KING DIAMOND

The Spider's Lullabye

1995 - Metal Blade

A CURA DI
ELEONORA STEVA VAIANA
03/07/2014
TEMPO DI LETTURA:
8

Recensione

Nel 1995 esce per Metal BladeThe Spider's Lullabye”, il primo disco solista del nostro King Diamond, dopo cinque anni di inattività: il Re decide infatti di interrompere il progetto musicale che porta il suo nome, riprendendo in mano il volante dei grandissimi Mercyful Fate. Cosa è cambiato dal precedente lavoro “The Eye”? Fondamentalmente, i vassalli a fianco di King Diamond si stravolgono, e tre su cinque abbandonano la corte. Il più fedele dei cavalieri, Andy LaRocque, rimane al fianco del Re, dopo un'esperienza a fianco dei Death in “Individual Trough Patterns”. Si aggiunge alla corte il prode Herb Simonsen, come seconda chitarra, seguito a ruota da Chris Estes al basso e Darrin Anthony dietro le pelli. Cosa ci propone King Diamond dopo cinque anni di pausa? Un disco inondato di quel terrore così delizioso e additivo al quale, ormai, siamo abituati e assuefatti. La peculiarità di “The Spider's Lullabye”, esattamente come il precedente (1986) “Fatal Portrait”, è quella di non essere un concept album nudo e crudo, bensì un lavoro costituito da una storia collegata per più pezzi, che compare solo dopo cinque brani. La prima metà dell'album, infatti, è costituita da brani indipendenti tra loro ma legati, in qualche modo, al passato del nostro Re e dei lavori firmati da lui: il sound è rinnovato, più pulito e composto, ma pur sempre estremamente ricco di sfaccettature terrificanti che non faranno dormire la notte. Perché sì, il titolo parla chiaro: quel concept album contenuto all'interno di questo lavoro riguarda i ragni, animaletti tanto facili da debellare, ma troppo spaventosi da affrontare. King Diamond è in grado, qui, di toccare le vette dell'irrazionalità più insensata, che si specchia sulla mente di chi si trova ad ascoltare: al comparire delle prime note che vanno a dare il via all'album, l'istinto porta a cercare di captare otto zampe frusciare nel buio della propria stanza, con la certezza di essere osservati da migliaia di occhi invisibili, posti su un muso mostruoso. Scoprire la vicenda di Harry, poi, il protagonista della mini-storia all'interno di questo lavoro, è un risveglio straziante in un mare di fobie, alimentate da musicalità teatrali, macabre e in perfetto stile King Diamond. Insomma, la paura dei ragni può essere vinta, probabilmente. Siete certi di averne veramente intenzione? Se la vostra risposta è sì, aspettate di scoprire la storia di un uomo sfortunato e colpevole solo di avere paura. Se la vostra risposta è no, aspettate di scoprire le turbe di chi si trova a vivere nel terrore, ipnotizzato e terrorizzato dall'orribile ninna nanna del ragno.



