KING DIAMOND

The Graveyard

1996 - Massacre Records

A CURA DI
ELEONORA STEVA VAIANA
30/08/2014
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Recensione

Leggende, mostri, sussurri e tormenti: King Diamond non delude mai. Nel 1996 il Re, dopo aver firmato con Massacre Records, rilascia un album molto sottovalutato, che per alcuni determina l'ultimo grande lavoro di Sua Maestà, ancora in grado di aggrapparsi a un passato che annovera tra i suoi annali, pezzi d'oro come Them o Abigail. Stiamo parlando di The Graveyard, un disco che segna una svolta stilistica e compositiva in un Re con dei vassalli pronti a dare il tutto per tutto – come sempre. Con un immancabile Andy LaRocque alla chitarra, braccio destro in grado di sfornare meravigliosi riffs e assoli che si imprimono, inevitabilmente, in ogni anima e in ogni ricordo, il disco fu rimasterizzato dalla sua produzione nel 2009 per una ristampa: parliamo di un lavoro che ha avuto un successo immenso, a differenza di quanto si possa pensare, raggiungendo la ventitreesima posizione nella Classifica Finlandese, dove è rimasto saldamente ancorato nella Top 40 per due settimane. Assieme a LaRocque troviamo Herb Simonsen (chitarra), Chris Estes (basso) e Darrin Anthony (batteria). Come possiamo notare, il buon vecchio Hal Patino, padrino di lavori del calibro di Them (1988), Conspiracy (1989) e The Eye (1990) non fa parte di questa line-up, nonostante abbia affiancato King Diamond per le produzioni successive di Abigail II: The Revenge (2002), The Puppet Master (2003), Deadly Lullabyes (2004) e Give Me Your Soul...Please (2007). Recentemente un comunicato ufficiale sulla pagina del Re e dell'ormai ex bassista, ha annunciato la dipartita (o forse dovremmo dire il licenziamento) di quest'ultimo, già licenziato nel 1990 per motivi inerenti all'abuso di droghe delle quali, secondo King Diamond, avrebbe ricominciato a far uso. Questa dipendenza reiterata avrebbe fatto sì che Hal Patino fosse diventato troppo vago e poco affidabile nel suo lavoro, e l'unica possibilità era per questo motivo un licenziamento in tronco. Il bassista, dal canto suo, ha risposto alle accuse del Re, dichiarandosi fuori da qualsiasi abuso di sostanze stupefacenti, e rincarando la dose definendo il cantante come un uomo ormai vecchio, triste e stanco. Che Hal ritorni in futuro? Chi lo sa. Quel che è certo è l'abilità del nostro Re in grado di donarci e offrirci veri e propri masterpieces in qualunque circostanza: parliamo di un disco differente dal solito, ricercato, intrigante e misterioso in una maniera differente da quella solita di stampo King Diamond.



Un tuono squarcia la notte di una title track pregna di nero fin dai primi istanti di vita: un coro in grado di evocare una teatralità pietrificante accoglie le domande di un soggetto sperduto, che non sa dove si trova. O meglio, lo sa, ma forse sarebbe meglio se non lo avesse scoperto: un cimitero dimenticato da Dio, con ricordi confusi che attanagliano una mente in grado di ricordare a poco a poco che quella ormai è diventata la sua nuova casa, e che nessuno lo troverà mai più. La follia di una mente deviata dalle voci di un inferno tangibile si riversa in risate convulse e isteriche, parole pronunciate con un tremolio, in grado di trasformarsi repentinamente per divenire un gelido grido rauco, distrutto, perduto. Con un riff cupissimo e ben piazzato si presenta “Black Hill Sanitarium”, titolo di un capitolo doloroso di un soggetto rinchiuso e imprigionato in un labirinto di follia: ha passato troppo tempo racchiuso in quel mondo, dove le malattie mentali di pazienti abbandonati si incontrano, abbracciandosi e culminando in un tripudio di deliri. Tutti, là dentro, hanno perso la loro volontà, scambiata con quella delle cure che placano un'anima dannata, fendendole la vitalità, togliendole l'umanità, conducendo chi già si