KILLING JOKE
Killing Joke
1980 - E. G. Records
TIZIANO ALTIERI
04/05/2020
Introduzione Recensione
Correva l'anno 1978, Jeremy Coleman era un giovane studente fuorisede presso la città tedesca di Lipsia, all'epoca considerata parte della DDR, la Deutsche Demokratische Republik, da noi conosciuta come Repubblica Democratica Tedesca. Essa era la porzione di terra germanica assegnata all'unione sovietica, in seguito alle decisioni prese alla fine della seconda guerra mondiale secondo cui la Germania andava divisa in due. Cosa ci faceva un diciottenne del Gloucestershire inglese in quel di Lipsia? Ebbene, il nostro Jeremy compiva un viaggio attorno al mondo per approfondire le sue due passioni più grandi: gli studi di international banking (che dalla Germania lo portarono in Svizzera) e lo studio della musica. Egli era già stato membro di numerosi cori da chiesa della sua città natale, nonché studente di violino e pianoforte presso uno dei migliori maestri della città. Decise quindi di partire, sia per munirsi di un titolo di studio, sia per ingrossare la sua vena musicale. Per nostra fortuna, scelse di approfondire maggiormente la seconda via. In questo suo peregrinare giunse persino in Egitto, presso la città del Cairo, dove divenne studente del conservatorio locale. Qui ebbe la possibilità di studiare quel complesso e singolare sistema di modalità melodiche che è il maqam arabo. In questa particolare tecnica di improvvisazione, l'esecutore ha la possibilità di operare su una quantità di suoni doppia rispetto ad un suo collega occidentale. Mi riferisco appunto ai quarti di toni, suddivisione della comune scala cromatica musicale, a sua volta frutto della suddivisione della meno nota scala esatonale di Debussy. Facciamo chiarezza: se nella scala esatonale abbiamo a disposizione solo sei note e in quella cromatica addirittura 12, nel maqam arabo abbiamo a disposizione ben 24 "seminote", cioè 24 particolari suoni che sono indicano una divisione in due parti di ciascuna nota della scala cromatica. Un notevole e stimolante esercizio per un musicista in erba dalle ampie vedute, come si rivelerà in seguito il nostro Coleman. Sarà però nel suo paese d'origine che avrà la possibilità di mettere insieme in maniera assolutamente unica queste notevoli influenze provenienti dai due continenti. Fu in uno dei suoi ritorni in patria che a Notting Hill conobbe un giovane batterista: "Big" Paul Ferguson, già membro di numerose punk-band minori (Beowulf, Jones Boys, Red Beat, Bloodsport) e in quel momento membro della Matt Stagger Band, punk band londinese cui prese parte lo stesso Coleman per qualche tempo. Jeremy cominciò a farsi chiamare "Jaz" proprio a partire da quel periodo. Finita la breve collaborazione con Mataya Clifford (vero nome del cantante Matt Stagger), i due membri rimanenti decisero di fondare assieme un nuovo gruppo. A quel punto la line-up consisteva in Ferguson alle percussioni e in Coleman alla voce e alla tastiera, in virtù dell'esperienza accumulata con i Deckchairs (altra punk-band locale in cui Jaz aveva appunto cantato) e come tastierista di Matt Stagger. Ai due non restava che raddoppiare le loro unità, munendosi di un bassista e di un chitarrista. Detto fatto: si imbatterono per primi in Martin "Pig Youth" Glover, bassista già affermato ed ex membro di numerose band, tra le quali spiccano i Rage, band dal cui scioglimento nacquero famose band come Alternative Tv, Adverts e i 4 Be 2, gruppo del fratello di Johnny Rotten dei Sex Pistols. AL provino Martin si portò il suo compagno di scuola Alex Paterson, il quale divenne il roadie ufficiale della band, prima di diventare anch'egli musicista fondando gli "Orb" a fine anni '80, band elettronica dal discreto successo. Insomma, il giro di conoscenti di Coleman e Ferguson era formato da tutti musicisti più o meno affermati, tutti che bazzicavano la scena underground inglese. Qui avvenne un fatto curioso: il tizio che rispose all'annuncio di Coleman circa la richiesta di un chitarrista non aveva mai preso uno strumento in mano; si trattava di Kevin "Geordie" Walker, il quale sarà, da lì in avanti, l'unico membro fisso (eccetto Coleman) della