Approdiamo allo scenario del terrore, tratto direttamente dalla mente di King Diamond, trovandoci di fronte a “From the Other Side”, caratterizzata da un immediato sentore di vigorosa forza travolgente. Chitarre solide e corpose, accompagnate da ritmi sostenuti, introducono un pezzo frenetico, dove paura, adrenalina e ombre riescono a incontrarsi per danzare. Una strofa caratterizzata da un cantato immerso nel puro sentimento del panico, arricchito da accostamenti di ottave e stili canori differenti, scivola senza troppi convenevoli verso un ritornello bello, puro, energico; trova così il modo di dimenarsi per dare il via a tastiere cupissime e puramente inquietanti, che trovano lo spazio necessario per lanciare la paura come fosse un chiodo piantato in testa. Tra assoli di chitarra e stacchi affidati a tastiera e batteria, il pezzo ci narra la situazione mentale di chi non sa più se essere vivo o morto, delirando e raccontando il proprio stato mentale poco sano, per mezzo di parole criptiche e terrificanti.  Un'esperienza extrasensoriale di vita (o di morte, dipende dai punti di vista) dalla quale è necessario sapersi risvegliare, onde evitare di perdere il controllo di quel poco sé rimasto ancora saldo e ancorato alla propria vita: demoni, volti, l'accattivante sensazione funesta del non sapere che cosa stia accadendo all'unica cosa che, in teoria, dovremmo essere in grado di poter controllare. La nostra esistenza. Spesso, tuttavia, rischia di sfuggirci di mano, lanciandoci direttamente nel braccio della morte: forse è per questo che il Re ci parla, nella seconda traccia, di un “Killer”, in attesa di sentirsi friggere il cervello, seduto su una sedia elettrica. A quei sicari della giustizia promette, però, di rincontrarsi all'inferno, perché tanto andremo a finire tutti quanti là: la preoccupazione principale del killer, che accetta la sorte che si merita, è cosa farne della sua ultima ora a disposizione. Comincia a guardarsi indietro, pensando a ciò che ne ha fatto di quella vita così sprecata, che forse non avrebbe neppure dovuto ricevere in dono dall'esistenza, finché non sente i passi di un prete del quale non avverte il minimo bisogno: è un killer, che gli sia dato ciò che si merita, che il suo futuro sia cotto a puntino. Dal punto di vista musicale ci troviamo immersi fin da subito in una sensazione incalzante di mancanza di respiro: la morte che si avvicina, la terribile sensazione di aver sprecato la propria esistenza, l'inutilità di una vita spesa per fini nefasti e malsani. Emozioni e impressioni che galoppano, acclamate da una folla di riff caustici, ritmi pressanti e tocchi di tastiera spaventosi: la voce del Re riassume la mente del killer trasmettendo la matassa di terrore e quesiti di chi sì, è un killer e sì, merita quella fine. Il distacco tra la strofa e il ritornello è accentuato dalle modalità di cantato opposte: cupo, aggressivo, il Re si trasforma in un individuo capace di rendersi conto di ciò che ha fatto della propria esistenza soltanto intravista la sedia elettrica e, di conseguenza, la propria fine. Emozionante, bello e fumoso, il bridge accoglie le domande di una mente deviata nel profondo, evocata alla perfezione dal turbinio di sei corde, poggiato su un riff corposo e granitico. Semplicemente terrificante il finale, affidato al rintocco di una campana funebre e dalle parole è tempo” ("It's Time"). Magari interrompere così bruscamente e brutalmente la propria vita rende l'anima talmente carica di voglia di riscattarsi, da lasciare la possibilità a un'entità ultraterrena di costruire un regno di paura e terrore racchiuso in quattro mura: quanto può manifestarsi un poltergeist? È proprio questa entità a farla da padrona in “The Poltergeist”, traccia che racchiude le perplessità di un individuo che si trova a vivere in una casa che ha qualcosa che non va. Quando ci si trova faccia a faccia con l'ignoto è difficile capire il da farsi: il protagonista di questa storia, infatti, si domanda se il suo coinquilino possa essere un amico, o un nemico, ma principalmente ciò che vuole è sentirlo presente, che si manifesti e gli parli. Dai tocchi di organo iniziale