trovava in un sentiero folle, sulla strada maestra della pazzia più assoluta. Un nero assoluto cala il sipario sulla sua mente, squarciato dal bianco di quei camici così presenti e così odiosi, deliziati dal piantare aghi nella mente di chi desidera soltanto fuggire da una prigione di tormento. La traccia zampilla sgorgando in deliziose alternanze tra mid-tempo e up-tempo timidi, dove la gli acuti alternati a un grottesco rauco di King, incrociano chitarre inacidite che, tuttavia, non perdono l'occasione di sfociare in deliziosi giri di accordi aperti e goderecci, come nel caso del ritornello. Assoli fugaci, ma densi e solenni, donano alla situazione un'atmosfera al limite col drammatico, mentre le pelli si incendiano in una danza incessante, a passo determinato e sostenuto laddove se ne senta il bisogno. La tensione è evocata a gran voce e a tutta corda da strumenti che non si lasciano impietosire di fronte a una situazione di evidente pazzia, e se ne può scorgere la presenza effettiva dalle ritmiche e dalle tonalità scelte per animare la traccia. Un inizio inequivocabilmente equiparabile alla splendida “Welcome Home” (Them- 1988) introduce “Waiting” che si trasforma da ruggente fiera affamata, in una traccia elegante, felina, sinuosa: il riff portante, un mantra elettrico di scariche potenti e prepotenti, picchia duro sull'acceleratore di un'intensità semplicemente additiva. La voce del Re prosegue in quel cammino fatto di paure, follie, voci e ombre che caratterizzano un personaggio stremato dai mostri di una mente plasmata dal Black Hill Sanatorium. Le dinamiche del pezzo lo rendono soffocante, viene crudamente tagliato da risate acute e assoli pieni, lisci e sensuali, in una rincorsa incessante di strofa, ritornello e bridge. Il pezzo si trasforma assumendo l'aspetto di un doom funereo per poi tornare a correre nella frenesia di pipistrelli e demoni dispettosi, immancabili in un'opera firmata King Diamond: l'oscurità permea ogni strumento, rendendo l'ascolto inquietante e da brividi. Un coro di voci annidiate nel riverbero di una stanza serrata nella mente di chi non riesce più a vivere, supporta un finale che apre la porta a una storia sempre più strana, sempre più agghiacciante. L'attesa è il tema portante di questo brano, evocata non solo da una musicalità frenetica, ma densa di elementi intensi, ma anche dalla storia del protagonista che avevamo lasciato immerso nel proprio odio per gli infermieri del Black Hill Sanatorium. Sono tornati, è l'ora delle sue pillole, del suo relax da prendere per via orale, così abile nel calmare anche la mente più infuriata, eppure così capace di uccidere: non riesce più a sopportare un'altra notte in quel posto. Basta, non sopporta più nessuno, non sopporta più quel torpore cerebrale col quale è costretto a convivere per non potersi sottrarre alle cure. Ci vuole un piano: con la lucidità che gli è rimasta, pensa alla cara infermierina che ha deciso di portarsi dietro le chiavi della sua camera – prigione, la vuole prendere, la vuole uccidere. Le sue mani forti si trovano così a strangolare una vita ignara di essere al capolinea della sua esistenza, finché non giungono un paio di occhi vuoti a confermare il tutto. Finalmente, la libertà. La possibilità di sentire, vivere e respirare l'essenza di una foresta assonnata, interrotta nel cuore della notte da un'anima in pena: 666 miglia a corsa tra gli alberi per arrivare là, a quel cancello da scavalcare, a l'unico posto in grado di esser definito casa. Il cimitero. In “Heads on the Wall” si trova, finalmente, nella sua nuova casa, una tomba sola e abbandonata dove non si sente più solo. Sono passate poche ore dalla sua fuga che riesce a ricordare alla perfezione: doveva farlo per forza. Osserva quelle che sembrerebbero essere teste appese al muro, frutto di un'usanza tanto superstiziosa quanto terrificante