KING DIAMOND
Fatal Portrait
1986 - Roadrunner Records
ELEONORA STEVA VAIANA
09/01/2014
Recensione
Era il 1986 quando King Diamond debuttò con questo nome, grazie all’album “Fatal Portrait” (Roadrunner Records). Dopo lo scioglimento dei Mercyful Fate, dovuto a contrasti tra i due leader, King Diamond e Hank Shermann, il Re, per nostra fortuna, decide di portare avanti la sua carriera musicale, sfruttando il proprio nome d’arte. I suoi fedeli ex-Mercyful Fate, Michael Denner (chitarra) e Timi Hansen (basso), lo seguono in questa nuova avventura, e il Re si circonda di prodi musicisti come il mitico Andy LaRocque (chitarra) e il grande Mikkey Dee (batteria). Un quintetto destinato a dar vita a un nome, a una vera e propria pietra miliare del panorama musicale metal che rimarrà per sempre e solo lui, il Re: King Diamond. Una spaventosa melodia spettrale ci introduce “The Candle”, dove troviamo dei primi indizi piuttosto fumosi, sulla storia offertaci dal Re. Una sorta di formula rituale viene pronunciata da un coro di voci inquietanti, che leggono dal misterioso libro di Jonah parole piuttosto strane: si dice che siano passati sette anni, che la candela deve bruciare, bruciare, bruciare e bruciare ancora, per poter liberare lo spirito intrappolato in quella catena. Pronunciata la formula, si avvia uno splendido giro di organo, il quale apre la porta a un inizio energico che definire spettacolare è poco: la situazione si viene a creare per gradi e all’ingresso in scena di batteria e chitarra un brivido lungo la schiena, carico di adrenalina, sorge spontaneo. Nella strofa compare la melodia vocale, che spiega di come il protagonista, ogni volta che accende una candela, si trova irradiato dallo stesso volto femminile che appare. È forse un sogno? Ecco che la situazione viene spezzata da un primo assolo firmato Michael Denner, mentre sullo sfondo si ripete il tema portante, letteralmente godurioso e assolutamente additivo. Eccoci di fronte a un geniale scambio di voci che si alternano, la prima spettrale e con un alone cimiteriale attorno, la seconda in classico stile King Diamond: la faccia comparsa dalla fiamma della candela pronuncia la parola “Jonah” e il Re ce lo racconta con una favolosa voce diabolica, acuta e spinosissima. Un bell’assolo vorticoso firmato, questa volta, Andy LaRocque, rinvigorisce la situazione, e dà l’estrema unzione al brano che, dopo la ripetizione del tema centrale, si spegne. L’atmosfera riproposta dal pezzo è talmente curata da riuscire a sentire quasi l’odore di una candela che brucia prima, e che si spegne sotto la flebile forza di un soffio poi; allo stesso modo l’adrenalina, perfettamente mixata al terrore dell’ignoto, è assolutamente percepibile. A questo si aggiunge poi la tecnica sfruttata per raccontare la storia: le carte in tavola sono molte, ma poche di queste sono svelate. Un esempio ottimo per dimostrare la capacità di saper creare una situazione che intrighi, dal punto di vista musicale e letterario: in sostanza uno dei principali punti di forza e innovazione del nostro carissimo Re. Giunti a “The Jonah”, un’orrorifica intro di tastiera accoglie il sottovoce di King Diamond che, con un bel tocco di malvagità, parla del libro, che per 7 anni è rimasto toccato solo dalla polvere su di uno scaffale, un libro nel quale è stato sigillato il destino di una ragazza. Il riff che apre il pezzo è bello corposo, intrigante e assolutamente orecchiabile: un cambio di scena graduale presenta la melodia che va a sostenere la voce in falsetto del Re. Che dire di questa evoluzione? Assolutamente perfetta, commovente, ricca di pathos e travolgente. È un turbinio di sensazioni che si alternano tra loro, si passa da una tristezza amara, a un sentimento più rabbioso. Il protagonista vuole qui liberare la ragazza dalla Candela del Destino, pronunciando i versi che l’andranno a sciogliere dalla sua prigione, spezzando quella catena di dolore e donandole finalmente la libertà. Un assolo intrecciato a quattro mani, porta con sé una potenza inaudita, mista a una sensazione di libertà e vitalità descritta dai tasti toccati, che arrivano a richiamare poi un vorticoso senso di perdita dei sensi, di convulsioni, di nausea e terrore. Dopo uno stacco vocale si torna sui passi della strofa, avvolti però in uno stato di sospensione, di incertezza e insicurezza: il pezzo dona un senso di sospensione in sintonia con l’evoluzione della storia. La storia non si rivela, ma, anzi, aumentano gli elementi in gioco, che la rendono un vero e proprio giallo, un vedo/non vedo sul destino