della traccia, viene a profilarsi una strana sensazione rampante nel cuore e nell'anima, sovrastata da una nebbia nefasta nella quale si staglia la presenza vocale di King Diamond, vibrante e squillante, tagliata dalle gelide lame della paura. Con uno spazio dedicato agli assoli, si giunge di fronte a una porta dell'oblio, un passo a metà strada tra il baratro della follia e una rampa di scale verso un'entusiastica felicità incondizionata. Si riparte col mantra di strofa e ritornello, per approdare, definitivamente, al mondo dello sconosciuto, dell'irreale, del folle sentore di ignoto. Un accattivante giro di chitarra, impreziosito dalle note soliste di sei corde, spalanca le porte di “Dreams”, presentandoci un riff che suona come una danza macabra di ombre, misteri, intrighi: un tempo sostenuto da ritmiche intriganti e goderecce, conduce direttamente alla soglia del ritornello, una timida esplosione di acuti regali con un leggero ispessimento della matrice strumentale. Il brano richiama immediatamente le sonorità sia del passato che del futuro di King Diamond, attenendoci al periodo compositivo del quale stiamo parlando (1995): inevitabile pensare immediatamente a “Blue Eyes”, una delle tracce più intense e belle della carriera del Re, datata 2003 come l'album che la contiene, “The Puppet Master”. I ritmi, le sonorità, l'intera struttura musicale: King Diamond attinge sempre dal proprio mondo mentale dentro al quale si nascondono chimere e mostri di ogni genere, frutto dello stesso padre. Incubi che si abbracciano fondendosi l'un con l'altro, fino a sprofondare in un terreno di sublime assenza di tempo e di spazio: è qui che i mostri e gli angeli del protagonista di questa traccia hanno modo di esistere. Un uomo attanagliato da sogni orrorifici, in grado di cantare solo la Ninna Nanna del Ragno, dove bambine dai volti angelici rischiano di trasformarsi in esseri mostruosi con un battito di palpebre. I sogni possono diventare dolorosi, specie se indesiderati e apparentemente interminabili: il Re ci rende la sensazione pertinente alla situazione, interpretando situazioni e pensieri per mezzo di una voce malleabile e trasformista, mentre i suoi prodi musicisti rendono il terreno bollente, tra chitarre scintillanti e dinamiche sempre più incalzanti e sostenute. King Diamond sa passare da un argomento all'altro senza sbilanciarsi, lasciando radici ben salde in un terreno già battuto, conosciuto, sviscerato dei segreti e dei quesiti: non è un caso se “Moonlight” viene proposta dopo un pezzo che tratta gli incubi. L'incubo non è finito, probabilmente, se rimaniamo alla corte del Re, non finirà mai: come nel celebre “Il Villaggio dei Dannati”, film del 1960 con protagonisti dei bambini tutt'altro che angelici, in questa traccia troviamo esattamente lo stesso odore di paura e terrore, velate di scintillanti perle di sudore freddo, in caduta libera da una fronte priva di razionalità. La paura, si sa, inibisce la possibilità di pensare: come potremmo reagire di fronte a uno scenario terrificante come quello che si potrebbe immaginare, trovandoci di fronte a bambini nel cuore della notte, in cerca delle proprie anime? Bambini senza occhi, mentre il fato maledetto permette a una campana così malvagia e lontana quel tanto da sembrare in un altro mondo, di sgranchire un po' il batacchio, portandosi dietro rintocchi crudeli. Corvi condottieri portano queste creature così piccole e per niente indifese verso le proprie case, mentre la luna, padrona del cielo, della notte e del mondo, vigila le ombre create di mano propria, concedendo loro il tempo per potersi dare alle più spietate e terrificanti danze. Con un riff iniziale come quello proposto dai nostri, non c'è scampo: bellezza allo stato puro, velata di un delicato alone argenteo, frenetico, adrenalinico. Un organo spettrale la fa da padrona, andando a sancire la solennità di un pezzo semplicemente spettacolare: melodicamente, ci troviamo di fronte a un titano dal gusto sublime, drammatico al punto giusto per poter sorreggere una situazione così intensa e particolare. Un picco, in particolare, di emozioni si raggiunge con l'assolo di chitarra, una