nella sua intenzionalità: si dice che lo spirito non è in grado di abbandonare un corpo al quale è stata tagliata la testa in un cimitero, ma continuerà a vivere nel tormento di una mente intrappolata per l'eternità. Mentre stava scavalcando il cancello verso la sua nuova casa, ha, però, intravisto un soggetto intento a scavare nel suolo sopito nel sonno della notte: il becchino. Jeremiah ha lavorato in quel luogo per molti anni, si occupa di morte da talmente tanto tempo, da essere ormai già con un piede nella fossa. Grazie all'aiuto di King, folle protagonista di questa storia ancor più folle, adesso di piedi nella fossa ne ha due, esattamente come Mary, la prostituta trucidata mentre si recava in chiesa per riempirsi le tasche di soldi grazie al reverendo, e Jesse Bell al quale augura di riposare per sempre all'Inferno. Nessuno deve scoprire niente di tutto ciò, gli unici che potrebbero parlare sono quegli spiriti senza testa intrappolati nella sua casa, intenti a osservarlo, mentre lui pensa solo a non essere mai trovato da nessuno. Specialmente da quell'uomo. La traccia si apre con un timido arpeggio di chitarra appena effettata, lento e malinconico, quasi a evocare il risveglio di chi ha trovato la libertà per andarsi a confinare tra le tombe di un cimitero: strumenti delicati abbracciano la voce di King Diamond, acuta e sussurrata, intenta a trasformarsi in sussurri deliziosamente terrificanti. Man mano che il pezzo tesse la sua tela, le dinamiche vanno a intensificarsi, per esplodere in un tripudio di potenza in un ritornello semplicemente bellissimo: il tempo di prendere fiato, ed ecco di nuovo la situazione iniziale, lenta, delicata, pacata. Adrenalina possente alternata a una calma piuttosto bizzarra, dato il contesto e la situazione, spezzata da intermezzi e intervalli di sei corde a dir poco entusiasmanti. Un finale da brividi sulla schiena, sancito dai lamenti di voci tremolanti, stridule e acute: si trasformano in un mantra terrificante, quello della fulminea “Whispers. Trenta secondi appena per dire che “Devi andare a prendere sua figlia”, frase ripetuta per quattro volte: infine una sentenza, riassunta semplicemente in quattro lettere. Un nome, quello di Lucy, accompagnato da un funereo rintocco di campana. Lucy è colei che è stata osservata per tutta la settimana, è stata pedinata e spiata anche a scuola, è stata studiata nelle abitudini quotidiane. Ce lo racconta King in “I'm Not a Stranger”, la storia di un piano tramite il quale proporsi alla ragazza come un amico al quale tenere la mano, non un estraneo, un salvatore che la riporterà a casa di papà. Lucy ha degli occhi bellissimi, dei capelli lucenti. Avrà al massimo sette anni. Lui non gli ha mai fatto male, non potrebbe mai fare del male a una così dolce e innocente ragazzina, ma ciò non toglie il fatto che lei dovrà sottostare alla sua volontà e andare dove dice lui, senza fare capricci. Per tranquillizzarla la rassicura dicendole di avere bellissime bambole a casa sua, addirittura le ha fatte lui stesso: la piccola potrà giocarci ancora e ancora, finché suo padre non andrà a riprenderla. Un racconto raccapricciante, a metà strada tra il delirio e la follia più torbida: musicalmente veniamo introdotti da un riff stoppato dove la ritmica risulta subito ansante e adrenalinica. La strofa si presenta ricca di una tensione puramente nera, acida e corrosiva, con la voce del Re a farla da padrona, vestita di una nota piuttosto affannata e psicotica. Già, perché le psicosi di King si riversano nella voce del Re, in grado di coglierne ogni sfaccettatura, vomitandola con quel tremore vocale che non lascia spazio ai buoni presentimenti: un assolo elegante e vorticoso interrompe quella situazione, che si riprende per poi andarsi, di nuovo, a sciogliere in un altro ballo di sei corde delizioso. Riparte nuovamente la strofa, con gli strumenti