KEZIA

The Dirty Affair

2015 - Locig(il)logic Records

A CURA DI
SANDRO NEMESI
01/06/2015
TEMPO DI LETTURA:
9

Recensione

Il bello del progressive, rock o metal che sia, è che è un genere privo di vincoli e completamente libero da schemi, un genere che cerca di attenersi al proprio nome proponendo quasi sempre qualcosa di innovativo, o perlomeno di diverso. Basta fare un viaggio nel passato per capire il concetto. Agli inizi degli anni settanta, quando il beat e la musica psichedelica imperversavano, dalle cantine di Londra emersero Genesis, Yes e King Crimson, portando una ventata di novità ed una nuova concezione di proporre musica, basandosi su lunghe ed articolate suite ed una tecnica strumentale fuori del comune. Quando ormai il progressive rock sembrava obsoleto, superato della semplicità del punk o dalla potenza del metal, ci pensarono i Marillion a rivitalizzare il genere, sfornando il bellissimo Script For A Jaster Tears, album seminale del neo progressive. Negli anni novanta i Dream Theater hanno avuto la brillante idea di mixare il progressive con il metal, dando luce appunto al progressive metal, portando avanti con i dovuti adeguamenti temporali il genere partorito nei primi anni settanta dai dinosauri Yes, Genesis, King Crimson e compagnia cantante. I bresciani Kezia proseguono l’evoluzione mixando il progressive con fresche sonorità pop rock, swing e una miriade di altre influenze, portando una ventata di novità nel progressive metal che troppo spesso si esaurisce nell’auto celebratismo. Loro stessi si definiscono “prop” ovvero progressive pop, definizione curiosa ma quanto mai azzeccata. Nati dalle ceneri dei Bomba Effervescente, una sorta di calderone musicale, dove i vari membri riportavano le idee non sfruttate con le proprie band di appartenenza. Il nucleo base è formato da Pierlorenzo Molinari alla voce, Alberto Armanini dietro le tastiere e Antonio Manenti alle chitarre, amici da una vita, ma le cui vite musicali hanno tardato ad intrecciarsi per un motivo o per l’altro. Con il passare del tempo il materiale cresceva, prendeva forma, e dopo alcuni cambi di formazione, i nostri hanno completato definitivamente la line up con l’ingresso del bassista Fabio Bellini e del batterista Michele Longhena, fornendo la band di una sezione ritmica stabile, ma che essendo arrivata a CD ultimato, non figura nelle registrazioni dello splendido The Dirty Affair, infatti le parti di batteria sono state eseguite dal valente  Matteo Vigani, mentre  le parti di basso sono state eseguite da Andrea Piovani, entrambi hanno contribuito sia alla composizione che all’arrangiamento, anche se è doveroso sottolineare che la triade portante dei Kezia è formata dall’estroso triumvirato  Molinari-Manenti-Armanini. Il successivo passo era quello di cambiare il nome (come dargli torto?); Bomba Effervescente non aveva un significato ben preciso, a dire il vero neanche Kezia, nome inglese femminile di origine ebraica, che significa Cassia, una pianta appartenente alla famiglia delle leguminose, scelto perché le donne sono una delle passioni primarie della band, assieme alla musica ed al cibo. Non sono in grado di stabilire se ne hanno tratto ispirazione, ma Keziah (con la “H” finale) è un personaggio del film del 1999 Notting Hill, mentre troviamo una Kezia anche in un episodio del telefilm “La casa nella prateria”. Infine, un’ultima curiosità, Kezia è un nome adespota, ovvero non è portato da nessuna santa, quindi l'onomastico si può festeggiare il 1º novembre, giorno di Ognissanti. Oltre a miscelare il progressive metal con il pop rock, due generi predominante nel letale mix proposto dal combo bresciano, possiamo scorgere molte altre influenze, dovute ai differenti background della band, si va dai Toto ai System Of a Down, dai Muse ai Liquid Tension Experiment, dai Dream Theater ai Pooh, non dimenticando l’influenza predominante dei Queen che spesso viene a galla, anche se in brevi interludi. Il tutto amalgamato sapientemente, grazie ad una tecnica strumentale invidiabile, senza avvicinarsi minimamente al plagio, fatta eccezione di un paio di tributi, secondo il mio sindacabile parere voluti. Definiti dagli addetti ai lavori come i Queen del nuovo millennio, personalmente le prime band che mi sono venute in mente ascoltando il platter sono gli alienanti scandinavi Pain Of Salvation, che hanno peculiarità sonore ricche di rapidi cambi di ritmo, sperimentazione poliritmica ed una forte estensione vocale, i Coheed And Cambria, band americana che mixa reminiscenze progressive con l’alternative metal del nuovo millennio,  ma anche i Naked Sun, folle band di progressive metal degli anni novanta, troppo sperimentale e fuori dagli schemi dell’epoca per raccogliere tutto  quello che avrebbero meritato. I nostri si dimostrano maturi anche nella stesura delle liriche, spesso grottesche, affrontando problematiche attuali con la giusta dose di ironia e molta originalità. La colorata copertina stroboscopica ci preannuncia che stiamo per affrontare un viaggio all’insegna della freschezza, dall’imprevedibilità e della spensieratezza giovanile del nuovo millennio. Ma è giunta l’ora di inserire il CD nel nostro lettore ed ascoltare i sorprendente The Dirty Affair.