tensione frenetica ma allo stesso tempo estremamente delicata, che lascia cadere una pioggia di pensieri e immagini terrificanti da un cielo plumbeo di incubi. Proseguiamo con “Six Feet Under”, energica e cupa sin dai suoi primi istanti di vita. Vagiti di puro orrore e strazio, un tormento espresso dalla voce del Re perfettamente equilibrata tra alti e bassi: un ritornello carico di un'energia nera, denso e seducente, si fa spazio tra le strofe, portando dietro a sé uno stormo di ali nere e instancabili. Al momento dell'assolo la tensione riesce a evadere da un feticcio privo di luce, nero come la notte e affannato come un corpo esanime: follia, arroganza, cattiveria. Sfaccettature di un pezzo ricco di una luce talmente nera da accecare, abbagliando con la propria bellezza e una capacità di tenere alta l'attenzione, semplicemente uniche. Ci troviamo di fronte a quello che sembra essere un qualcosa a metà strada tra uno spin-off di “Conspiracy” e un director's cut di “Them”, dove la domanda chiave sembra essere “Cosa sarebbe successo se..?”. Ebbene, cosa sarebbe successo se la madre di King e il Dottor Landau avessero chiuso il povero personaggio in una bara di vetro, per poterlo osservare nel pieno del dolore e dello strazio? Come si sarebbe sentito, quel povero inetto individuo, perso già di fronte ai mostri della propria mente, a dover affrontare il ghigno malvagio della sorella, intenta a gettargli terra sopra? Paure, sibili, sussurri di una notte racchiusa all'interno di una mente e di un cuore distrutti da una cospirazione tremenda e terribile, ed ecco che tutta la pena provata per il povero King torna, viva e carica, all'attacco. Lenta, inesorabile e assassina, “The Spider's Lullabye” pone nell'immediato le basi per costituirsi come un puro scorcio sul terrore. Un riffone energico e denso sorregge una strofa maestosa e solenne, dove il cantato del Re suona soffocato e terrorizzato, smosso nell'animo da una paura che prende piede e lascia privi di raziocinio: chitarre enigmatiche, stacchi di tastiera dal sapore orrorifico, risate che compaiono dando il benvenuto a una pioggia di brividi lungo la schiena. Un velo di nero continuamente mosso da tocchi musicali assolutamente azzeccati e terrificanti che raccontano l'incubo di qualcuno disturbato mentalmente, che vede il proprio senno scivolare via: è l'incipit della breve storia racchiusa in questo lavoro, costituito, per metà, da quello che potremmo considerare un breve concept-album, all'interno dell'album. È Harry il protagonista, un uomo recluso nel proprio cottage, terrorizzato dai ragni: deve ucciderli, continuano a presentarsi sui muri della sua casa, con una sorta di inclinazione alla beffa, allo scherno, alla presa in giro. Ciò che vuole fare è trovare un dottore che possa curarlo dalla sua aracnofobia, talmente acuta da impedirgli di non sentire in un terribile incantesimo malvagio, quella che sembra essere la ninna nanna dei ragni. Una risposta sembra giungere alle preghiere di Harry, in “Eastmann's Cure”: in un giornale locale legge infatti che al Sanatorio di Devil Lake (che ritroveremo poi in “Give me your soul...please”) è possibile curare ogni paura, ogni fobia, ogni mania, lasciando la possibilità a tutti di sentirsi esattamente come a casa propria. Immaginiamoci di vivere in uno stato angoscioso di paura perenne, e trovarsi, apparentemente, la risposta che stavamo cercando lì, stampata nero su bianco di fronte agli occhi. Con la speranza viva quanto la paura, Harry si dirige verso Devil Lake, immaginando le sue notti, finalmente, ricche di bei sogni, senza l'impressione di essere circondato da piccoli esserini terrificanti in cerca di qualche mosca da poter mangiare. È proprio il dottor Eastmann ad accoglierlo, promettendogli una guarigione e di conseguenza una vita normale. Per lui la stanza 17 e tutta la bellezza di poter sperare, finalmente, nella normalità. La tensione è evidente sin dagli inizi del brano, presentato da un bell riff tirato posizionato su un bel tappeto di drumming energico e spedito: la voce di King Diamond è a metà strada tra la disperazione e la speranza più viva, che può trovar modo di esistere