band. La formazione era al completo e il nome nacque in maniera semplice: Killing Joke. Notting Hill era ancora la loro isola felice, va immaginata all'epoca in una veste che non ha nulla a che fare con la patina cinematografica cui ci ha abituato Hollywood. I musicisti scelsero quel luogo come culla delle loro prime incisioni e fu così che nel 1979 registrarono l'Ep "Almost Red", grazie ai soldi che Jaz chiese in prestito alla sua compagna di allora. Il mini ebbe un inaspettato successo radiofonico, spinto con forza dal mitico John Peel all'interno della sua programmazione. Peel era un famoso disc jockey della BBC ed era talmente un punto di riferimento per la scena musicale contemporanea che contribuì, con le sue leggendarie "John Peel Sessions", a far conoscere in tutto il mondo le nuove promesse della New Wave e del Post-Punk. In questo nuovissimo ed enorme calderone i Killing Joke presero parte, e nel giro di pochi mesi firmarono per la Island Records, casa di distribuzione cui si deve la circolazione dei loro primi singoli. All'epoca alla Island si appoggiava alla Enthoven & Gaydon Records, una casa di registrazione indipendente specializzata in Glam e Progressive. Fu però tramite accordi col longevo colosso discografico della Polydor Records che la E.G. allargò i propri orizzonti. Prodotto dalla E.G. e distribuito dalla Polydor, nell'ottobre 1980 uscì quello che sarebbe diventato un capolavoro del Post-Punk industriale e della musica tutta: Killing Joke, primo indimenticabile full lenght di questa gloriosa e storica band.
Requiem
Già con la prima traccia, Requiem, entriamo perfettamente nel mood del disco. Il ritmo percussivo della tastiera fa da apripista per la corrosiva chitarra che schiude il canto. Il basso si fa attendere, ma quando entra detta legge, innalzandosi sopra le altre parti seguito da una batteria sempre più articolata. Al battere incessante della tastiera (che ritroveremo nel verso successivo) si sostituisce un avvolgente effetto flanger, col suo caratteristico andirivieni di suoni psichedelici che sembrano partire dal punto A per raggiungere il punto B e tornare indietro, trascinandoci con loro nell'impervio percorso sonoro. "Un uomo guarda il video, l'orologio continua a rintoccare, egli non sa il perché ma sente di essere bestiame da macello. Requiem!". Già il primo verso suggerisce la dimensione in cui ci troviamo, l'efferatezza del tempo, un tempo crudele, la vita che scivola via, e uno stato umano fin troppo mortale ed effimero. Quanto appena descritto si riferisce al primo ritornello, laddove la voce si fa eterea, come udita da lontano, priva del delay a cui ci si era abituati nel primo verso. A questo particolare effetto si sostituisce sapientemente il flanger di cui sopra: la parte finale del ritornello si mescola con la voce in una amalgama perfetta, che dà il via al rullato della batteria. Esso richiama di nuovo quell'effetto percussivo della tastiera, sfumato nuovamente nel ritornello successivo. "Quando le parole perdono di significato, quando queste cessano di funzionare, non c'è più nulla da aggiungere. Quando incominceremo a preoccuparci?". In questa fase si sottolinea lo stato catatonico dell'uomo, intrappolato nel suo mondo in bianco e nero, schiavo della quotidianità. Siamo a tre quarti del brano. Il riff della chitarra, finora invariato, muta in una veste ancor più minimale, legandosi agli altri strumenti in una breve strumentale che precede l'ultimo verso. Tutto, basso compreso, sembra seguire quell'ossessiva tastiera che la farà da padrone nell'outro, prima seguita dalla chitarra e dai suoi feedback e infine da sola. "Un suggerimento religioso, il suono di vetri infranti. Ciò è una riflessione sulla morte". Insomma, la sua presenza monotonale ci accompagna imperturbabile per quasi quattro minuti di brano, senza rendersi mai opprimente, eppur parlando di morte e di insofferenza. Questo perché il resto del comparto strumentale sa perfettamente come camuffare il suono ossessivo, facendolo emergere solo a tratti senza mai perdere di vista l'intrattenimento. Per un ascoltatore di 40 anni fa siamo dalle parti del "mai sentito" e del "ne voglio ancora".