 Il brano che apre il platter si intitola Before I Leave (Prima che vada), chi si aspetta una bella e prolungata introduzione strumentale come ogni disco di progressive comanda, viene subito spiazzato. Pochi gracchianti accordi di chitarra e siamo subito investiti dalla travolgente linea vocale di Pierlorenzo Molinari, ricamato dalla spaziale tastiera di Alberto Armanini, la chitarra continua a gracchiare, il basso martella in modalità ska, la ritmica proposta da Matteo Vigani non è affatto banale. Dopo neanche trenta secondi il primo cambio di tempo; supportato dalla sola sezione ritmica, Pierlorenzo fa la voce grossa, riproponendoci successivamente la strofa folleggiando come Max Vanderwolf, il carneade vocalist dei Naked Sun, accompagnato da interessanti controcanti. Nuovo cambio ritmico, voce e pianoforte si sintonizzano su radio Queen, supportati da una ritmica non invadente ma sempre articolata e trascinante. Sopra un tappeto di basso la chitarra tesse una trama interessante, riprendendo lontanamente le linee melodiche di piano e voce. Un aggressivo riff di chitarra annuncia l’ennesimo cambio, la batteria pesta di brutto, basso e chitarra sono stoppati all’unisono, Pierlorenzo Molinari fa vedere di che pasta è fatto dimostrandosi estremamente versatile e cambia nuovamente stile con una linea vocale aggressiva che successivamente lascia il campo al pianoforte, che con una funambolica corsa sui denti d’avorio della tastiera ci riporta magicamente all’interludio dalle reminiscenze Mercuryane, impreziosito da inquietanti sussurri. La ritmica rallenta, la tastiera spara frequenze aliene, un timido assolo di chitarra apre le porte ad un bellissimo interludio epico, potenti accordi distorti accompagnano Pierlorenzo Molinari che dà il meglio di se, esplodendo poi come l’Andrè Matos dei tempi d’oro. E’ il turno di Antonio Manenti, che finalmente si presenta la pubblico con un bellissimo assolo, ricco di tecnica e melodia, supportato magistralmente dalla sezione ritmica. Una rullata annuncia l’ennesimo cambio, una ritmica serrata ci porta verso il finale con una cavalcata che vede la chitarra in evidenza, ricamata da raffinati intarsi della tastiera, ultimo rallentamento dal sentore evocativo e siamo giunti alla fine di questo travolgente brano di apertura. Le liriche affrontano uno dei problemi più grossi che affliggono il nostro stivale tricolore, quello del lavoro, o meglio della disoccupazione. I nostri lo fanno in maniera ironica ed originale, paragonando il lavoratore, vittima del fin troppo facile licenziamento senza giusta causa, ad un povero gatto vecchio, che ha ormai fatto il suo corso. Il gatto non aveva mai dato problemi, era sicuro della sua poltrona, e invece della bramata promozione, riceve un bel “sei licenziato” dal capo, che si avvale del maledetto articolo diciotto. Colpito dalla crisi esistenziale, il gatto non potendo trovare conforto nell’alcool, decide di farla finita gettandosi sotto le ruote di una macchina, sperando che il guidatore non lo schivi o freni all’ultimo momento. Il gatto spera che la tragica fine sia il più indolore possibile, aggrappandosi alla leggenda che vede il gatto avere sette vite (per chi vive in Italia) o nove (per i paesi anglosassoni). Bellissimo brano di apertura, ricco di cambi di tempo, lontano dalla classica struttura strofa-ritornello-bridge, brano che decolla notevolmente nella seconda parte, con una esplosione vocale da brividi. Se il buongiorno si vede dal mattino…  Chapeau. Una spaziale tastiera supportata da una ritmica sostenuta che emana un sentore anni 80 apre la successiva Ebola, la chitarra ci propone un ammaliante tema che ricorda la melodia del famoso coro di Special K dei Placebo. La batteria ed il tappeto di sedicesime sparato dal basso trascinano il vocalist verso il primo cambio, Pierlorenzo ci colpisce con una bellissima linea vocale a cui fa eco la chitarra con ammalianti temi. Purtroppo questo bellissimo interludio è troppo breve e fa da bridge verso il nuovo cambio, dai sentori reggae con la chitarra in