di solarità, risultando altamente orecchiabile senza però perdere di magnetismo, concetto che contraddistingue lo stile della band, sempre in bilico tra oscurità e brillantezza, sia musicalmente che testualmente. La seconda strofa è invece molto più pesante e veloce rispetto al prima, ormai il pezzo ha preso quota, tanto che prima di giungere a un altro chorus, ci si presenta una meravigliosa sezione strumentale, con le asce che emettono suoni claustrofobici e tormentati, sempre sotto la supervisione di un Thundra, dietro le pelli, in stato di grazia. Coda finale affidata alle tastiere che rievocano un paesaggio nuvoloso, grigio e funesto, dominato da ombre. Traccia diretta, rocciosa, pesante, orecchiabile, a mio avviso uno dei vertici all'interno di un album privo di cali e composto da varie perle sonore. Questa volta, il testo è rivolto a tutti noi, parlando al plurale e generalizzando sul genere umano. Noi che sogniamo di ciò che vorremmo essere, noi che continuiamo a seminare un terreno sterile che mai ci darà frutti maturi e che quindi ci costringerà a cadere miseramente, sconfitti dalla vita stessa. Noi che discutiamo se ci sia un paradiso oltre questo mondo, che parliamo di libertà, di fede, perché abbiamo paura di fallire il nostro compito, temiamo il destino che si è stato affidato, che ci muoviamo in una terra ostile che non ci appartiene. Eccoci qui, adesso, chiusi dentro quattro mura e ci sentiamo al sicuro, perché abbiamo rinunciato a volare per evitare di cadere, e sguazziamo nel fango credendo di nuotare in limpide acque, illudendoci che questa sia la vera realtà.

At The Same Pace
"At The Same Pace (Alla Stessa Andatura)" è probabilmente il miglior brano dell'album, dotato di una doppia anima, quella tenera, illustrata dalle chitarre acustiche in giri malinconici, e quella più dinamica e prettamente hard rock, dove la sezione ritmica accresce fino a diventare incandescente, soprattutto durante un ritornello caricato a molla e urlato da Diego Marchesi, in contrasto con le sopite strofe appena sussurrate. Sono incredibilmente efficaci gli intrecci sonori scaturiti dalle sei corde, mentre il basso di D'Errico dirige sapientemente tutta la base, cimentandosi in particolari effetti che danno una sensazione di vuoto, di vertigine. La struttura della traccia è divisa in due parti uguali, dotate di due strofe ognuna, la prima intonata con voce pulita e la seconda con voce modificata, e queste due sezioni sono collegate da un bellissimo break centrale, poggiato sulle tastiere impazzite e schizofreniche di Della Polla prima e da un bridge quasi sospirato da Marchesi dopo. Riparte lo splendido e toccante refrain che lascia spazio a una lunga coda strumentale incentrata sulle tastiere e su una batteria sincopata che chiudono in trionfo una canzone disperata, quasi apocalittica, che tratta di un rapporto speciale tra due persone. Un rapporto di amore o di amicizia, di fiducia, scandito dalla frase "Non ti lascerò solo", promessa di una vita e poi mantenuta anche dopo la morte; perché non si può dimenticare ciò che è stato, ciò che si è vissuto assieme a un'altra persona, le emozioni reciproche, le avventure condivise. Tutto resta immutato, ancorato con forza, e quegli stessi ricordi sono d'aiuto per rialzarsi in piedi e per continuare a vivere, affrontando il dolore a testa alta. La vita fugge via in fretta ma si tende la mano nella direzione del partner per restare uniti, anche se ormai ci si trova in due dimensione separate, eppure si continua a rimanere insieme, magari in modo diverso, con andature diverse, seppur attraversando lo stesso cammino, ripercorrendo il sentiero dei ricordi, dei momenti felici trascorsi insieme, poiché nulla muore davvero. Quando esiste un legame così forte non si è mai soli, anche a due mondi di distanza l'uno dall'altro.

Eidos
Giunge finalmente il momento della title-track, "Eidos (Forma)", non a caso la traccia più lunga del lotto, e le aspettative sono molto alte. Ancora una volta le chitarre acustiche di Nastasi e Cafolla introducono una sezione dal mood raccolto, intimo, descritto dalle strofe eteree, molto delicate, e che si protrae a lungo prendendo quasi metà dell'intero pezzo creando un paesaggio intriso di tristezza e ricco di immagini evocative e potenti che prendono forma (appunto!) lentamente. Tre quartine che si snodano su una base acustica, dove il basso e la batteria restano timidamente nascosti, per poi esplodere nel trascinante chorus (in realtà ripetuto solo una volta), melodico e accompagnato dalle tastiere. Il ritmo accelera, il cambio di tempo è improvviso ma dura giusto qualche secondo, poi il tutto si stempera e tornano le ritmiche sospese e tetre, evidenziate da un parte tipicamente prog dominata dagli strumenti che si alternano all'interno di una tempesta musicale affascinante. Si prosegue con un Marchesi grande narratore che intona una lunga e veloce strofa per poi tornare alla dolce liturgia con le ultime battute, sempre accompagnate dalle chitarre acustiche. A questo punto abbiamo una composizione dalla struttura tripartita, un magma in continuo movimento in grado di trasformarsi, accelerare in più riprese, rallentare improvvisamente, esplodere con violenza per poi tornare in una fase introspettiva, meditativa, snodandosi su una costruzione difficile da catalogare perché sfuggevole, sempre in movimento. Progressivo è proprio la parola calzante e non a caso appartiene al brano che dà il titolo all'opera. Torna il passato, ci si perde nei ricordi remoti di ciò che è stato, ma non si capisce se si sta sognando o si sta rivivendo tutto daccapo. C'è del sangue sulle mani, sta sgorgando da una piccola ferita procurata chissà come, ma più si respira profondamente e più ne esce fuori. E' una vecchia ferita tornata a sanguinare all'improvviso, riapertasi come d'incanto, e questo uomo si sente morire dentro. Ecco che riappare la foto posta in copertina, quella di una persona con un sacchetto di plastica in testa che si sta immergendo nell'acqua, sta per soffocare e per annegare tutti i suoi sogni, illustrati dal peluche che stringe, simbolo di infanzia e di spensieratezza; di una vita che oramai non gli appartiene più. E' tutto un sogno? C'è davvero una speranza? E' giunto il momento di svegliarsi.