nel ritornello. Subito dopo torna la tensione, la carica, la speranza e le paure di un uomo disturbato, che vede in un nome, quello del dottor Eastmann, la salvezza. Un bell'assolo seducente trova modo di dispiegarsi con grazia e un'estetica paurosa, mentre sullo sfondo dinamiche grintose si sfogano: la pace e la tranquillità giungono quando Harry si presenta al dottore, dove la musicalità prende la strada della gentilezza, in maggiore, in netto contrasto con quello che potemmo considerare un controcampo musicale dalla prospettiva del dottore. Una voce maligna, sussurrata e rauca presenta colui che dovrebbe poter ridare una vita normale a quel pover uomo, toccato dalla purezza di chi non ha altro da fare se non portare avanti una flebile speranza. Dove si trova Harry? Nella stanza numero diciassette, come ci testimonia la traccia successiva, “Room 17”. Introdotta da uno struggente giro di tastiera armonizzata su base di archi, acquista man mano intensità esplodendo in una strofa drammatica e terrificante allo stesso tempo: il ritornello lascia dietro di sé una sensazione agrodolce, amplificata dalla tensione creata da una voce strozzata, sussurrata, in grado di toccare vette così distanti per aprire il sipario sull'assolo di chitarra. Il pezzo man mano che prosegue continua a intensificarsi in quanto a vitalità ed energia, mantenendo un contatto saldo e diretto con quell'alone di mistero evocato da un organo spietato e maestoso. Tutto si ripete ancora, e ancora e ancora, lasciando indelebile nella mente e nell'anima una strana sensazione fredda e soffocante, incendiata da chitarre che vorticano su tasti spremuti a dovere e dinamiche sempre più martellanti. Cosa sta succedendo in quella stanza, così carina e curata? Harry si trova legato a un letto, ma nonostante tutto è felice. Bussano alla porta ed è il Dottor Eastmann accompagnato dall'Infermiera Needle Dear: portano con sé una borsa raccapricciante, ma nonostante ciò tentano di rassicurare il povero paziente. Il dottore, sussurra con parole dolci l'infermiera, è lì per aiutarlo. La scatola contiene nient'altro che ragni, pronti a cantare la loro Ninna Nanna, facendo così uscire di senno il povero aracnofobico: la terapia consiste in una sorta di shock, ed Harry viene così messo a stretto contatto con quello che rappresenta l'oggetto del suo terrore. Harry, tutto sommato, riesce a superare quella notte, ma il giorno seguente, alla visita del dottore, racconta la sua paura di morire per un dolore al collo, perché sa che in quella stanza qualcuno di quei ragni è rimasto a banchettare con la sua paura e il suo terrore. Nonostante il dottore provi a rassicurarlo, quella notte Harry muore e da cadavere, colorato esattamente come quei ragni disgustosi, viene portato all'obitorio. È con “To the Morgue” che si conclude il lavoro, mentre quella vita già resa instabile da una paura troppo grande, ormai è solo storia. Il povero Harry è morto dalla paura e dal dolore, abbandonato in una cella di paura e follia chiusa a chiave da un dottore che non voleva sentire: se solo avesse approfondito, il dottore avrebbe trovato quelle uova di ragno nel collo del povero Harry, dal quale, ormai, escono solo piccoli aracnidi affamati di sangue e morte. È paradossale, ma il corpo di un aracnofobico è divenuto così la dimora di centinaia e centinaia di creature velenose, disgustose, terrificanti, in grado di uccidere tormentando una mente. Il pezzo si presenta tutt'altro che drammatico o struggente, come si potrebbe pensare, entrando in scena a gamba tesa con un riff denso e carismatico: tra linee vocali assolutamente folli e distorte, dinamiche contorte ed esaltanti e chitarre piene di vigore, il pezzo si dispiega lasciando trapelare l'animo vivente e ruggente di assoli scoppiettanti,  poggiati su un tappeto ritmico pronto a cambiarsi d'abito nel giro di una battuta. Il pezzo prosegue ricucendosi su se stesso e riproponendo parti di sé inspessite a livello emotivo e curate al fine di rendere evidente l'alone di nero terrificante che aleggia su una traccia destinata a finire a rallentatore, come se quel viaggio verso l'obitorio fosse infinitamente doloroso. 