contro tempo ed una enigmatica linea vocale che poi gradualmente inizia a folleggiare, supportata da potenti accordi distorti. Alberto Armanini ruba la scena con un bellissimo pad orchestrale, supportato all’unisono dal basso, mentre Matteo Vigani tempesta di colpi il set dei piatti. Un funambolico pianoforte apre le porte ad un insolito interludio dai sentori retrò, un Pierlorenzo in versione black duetta con un coretto femminile dal sapore swing anni sessanta, geniali. Poi è il turno dell’assolo di chitarra, stavolta è Antonio a sintonizzarsi su radio May con un simpatico refrain di chitarra. Ritorna Pierlorenzo che con maestria ci riporta la bellissimo bridge a me tanto caro, duettando con la chitarra. Si ritorna alla strofa dai sentori reggae, con un bel basso in evidenza, il bridge evocativo apre nuovamente i cancelli alla tastiera che ci ripropone il bellissimo tema orchestrale. Il brano sembra terminato, ma risbuca Pierlorenzo che inizia a fischiettare la melodia del precedente assolo di chitarra, duettando con il pianoforte, che successivamente diventa protagonista, supportato da una ritmica funckeggiante. Finale rocambolesco che fonde lo swing con il rock. Ancora liriche insolite che non sono in grado di collegare al titolo, a meno che “Ebola” non sia il nome della sfortunata tartaruga o il soprannome del protagonista dai dubbi gusti alimentari. Per la nostra tartaruga, il passo tra le rocce e i rigogliosi cespugli del giardino alla padella è stato molto breve. Il padrone è curioso di vedere come è fatta dentro e di sapere che sapore ha la malcapitata tartaruga, riportando d’attualità la famosa scena dell'uccisione e dello squartamento della tartaruga del cult movie Cannibal Holocaust, scena che all’epoca destò non poche polemiche, mandando su tutte le furie gli ambientalisti. Anche questo brano è ricco di cambi di tempo e si esplorano con successo lidi lontani dal rock. E’ il turno della title track The Dirty Affair Between Pelican and Bear (Lo sporco affare fra il pellicano e l’orso). Il bellissimo tema di chitarra strappalacrime ci fa presagire ad una struggente power ballad, ma non è così. Gran cassa e charleston supportano un corposo giro di basso, poche rullate ed entrano anche la chitarra con un riff stoppato e Pierlorenzo che si presenta con una enigmatica linea vocale, che successivamente prende le sembianze del compianto Freddie, ricamata da un bel pianoforte, per poi esplodere nel folleggiante stile tanto caro a Serj Tankian, stavolta supportato dalla chitarra distorta che riprende il tema del pianoforte. Un potente e stralunato interludio annuncia l’arrivo dell’inciso; sulle onde di una cavalcata ritmica, la voce e la chitarra si intrecciano splendidamente. Si cambia di nuovo, stavolta si sfocia nella musica elettronica, ritmica stoppata e una spaziale tastiera supportano una aggressiva linea vocale, che poi ci riporta alla strofa dai sentori System of a Downiani. Un bellissimo interludio dove la tastiera è protagonista annuncia l’assolo di chitarra, stralunato e supportato da una ritmica ultra complicata. Ritorna la tastiera ad annunciare l’inciso, dove stavolta l’assolo di chitarra, molto melodico, si intreccia meravigliosamente con bella linea vocale di Pierlorenzo Molinari. Dimezzano i BPM e come per magia veniamo avvolti da una dolce atmosfera, dove il pianoforte è protagonista. Lentamente si va in crescendo verso un bellissimo wall of sound che esalta il sempre più sorprendente Pierlorenzo che in modalità Muse annuncia l’assolo di chitarra, molto melodico, da pelle d’oca come il successivo assolo di tastiera. Successivamente tastiera e chitarra si intrecciano meravigliosamente, richiamando all’appello anche la voce per una esplosione finale da brividi. Le liriche affrontano la differenza di età che a volte può intercorrere in un rapporto d’amore, nella fattispecie i protagonisti della title track sono una signora attempata che si vede con un ragazzino, suscitando scalpore e fiumi di critiche. Ma loro se ne infischiano, e portano avanti imperterriti e