KERNEL GENERATION
Forward The Future
2015 - Self Released
NIMA TAYEBIAN
03/12/2015
Introduzione Recensione
Avant-garde metal. Avanguardia metallica. A proposito di questo (non)genere Wikipedia si esprime in questi termini: "L'avant-garde metal, chiamato anche experimental metal, è un sottogenere della musica heavy metal caratterizzato da un largo impiego di elementi avanguardistici, sonorità, strumenti, tecniche e strutture che escono fuori dagli schemi tradizionali del genere, talvolta fondendo elementi tipici della musica heavy metal con qualsiasi genere musicale: dal free jazz al metal estremo; dalla musica classica a quella elettronica e ambient" e ancora, qualche riga dopo "La fondamentale caratteristica predominante di questo genere è la complessa eterogeneità dal punto di vista stilistico, che a differenza degli altri generi musicali dell'heavy metal, in cui possono essere riconosciuti dei tratti distintivi e caratterizzanti, l'Avant-garde si presenta come un insieme non chiaramente definito di sonorità e, naturalmente, di concezioni musicali; per questo motivo fornirne una descrizione generale è particolarmente difficile Nella fattispecie, l'avant-garde metal è un termine generico spesso adoperato per indicare un ampio raggio di stili musicali di vari artisti all'interno della musica heavy metal che si differenziano dai canoni tipici del genere per la notevole presenza di elementi musicali atipici e non-convenzionali" (da Wikipedia, l'enciclopedia libera). Per parlare del primo, decisamente atteso (in primis dal sottoscritto) full length dei Kernel Generation, ossia "Forward The Future" ho deciso in maniera continuativa - rispetto a quanto scritto nella mia prima recensione a loro dedicata (quella dell'Ep "Human Awakening") di usare una formula non dissimile, ripescando un'appropriata citazione dall'enciclopedia "più cliccata" come apertura della mia disamina. Eh già, perchè per parlare di una musica propriamente colta come quella proposta dal combo cuneese è d'obbligo fare riferimenti non meno colti. Come avrete capito dal mio stralcio testuale introduttivo (e, come saprete già se conoscete l'ensemble e il loro primo Ep) parliamo di musica metallica d'avanguardia. Termine che, italianizzato, risulta addirittura ben più esplicativo rispetto a quanto potrebbe suggerire la versione anglofona del termine. "Avant-garde metal": un termine che all'epoca in cui fu coniato - e ci riferiamo ai Celtic Frost, ai quali quest'etichetta, se la memoria non mi inganna, fu data all'incirca per prima grazie alle sperimentazioni del capolavoro "Into The Pandemonium" - rappresentava la non catalogazione stilistica, l'assoluta eterogeneità di influenze atte a creare ibridazioni nuove e non facilmente classificabili. Oggi quando si sente "Avant-garde metal", quando sui vari blog o sulla rinomata Encyclopaedia Metallum sentiamo dire che un gruppo fa avant-garde metal sappiamo già dove si vuole andare a parare: orchestrazioni, un tocco di gothic, un tocco di elettronica, una spruzzatina di free-jazz qua e la, una sovrastruttura progressive, una sub-struttura black etc etc etc... Insomma, anche quello che dovrebbe essere il non genere per eccellenza, signori miei, sembra essersi un tantinello standardizzato. Non che tutti i gruppi che si autoetichettano, o che vengono etichettati come avant-garde (metal) abbiano "nell'impasto" sempre i soliti ingredienti. Le variazioni ci sono sempre: meno black e più progressive, niente gothic e tanta elettronica, niente elettronica e quintali di gothic, più o meno free jazz, niente free jazz, più o meno musica "colta", o minimal, o noise, o "post". Insomma, cambiando gli addendi il risultato comunque non cambia. Un termine, questo "avant-garde" che alla fine vuoi o non vuoi è stato un pizzico standardizzato, portato ad essere quasi un'etichetta, quando invece ben sappiamo che dovrebbe concettualmente rappresentare un'anti-etichetta per eccellenza. Meglio dunque, per parlare di taluni artisti, passare alla versione italiana del termine, ossia "metallo d'avanguardia", ove la dicitura "d'avanguardia" rappresenta perfettamente quel che non è standardizzato entro limitativi canoni. Si parla di avanguardia, di quella vera, di un flusso sonoro capace di