Wardance
Fortunatamente il disco è appena iniziato. Quel nostro amico di 40 anni fa ne avrà per più di mezz'ora, e allora i Killing Joke si divertono a giocare con le sue orecchie in maniera sadica eseguendo Wardance. Si inizia con una bella scatarrata del cantante, pregna di quegli effetti caratteristici cui la band non sa resistere. Segue un simpatico effetto rewind che richiama degli armonici di chitarra molto gradevoli. Da qui in poi: l'assolto sonoro. "La strana atmosfera fuori città, musica per il piacere e non per altro. Muscia per danzare e per muoversi. Questa musica è per marciare verso la guerra". Emerge sin dalle prime note l'importanza e il messaggio trasmesso dalla musica: è come un atto di guerra, ma fatto per il piacere di farlo. Una guerra forse contro il sistema. Ribellione. Quei gradevoli armonici vengono ora suonati dal basso. La chitarra si limita a tracciare degli accordi precisi e, ancora una volta, estremamente corrosivi. Al classico rullo della batteria si lega un effetto della tastiera ancora più straniante del precedente: una sorta di feedback marcissimo del quale a malapena riconosciamo le note. Marcio sì, ma non quanto la voce. Essa, come annunciato dai colpi di tosse, sembra quasi essere malata e demoniaca, priva di qual si voglia melodia. Irrompe a quasi un minuto dall'inizio e ci dona quest'incubo sonoro, incitato dal coro che sentenzia prepotente: "A wardance, A Wardance, A WARDANCE". Nel secondo verso, per quanto inverosimile, la voce è più stracciata che mai. Il buon Steve Albini, leader di Big Black, Rapeman e altri gruppi Hardcore, si dev'essere certo ispirato a queste grida per creare quel suo caratteristico timbro vocale psicotico. "Guarda quei graffiti che scarabocchiano il muro, tu sai la ragione, tu hai qualcosa di perverso in mente, che striscia fuori per dichiarare guerra". Finito anche il secondo verso, che descrive un sobborgo di periferia, degradato e in preda ai vandali, la chitarra si concede una breve strumentale in cui gli accordi cambiano leggermente, lasciando scorgere al di sotto delle distorsioni una lacerata struttura blues. Ultimo verso, coro raddoppiato, breve strumentale. Scoppio sonoro degli accordi in tonica a chiudere il brano, con un'ultima rullata e un errore della chitarra tenuto volutamente, tanto per indicare che questo è fottuto punk industriale e niente più.
Tomorrow's World
Tomorrow's World si sostiene su dei ritmi più rilassati ma altrettanto stranianti. Batteria e tastiera, con sole tre note, invitano basso e chitarra a partecipare a questo tappeto sonoro minimale, dove al riff preciso del basso si alternano delle schitarrate sguaiate e marcissime. Giunge la voce, meno intonata che mai, ad irradiare il tutto col suo delay, ma solo dopo essersi assicurata dell'assorbimento totale dell'uditore, avvolto dalle linee gotiche degli strumenti che lo cullano in un'atmosfera di calma inquietudine. "Una fotografia mi fa tornare in vita, mi riporta all'età dell'oro. Una lettera sulla porta di casa, una chiamata dal mio paese". Un tuffo nel passato, tra i ricordi lontani che trasmettono malinconia. Non avvengono stacchi strumentali tra il verso ed il ritornello; una semplice variazione sul riff del basso segna alla voce il momento in cui abbandonarsi ad acuti insensati ma pregnanti di energia. Come nel brano precedente, la voce del secondo verso è più contorta che mai, e dopo il ritornello si abbandona a veri e propri urli che stordiscono piacevolmente l'uditore. La chitarra è quella lasciata più libera di strafare, alla quale si concede il lusso della variazione lì dove il resto degli strumenti seguono imperterriti la loro partitura fino alla fine, capeggiati dal basso suonato con dosata violenza. Ma cos'è questo mondo di domani? In realtà è quello che da sempre siamo abituati a vedere in televisione. "Una lettera a portata di mano: chiamato per il vostro paese". Il protagonista del brano sta per andare in guerra e soffre nel doversi staccare dalla madre, come ci dice nel secondo verso, dove ci dice inoltre che "affronterà la musica". Come può essere letta questa affermazione? Forse il malcapitato sarà costretto ad entrare nella lugubre atmosfera descritta dalla canzone, ma non come noi spettatori privilegiati e distaccati. Egli è il protagonista di questa malsana cantilena, ennesimo protagonista designato di una guerra che non gli appartiene. La chiave di lettura delle note del brano potrebbe essere il campo di battaglia. Quello che sentiamo, è la colonna sonora del distorcimento ambientale; città, deserti, foreste. Questi ambienti così innocui possono trasformarsi in men che non si dica in atroci ring da combattimento, scenari del massacro più inaudito: quello tra fratelli, magari lontani geograficamente, ma pur sempre fratelli della stessa umanità. Ecco quindi spiegata la qualità marziale del ritmo mantenuto nel brano, una marcia incessante e insensata alla conquista di un deludente mondo di domani, assai simile a quello di ieri. E forse anche peggiore.