a testa alta lo loro storia d’amore, lui la soddisfa e sta bene con lei, i commenti delle malelingue gli scivolano addosso come gocce d’acqua sull’impermeabile. I nostri ci invitano a non fidarsi dell’apparenza e a non essere frettolosi nel dare giudizi e pregiudizi basandosi su quel che vediamo a prima vista, rimarcando la teoria del mai più giusto proverbio “l’abito non fa il monaco”. Ormai non è un caso, i nostri nonostante amino dire di avere influenze pop sono ben lontani dalle classiche strutture strofa ritornello, ma compongono brani dalla struttura frammentata in pieno stile progressive, proponendo spesso una bellissima esplosione sonora e canora finale, di quelle tanto care ai Marillion dell’era Hogarth. L’intreccio fra chitarra e tastiera nella parte finale è ancora una volta da brividi. Si cambia decisamente registro con Sneakers (Scarpe da Ginnastica), che si presenta con una introduzione di gran classe con un bel groove di basso a farla da padrona, ricamato da una chitarra pulita lontana dei canoni rock e da una tastiera dai sentori vintage. La linea vocale viene rafforzata brillantemente da un unisono di tastiera e cori alla fine di ogni battuta. La chitarra elettrica inizia a farsi minacciosa e pompa trasportandoci verso l’inciso dove le tastiere di Antonio sono protagoniste assieme alla bella linea vocale di Pierlorenzo. Un rocambolesco interludio ed un breve assolo di basso funckeggiante ci riportano alle soffuse atmosfere iniziali, dove emerge un basso sleppato. Nuovo cambio, il cantato si fa aggressivo, Matteo massacra i piatti, poi una spaziale tastiera apre i cancelli al trascinante ritornello. Nella seconda parte la bella linea vocale viene arricchita prima da interessanti controcanti, poi da un trascinante coro a cui fa eco un bel tema di chitarra. Rallentano i BPM e Alberto ci bombarda con un bellissimo assolo di Wakemaniane memorie. Ritorna Pierlorenzo, accompagnato da epici cori, nel finale si cambia ancora esplorando fra le calde sonorità anni sessanta. Le liriche si ispirano alla vera storia di Roy Sullivan, un Ranger con il dono dell’immortalità. Le scarpe da ginnastica sono gli angeli custodi dello sfortunato (o fortunato) ranger del parco. Sfortunato perché per ben sette volte è stato colpito da un fulmine durante i pattugliamenti nei boschi, ma fortunato perché per sette volte è riuscito a salvarsi grazie alla suola in gomma delle sue fide scarpe da ginnastica, rimediando solamente qualche bruciatura sul cappello da ranger. Ma la calamita per tragedie ha un’altra spada di Damocle che gli incombe sulla sua testa, gli orsi, che quando sia arrabbiano son dolori e bisogna correre veloci per salvare la pelle. E deve ringraziare ancora una volta le scarpe da ginnastica, che permettono di correre molto velocemente e di non finire nelle fauci dell’enorme carnivoro. Grazie alle fide scarpe ora si sente immortale, ma la sua immortalità lo ha però allontanato dagli amici e dalle donne che temono di essere colpite da un fulmine a ciel sereno. Roy Sullivan non ha il coraggio di togliersi le scarpe per paura di morire, addirittura le indossa anche quando va a letto. Ma alla lunga il nostro eroe è stanco, presto troverà il coraggio di slegarsi le scarpe, aspettando il giudizio di Giove, sottolineando che anche chi, agli occhi degli altri sembra un supereroe, ha i suoi dannati problemi, come qualsiasi altro essere umano. Altro buon brano, che alterna soffuse atmosfere swing e funky a travolgenti interludi con chitarre e tastiere in evidenza. Il bellissimo wall of sound finale è diventato ormai un marchio di fabbrica dei Kezia. Giunti a metà del cammino, incontriamo Barabba's Son Song (La Canzone del figlio di Barabba), che parte con un frizzante riff di chitarra immediatamente accompagnato da una ritmica serrata e da un bel tema di tastiera, che vanno a comporre un potente unisono dal forte impatto sonoro, che non sfigurerebbe come colonna sonora di uno spot pubblicitario. Un potente riff di chitarra dove possiamo percepire un forte tributo ai primissimi