dei personaggi, delle atmosfere, dei risvolti storici e situazionali. Ecco che qualche elemento viene a galla con “The Portrait”, dove lo spirito della candela finalmente racconta la propria triste storia. È la storia di una madre che, per una folle gelosia acuta, non voleva che nessuno guardasse sua figlia, Molly. Per questo motivo decise di rinchiuderla nell’attico della loro casa, finché la ragazza non morì: distrutta da questa terribile perdita, la madre di Molly decise di dipingere il suo ritratto, e, una volta finito, posto un sigillo magico su di esso, lo bruciò sulla Candela del Destino, condannando sua figlia a un drammatico, doloroso, eterno ritorno. Il pezzo si muove su di un riff dalle dinamiche spedite e corpose, con un acutissimo King Diamond in falsetto, in grado di richiamare alla mente il terrore, il dolore e il mistero celato dietro a questa strana storia. Ogni elemento musicale dà vita a uno scenario adrenalinico, affannoso, una corsa contro il mistero, l’occulto e la follia più spaventosa: siamo a metà strada tra lo strazio di un’anima intrappolata e quello di chi vorrebbe fare qualcosa per salvarla, ma può solo restare immobile a marcire nel più cupo, inutile terrore. Gli assoli di chitarra alternati evocano ragnatele che tengono in pugno una storia celata nell’ombra, il dolore che guizza da un’esistenza spezzata dalla gelosia morbosa di una madre che ha preferito l’egoismo di una follia imperante, all’amore materno che Molly si sarebbe aspettata. Il pezzo si conclude con l’affermazione minacciosa di Molly che ha bisogno di vedere sua madre, troncando tutto di netto e lasciandoci ulteriormente sulle spine. L’epilogo si farà attendere fino all’ultima traccia, dato che con “The Portrait” la storia si interrompe, lasciando in sospeso la sua evoluzione e conclusione, per dare spazio a una sorta di intervallo narrativo e tematico notevole. Insomma, cambia il tema delle liriche con “Dressed in White”, ma rimane lo spessore stilistico e musicale che il buon vecchio Re già dimostrava di ottemperare coi suoi, al debutto della sua nuova, scintillante carriera, con il nome di King Diamond. È sempre una figura femminile la protagonista di questo brano, costellato fin da subito da punte energetiche e travolgenti uniche: la strofa, un alternarsi di falsetto e sottovoce, scorre fluida ma salda su di un terreno battuto, conosciuto ma non per questo meno entusiasmante. Ci troviamo di fronte a una donna vestita di bianco, che porta con sé un misterioso segreto e che non sapremo mai dove deve andare. La breve pausa che precede l’assolo successivo al ritornello è un tocco di genio assoluto: è semplice, ma impreziosito da un pizzico di silenzio, sfruttato nel momento più adatto. Il pezzo si distingue per il trionfo di sei corde (o meglio, dodici) che si dimostra essere un botta e risposta continuo tra i due chitarristi Andy e Mike, con la voce del Re a sentenziare gli stacchi, le strofe, i picchi emozionali e a mettere la parola fine, sfruttando la sua ormai celebre risata, che ogni volta riesce a donare quel senso di grottesco, terrificante e sadico, così agghiacciante per un verso, ma talmente entusiasmante da lasciare ogni volta senza fiato. “Charon” si avvia con un bell’urlo infernale che introduce un riff altamente orecchiabile e ben sagomato: che sia infernale è poco ma sicuro, dato che si parla del buon vecchio Caronte intento ad accogliere un malcapitato individuo che dovrà farsi un bel giretto in nave sullo Stige. La voce del Re è un alternarsi continuo tra il suo classico falsetto e una voce rauca, cupa, diabolica, che carica gradualmente la situazione, fino a portare a un interrogativo ritornello. Il pezzo riprende in qualche modo la filosofia del circolare lavoro del traghettatore di anime, e si ripete vorticosamente riprendendo le briglie della strofa, dominata da un cimiteriale riverbero. La situazione centrale è affidata a un bell’assolo serpeggiante, interrotto dalla crudele risata del Re dimonio, con occhi di bragia, che ricomincia a cantare la strofa: l’ultimo ritornello è un adrenalinico e affannoso vortice di note, posto su di un tappeto melodico che scorre portandosi dietro una smorfia seducente e molto accattivante. Insomma, un pezzo in classico stile King Diamond, che rischia di farsi ascoltare una quantità di volte indecifrabile a ruota. Già dai primi secondi di vita di “Lurking in the Dark” si viene a formare un groppo alla gola che opprime e affanna il respiro: ci stanno spiando dall’oscurità. Chi? Che cosa? È proprio il non saperlo che ci spaventa: i rumori, i respiri provenienti da nient’altro se non dal buio, gettano nel panico senza avere scampo. E King Diamond e i suoi ci ripropongono questa esperienza terrificante in musica, con assoli affannosi e giri di accordi assolutamente orrorifici. Il freddo, i fruscii, lo zampettio di una creatura misteriosa si materializzano nella nostra mente, portandoci improvvisamente sul baratro della follia, e spingendoci in un burrone di diamanti insanguinati e mostruosi. Una coltre di ignota oscurità si verrà a posizionare sopra la nostra mente affondata ormai in un mare di paura, mentre il Re, dall’alto del suo trono, non potrà fare altro se non donarci un ultimo, estremo acuto di addio. Arriviamo ad “Halloween”, presentataci da un densissimo riff di chitarra nero e cupo, deliziosamente scheletrico e profumato di nebbia umida: un brano che sa di un nuovo inizio sul calendario delle streghe, di incenso e atmosfere sabbatiche, un brano che porta Halloween in ogni giorno dell’anno perché infondo, per ogni creatura della notte che si rispetti, col buio e la luna a osservarci come un occhio demoniaco, è sempre Halloween. Una strofa come quella proposta in questo brano è veramente elettrizzante: gli accordi e la melodia della voce vanno a creare un pezzo così semplice e spartano, che funziona perfettamente. Il brano scorre trascinando dietro di sé una bulimica sensazione di panico ed esaltazione dal terrificante background nero, amplificata sicuramente dagli ottimi assoli di chitarra e dal conseguente giramento di testa, postumo a una buona dose di headbanging selvaggio e sudato. “Voices From The Past” ha un titolo piuttosto ossimorico: porta con sé la parola “voci”, ma si tratta in realtà di un pezzo strumentale, una sorta di loop con una bella carica musicale e una forte atmosfera ectoplasmatica, curata in particolar modo dalla tastiera. Il pezzo è molto breve, ricco di stacchi e con un sound nebbioso, ma ha un finale perfettamente sintonizzato sul canale King Diamond. Questa breve pausa strumentale sancisce la fine dell’intervallo sulla storia del concept racchiuso nel lavoro: finalmente, con “Haunted”, scopriamo l’evoluzione della storia di Molly, di quel quadro maledetto, di quella voglia di vendetta nei confronti della madre. Una storia che finisce male, in definitiva, nessuno potrà fare niente per lo spirito della povera ragazza, che rimarrà sempre intrappolato in quella casa infestata dall’odio, dal dolore, dalla rabbia e dalla promessa di distruggere la propria madre, sul finale. Il pezzo si presenta fin da subito spesso in quanto ad aggressività e potenza, donando una sensazione di denti che si digrignano per la rabbia tangibile di chi è stato maledetto a un’eternità di dolore: la portata di mesta rassegnazione del ritornello è evidente, commuovente ma con una punta di inquietudine allarmante. Una scintillante spirale di tasti di chitarra, sul finale, amplifica la sensazione claustrofobica di condanna perenne a un limbo di dolore perenne, che si fa ancor più intenso con le grida e i pianti interpretati da King Diamond, nelle vesti della povera Molly che disperata, va in contro al proprio eterno destino. “Fatal Portrait” è un album da spararsi a volume disumano in auto, in casa, con le cuffie, insomma in qualsiasi situazione. È il tipico lavoro perfetto per sentirsi la vita in pugno, perché riesce a far riflettere: immaginatevi una vita di stenti, a rincorrere la morte sperando che abbia un po’ di pena per la propria anima e le dia finalmente tregua, strappandola da una prigione terrena. Immaginatevi una vita vissuta in funzione di una vendetta che probabilmente non vedrà mai la luce, nei confronti, per di più, della propria madre, la persona che più al mondo dovrebbe amarci. Immaginatevi di vivere in un mondo di quaranta metri quadri, abitato soltanto da ragni, pena e rabbia, fomentato dalla voglia di vendicarsi di una vita che è stata così ingiusta, terribile e diabolica. Ecco, riflettete su di questo e riuscirete a comprendere il portento non solo musicale, ma anche pedagogico, di questo lavoro. In più, “Fatal Portrait”, fende la tristezza e la malinconia di una tematica così tragica, avvalendosi di un sound crudo, duro, aggressivo e temerario, donandoci inoltre un bell’intervallo più giocoso, meno problematico, ma sempre così King Diamond, da farci diventare coloro che riusciranno a liberare Molly, ascoltando la musica a lei dedicata.
1) The Candle
2) The Jonah
3) The Portrait
4) Dressed In White
5) Charon
6) Lurking In The Dark
7) Halloween
8) Voices From The Past
9) Haunted