strabordare limiti precostituiti a cui l'orecchio dell'ascoltatore sembra essere ormai abituato, per confluire verso lidi differenti, soprelevati rispetto al comune range musicale a cui tutti normalmente facciamo riferimento. Un qualcosa a cui l'avanguardia musicale, quella vera, dovrebbe sempre tendere, esimendosi dal cercare facili formule già rodate a cui aggiungere/togliere elementi per conferire al prodotto un posticcio effetto novità. Quel che conta, nella vera avanguardia sonora, è la sperimentazione: non importa quanto profonda, incisiva essa sia, deve comunque TENDERE realmente verso lidi differenti, avere la consapevolezza di voler parlare un linguaggio "altro". E dunque arriviamo ai Kernel. E al loro Forward The Future. Tutti questi paroloni per presentare il loro primo disco: ha senso? Si, decisamente si. La proposta della band è infatti - e il qui presente platter lo conferma, dopo le ottime premesse del precedente Ep - il tentativo da parte della band di parlare un linguaggio differente utilizzando un alfabeto sonoro vario capace di pescare da più influenze non sempre (e ci mancherebbe) metalliche. Troppe cose sono successe in questo genere perchè gli artisti più avveduti possano rifarsi SOLO ad ambiti strettamente metallici. E i nostri, consapevoli di questo, accorpano nel loro piatto decisamente ricco, influenze eterodosse al fine di creare "nuovi orizzonti musicali". Dunque non c'è la volontà di inserire elementi differenti diversi solo per provare una - indubbia - cultura musicale. No. Sarebbe limitante. Qui si tende a ben altro. Le conoscenze musicali degli artisti confluiscono in toto verso la creazione di immaginifici spaccati che vogliono, devono in primis uscire dai "limiti precostituiti" di cui sopra. Nonostante spesso il termine "avant-garde metal" faccia riferimento ad un prodotto che parte da basi estreme (spesso black metal) evolute verso sviluppi estremamente diversi (si gioca ad una continua tendenza all'estremo) qui, come in ogni caso di autentico metallo d'avanguardia contemporaneo, che oserei definire di "post-avanguardia" (il vecchio avanguardismo ormai è stato, possibilmente, assimilato e standardizzato) la partenza da lidi estremi non ha più bisogno di essere palesata. Quel che conta è il nuovo prodotto, capace di pescare dalla storia, da ambiti eterogenei, dalle differenti culture degli artisti coinvolti, e mettere in campo una nuova concezione di "metal". Abbiamo già visto, con il precedente Ep, che le premesse erano più che buone. Un Ep, solo un assaggio di quel che poteva aspettarci, a cui, nella parte finale della recensione ad esso dedicata, concludevo dicendo "...è ancora troppo presto per dare un giudizio definitivo, pertanto ci manteniamo con una certa cautela aspettando il 2015 per vedere se effettivamente quanto di buono c'è in questo Ep troverà modo di consolidarsi in un full length ancor più affascinante, se non addirittura esaltante. Le premesse sono senza alcun dubbio ottime, ma aspettiamo comunque curiosi di vedere cosa ci riserverà il futuro, incrociando naturalmente le dita e augurandoci che questo sia un ottimo inizio destinato a confluire in un futuro incredibile e ricco di sorprese...". Ecco: a seguito dell'uscita del disco, a seguito del relativo ascolto posso dire di essere stato accontentato, e come me immagino siano stati accontentati tutti quelli che avrebbero voluto sentire, nel completamento di quella prima scheggia di genio, la "magnificazione" di quelle sonorità inserite una perfetta quadratura del cerchio. I nostri, infatti, sono stati capaci non solo di non deluderci, ma di stupirci letteralmente, facendoci ancora una volta sognare (in questo presente) e sperare (per il futuro). Ma mi sto perdendo troppo - forse - in digressioni, appunti personali et similia. Meglio concentrarci su di un breve spaccato sulla band, per poi passare all'analisi del disco: dopo tante parole spese posso immaginare che qualcuno si sarà inevitabilmente incuriosito. Il progetto parte grazie agli sforzi dei cuneesi Paolo Luciano (chitarra/basso/ synth e programmazioni) e Mariano Sanna (batteria), che dopo aver collaborato per anni in band metal locali decidono di mettere in piedi nel settembre 2013 un loro personalissimo progetto, i