KING DIAMOND
Abigail
1987 - Roadrunner Records
ELEONORA VAIANA
26/06/2013
Recensione
Era il 1987 quando uscì per Roadrunner Records “Abigail”, il secondo album firmato “King Diamond”, e senza ombra di dubbio uno fra i migliori e apprezzati di sempre. Del resto la qualità, la genialità del Re e dei suoi talentuosi vassalli nel creare, in definitiva, un genere musicale innovativo, e le atmosfere vive e intrise di terrore, sono elementi impossibili da trascurare, ai quali i nostri prodi ci hanno sempre abituato: “Abigail” li concentra, li fa esplodere, li fa esaltare, rendendosi un album additivo e glorioso oltre ogni immaginazione. “Nel reame del Re” si contano elementi valorosi e battaglieri, come “Andy LaRocque” (chitarra), “Michael Denner” (chitarra), “Timi Hansen” (basso) e “Mikkey Dee” (batteria), sempre pronti a scatenare un putiferio musicale da far venire i brividi, con la voce di Sua Maestà a condire il tutto, pronta a narrare la triste storia dei coniugi “Miriam e Jonathan”, vittime del fato: i due ereditano infatti una casa maledetta, nella quale 68 anni prima il conte LaFey, parente alla lontana di Jonathan, uccise la moglie, che portava in grembo un bambino non suo, spingendola dalle scale. Con un’inquietante tastiera e una voce grottesca, “Funeral” introduce la storia e le sonorità che andranno a caratterizzare l'intero lavoro: siamo al lugubre funerale di Abigail LaFey, bambina nata ossimoricamente morta il 7 luglio del 1777, che dovrà essere inchiodata alla sua bara con 7 chiodi d'argento posti su mani, braccia, ginocchia e bocca, di modo che non possa più risorgere e causare altri mali. Uno splendido accattivante e vitale riff firmato Michael Denner dà il via ad “Arrival”, ambientata 68 anni dopo quel macabro rito funebre: è il 1845 e una carrozza, con sette cavalieri, approda a una magione di collina, alla quale nessuno osa avvicinarsi. Un cavaliere avverte i coniugi Jonathan La Fey e Miriam Natias di andarsene da quella casa, che sì hanno ereditato, ma che se non lasceranno “18 diverrà 9”; con noncuranza, però, Jonathan dice loro di andar via, ma i cavalieri sanno che un giorno avrà bisogno del loro aiuto. Le strofe di “Arrival” si presentano perfette, corpose, dense e spedite, e gli assoli firmati Denner/LaRocque sono veri e propri diamanti piazzati in quell'oscurità evocativa, che solo alla corte del Re è possibile trovare: dal momento in cui i cavalieri avvertono i coniugi LaFey di lasciare quella casa, l'atmosfera si fa più cupa e preoccupante, per poi andare a riallacciarsi al tema portante del pezzo, per mezzo di un eccellente assolo. King Diamond dà il meglio di se, con falsetti e acuti fenomenali, atti a enfatizzare parole, situazioni e personaggi, che si alternano a soggetti caratterizzati da una voce grave e grottesca: un cantante in grado di recitare non solo gli stati d'animo e i personaggi, ma di evocare anche i volti, le fattezze e le espressioni facciali di chi è coinvolto nella trama, può coincidere solo col nome di Kim Bendix Petersen. La sublime bellezza iniziatica dell'intro segnata LaRocque, introduce “A Mansion in Darkness”, caratterizzata fin da subito per il tiro spietato e la capacità di coinvolgere e far smuovere ogni singola cellula di un qualsiasi essere umano: l'instancabile Mikkey Dee picchia duro dietro alle pelli, mentre la voce di King Diamond picchia duro sulle alte frequenze, descrivendo l'oscurità che avvolge quella magione maledetta, dove di notte regna il male, dove le ombre sembrano esser vive. Tutto è rimasto imperturbato, compresa la polvere, e in questa estatica imperfezione, due coniugi si avviano per le stanze accendendo le candele, con un assolo di Andy a fare da sottofondo: non appena la luce delle candele comincia ad appassire e il camino si spegne, Jonathan propone alla moglie di andare a letto e i due si addormentano, ignari del fatto che quelle ombre, sul muro, hanno preso vita. Giungiamo a “The Family Ghost”, caratterizzata fin da subito per l'impronta diabolica e ansante, che infonde una sensazione di timore e inquietudine densa. Miriam sta dormendo beatamente, mentre Jonathan è cadaverico dalla paura per aver visto il fantasma del Conte LaFey, il quale chiede all'uomo terrorizzato di andare con lui nella cripta in cui riposa Abigail. L'assolo di chitarra che precede la discesa nella cripta di Jonathan e del suo diabolico accompagnatore, è semplicemente geniale: rappresenta con accuratezza quel mix di panico, cautela e destabilizzazione che possiamo solo immaginare di provare in reazione a un'esperienza vagamente simile, facendolo