Bloodsport
Eccoci col brano più danzereccio dell'intero disco, la strumentale Bloodsport. Dopo una bella dose di inquietudine, perché non allietarci con dei ritmi da discoteca anni '80? Potremmo, nel peggiore dei nostri deliri, scorgere persino la voce di Claudio Cecchetto che ci invita ad un sadico Gioca Giué. E in effetti gli elementi ci sono tutti. A quasi metà brano c'è un battere di mani. Verso la fine c'è la folla che fischia. Ma se il Gioca Giué si prestava ad un'atmosfera da villaggio vacanze, qui il villaggio ha preso fuoco. Abbiamo sempre a che fare coi Killing Joke, d'altronde. Quel battere di mani si farà ad un certo punto elemento attivo, estendendosi fino a rimanere l'unico effetto sonoro eccetto i tamburi della batteria e una chitarra gracchiante. Già con questi primi quattro brani, possiamo farci un'idea dell'iter compositivo del disco. Se infatti nel brano precedente era la batteria ad accompagnare i fischi della tastiera, nell'intro di Bloodsport ci sono invece due laceratissimi accordi di chitarra a far compagnia al comparto elettronico. Una serie ripetuta di elementi riconoscibili fanno quindi da collante tra una canzone e l'altra. L'intro costruito sulla chitarra e sulla tastiera viene presto seguito anche dal resto degli strumenti. Tra questi possiamo distinguere un notevole riff di basso, una cassa in quattro, e un incalzante effetto flanger "zanzarizzato" (che lascia spazio al battimani nella parte descritta pocanzi, dove il basso abbandona il riff per concedersi degli slide). La struttura poi si ripete fino al già descritto battimani predominante, a seguito del quale il riff del basso si perde definitivamente. I restanti strumenti sopperiscono comunque tale mancanza. Per chiudere il brano si usa un interessante espediente della chitarra, già sentito all'interno del brano: nello stacco tra il batti-mani e il riff principale, dalla chitarra fuoriesce un suono simile a quello di Firestarter dei Prodigy. Sarà proprio questo suono, seguito dai suoi feedback, a costituire l'ultima nota di questa strumentale danzereccia e inaspettata.
The Wait
Quanto mai ironico il titolo di questo brano, The Wait, che costituisce il ritorno degli assalti sonori delle prime due tracce. Niente più atmosfere fintamente rilassate, niente più strumentali danzerecce, qui bisogna sfondarsi le orecchie. La chitarra non lascia alcun scampo e l'attesa viene ripagata. Una tastiera più che mai straniante apre le danze col suo solito minimalismo ipnotico, mentre la chitarra non tarda ad arrivare col suo riff misto tra accordi ed armonici, annunciata da dei colpi secchi di batteria (simili a Sabotage dei Beastie Boys). Le percussioni mutano improvvisamente, donandoci il feel di batteria più interessante mai sentito finora nel disco. "Le motivazioni cambiano giorno per giorno" ci dice la voce, "il fuoco aumenta e le maschere decadono". A questa porzione di testo assai criptica si alterna la seconda parte del verso, notevolmente più descrittiva, dove Jaz ci narra di uno scenario assai inquietante: un corpo che secerne schiuma è trascinato da un fiume; bisognerà spremergli fuori tutto il veleno. Ed ecco giungere dopo questa mesta visione il ritornello, da cui il titolo del brano: "L'attesa, dopo il risveglio il silenzio cresce, le grida si placano in spettacoli distorti e pensieri mutanti di cattive novità. È solo un'altra nascita di visioni distorte". Interessante l'espediente di allungare l'articolo che precede la parola "wait" per esprimere proprio il senso d'attesa. E se la voce non ci dice molto, gli strumenti parlano anche per essa. Una perfetta fusione di accordi, rumori, e melodie per tastiera, ci offrono lo stacco sonoro più bello di tutto il disco. A ¾ del brano, dopo il secondo ritornello, giunge il climax del pezzo: la batteria pesta con un riverbero micidiale, le urla della chitarra inondano l'aria, il basso monta inesorabile. Il tutto si collega con l'ultimo ritornello e poi con la fine. Effetti sonori, accordone finale e poi sipario. La magia è servita.