Kernel Generation per l'appunto. Il duo diviene un terzetto dall'aprile 2014, quando entra nell'enseble Matteo Verri (basso). Alimentati da un infinito amore per la musica e ispirati dai grandi maestri del genere thrash/death, in particolar modo quelli della scena old school (Megadeth/ Metallica/ Slayer/ Testament/ Overkill/ Death) e da altrettanti maestri della scena industrial e prog (Dream Theater / OSI / Porcupine Tree / Mastodon / Korn / Rammstein / Deftones) i "Kernel Generation traducono in musica le sensazioni, le paure, i sogni, le disuguaglianze sociali, la violenza?ma anche l'umanità che caratterizza l'epoca "post-moderna" in cui stiamo vivendo, alternando sonorità molto aggressive ed avvolgenti derivanti dall'uso prevalente di chitarre a 7/8 corde ad altre più cupe, malinconiche e ipnotiche ottenute tramite l'utilizzo di strumenti elettronici che rivestono un ruolo fondamentale nella definizione del sound globale della band" (come ci dicono gli stessi membri). I nostri arrivano a pubblicare il loro primo Ep, "Human Awakening" il maggio del 2014, florilegio di cinque brani di cui ben tre strumentali. L'anno dopo è la volta del primo Lp ufficiale, quel "Forward The Future" oggetto di questa recensione, che, esattamente come preannunciato dalla band (e riportato dal sottoscritto sulla precedente recensione), risulta essere un concept composto di dieci pezzi legati da un comune filo conduttore, ossia la profezia dei Maya del 2012, "un viaggio che attraversa l'esoterico, la cosmologia, tematiche ambientali e sociali?dall'apocalisse?alla rinascita della coscienza umana..".Senza ritornare eccessivamente sull'argomento (quanto riportato nell'analisi delle singole tracce e nelle considerazioni finali possono aggiungere tutto quel che c'è da sapere e che ancora non è stato toccato nel preambolo iniziale) posso dire che il disco risulta un elemento di totale continuità rispetto all'Ep di preambolo. Un disco che in maniera azzardata - ma non troppo - abbiamo inserito in ambiti "avanguardistici" (evitando però di scomodare la fuorviante terminologia "avantgarde") quando nell'effettivo due sono gli ambiti "ufficialmente" messi in campo: quello progressivo e quello industriale. Ma tali elementi, miscelati come i nostri sono riusciti a fare, con inserimenti e rimandi di territori extrametallici, finiscono inevitabilmente per far parte di un corpus decisamente avanguardistico. Entriamo dunque nelle spire di questo incredibile e non troppo facilmente catalogabile parto.
Cosmogenesis
Esattamente come nell'Ep "introduttivo" il nostro viaggio - definizione quantomeno corretta - è inaugurato dall'ottima strumentale "Cosmogenesis (La genesi del Cosmo)". Due minuti e mezzo di svolazzi pindarici di gran pregio capaci immediatamente di immergerci in un trip estatico destinato a concludersi solo con la traccia conclusiva ("Collapsing Universe"). Essendo lo stesso brano dell'Ep, rischierei quantomeno di ripetermi, perdendomi in digressioni sullo sviluppo strutturale, ma naturalmente, per completezza, non mi esimo dal dare comunque uno spaccato sulla cosiddetta "intelaiatura". Il pezzo parte scortato da spire ipnotiche, capaci di serpeggiare imperterrite dizzanzi a noi: un flusso avvolgente di suoni eterei, lattiginosi, torazinici, una danza di note che scivola e si fa strada in una fittizia stratosfera mentale volteggiando in un vortice narcotico. Suoni distanti, spacey, che ci danno il benvenuto nei primissimi secondi, ritagliati su evocativi effetti feedback. Una chitarra mesta inizia ad inanellare poche note sopra un immaginifico tappeto di synth. A un minuto e mezzo siamo trascinati nel bel mezzo di trame narcotizzanti impostate su un motivo ripetuto a loop, screziato da rasoiate elettroniche che appaiono e scompaiono come raggi gamma. Si genera un effetto maestoso: sembra, scortati dal titolo, di ritrovarsi nei primi momenti della creazione del cosmo, subito dopo l'esplosione dell'uovo primoridale, oltre il "tempo di Planck", e quindi successivamente all'inflazione cosmica, quando quark e gluoni iniziano a combinarsi in protoni e neutroni, quando i neutrini e i protoni iniziano ad aggregarsi tra loro nel processo di nucleosintesi per dare origine ai primi nuclei di deuterio ed elio.