If Only
La magica "If Only (Se Solo..)" chiude il lavoro nella maniera più intima possibile, con una delicatezza da far venire i brividi. Si tratta di una ballata abbastanza lunga costruita soltanto su tre brevi versi. Lo stile è quello di una cantilena, o forse di una ninna nanna, da sussurrare mentre si prende sonno. L'arpeggio sognante della chitarra acustica accompagna l'ascoltatore all'epilogo di questo magnifico disco, lo culla tra le sue dolci note, riuscendo a infondergli, dopo tante tracce agonizzanti e oscure, un briciolo di speranza, quasi quelle minacciose nuvole in copertina stiano lasciando spazio alla luce di un sole che timidamente fa capolino oltre l'orizzonte. Dopo la notte ecco che giunge l'alba e non a caso il refrain è spensierato e quasi allegro. La parte narrata si concentra tutta nella prima metà, mentre dalla seconda inizia una fase ricca di sfumature, dapprima dominata dalla corposità del basso che delinea emozioni complesse, e che poi si distende dando il via al sopraggiungere delle chitarre effettate e di una batteria crepuscolare che dona un senso di inquietudine dopo la parentesi rilassata. Dopo la luce tornano le ombre, chiudendo un lavoro drammatico, da ascoltare tutto d'un fiato. "If Only" è un inno alla notte, non poteva essere altrimenti, dove il bagliore della luna ci accompagna nel sonno, socchiude le nostre palpebre e ci induce a sognare, sognare per dimenticare il passato, o forse semplicemente per dimenticare le fatiche del giorno. La notte porta con sé dei consigli, illuminando il cammino della verità. Basta non guardarsi indietro e proseguire imperterriti verso un nuovo giorno che a breve sorgerà.

Conclusioni
I Kingcrow, giunti al traguardo del sesto album, si dimostrano ormai padroni della propria musica, realizzando un piccolo capolavoro che si presenta un po' come la summa delle loro esperienze in studio, evidenziando l'evoluzione di un concetto musicale che li ha portati da tempo ai vertici del metallo tricolore. La maturità raggiunta è incredibile, i testi esistenziali proseguono un discorso intrapreso con i due precedenti album, aumentandone l'intensità e la profondità, perfezionandone il concetto, mentre la musica è definitiva, giunta a maturazione, esibita con una classe e una eleganza che ben poche band saprebbero replicare. "Eidos" è un disco maturo, da ascoltare tutto d'un fiato per affrontare un viaggio onirico nei labirinti della mente umana, nelle paure che affliggono l'uomo, nei meandri più oscuri della psiche; è la forma, l'essenza stessa della band romana, cioè un prodotto artistico dotato di passione, di cuore, di dolore ma anche di speranza, che alterna ombre e luci e ne sgrana i colori, ripercorrendo tutte le sfumature dell'animo umano. "Eidos" è, per natura, un album magnifico, appena un'ora di delizia che riesce ad andare in profondità, dritto negli abissi del nostro corpo, per acuirne i sensi. Avevamo ben detto, nell'introduzione, come questo viaggio sarebbe stato particolarmente impegnativo e sui generis, fidandoci dell'esperienza dei Nostri, forti delle loro notevoli prestazioni "passate". Ebbene, non avevamo di certo sbagliato nel lanciarci in una sentenza "aprioristica", ed adesso possiamo affermarlo con certezza. Un album che suona meravigliosamente particolare e profondo, ma non elitario o comunque troppo complesso per chi non abbia mai masticato il genere qui proposto. "Eidos" è un disco che saprà farsi apprezzare da ogni animo sensibile, da ogni appassionato di Musica che si rispetti. Da chi tratta l'Arte come una componente della vita, e non come un mero sottofondo. Un viaggio verso territori sconosciuti, un'avventura che vi verrà voglia di ripetere, ancora ed ancora, non essendone mai sazi. Un lavoro ben suonato, oggettivamente coinvolgente, particolare, unico nel suo genere. Il consiglio, spassionatissimo, è quello di procurarvene al volo un esemplare, per beneficiarne a vostra volta. State pur certi del fatto che non rimarrete delusi, poco ma sicuro! La forma è ben delineata, l'essenza delle cose è svelata, non resta che caricarsi di sogni, prendere una bella boccata di ossigeno e tuffarsi nelle acque di questo lago, affogando nella notte e aspettando che arrivi l'aurora a illuminarci ancora.

2) Adrift
3) Slow Down
4) Open Sky
5) Fading Out - Part IV
6) The Deeper Divide
7) On The Barren Ground
8) At The Same Pace
9) Eidos
10) If Only