Metallica, annuncia la strofa, che cambia magicamente sound e atmosfera, caratterizzata da uno solare strumming di chitarra, rafforzato da un brillante giro di basso. Pierlorenzo mette in evidenza le sue doti di volubilità con una spensierata linea vocale interpretata magistralmente. Improvvisamente la quiete viene interrotta da un lancinante urlo, che annuncia l’inaspettato ritorno della strofa, seguita poi nuovamente dal travolgente riff di killemalliane memorie, che stavolta apre le porte all’inciso, brillante, trascinante, dove io riconosco i folli scandinavi Pain Of Salvation di “America”. La sezione ritmica pesta di brutto, tastiera e chitarra sparano velocissime sequenze di note, che trascinano la brillante linea vocale. Successivamente incontriamo un geniale interludio strumentale dove il riff portante viene alternato ora a parti soliste di organo, ora a stralunate schitarrate, il tutto supportato da una potente ritmica, che nel finale accelera trascinata dal funambolico assolo di organo. Dopo una precipitosa serie di accordi ritorna lo spensierato inciso, stavolta arricchito da intelligenti controcanti che esaltano ancora di più la linea vocale, poi è il turno dell’assolo di chitarra, tecnico e melodico che va a riprendere il ridente tema dell’introduzione. Dopo un bel break di chitarra, dove il batterista spara un martellante tappeto di doppia cassa, improvvisamente viene dimezzato il tempo e una bella corsa sui tom annuncia un epico intermezzo, dove la tastiera diventa protagonista con un bel tema orchestrale, facendosi largo fra i potenti accordi di chitarra. La cassa inizia a martellare e nel finale la chitarra inizia un assolo che si va ad intrecciare a meraviglia con la tastiera, formando uno splendido turbinio solista dove vengono esaltate le dote tecniche dei due strumentisti, che duellando a suon di note vanno a concludere questo folleggiante brano. Le brevi liriche, le uniche che non portano la firma di Pierlorenzo Molinari, sono state stese dal tastierista Alberto Armanini e lasciano trasparire un velato ed ironico attacco alla Chiesa, che troppo in fretta si è dimenticata di Barabba, misteriosa figura messianica che si è giocata la sorte con Gesù il Nazareno. La Chiesa, sempre in cerca del dolore anche nei momenti felici, viene criticata anche a causa dell’assurda battaglia nei confronti dei profilattici, ritenuti immorali, Chiesa sempre intenta a predicare di limitare l’amore ai soli tempi infecondi; i nostri con una brillante vena ironica cantano “there was something wrong with the condom, hope they will not cut up my toy” (C'era qualcosa di sbagliato con il preservativo, spero che non taglierà il mio giocattolo). Altra geniale composizione, dove si passa magicamente da atmosfere rilassanti a folli ritmiche vertiginose senza neanche accorgersene. La sesta traccia si intitola Quendo e viene aperta da un inquietante coro gregoriano emesso dalla tastiera che annuncia un potente groove di basso, leggermente sporcato dagli effetti. Dopo un paio di piattate accompagnate da un potente unisono di chitarra e tastiera la batteria entra a pieno ritmo, l’impatto sonoro è travolgente e sembra uscito dal teatro dei sogni. L’accattivante chitarra e la ritmica stoppata accolgono il camaleontico Pierlorenzo, con una evocativa linea vocale che nel bridge assume un tono grintoso, seguendo i passi della chitarra, prima di sfociare nell’epico ritornello, dove dimezzano i BPM, le epiche tastiere e i temi di chitarra si intrecciano a meraviglia ricamando l’evocativa linea vocale del valente Molinari, abbellita da interessanti armonie vocali. La successiva strofa, dalla ritmica frammentata è caratterizzata da tastiere aliene e da una inquietante linea vocale che sembra uscire dagli inferi. Poi incontriamo un lungo interludio strumentale, che nella prima parte vede protagonista Alberto Armanini il quale ci bombarda con un bellissimo epico riff di tastiera, successivamente lascia il campo alla chitarra che con un trascinante riff richiama all’appello Pierlorenzo Molinari che trasportato