Age Of Aquarius
La cosmogenesi prende i connotati di un avvincente flusso sonoro, che attraverso un ipotetico viaggio ci incanala nel secondo brano del lotto, "Age Of Aquarius (L'Età dell'Acquario)". Il titolo si riferisce all'era dell'Acquario, o Età dell'Acquario, uno dei dodici periodi (o eoni) sui quali alcune credenze di stampo esoterico si basano per dividere la storia del genere umano. Tra i teorici più celebri a cui dobbiamo la definizione delle caratteristiche principali troviamo Rudolf Steiner, padre dell'antroposofia. Ognuno di questi cosiddetti eoni ha una durata pressappoco di 2160 anni, mentre l'insieme delle ere (dodici nel complessivo) sfiora i 25920 anni. Tali ere sono calcolate in maniera esattamente contraria rispetto all'astrologia tradizionale: dunque, se normalmente troviamo l'Ariete come primo segno, seguito dal Toro etc, qui vediamo come pur partendo dall'Ariete, si continui con i Pesci, l'Acquario etc. Ogni era riflette le caratteristiche insite nella costellazione di cui fa parte, manifestandole a livello sociale, culturale, economico, etc. e considerando la lunghezza spropositata delle varie ere, gli effetti avrebbero luogo circa settant'anni dopo l'inizio di ogni specifica era. I calcoli ci dicono che dovremmo entrare nell'era dell'Acquario nel 2600, mentre pareri contrastanti sono ravvisabili da diversi teorici (in un libro intitolato "The Book of World Horoscopes", un certo Nicholas Campion ci delizia mettendo in campo fonti che spaziano dal 1447 (Terry MacKinnell) al 3621 (John Addey). Basilari, nella cosiddetta Era Dell'Acquario, sono la fratellanza, la solidarietà, la maggiore apertura mentale. Dunque un era di positivismo in tutto e per tutto. A.O.A si concretizza in uno strumentale pregno di potenza, maestoso e dotato di un non comune senso di evocatività. Un inizio indicativo illustra a grandi linee la possenza capace di animare il suddetto brano, con un rifferama compatto e roboante capace di viaggiare come un metallico apparecchio oltre i confini della cronosfera, tra le trame ipnotiche e sintetizzate del fondo. Si definisce un sound che potrebbe appartenere ad un parente prossimo di Vangelis, di cui conserva l'evocatività ma con un surplus di cromo che non guasta mai. Prima del minuto si stempera la carica roboante a favore di soluzioni più "lisergiche" , grazie a flussi sonori che iniziano a serpeggiare liberi nello spazio come astruse forme aliene vermiformi. Quasi al minuto e venti si reinserisce la chitarra, con un riff ancora più quadrato di quello introduttivo, granitico e dall'incedere imperioso, che ci porta all'acme del brano, imperniato su un evocativo solo guitar (dal minuto e cinquanta) che sembra ad un certo punto collidere come un asteroide nella nebulosa tracciata dallo sfondo intersecandosi ad essa. Sostanzialmente un autentico trip capace di catapultarci oltre i confini dello spazio mentale.