inspessiti nell'intensità e una voce sempre più esasperata dai demoni che vivono una mente spezzata, frammentata, corrosa dall'acido della pazzia. Con un intro molto intrigante e solenne, “Diggin Graves” si apre con una chitarra vorace e dei rintocchi di campana per niente rassicuranti, destinati a ripresentarsi a cadenza regolare, per sottolineare un'atmosfera funerea e dai tratti doomeggianti. Mid-tempo intensi e densi di nero, dell'odore di quel cimitero divenuto la casa di un pazzo, degli spiriti dei decapitati destinati a rimanere inquilini per sempre di quel luogo terribile: probabilmente l'apice del brano si raggiunge con la comparsa delle tastiere e di un ritmo trionfante, elementi lasciati da parte per dare spazio a un trionfale ritorno in scena di chitarre e basso. Un bellissimo giro di accordi, letteralmente da brividi di puro piacere, rende la situazione drammatica, fino a toccare livelli inaspettati e tingendosi di armonie purissime: l'esplosione di un bell'assolo pieno, che si districa su tonalità più alte e ritmiche sempre più calme, rende la situazione commovente, quasi. Una situazione che non promette niente di buono, il trionfo di una follia funebre che sfocia in note dissonanti e ritmi rituali: la conclusione è affidata alla ripetizione profusa della frase “Io vado nella notte, e tu non puoi seguirmi.... Che cosa accade? Lucy è costretta ad attendere che King scavi quella fossa, sorvegliata dalle bambole con le quali dovrebbe giocare. Lui, nel frattempo, riflette sul fatto di non essere più lo stesso, di aver lasciato metà della sua sanità mentale indietro in quel posto insano: questo significa che lui è pazzo? No, non è sua la colpa. Lui vaga nella notte e nessuno può seguirlo: sarà la miseria del suo prossimo, sarà un inferno. Ha scavato almeno sette tombe, illuminato dalla purezza della luna: tutte le tombe sono pronte, spunta così il nome di McKenzie, subito dimenticato per lasciare spazio all'ennesimo delirio. Su ogni tomba ha scritto “Lucy Forever” (Lucy per sempre), finendo per entrare così in un labirinto di tormento, frasi ripetute ancora e ancora e ancora. I tasselli di questo mosaico così fumoso cominciano a sistemarsi con “Meet me at Midnight”, dove King dice di aver svegliato McKenzie nel cuore della notte gridando al telefono “Sorpresa!”. King, così, dimostra a quell'uomo di essere ancora vivo, di avergli da dire molte cose: chi è questa misteriosa figura? È il sindaco della città, una città ormai dimenticata da Dio. Per dirla tutta è il padre di Lucy e l'uomo che lo ha fatto sprofondare nella follia, pur essendo molto più pazzo di lui. Gli chiede, semplicemente, di incontrarlo al cancello del cimitero a mezzanotte, altrimenti sarà morto. Ed ecco comparire una goccia di quella pazzia intenta a piovere in una mente sprofondata in un acquitrino di tristezza e dolore: la vendetta è molto dolce, specie nei confronti di un porco maniaco come quel maledettissimo sindaco. King lo ha beccato, una notte, a molestare la sua bambina, ma invano ha tentato di denunciare l'accaduto: hanno dato retta al mostro, hanno dato retta al sindaco. La tematica musicale di questo brano appare immediatamente incentrata su un sentimento di disgusto, impossibile da non sentire scorrere nelle vene dopo aver scoperto lo svolgimento di una storia così triste. La voce del Re risulta molto acuta e intensificata da un coro di voci posate su un bel tappeto ritmico e chitarristico: il tutto è condito con una bella spolverata di inquietudine e tensione resa folle dalla presenza di stacchi e up-tempo, inaspettati e ben posizionati. La cosa probabilmente più ammirabile è il cambio di sentimento apportato dai diversi accordi evocati: ci troviamo a sentire in bocca il sapore del putrido, finché non compare una deliziosa inondazione di miele. Suona strano, suona terrificante, suona disgustoso: il disegno