con un gusto pregiato e raffinato. L'atmosfera musicale prende una strada differente, diviene spasmodica, le chitarre impazziscono e le dita si dimenano sulle corde, mentre il Conte LaFey avverte Jonathan di stare attento agli scalini schivi e pericolanti, o potrebbe cadere e rompersi il collo. Il Re ci delizia con una delle sue risate intrise di diabolicità ultraterrena, che fa letteralmente venire i brividi per l'arroganza e la dimestichezza di colui che può trovarsi a ridere della Morte, perché morto a sua volta, perché crudele, spietato e sfacciato nella sua condizione di spettro. Il fantasma indica a Jonathan il piccolo sarcofago che ospita il corpo di Abigail, la bambina nata morta che è stata lì per anni e anni, rivelando all'uomo che lo spirito della creatura adesso è dentro sua moglie Miriam, e c'è solo un modo per evitare che il Male in persona possa rinascere: deve uccidere sua moglie immediatamente. Al pronunciare delle parole “You must take her life now!” è inevitabile sentirsi terrorizzati: il finale di “The Family Ghost” è semplicemente geniale, oltre che azzeccato e curatissimo nell'evocare la sacralità infernale di quella rivelazione e di quell'ordine. Mettendosi nei panni di Jonathan, viene alla mente una sola domanda possibile: “e ora cosa faccio?”. Per tenere il fiato sospeso su ciò che il povero uomo farà, su come e se come riuscirà a tirarsi fuori da una situazione del genere, giunge “The 7th Day of July 1777” un flashback sul passato del Conte LaFey, introdotto da un bellissimo arpeggio di chitarra: le sonorità della tastiera unite a quelle della sei corde, rendono perfettamente il senso d'immersione nell'oceano di un passato e di un ricordo fumoso. La breve pausa melodica e beata iniziale, lascia spazio all'ennesimo riff coinvolgente e potente, che accoglie la strofa: il Conte LaFey, credendo la moglie infedele e il figlio che portava in grembo non suo, la uccise buttandola giù dalle scale, il settimo giorno di luglio del 1777, uccidendo così anche il feto. Dopo aver bruciato il corpo della moglie, il Conte battezzò la creatura nata morta chiamandola Abigail e condannandola alla dannazione eterna. L'uomo si trovò vittima di una vera e propria ossessione per quella figlia bastarda e decise così di mummificare il suo cadavere. Il pezzo si presenta enfatizzato da una voce in falsetto che suona isterica, quasi, alternata a grotteschi suoni rauchi, e con vere e proprie perle splendenti rese dagli assoli di chitarra: ancora una volta ci troviamo di fronte a un turbinio emotivo, scaturito dall'immedesimazione in quella tragica storia e dalle abilità dei musicisti in gioco, nell'andare a toccare il tasto e la sonorità perfetta per evocare un preciso momento, associato a una precisa sensazione. In generale si respira l'odore del passato, quello della follia, di una umida cantina e della Morte, coincisi musicalmente in un pezzo di grande impatto e suggestivo al limite del possibile. Una sonorità caustica accompagna l'entrata in scena di “Omens”, che si presenta immediatamente con un biglietto da visita nefasto e spettrale: i presagi per niente rassicuranti che seguono la scoperta di Jonathan, attanagliano la loro magione di collina, che odora ormai di un marcio insopportabile e di presagi di morte. Una campana suona in una chiesa in disuso, mentre una culla vuota appare misteriosamente nella sala da cucina della casa, quando nessuno dei due coniugi sembra averla portata lì: gli assoli di Denner e LaRocque accompagnano il sentimento di inquietudine e angoscia proprio della situazione, sottolineando l'adrenalinico senso di impotenza e smarrimento generale. La storia si fa via via sempre più intrigante, acquisendo la forma e la dinamica di un vero e proprio “giallo/horror”: siamo quasi alla fine dell'album, gli elementi sono pronti a fare scacco matto, ma ancora non si muovono sulla scacchiera, lasciando col fiato sospeso. L'abilità di composizione, anche da un punto di vista letterario, è veramente notevole: su una storia che si potrebbe raccontare in cinque minuti, colma tuttavia di dettagli e particolari accattivanti nonché orrorifici, King Diamond è riuscito a costruire assieme ai musicisti che lo accompagnano un intero album, volto a erigersi a uno dei migliori lavori della storia del metal. È con “The Possession” che finalmente riusciamo a capire dove la storia sta andando a parare: un riff incalzante e cupo, dà modo al Re di cantare di come Miriam stia crescendo ora dopo ora, e di come la profezia del fantasma del Conte fosse veritiera. Il diciotto è diventato 9, Miriam, diciottenne, è