Welcome To Decadence
Atterriamo così con la nostra immaginaria astronave nel tessuto cangiante della successiva "Welcome To Decadence (Benvenuti nella Decadenza)". A fare da contraltare ad uno sfondo livido ed indefinito una voce filtrata, robotica, deumanizzata, che ci trasporta gradualmente verso un estatico solo guitar. Oltrepassata la soglia del minuto l'assolo si scontra con un riff grasso e possente, a cui si addizionano suoni sintetizzati e alieni sullo sfondo. Presto tali sonorità iniziano ad avere una componente preponderante nella tessitura del brano donandole afflati postumani. Superata la soglia del quarto minuto le mantriche sonorità sintetiche sentite sino ad ora si incasellano in una componente più elettrica gestita attraverso un rifferama ruvido che sembra echeggiarne la struttura. La nenia ipnotica solleticata da tali note continua imperterrita sino alla fine del brano, nuova meta raggiunta in questo allucinato viaggio mentale. Il brano in questione è un "quasi strumentale" dato che come accennato nella parte iniziale è possibile cogliere una voce modificata e ultraumana. Una voce che abbozza poche parole di protesta contro la presuntissima "Luce" che i poteri forti cercano in tutti i modi di farci vedere come tale. E' in realtà unicamente un riflesso, uno specchietto per le allodole con il quale i potenti cercano di coprire le loro nefandezze. Tanto è vero che si fa riferimento al "Nuovo Ordine Mondiale", il "New Order", dai complottisti considerato un gruppo di pochissimi "eletti", per lo più pezzi grossi dell'alta finanza e della politica, che praticamente decidono sulle sorti dell'umanità. Da sempre. ("Quando quel che chiamiamo "Luce" alla fine controllerà il nostro pianeta, vi sarà solamente Oscurità./ L'ipocrisia è la regola: ignoranza, violenza, povertà, queste sono le conseguenze?/ Benvenuti nel Nuovo Ordine? benvenuti nella Decadenza? "). Note eteree si disperdono nell'aria, vagano libere attraversando senza difficoltà ogni cosa come sciami di neutrini.
Harbingers Of Doom
Siamo ai primi secondi della successiva "Harbingers Of Doom (Presagi di Sventura)". Presto poche voci filtrate si insinuano nella texture, prima che il brano si assesti su una mantrica litania. A un minuto e trenta un magma ribollente di suoni liquidi ci porta ad una strabordante tessitura chitarristica che presto confluisce in un riff grasso, pachidermico ripetuto per diverse volte. Verso i due minuti e quaranta subentra la voce, misteriosa e fredda che inizia a declamare liriche fatte di pessimismo e rassegnazione. Verso i quattro minuti e mezza un solo di gran pregio, prima del reinserimento delle vocals di Luciano. Finale affidato a intelaiature evocative di synth e chitarra, delicate e pregne di inenarrabile mestizia. Il testo del brano risulta abbastanza ambiguo : il protagonista sembra aver conosciuto un lato della vita che la maggior parte dei suoi contemporanei ignora, ovvero la Realtà dei fatti, una visione pessimistica dell'universo degna di Schopenhauer e filosofi simili. Tutti vivono cullati dal velo di Maya, credendo che le conquiste dell'umanità, la tecnologia ecc. siano in qualche modo delle salvezze, per tutti noi. Ma a conti fatti, siamo pupazzi in balia del destino, il male è sempre in agguato e pronto a bruciare le nostre ossa e ridurci in cenere, senza che ci sia nemmeno il bisogno del fatto che ne siamo consapevoli o meno. Quindi, il benessere è solo apparente. In realtà le nostre forze sono nulle, se paragonate a quelle di un concetto di "Male" molto particolare. I segni della decadenza accennata nel brano precedente ci sono tutti, ma nessuno li vede. Solo il protagonista lo fa, e per questo si considera certamente impaurito, ma anche motivato a combattere ("Tradito dal tempo, credo solo in me stesso./ Torno indietro e vedo impronte nella cenere./ Ossa bruciate, il Male ha ampliato il suo vantaggio./ Non mi sono mai sentito così, mai./ Non mi sono mai sentito così perso, mai prima d'ora./ Mai così incoraggiato, mai./ L'aria è tossica, è la vendetta di questo pianeta./ Io, un cavaliere errante, è quel che sono./ L'occhio di fuoco mi cerca, per quanto tempo ancora riuscirò ad essere libero?/ Non mi sono mai sentito così, mai./ Non mi sono mai sentito così perso, mai prima d'ora.").