Complications
A ricordarci che la struttura portante della baracca è proprio lui, irrompe il basso, che con le sole tre note dell'intro ci dona la cifra stilistica di questo terz'ultimo brano. Complications è il più classico pezzo del disco, a metà strada tra il punk d'annata e i primi Metallica, che come sappiamo avranno molto da imparare dai loro colleghi "industriali". Il delay, appena udibile in certi brani, qui irrompe di prepotenza, coinvolgendo nel finale anche la chitarra. Tramite questo, la voce si produce in degli eco artificiali che arricchiscono notevolmente il pezzo. "Vedo il sole che diventa verde, lo osservo dalla finestra del mio attico, perché tu non hai rifugio. Alienazione, tramite esperimento, unisciti anche tu a questa nuova era". Il nichilismo è tanto, il cinismo col quale si osserva questo nuovo mondo mette i brividi. E allora la musica è fredda, pungente. Anche in questo caso vengono utilizzati, sempre in modo sapiente, anche altri effetti vocali, come ad esempio un effetto sustein solitamente utilizzato per allungare le note della chitarra. Qui invece dilata la parola "complications" fino al parossismo. Interessante lo stacco sonoro tra il primo ed il secondo verso, in cui la chitarra mantiene la sua nota mentre al di sopra il resto degli strumenti orchestrano il tutto magistralmente. "Enjoy yourself: this is the New Age" riepte il testo. "Riscatta la nascita di una nuova distruzione, ora è diverso da ciò che volevamo prima. Conta fino a dieci per l'alinazione e l'auto-distruzione". La realtà è che per i Killing Joke, come per il resto del mondo ben pensante, gli anni '80 avevano l'aspetto più di una Dark Age che di "un'età nuova". Di nuovo, in realtà, c'erano solo le moderne modalità belliche: la guerra strategica e quella del terrore, incentrate sulla paura per il nucleare. La band sapeva benissimo a cosa si andava incontro. E nel creare questa colonna sonora post-bellica, trovava anche il tempo di fare dell'ironia.
S.O.36
Ed eccoci arrivati al brano più lungo del disco, S.O.36, ben sette minuti di agonia sonora. Agonia relativa, chiaramente, il più delle volte piacevole, ma pur sempre tale. Specie per quel fan che nei commenti di uno dei primi file digitali del brano, caricati su YouTube circa dieci anni fa, racconta al resto del mondo della sua esperienza psicotropa col pezzo: "Assunsi dosi massicce di anfetamine per settimane prima di giungere a S.O.36. Per le successive quattro ore, sperimentai fasi di psicosi causate dal puro terrore ispirato da questo brano. Sentivo le voci dei nazisti provenire dalla mia radio spenta, mischiate a suoni di flauti e campane. Guardando le mie dita, notai che assomigliavano piuttosto a sei punte di piedi poste sopra la mano. La casa era innaturalmente fredda per essere un pomeriggio estivo, e sembrava come infestata dagli spiriti". Le voci dei "nazisti" cui si riferisce il fan, forse non troppo tale dopo questa esperienza, sono chiaramente quelle che si sentono nel brano sotto forma di campionamento. Il fan, per utilizzare una sineddoche colorita ed anacronistica, li definisce nazisti; In realtà si tratta molto più verosimilmente di speaker tedeschi di una