incinta, canta una ninna nanna mentre dondola dolcemente la culla, pronunciando frasi deliranti quali “Sto avendo il tuo bambino, mio amore”. In realtà è posseduta, ride maligna e malvagia, mentre parla lingue differenti, e nel frattempo, da dentro, uno spirito assetato di vita e di morte al contempo, la sta divorando. Jonathan, disperato, tenta di parlare alla moglie controllata da “Abigail”, nella title track, iniziata da un riff deciso e graffiato da stacchi ritmici intriganti. Si srotola così un incessante e funereo ritmo lento ma denso, in cui lo spirito di Abigail, tramite uno splendido acuto del Re, rivela al povero Jonathan che Miriam ormai è morta, e al suo posto è lei a vivere: lui non si arrende, correndo ai ripari con l'idea di chiamare un prete che riporti lo spirito di sua moglie indietro. A questo punto la musica, divenuta più spietata e intrisa da malefiche risate, porta Miriam a rivelarsi, a consigliare al marito di scegliere l'unica via possibile: ucciderla proprio come fece il Conte LaFey con sua moglie, in quel triste 1777, su quelle scale dove la bambina nacque morta. Bellissimo il finale affidato al complesso musicale, in cui appare anche il tetro organo che sfuma, spettralmente, in un accattivante fade-out, che conduce direttamente a “Black Horsemen”, il brano conclusivo che va a chiudere la storia: un arpeggio di chitarra sembra portare buone notizie, ricordando quasi un'alba tiepida, colma di speranze e pronta a inaugurare un nuovo giorno. Ma è di King Diamond che stiamo parlando, il quale, oltre a essere il Re di Diamanti, è anche l'imperatore di un horror funesto, romantico e caliginoso, spolverato di un gusto gotico d'altri tempi, del quale non ci si stanca mai. Jonathan è in cima alle scale assieme a quella che un tempo era Miriam, carico di ardore e pronto a compiere quell'omicidio, che altro non dovrebbe fare se non liberare il corpo di sua moglie da uno spirito malvagio e intriso d'odio: fatalità vuole che, tuttavia, sia lui a esser spinto di sotto dalle scale. Il brano si apre melodicamente, acquisendo una veste vitale e solenne al contempo: Abigail sta per nascere, il corpo di Miriam è pronto al parto, mentre il suo spirito ricorda con malinconia il giorno in cui arrivò in quel posto maledetto. Il dolore del travaglio, però, è insopportabile e Miriam muore, con due occhi gialli come ultima immagine impressa nella mente: ancora oggi si può sentire il suo grido, camminando per quelle scale di Luglio. Qui la voce di King Diamond si veste di una pesante mantella crudele e diabolica, graffiando e azzannando come una fiera, su di un corposo manto musicale ineccepibile: i sette Cavalieri, servi del Conte quando Abigail nacque la prima volta, giungeranno prima dell'alba. Il pezzo prende una strada differente, snodandosi in un godereccio assolo inebriante, che introduce un cambio generico di sonorità: l'aria si fa più acida ma trionfale al contempo, mentre i Cavalieri scoprono il corpo di Abigail nel sarcofago che sta mangiando. Cosa? Il Re ha le sue mosse, e questa non ce la vuole svelare, anzi, non ce la può svelare. Scacco matto alla fantasia, e che ognuno possa scegliere l'interpretazione che più lo aggrada...o terrorizza. I Cavalieri prendono il corpo di Abigail, e lo portano nella cappella situata nella foresta per la cerimonia, perché la bara la sta aspettando: ciclicamente, “Black Horsemen” si riallaccia alla prima traccia, “Funeral”, per lasciare spazio all'inquietante circolo vizioso e rituale. Dopo una sfuriata musicale demoniaca, scandita da stacchi ritmici e dalla voce maligna e grave, che ci ricorda il titolo del brano, ecco comparire nuovamente il tema iniziale, sul quale viene posta la parola fine a questa favola e il Re ci saluta, su di un trionfo di chitarra , che non lascia spazio ad altro, se non all'estasi e all'appagamento dei sensi. Questo non è un semplice album, questo è uno degli album per eccellenza, che chiunque dovrebbe aver ascoltato almeno un milione di volte, se appassionato di metal: è un dieci pieno, e a dimostrazione di questa valutazione, restano semplicemente le nove tracce, una migliore e più appassionante dell'altra, una storia geniale e un prodotto artistico ineccepibile da ogni punto di vista, che non poteva essere firmato da nessun altro, se non dal Re. Non ha bisogno di ulteriori elogi, poiché si elogia da solo: ha solo bisogno di volume sparato ed “headbanging” selvaggio.
1) Funeral
2) Arrival
3) A Mansion in Darkness
4) The Family Ghost
5) The 7th Day of July 1777
6) Omens
7) The Possession
8) Abigail
9) Black Horsemen