di una mente bruciata dagli errori e dai crimini commessi dal rappresentante dell'umanità redatta in una cittadina, perfettamente delineato da tratti musicali adrenalinici e ansanti. La telefonata di King a McKenzie risulta una conversazione priva di risposta, il sindaco non risponde, si sente semplicemente la voce del Re parlare in una morsa di gioia assolutamente folle, finché il brano non si conclude. Poche note soffici regalate da una tastiera, introducono con delicatezza e dolcezza malinconiche “Sleep tight Little Baby”: cosa c'è di più terrificante di un un presunto malato mentale intento a tranquillizzare una bambina, invitandola a riposarsi nella sua bara? Un delirio vomitato e reso vivo dall'atmosfera semplicemente tremenda, una bambina tanto piccola, costretta a dormire sottoterra insieme ai vermi. King, nel frattempo, aspetta che McKenzie si faccia vivo, mentre i ricordi continuano a tormentarlo: quelle grida stridule di un'anima innocente, la promessa di fare tutto ciò solo per lei, Lucy. Alla vista di quella faccia maledetta, King invita il sindaco a entrare nella sua umile dimora, situata appena dietro il cancello di quel cimitero: solo così potrà sperare di rivedere di nuovo sua figlia. “Caro Signor Sindaco, benvenuto nella mia umile tomba. Si accomodi pure, lo sa che non ha scampo” ( Dear Mr. Mayor, welcome to my humble tomb / Come inside, you know you have to). Le liriche di questa traccia si trinciano di netto, preparandoci a un orizzonte incerto e poco rassicurante. Le emozioni e gli stati d'animo di King si susseguono e si palesano a partire dal tono di voce col quale interpreta l'uomo premuroso che ha da badare a una giovane vita, mandandola a letto come farebbe un padre modello: sull'arpeggio di tastiera iniziale, va a incastonarsi il pianto di un bambino, così fragile eppure così inaspettato, da far trasalire la situazione che ha così modo di evolversi, assumendo le vesti di una ninna nanna inquieta e sinistra. Al lamento di King e alla tastiera pacata, vanno ad aggiungersi gli altri strumenti, che suonano quasi come se avessero rispetto del sonno di Lucy: ritmi pacati ma potenti al punto giusto, la voce del Re arricchita da un falsetto a mo' di coro, un bellissimo tappeto di sei corde e un basso presente al punto giusto. La traccia si spezza a metà in concomitanza dell'arrivo del Sindaco, riprendendo il tema iniziale di apertura: dopo uno stupendo assolo, giungiamo alle porte di un'evoluzione molto emotiva e drammatica, un ponte di congiunzione con il ritornello, di nuovo. Le battute finali si fanno più intense, emozionalmente paragonabili a un branco di demoni infuriati e pronti a caricare, dove la rabbia, l'odio e le ombre si stagliano tra le prime file di una danza nefasta. E finalmente, con un King in preda alla follia più acuta e vibrante, assecondata da note soavi, si chiude il pezzo, con il tonfo sordo di un pesante portone sbattuto. È un clavicembalo a riprendere il mood lasciato da “Sleep tight Little Baby” contestualizzandolo alla situazione proposta dalla successiva “Daddy”: la bellezza di una successione di accordi così raffinati, spinge i nervi di tutto il corpo a tremolare per piangere la disperazione di una bambina sola e terrorizzata. Lo splendore delle corde toccate nei brevi assoli posizionati nella traccia, trascina un pathos unico, bello, commovente: la strofa e il ritornello si costituiscono per la presenza di dinamiche delicate ma energiche, sorrette da un tappeto strumentale serrato, tuttaavia tranquillo. Man mano che il pezzo avanza, arriva in scena, sinuosa, una cattiveria folle e omicida inaspettata, con la voce di un Re pronta a indossare le vesti del pazzo furioso, della bambina terrorizzante, del misterioso personaggio che sembra sempre più essere McKenzie. Già, è proprio con questa parola che la traccia si trincia di netto: un delirio fulmineo