Xibalba Be
Suoni alieni, tecnologici in continua fluttuazione ci portano alla prima vera novità del lotto, ossia la strumentale "Xibalba Be", della durata di circa quattro minuti e mezza. Nell'arco di una decina di secondi un deciso tamburellare di reminiscenza tribale subentra al flusso sonoro iniziando a predominare. Il paesaggio sonoro ci proietta in dimensioni archetipe ma familiari: flash prendono forma nella nostra coscienza stratificandosi, assumendo "strani connotati" inspiegabili in fase di veglia. Il tamburellare tribale prosegue, mentre oltrepassata la soglia dei trenta secondi, una mantrica litania sciamanica prende il sopravvento. Quasi il rituale di uno stregone indigeno, "pellerossa". Il tutto sembra ripetersi a loop, sommergendo la coscienza dell'ascoltatore in una vampata lisergica. Ci si ritrova calati nei meandri del proprio io, in un viaggio interiore mescalinico; forse disorientati; forse alla ricerca del proprio sherpa; e giù...giù negli abissi del proprio subconscio mentre voci distanti - prima femminili, quindi maschili - viaggiano esternamente al nostro "velo di Maya". Oltre i due minuti e venti una luminosa variazione oltre questo piccolo ma intenso viaggio interiore: un momento di calma, di pace mentale, in cui "quelle voci", quella mantrica litania sciamanica cessano. Quindi le percussioni si fondono con un magma sonoro fluttuante, quasi alieno, liquido a volte. Una strana melodia si sviluppa serpeggiando - dapprima leggera e serena, quindi decisa - nell'etere. Oltre i quattro minuti e venti torna la calma: si confluisce in una parte pianistica delicata e soffice che portano il pezzo ad estinguersi in una parte molto soffusa.
De Apokalypse
Una voce femminile da soprano introduce la sesta "De Apokalypse (L'Apocalisse)". I primi attimi di questa autentica perla si contraddistinguono da subito per un ampio senso di evocatività, impresso oltre che dal maestoso preludio del canto "da sirena", anche da un sottofondo maestoso giostrato su un affresco sonoro potente ed immaginifico. Appena alla soglia dei trenta secondi i ritmi prendono una piega differente, quasi inaspettata: dalle architetture possenti iniziali si passa a ricami pregni di una certa vivacità, inaugurati da un rifferama dinamico, reiterato alcune volte, che defluisce in un differente riff ben più duro, metallico (00:50 min) portandoci al cospetto di atmosfere più deraglianti e "potenti". L'assalto chitarristico prende una piega differente quasi al minuto e dieci, ove subentra una zona gestita su note stoppate, di vago sentore post-thrash. Ma questione di pochi secondi, e al minuto e venti si ritorna in seno al rifferama precedente, stavolta accompagnati alla voce di Paolo: limpida ma grintosa, una voce che sarebbe perfetta anche per un più semplice progetto alternative rock/metal e che in questo contesto ben si sposa con l'evocativa irruenza strumentale. Il brano marcia su questi binari sino al minuto e cinquanta, quindi allo stop della voce coincide un ritorno del riff già sentito oltrepassato il trentesimo secondo. Un frangente, un "sipario" che vede anche l'inserimento della voce "filtrata" di Paolo. Quindi, dopo il minuto e dieci il tessuto è screziato da effetti sintetizzati dal sentore avveniristico, che portano il brano a convergere in un frangente non troppo distante dal precedente (si parla della zona occupata successivamente al minuto e venti), solo supportato da un guitar working più aperto e "d'atmosfera". A quasi due minuti e cinquanta un brevissimo stop ci riporta in seno al riffone arrembante e metallico (quello udito dal cinquantesimo secondo), accompagnato ancora dalla voce di Paolo. A quasi tre minuti e venti di nuovo viene ripescato il giro di chitarra già usato oltre il trentesimo secondo. Sprazzi sonori "alieni" e spacey ci portano ad un frangente gestito ancora una volta su un guitar work