radio della DDR, ipotesi molto più calzante visto il periodo d'uscita della canzone. Il delay vocale si mescola alla voce radiofonica in un connubio che resta inquietante anche senza l'assunzione di sostanze stupefacenti. Gli strumenti architettano questo paesaggio sonoro sconsolante e non troppo ripetitivo. In una parola: unico. Ci troviamo di fronte al riff più riconoscibile dell'intero disco. I colpi e gli armonici del basso si mescolano allo straniante arpeggio distorto della chitarra, mentre la batteria delinea un altro dei suoi feel caratteristici. Quegli aridi sprazzi di testo a cui Jaz ci ha abituato, riportano due semplici e ripetute parole: "SO, DEAD". Così, Morto. A cosa può riferirsi? La surrealtà del resto delle strofe non ci giunge in aiuto, col suo vaneggiare circa "gli alberi da cui non crescono le conchiglie blu". Bisogna quindi cercare altrove. Proviamo col titolo. Cos'è l'S.O.36? Ebbene, negli anni '80 l'S.O.36 era sostanzialmente il CBCG berlinese, un night-club dove si esibivano tra i tanti gruppi autoctoni anche notevoli gruppi hardcore, come i Black Flag o i Circle Jerks. Decisamente un locale dal quale uscire col fischio alle orecchie. Chiarito questo, potrebbe darsi che le atmosfere caustiche ed il testo sconclusionato di "S.O.36" provengano direttamente dal cervello di un cliente abituale del locale. Forse uno di quelli che hanno esagerato con euforia ed alcolici? Egli potrebbe ancora aggirarsi per il locale. Ancora stordito, catatonico, e col fischio alle orecchie. Ancora: "Così morto".
Primitive
Ed eccoci giunti all'ultimo brano del disco: Primitive. La band ci regala un po' di respiro dopo la menata corrosiva del pezzo precedente. Basso e batteria aprono le danze, invitando anche la chitarra a partecipare. Una Gibson ES-295 che risorge sonante dai suoi feedback. Una gran trovata la pausa del ritornello strumentale, utilizzata anche per chiudere il brano, che dimostra ancora una volta la notevole preparazione tecnica, asservita più alla sostanza che alla forma. La batteria si concede persino dei brevi assoli di tom poco prima del finale. Il pezzo procede così spedito nei suoi 4 minuti scarsi, permettendo alla voce di farsi più posata e di raccontarci la virtù del primitivo. "Sentimento primitivo, via primordiale, che si fa più vicina per il giorno primitivo". L'intero brano può infatti leggersi come un auspicato ritorno alla fase primordiale della nostra esistenza. Quella fase della nostra civiltà in cui il nostro animo era ancora privo di qual si voglia ricerca edonistica. Il ritorno alle origini tanto desiderato dagli illuministi, per intenderci. Niente guerre, niente conflitti, solo puro e anti-nocivo istinto. "Istinto in ogni via", cita proprio il testo. A pensarci, è l'esatta cifra stilistica dell'intero disco: poche note genuine messe al servizio delle cupe atmosfere suscitate. Brani "poco evoluti" su un piano spartitico, ma estremamente compenetranti. L'istinto fa sempre breccia e i Killing Joke lo sanno bene. Non vi era quindi modo migliore di chiudere il disco, lasciando inoltre l'uditore col fiato sospeso, nell'attesa di un altro gelido e prezioso tassello di una gloriosa discografia.