carico di sensazioni travolgenti racchiuse in una bolla di appena 3 minuti. Probabilmente il pezzo più bello dell'intero lavoro, incentrato sulla visione di Lucy, che finalmente rivede suo padre dopo così tanta paura e disperazione. Un padre, però, destinato a scomparire nei meandri di una terra così avida di vitalità. L'oscurità lo attende ed è il minimo che un pervertito bastardo come quell'uomo si meritera. È la volta di “Trick or Treat”, che si presenta con un energico giro di chitarra, al quale si affianca la voce possente del Re. Rauca, si stravolge repentinamente divenendo un perfetto acuto modulato, si trasforma ulteriormente prendendo le vesti di una risata sadica e piena di livore, mentre gli strumenti preparano un campo di battaglia entusiasmante e dallo stampo molto classico. Un susseguirsi di accordi d'impatto, sostenuti da ritmiche pacate, ma ben dosate in quanto a forza e vitalità con stacchi ponderati, perfetti per dosare il grado di suspance di questo brano. Giungiamo all'assolo, trovandoci immersi in un vortice di spilli pronti a donare un sussulto, un'emozione molto intrigante, in grado di accavallare ansia e piacere estatico. Procediamo di nuovo a partire dal riff iniziale, per trovarci di fronte al mantra musicale già sperimentato nel corso della traccia, arrivando a una conclusione netta e dolorosa. Dolcetto o scherzetto (Trick or treat?) è la classica espressione tipica dei ragazzini in cerca di dolcetti nella notte di Halloween. In questo contesto, però, non c'è spazio per i dolci, ma solo per un interminabile gioco di guardie e ladri, ideato dalla mente sempre più contorta di King. Lucy sta dormendo in una delle sette tombe. Suo padre, il sindaco, si trova bendato, vittima e complice di un gioco che, nel caso in cui dovesse perdere, non prometterebbe niente di buono: potrà sbagliare solo tre volte, nella ricerca di sua figlia, la terza opportunità non ci sarà. Dove si trova Lucy? Qual è il dolcetto e qual è lo scherzetto? King ricorda al suo ospite che la bambina, nel frattempo, potrebbe anche ormai già essere morta, per questo motivo gli consiglia di iniziare a scavare subito, prima che i vermi diano inizio alle danze e al banchetto della putrefazione. Scava una volta, scava la seconda...in entrambi i casi non si tratta di Lucy. Ha una sola chance rimanente, dovrà giocarsela bene per riavere tra le braccia la bambina: la fortuna è dalla sua parte, McKenzie riesce a trovare sua figlia; tuttavia, in un gioco, è chi organizza a scegliere le regole e King, in questo caso, come un giudice supremo dalla volontà incontrastabile, decide di ributtare entrambi in quella tomba, legandoli, inevitabilmente, a un destino di morte. “Up From the Grave” si agghinda di uno spettrale velo intangibile, ma evidentemente presente sin dai primi istanti di non-vita. Note inquietanti di synth, ripetute e cadenzate quasi fossero un eterno e doloroso ritorno, accompagnano in una danza macabra la voce del Re, che si presenta carica di tensione, di paura ma anche di un'eccitazione malata frutto della mente sadica di un personaggio impazzito. Risatine isteriche, stacchi di tastiera, un ritornello a dir poco orrorofico, scandito da un mid-tempo arricchito dal suono lontano e fluttuante di miliardi di voci intente a parlare in una mente malata. Una melodia infantile, un La la la la pronunciato da una voce completamente fuori di senno: panico, nient'altro, cadenzato da un ritmo rituale scandito da una batteria in sordina. Una ripetizione incessante di quel tormento sempre uguale a se stesso, dove la follia di King prende piede, aprendo le ali e avviandosi in un volo destinato a concludere nel buio di una mente serrata dalle paranoie e dalle ossessioni. Niente chitarra, niente basso, niente di niente: solo un synth, dei colpi possenti alle pelli e King intento a guardare dall'alto della sua posizione