aperto e abbastanza evocativo, in cui la voce di Paolo si mantiene su toni abbastanza dimessi e direi un pizzico arcigni, prima di rinvigorirsi su toni più alti (01:56 min). A quattro minuti e un quarto trova di nuovo il suo spazio il canto della soprano, inserito in un fondale "pennellato" in maniera avveniristica grazie ad un evocativo, ipnotico gioco di synth e al resto della strumentazione capace di tessere con elegante semplicità un arazzo freddo e magnetico. La visione dell'Iperuranio consolidata nell'acme di un brano che non conosce cedimenti, che non si alimenta di inutili pretensiosità ma sa giocare con maestria con una gamma non eccessiva di elementi, facendo perno su una serie di elementi in continuo smodellamento/rimodellamento. Successivamente ai quattro minuti e quaranta si ritorna in seno a "quel riff" sentito inizialmente oltre il trentesimo secondo. Ecco, da questo, anche da questo possiamo vedere come riff vengano aggiunti, tolti, per poi ripresentarsi inaspettatamente, mentre qui e li si aprono spiragli evocativi capaci di proiettarci in una immaginifica shangri-la mentale. Musica per viaggiare, senza dubbio. A livello testuale il brano ci offre uno spaccato dell'apocalisse in corso (come suggerisce giustamente il titolo) dato che la visione offertaci è quella di un mondo che sta collassando su se stesso, preda ormai del caos e funestato dall'orrore. Un orrore che il protagonista non vorrebbe più vedere, e quindi tenta una fuga lontano, in preda alla disperazione. Viene scaraventato a terra ma non si arrende, si rialza e cerca di portarsi in salvo, mentre intorno tutto crepita dinnanzi alla catastrofe crescente, mentre urla innocenti si librano nell'aria e nuovo sangue viene versato. Il protagonista sa che in realtà non c'è via di scampo, e infatti al termine del brano aggiunge che "L'Apocalisse è vicina, un nuovo mondo ci attende.". Dunque una fuga disperata che comunque è destinata a non portare da nessuna parte, nonostante la lecita volontà del protagonista di vendere a caro prezzo la sua pelle ("Non posso più sopportare certe visioni,/ non posso più sopportarle./ La gente vive nel dolore, priva della voglia di combattere,/ Il tempo ormai è giunto./ Mi hanno preso e scaraventato a terra,/ non posso cedere.../ io voglio elevare il mio spirito,/ posso farcela,/ debbo scappare da questo inferno.").
Dead Brain
Un nugolo di sonorità algide e cibernetiche introducono la seguente "Dead Brain (Cervello Morto)". Si crea un clima spaesante, la sensazione è quella di essere soffocati da una claustrofobica cappa, essere in apnea avvolti da una nebbia fosforescente, congelati in una dimensione distante. Presto subentrano delle vocals terribilmente stranianti. Vocals maschili pregne di lirismo, presto intrecciate a vocals femminili da soprano in un corpus unico pregno di epos, ridondante, magniloquente. Il sottofondo musicale nel mentre acquisisce peso e consistenza, emergendo gradualmente con una certa drammaticità. Una greve bruma sonora destinata, intorno al cinquantesimo secondo, a deflagrare in tutta la sua potenza. Prende spazio un riff quadrato, possente, grandangolare, un circuito sonoro stritolatore reiterato ancora, e ancora. Pachidermico sembra impossessarsi del panorama sonoro occupandolo in maniera assoluta. L'effetto è claustrofobico, le reminiscenze sono una ideale via di mezzo tra il post thrash e il doom/sludge. Il muro sonoro opprimente viene presto coadiuvato dalle vocals di Paolo, in un'alternanza di "modalità espressive": dal tono basso, arcigno, sussurrato, al tono più limpido (ma lontano, effettato, come se la voce provenisse da chissà quale zona remota). Si viene a creare una nenia mantrica, una litania reiterata. Presto la voce, sempre nella sua duplice variazione, passa, in alternanza al tono più limpido ed effettato, ad una modalità più pulita (ma non effettata). A