Conclusioni
Ora che abbiamo tracciato insieme le linee generali su cui si fonda il primo devastante disco dei Killing Joke, forse appaiono meno superflui i preamboli utilizzati ad inizio articolo. La storia del viaggio in Egitto di Jaz Coleman, ci riporta direttamente a quelle turpi atmosfere evocate dalla sua tastiera. Quelle atmosfere glaciali che ho cercato di descrivere a parole. Esse non sono altro che il frutto di una studiata manipolazione sonora che porta quegli stessi strumenti musicali allo sfinimento. Strumenti abituati da decenni a produrre normali note, ma che sotto le dita di Jaz sprigionano suoni inauditi e sottili che riempiono l'aria senza soffocare, producendosi appunto in strutture atonali, assai simili a quel maqam arabo prontamente sviscerato nell'introduzione. Chiarita la pertinenza del riferimento al periodo egiziano, facciamo un breve passo indietro verso l'Europa, tornando per un attimo nella Lipsia della DDR. Dove, se non in quel luogo permeato di attivismo sovietico, Jaz poté ascoltare quegli stralci di registrazioni radiofoniche presi così com'erano ed inseriti in S.O.36? Sicuramente anche il periodo tedesco contribuì inconsciamente alla realizzazione di Killing Joke, l'album di debutto, dove come abbiamo visto i riferimenti diretti o indiretti alla guerra fredda sono più che palpabili. Cosa dire poi dell'Inghilterra? Nazione in cui il tutto si è poi concretizzato. Lì, nella capitale, tra Kensington e Chelsea, nel piccolo quartiere di Notting Hill, un giovane Paul Ferguson si barcamenava tra numerosi gruppi. Tra i quali, ora che siamo dotti circa la scaletta di Killing Joke, ne riconosciamo uno in particolare: Bloodsport. Per quanto non saremo mai in grado di risalire ad alcuna delle loro canzoni, saremo a loro eternamente grati per essersi trasformati nel titolo di una della più divertenti e ballabili tracce del disco. Nella storia delle vite dei componenti della band non è quindi saggio tralasciare alcun particolare, si rischierebbe di perdere il quadro generale di una serie di eventi che hanno contribuito, anche inconsapevolmente, a creare quella sintonia necessaria per far emergere quella creatività tale che noi, ragazzi del terzo millennio, ci troviamo a 40 anni di distanza dalla pubblicazione di Killing Joke ad esaltarne ancora le qualità. Numerose sono state le band che hanno guardato con occhio di riguardo Jaz Coleman e soci, e molte di esse pubblicano tuttora: Tool e Foo Fighters, tra le ultime. Ma andando ancora a ritroso, oltre ai già citati Metallica (dei quali James Hetfield ha spesso dichiarato di essersi ispirato direttamente a Jaz per le sue linee vocali sguaiate) troviamo i Nirvana di Cobain, i Faith No More di Mike Patton, i Nine Inch Nails di Trent Reznor, i My Bloody Valentine, Marilyn Manson e i Soundgarden di Chris Cornell. Tutti i cantati citati sono debitori dell'allucinato timbro vocale di Jaz, e le loro rispettive band lo sono dei suoi Killing Joke, una macchina perfetta che lo stesso Jimmy Page (al momento della consegna de "l'Innovator Award of Rock Music") citò come una delle più impressionanti band che avesse mai visto dal vivo. Stupisce pensare a tali parole uscite dalla bocca del chitarrista di una band così distante da quel sound industriale, come lo sono stati, appunto, i Led Zeppelin. Eppure le parole dello stesso Coleman si palesano chiare in questo senso: Page, da genio qual è, scorge sotto quel trambusto allucinato la cellula ritmica del Funk. E Jaz interviene prontamente a confermare che, tra le loro svariate influenze (di cui quelle che abbiamo delineato sono solo una piccola parte) emerge la calda impronta degli Chic, la straordinaria band afroamericana di Nile Rodgers, tanto per ribadire che non ci sono stati solo i rapper della prima ondata ad aver preso da loro. A quanto pare anche un certo post-punk industriale, nonostante la sua antitetica glacialità, non ha saputo rinunciare ai quei ritmi danzerecci afroamericani, da cui appunto Bloodsport. Detto questo, si chiude un po' il cerchio: il vigore e la passione dei Killing Joke, abbinati in maniera magistrale, sono frutto di un percorso più tortuoso di quello che potevamo immaginare. Un viaggio sonoro intercontinentale che tesse la trama di una fitta rete di influenze, che partendo dalla dance anni '70 interseca Wire e Public Image Limited, sfiorando persino la complessa cultura musicale arabo-egiziana. Tutto ciò ha fatto sì che un disco così tetro e furioso potesse avere un'influenza così diffusa, anche a distanza di svariati anni. Una conferma ulteriore di questa sua imprescindibilità è la presenza in altri dischi di quelle formule scarne di mixaggio audio raffazzonato presenti in Killing Joke. Nel caso della band londinese era per via del basso budget, ma molti loro proseliti utilizzeranno quelle stesse formule anche in quei dischi che potevano contare su una produzione maggiore. In poche parole, di Killing Joke si salvano persino i difetti. È quindi giusto a distanza di quarant'anni riportare alla luce questo classico sotterraneo, risollevando il suo status di Capolavoro con la C maiuscola. Parlare di questo disco, significa non dimenticarlo. In attesa che un "mondo di domani" migliore, arrivi davvero.
2) Wardance
3) Tomorrow's World
4) Bloodsport
5) The Wait
6) Complications
7) S.O.36
8) Primitive