Un lavoro contorto da ogni punto di vista: “The Spider's Lullaby” non è un normale concept album, si tratta di un lavoro diviso esattamente a metà. Troviamo, come già detto, pezzi estrapolati dagli altri celebri racconti del nostro Re, storie inventate, che albeggiano e tramontano nell'arco di pochi minuti, finali alternativi ma comunque sempre tragici. E poi c'è la storia di Harry, l'ennesimo dramma forgiato da una mente troppo intensa per dar vita a finali dove tutti quanti finiscono per vivere felici e contenti. Non c'è spazio per la felicità forzata e rafforzata da quell'ottimismo così ingenuo proprio dell'esistenza umana: King Diamond prospetta la realtà dei fatti, un mondo paradossalmente così simile a quello nel quale ci troviamo a vivere dove non esistono angeli né divinità, ma esistono solo paura, dolore, crudeltà. Harry è dilaniato da un terrore che riversa in quegli esserini a otto zampe che, diciamolo, non stanno molto simpatici a tutti: rappresentano l'ignoto all'interno del noto, terrorizzano l'uomo per il loro non avere connotati riscontrabili sia nei propri simili che nel resto della fauna – a meno di altri esseri ai nostri occhi inconsueti per un mondo lineare e perfettamente creato da un Demiurgo tutt'altro che platonico, fin troppo cristiano. Probabilmente quel che il Re vuole insegnarci è che i problemi, molto spesso considerati banali o stupidi da chi li osserva da fuori, possono diventare talmente grandi da divorare non solo la mente, ma anche il corpo, lo spirito e la vita di un essere vivente. Mai sottovalutare l'importanza di ciò che dice il prossimo, specie se il prossimo si affida nelle nostre mani: si rischia di trovarsi con la coscienza pesante, sporca e dolorante. La follia è dietro la porta di ogni barriera razionale che amiamo tanto sbandierare in quanto esseri umani, e come tale è una realtà appartenente alla nostra esistenza: dove sta il limite tra una paura consentita e una paura non contemplata? La paura è un sentimento di difesa naturale, che King Diamond, ancora una volta, riesce a tramandare, istante per istante, per mezzo di accordi, assoli, acuti e rullate. La paura è un sentimento che accomuna la natura di ognuno di noi, forse è proprio questa la chiave vincente del nostro Re: il saper prendere le sfumature più nascoste e occulte di ogni sé e rappresentarle in album labirintici e contorti, mostruosi nel proprio spirito, deliziosi da ascoltare. Tuttavia, rispetto al passato, questo è un album che non riesce a farsi spazio nella mente di chi lo abbraccia come hanno saputo fare un “Abigail” o un “Them”, capolavori indiscussi nella storia del Re, ma nonostante ciò rimane un lavoro ottimo. Non si àncora così saldamente, probabilmente a causa della sua natura di mosaico musicale: brani estrapolati da finali alternativi, capitoli aggiuntivi di altre storie, scintille luminose in grado di animare un solo brano per poi spegnersi e restare intrappolate in una ragnatela. È un ragno che corre veloce, scattante e famelico, ma che per raggiungere la propria preda sceglie la strada più lunga: arrivato a destinazione, però, non lascia scampo. Tesse la sua tela e la cattura, portandola in un circolo vizioso di ascolto assiduo di brani tanto validi quanto, purtroppo, sottovalutati e sconosciuti ai più.


1) From the Other Side
2) Killer
3) The Poltergeist
4) Dreams5 - Moonlight
6) Six Feet Under
7) The Spider’s Lullabye
8) Eastmann’s Cure
9) Room 17
10) To The Morgue

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