quegli occhi gettati in quella tomba. La paura, la pena e il tormento di Lucy, ossessione e convinzione di un King che ha ormai oltrepassato il limite del non ritorno, lo portano a cercare di scavare per farla respirare di nuovo, rassicurandola del fatto che papà la sta salvando. Si rende conto di avere una mente totalmente contorta e priva del minimo filo conduttore, passando da un momento all'altro dalla lucidità alla follia più accecante: chiede alla piccola, infine, come si sente, e come la fa sentire quell'uomo in grado di cantare tanto dolcemente per lei. Dalle note iniziali di tastiera e basso di “Am I” si comprende quanto ormai la mente di King sia tremolante, in cerca di un barlume di luce introvabile: un bel riff ritmato e arricchito da stacchi di organo, accoglie la voce del Re. Tipico duetto voce acida-voce acuta, per un duello incontrastato con un'intensità che via via prende piene. Drammatica, tragica e particolare nelle sensazioni evocate, la traccia prosegue fluida fino a raggiungere l'apice con un bell'assolo articolato, che segna lo stacco tra la prima e la seconda strofa. La voce del Re diviene più possente e rauca, seguendo la linea musicale che si inspessisce esplodendo in una meravigliosa evoluzione armonica. Uno stacco di voce disperata e organo, apre la porta su un assolo dolce, pulito, bello ed emozionale, alternato a un altro assolo più energico e convulsivo. Torniamo di nuovo sulla melodia del ritornello e assistiamo a una ripetizione della struttura del pezzo che si conclude con un folle Re intento a gridare in tutti i modi possibili la parola die (muori), con la quale si conclude il pezzo. In questo saliscendi emozionale, troviamo King sulla soglia della tomba della piccola Lucy, seduta sul pavimento. McKenzie è impietrito dalla paura sui mattoni di un suolo destinato a divenirgli famigliare: già, King è il giudice supremo di giustizia, pronto a condannare il Sindaco per aver abusato di quella povera bambina. Nella follia del suo film mentale, è anche il suo avvocato, pertanto gli domanda cosa ha da dire, se si dichiari colpevole o...colpevole. La sentenza per aver rubato l'innocenza a quel mostro è semplice, diretta e tremenda: lui deve morire. A concludere The Graveyard troviamo “Lucy Forever” presentata dal Re intento ad alternare un cantato a un parlato, su di un tappeto di chitarra acida. Mid-tempo e tonalità strazianti rendono il brano ricco di una tensione genuina e algida, pronta a scorrere lungo la schiena fino a esplodere in una pioggia di stalattiti nel ritornello. Strazio e tormento costituiscono la spina dorsale di questo brano, dove incontriamo un Re intento a raccontare l'agghiacciante situazione, sfruttando un'impostazione vocale che rende il tutto ancor più terrificante. Qualche timido up-tempo prende piede per andare a inspessire la situazione, che si fa sempre più carica di adrenalina portando dietro di sé una scia di accordi belli e sopraffini. Uno stacco ritmico porta la situazione su un altro livello, giungiamo così nelle profondità di una mente sempre più in procinto del collasso totale, inciampiamo in un assolo veloce e brillante, per poi finire, di nuovo, nel ritornello conclusivo. L'epilogo su una storia tragica che si conclude con un finale agrodolce: è Lucy a dover decidere il momento in cui King dovrà agire, e il papà non ci sarà più. Scomparirà. Il sole, intanto, è già alto nel cielo, mentre Lucy gioca con una cordicella trovata in quel luogo misterioso suscitando i timori più acuti del povero insano di mente: attaccato a questa cordicella si trova un vetro appartenente a una vetrata di una vecchia cappella che decapita King. La leggenda che tanto lo tormentava si è resa realtà, King è ormai soltanto una testa buttata su un gelido pavimento: il suo destino è segnato, non potrà più abbandonare Lucy, starà per sempre insieme a lei. Per sempre.