dalla ritmica serrata recita con grinta un paio di strofe. Una bellissima progressione di accordi armonizzati dalla tastiera, annuncia il cambio successivo, una serrata cavalcata ritmica dove Antonio Manenti tesse una articolata trama di note trascinando l’epica linea vocale di Pierlorenzo che ci ripropone una versione speed dell’inciso supportato dal valente Vigani che ci bombarda con la doppia cassa. La canzone sembra sfumare verso la conclusione, ma dalle tastiere in fader emerge un pianoforte dall’aria barocca che apre le porte all’assolo di chitarra, melodico e suonato con il cuore, che vagamente ricorda quelli del maestro Rothery dei tempi d’oro, quando imperversavano giullari, camaleonti e gazze ladre. Brividi. Sul finale la ritmica aumenta e di conseguenza aumenta anche l’intensità dell’assolo di chitarra, che poi sfuma lasciando il campo ad un pianoforte che evoca magiche atmosfere, accogliendo il cantastorie bresciano che va concludere questo epico brano in modalità Freddie. Stavolta le liriche non hanno nulla di ironico ma sono alquanto sinistre, di Dylandogghiane memorie aggiungerei io. In maniera inquietante i nostri affrontano il problema dell’alcool, del vizio e della perdizione, il cui demone viene dipinto come una bestiale creatura dagli occhi infuocati che si aggira all’interno di Quendo, il bar di un piccolo paesino del bresciano, cercando di catturare le vittime più deboli. Sembra che all’interno di Quendo vi sia una porta per l’Inferno, dove dietro sta in agguato il demone che tenta di catturare più uomini possibile, che ignari cascano nei suoi letali trabocchetti, sperperando tutto il denaro che con fatica hanno guadagnato. Non è facile rimanere sospesi sul limbo che ci separa dalle grinfie del demone dagli occhi di fuoco, in attesa di un ipotetico salvatore, quando sentiamo lo scalpiccio inquietante dei suoi zoccoli e intravediamo i suoi occhi infuocati è troppo tardi per tornare indietro, la barca di Caronte è vicina. I Kezia ci esortano a circondarci delle persone giuste, badando bene a non farsi trascinare da chi è poco raccomandabile, finendo nelle strade a fondo chiuso della perdizione. Quendo è sicuramente la traccia dove la vena progressive metal è più marcata, e nonostante si rimanga all’interno dei ranghi del progressive con potenti cavalcate ed epiche tastiere, senza spaziare verso altri lidi, rimane la mia traccia preferita del platter grazie anche alle originali liriche partorite da Pierlorenzo Molinari. La traccia numero sette intitolata Preludio è appunto una breve introduzione strumentale, definita dai Kezia un breve momento di pace, che anticipa la traccia finale dell’album. L’effimero brano è caratterizzata da un melanconico tema di chitarra acustica supportato da un avvolgente pad di tastiera. Neanche trenta secondi e delle epiche tastiere aprono Treesome (Una cosa con un Albero), successivamente entra in scena Antonio Manenti con uno struggente tema di chitarra dal sapore latino. Il tempo lento da classica ballata epica accoglie il cantastorie di Pompiano, che ci conquista immediatamente con una ammaliante e sensuale linea vocale, supportato da un arpeggio cadenzato e da struggenti pad orchestrali da brividi. Un potente accordo distorto annuncia il bridge, il cantato assume un tono veemente, accompagnato da epiche tastiere, che spalancano le porte all’inciso, dove il bravissimo Pierlorenzo vola in alto, ricamato da raffinate armonie vocali e da un grande lavoro da parte di Alberto Armanini. Improvvisamente la magica ed epica atmosfera viene interrotta da un funambolico riff di tastiera, dal forte sapore progressive anni settanta, riff ricco di talento e tecnica strumentale, accompagnato adeguatamente da velocissime corse sulla sei corde e da una incredibile ritmica ultra complicata. Dopo questo prolungato e tecnicissimo interludio strumentale ritorna la strofa, che stavolta abbandona le epiche atmosfere iniziali grazie ad una ritmica assai più brillante, innestando la modalità Pain Of Salvation. Nella seconda parte potenti accordi distorti