Un viaggio attraverso una valanga di paure, di atmosfere, storie e leggende: The Graveyard è un lavoro che riesce a unire un bellissimo passato gotico, fatto di ombre, natura selvaggia e spettri intenti a popolare i luoghi più cupi di un mondo immaginario o reale che sia, a un presente, purtroppo, attuale, parlando di abusi sessuali su bambini e abusi di potere. Il lavoro si presenta come ben strutturato, maturo e differente probabilmente da tutta la discografia del Re, finora prodotta: con tratti praticamente doom e una levigata generica allo sfarzo e all'abbondanza (sempre ben gradita) tipicamente King Diamond, questo lavoro si caratterizza per l'unione caratteriale della musicalità. È un concept album, in questo caso, anche a partire dalle melodie e dalle armonie, dai ritmi e dalle scelte delle linee vocali, non semplicemente per quanto riguarda la tematica e la storia affrontate. L'artwork si presenta molto azzeccato, un sunto in immagini di un luogo misterioso trasformatosi nella casa di un protagonista destinato a una vita di pazzia e tormento: una bellissima illustrazione di una lapide antica in controluce, avvolta in una patina violacea fumosa e intrigante. La storia di King e della piccola Lucy risulta molto triste e agrodolce: il quesito centrale, la domanda che permane una volta terminato l'ascolto, è una sola. “Chi è il cattivo?”. Già, perché abbiamo un Sindaco McKenzie malato esattamente come malati sono tutti i bastardi di qualsiasi età, che toccano o anche solo pensano a un bambino in maniera sessuale; ma abbiamo anche un King che sì, inizia la sua missione di vendetta per la piccola Lucy dopo aver assistito al suo abuso, ma finisce per torturare un uomo e terrorizzare una bambina di sette anni, sola in un cimitero con uno sconosciuto, per di più fuori di senno. Si risvegliano, così, quesiti morali tipici appartenenti alla nostra società e particolarmente attuali, come quello della legittimità della giustizia fai-da-te in casi così gravi e, se vogliamo procedere più a fondo, quello della pena di morte. King, fin dall'inizio, si presenta però anche come una vittima innocente caduta a piedi uniti in un mondo di segreti e orrori al quale non apparteneva – forse -, ma nel quale è costretto a entrare dopo aver assistito a quel raccapricciante momento. Una vittima che cerca di aiutare la vera vittima, Lucy, abusata nel corpo e nell'anima dall'uomo del quale si sarebbe dovuta fidare più al mondo, suo padre: dalla padella alla brace, finisce dalle mani di un aguzzino spietato e vizioso, a quelle di un uomo che pur volendola aiutare, la sottopone a torture mentali e frutto di una psiche stravolta dalla follia. Finisce per tornarsene nella casa degli orrori e degli abusi, con la maledizione di una leggenda che costringe un'anima già dannata in vita, a vivere per sempre intrappolata in una dimensione di realtà dolorosa e una testa che canta il suo folle destino. E alla fine, quindi, chi è il vero cattivo? Probabilmente, l'unica risposta pacificatrice, è semplice: è proprio il destino, in grado di architettare tutto quanto dall'alto del proprio essere impavido. Perché il destino non si pone quesiti morali, semplicemente agisce seguendo la propria linea che a tratti risulta essere sadica e mordace: un destino beffardo che ha fatto in modo che le storie, le leggende e le vite di tre personaggi ignari del loro futuro, si incontrassero in una storia agghiacciante, musicata da una mente che, come sempre, risulta in grado di stupire. Si toccano le vette massime dell'emotività con pezzi considerabili masterpieces, come ad esempio “Black Hill Sanitarium”, con il suo ritornello difficile da scacciare dalla memoria, o “Daddy”, struggente e maledetta nella sua ripetitività e dolcezza d'animo. Si toccano, perché no, i lidi di una follia condivisibile a tratti, un tornado in grado di tirare su un polverone che ha dell'incredibile, sprizzando domande e interrogativi, le cui risposte non tarderanno a spaventare. La pena provata per McKenzie ci farà sentire dei mostri, perché per un mostro non si può avere pietà; l'odio nei confronti di Lucy, quando cercherà di liberare il suo papà, si tramuterà immediatamente in un rimorso pesante, non si può odiare una bambina che semplicemente e nonostante tutto, a quell'uomo vuole bene. E poi King, un uomo distrutto dalla pazzia gettato tra le braccia dell'insanità mentale, semplicemente, dal destino, subirà una serie di inchieste da parte della coscienza di ognuno di noi, che ci farà assaporare, in piccola parte, quel gusto amaro e velenoso di vivere la vita in un oceano di opposti, che non si attraggono, ma si respingono. Un eroe marcato di un nero profondo, colpevole soltanto di essersi trovato tra le fauci e i pensieri del burattinaio per eccellenza: King Diamond!


1) The Graveyard
2) Black Hill Sanitarium
3) Waiting
4) Heads on the Wall
5) Whispers
6) I'm not a stranger
7) Digging Grave
8) Meet me at Midnight
9) Sleep tight little Baby
10) Daddy
11) Trick or Treat
12) Up from the Grave
13) I Am
14) Lucy Forever

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