spazzano via l’arpeggio donando veemenza alla strofa, la linea vocale si intreccia meravigliosamente con appropriati cori prima di esplodere nell’ennesimo cambio dove le armonie vocali sono protagoniste, il tutto supportato da un potente unisono strumentale. E’ il turno dell’assolo di chitarra, che inizia con un tema epico per poi sfociare in un melodico assolo dai sentori metal, supportato da un grande lavoro da parte della sezione ritmica. Ritorna l’evocativo inciso, con le tastiere a contendere il podio al bravissimo Pierlorenzo, che successivamente aggiunge un po’ di verve al cantato, aiutato dagli accordi della chitarra, che poi prendono il sopravvento per alcune battute, annunciando un’epica cavalcata dove imperversano le tastiere. Altro funambolico e ultra tecnico interludio strumentale di forte impronta progressive, dove i nostri mettono in luce tecnica, inventiva e imprevedibilità. Poi una trascinante progressione di accordi distorti richiamano all’appello il vocalist che nelle battute finali dimostra di saper usare anche lo “scream”, tanto per non farsi mancare nulla. Stavolta a finire nel mirino del geniale Pierlorenzo è la prostituzione, o meglio coloro che ne alimentano i profitti, ovvero i clienti. Si parte da un ricorrente incubo che affligge un giovane teenagers, tormentandolo con torbidi pensieri portandolo a credere di sfiorare la pazzia. Nella sua dimensione onirica vede verdi prati e alberi rigogliosi, mentre l’inebriante odore della primavera lo eccita. Nonostante non sia in possesso del pollice verde e non abbia mai amato il giardinaggio, nel ricorrente incubo si trova ad essere innamorato di una pianta tanto da rimanerne ossessionato. Ma poi a mente lucida capisce che l’amore per la pianta era solamente la trasposizione onirica della sua vera ossessione, quella di mentire con una donna dai facili costumi. Bellissima epica ballata, con improvvisi sbalzi ritmici in pieno progressive style, dove emerge l’elevata tecnica strumentale del combo bresciano.



Intendo fare subito una precisazione, le varie band menzionate in fase di recensione del track by track non sono di certo una critica alla mancanza di originalità della band, che a mio parere ne ha da vendere, ma sono solamente dei punti di riferimento per far capire meglio a chi legge le gesta tecniche dei nostri, tali citazioni possono considerarsi una sorta di ulteriori complimenti indiretti nei confronti di Molinari e compagni. Fatico a credere che The Dirty Affair sia un debut album, in quanto non riesco ad individuare sbavature o ingenuità di qualsiasi genere. Da una intervista ho appreso che i brani che hanno dato vita all’album provengono da idee non sfruttate dalle band di appartenenza dei vari membri, ma sono straconvinto che a lavoro ultimato sono state talmente rielaborate, modificate con l’aggiunta di nuove parti e piccoli accorgimenti, il tutto curato nei minimi particolari, da renderle irriconoscibili. La fantasia compositiva e l’accurata e raffinata fase di arrangiamento sono le cose che mi hanno colpito principalmente durante l’ascolto del sorprendente The Dirty Affair. La facilità con cui i nostri eseguono i cambi di tempo e l’alternanza di atmosfere in contrasto è letteralmente disarmante. Si sente che i tre vecchi amici che compongono il nucleo portante della band provengono da differenti percorsi musicali, dando vita ad un frizzante mix musicale da loro definito “prop”. Sinceramente io l’unica cosa di pop che riesco a percepire sono le bellissime ed ammalianti linee vocali del bravissimo Pierlorenzo Molinari, per il resto si tratta di vero e proprio progressive metal, che vien prepotentemente a galla nelle ultime tracce, progressive metal rivisitato con una gradevole nota di freschezza e trovate geniali. Altra peculiarità che salta agli occhi è quella che, nonostante la moltitudine di cambi di tempo e di atmosfera, i brani raramente si dilungano oltre i cinque minuti, fatta eccezione per l’epica traccia finale Treesome, che supera di poco i sette minuti. Non me ne vogliano gli altri, ma The Dirty Affair porta sugli scudi il bravissimo Pierlorenzo Molinari, sorperndente cantante in grado di spaziare da uno stile all’altro con estrema facilità e con escursioni vocali da brividi, rimanendo però sempre all’interno di parametri di uno stile tutto suo. Le melodiche linee vocali ci conquistano immediatamente, grazie anche all’ottimo lavoro sulle armonie vocali. Grande lavoro anche da parte di Alberto Armanini dietro alle tastiere, mai invadente, sorprendente sulle parti soliste e ottimo esecutore anche per quanto riguarda i pad, che sovente si intrecciano a meraviglia con le parti di chitarra del bravo Antonio Manenti, il quale ci propone alcuni assoli ricchi di tecnica e molto melodici, aggiungerei da brividi. In occasione delle parti distorte più aggressive riesce a non risultare troppo sopra le linee; infine risulta molto abile a tessere raffinate trame anche quando è in secondo piano. Per quanto riguarda la sezione ritmica bisogna fare un discorso a parte, il duo che compare nella tracce registrate di The Dirty Affair si è destreggiato egregiamente proponendoci ritmiche ricercate, raffinate e piuttosto complicate, mentre per i nuovi arrivati Fabio Bellini e Michele Longhena dobbiamo aspettare di giudicarli in sede live, o quantomeno su un prossimo lavoro in studio, ma sono sicuro che il triumvirato della band ha selezionato gli elementi giusti. Sicuramente la sezione ritmica che ha partecipato alle sessioni di registrazione del CD, collaborando anche alla composizione e alla fase di arrangiamento, è una “signora sezione ritmica”; il bassista Andrea Piovani ci martella con potenti tappeti, proponendoci alcune interessanti soluzioni soliste e qualche escursione nella tecnica dello slap, svolgendo brillantemente i compiti ritmici. Il batterista Matteo Vigani trova spesso soluzioni raffinate ed interessanti, non tediandoci troppo spesso con estenuanti tappeti di doppia cassa, preferendo massacrare i piatti e tom con ottimi risultati. Nel mare musicale Italiano, dove le idee e scarseggiano e pullulano plagi, cover band e banali progetti fini a se stessi, i Kezia emergono prepotentemente ritagliandosi uno spazio nel difficile ambiente musicale tricolore. Dopo aver firmato un contratto con la Logic(il)Logic Records, The Dirty Affair è venuto alla luce il 5 Maggio del 2015, distribuito dalla Andromeda Records, sotto la produzione di Riccardo Frigoni ex membro dei D-Vines. Il platter è stato registrato, mixato e masterizzato presso gli Studio 57 di Remedello (Brescia), studi di proprietà del produttore stesso. I brani sono stati tutti composti ed arrangiati dai Kezia, le liriche sono state partorite dalla geniale mente di Pierlorenzo Molinari, fatta eccezione di Barabba’s Son Song, testo steso dal tastierista Alberto Armanini. Una lode anche all’artwork, opera del poliedrico drummer Matteo Vigani, che rappresenta una coloratissima immagine stroboscopica, che a me ricorda in maniera stilizzata la bellissima falena “Sfinge Testa Di Morto”. Secondo la mia modesta e sindacabile opinione, i Kezia sono una band destinata a far parlare di se, sperando che la “moda” di non valorizzare le band indigene che vige nel Bel Paese non colpisca anche loro. Per avvantaggiarsi un minimo hanno scelto di cantare in inglese, in modo da farsi conoscere meglio oltre confine e sono pronto a scommettere che all’estero saranno molto apprezzati e valorizzati. The Dirty Affair è un esordio con il botto, Album straconsigliatissimo, in special modo a chi cerca nuove band e a chi crede che in Italia non ci sia gente che fa Musica con la “M” maiuscola. Nella mia breve carriera di recensore mi sono promesso di concedere la massima valutazione solo a album significativi che hanno lascito il segno nella storia della musica o nella discografia di una band, ma non posso certo esimermi da dare una valutazione alta al sorprendente The Dirty Affair dei bresciani Kezia.


1) Before I Leave
2) Ebola
3) The Dirty Affair Between Pelican and Bear
4) Sneakers
5) Barabba's Son Song
6) Quendo
7) Preludio
8) Treesome