due minuti uno stop delle voci mette in evidenza il tappeto musicale di fondo, sempre su tempi medi e quadrati, molto duro ed estremamente cupo. A due minuti e venti il refrain, accattivante e irrorato di un certo epos nell'accezione più ampia del termine. C'è infatti molto "senso epico" in questo ritornello, pieno di gusto melodico e classe, cantato a pieni polmoni, gestito su toni alti ma non "urlato", accompagnato da un guitar working aperto ed evocativo al massimo. Oltrepassati i due minuti e quaranta si ritorna in seno al rifferama precedente, cupo, ossessivo, accompagnato "in lontananza" da sofferenti gorgheggi "lirici". Conseguentemente ai tre minuti e dieci si ritorna alla "mantrica litania" di cui sopra, intelaiata dalla voce a "doppia modalità espressiva" di Paolo. Il proseguo porta avanti lo schema già rodato in precedenza: dunque alla litania a doppia voce supportata da un sottofondo quadrato e ipnotico si arriva, esattamente un minuto dopo, al refrain, epico e pomposo. A quattro minuti e mezzo, al termine del refrain subentra un frangente quasi totalmente strumentale, lasciando di nuovo spazio al rifferama spigoloso "protagonista del brano". Ho aggiunto il quasi dato che fanno comunque capolino delle vocals che sembrano entrare ed uscire dal magma brumoso dell'architettura sonora. Il pezzo quindi si spegne con uno stupendo inserimento di female vocals (la soprano che già precedentemente ci ha deliziato con la sua stupenda voce) ed alcuni effetti sci-fi. Arrivando al lato testuale del brano notiamo come, ad essere preso di mira, sia un famigerato "cervello morto". Niente di particolarmente fantascientifico se guardiamo questo elemento tra le righe, attraverso una non superficiale e non semplicistica interpretazione: il cervello morto è infatti, o dovrebbe essere, la mente dell'uomo corrotto, circuito dal potere e soggetto alla volontà di infliggere dolore, il cervello dell'uomo portato su cieche e perverse devianze, schiavo possibilmente del sistema e da questo magari manipolato. La rappresentazione di una figura negativa che ne rappresenterebbe molte, le stesse che circondano quotidianamente l'uomo retto, fondamentalmente immune dai dogmi dei sistemi corrotti. Data la natura delle liriche non può che venirci in mente un classico come "Essi Vivono" di John Carpenter ("Tu, che ti arrampichi sulle tenebre.../ cervello morto./ Respiri il male dentro di te.../ cervello morto./ Provi piacere nel causare dolore,/ cervello morto./ Cospirare alle mie spalle è il tuo modo di ingannarmi,/ accecarmi, rendermi schiavo.. ma io non voglio./ Le tue parole non mi circuiscono,/ questa tragedia finirà in un altro modo.). Il finale del brano risulta quantomeno aperto ma ottimista, dato il monito che il protagonista/narratore osa infliggergli al termine ("Un urlo di vendetta ti abbatterà.").
Chosen Path
Un riff marziale, stoppato accompagnato ad algide note di synth ci traghettano nella successiva, bellissima "Chosen Path (Il sentiero prescelto)", se vogliamo uno degli apici espressivi del disco. Un brano capace di fare egregiamente perno sull'alternanza di parti più vellutate ed altre decisamente più dure, correlato di momenti grondanti epos (il refrain) e scortato come al solito dalla voce duttile ed espressiva di Paolo, accompagnata per l'occasione dalle guest vocals di Alberto Franco (per inciso Franco si occupa delle strofe, mentre Paolo dei ritornelli, nello specifico le parti in cui viene scandito "Chosen path till the end/Wonderland of the insanes...") . Dopo un inizio prettamente strumentale, efficace e pieno di carica, al cinquantesimo secondo arriviamo ad una pausa catartica, in cui gli strumenti placano il loro ferale incedere per dare spazio alle vocals: cala un alone di mestizia, il sottofondo sonoro diviene improvvisamente soffuso. La performance vocale si mantiene dimessa, quasi a non voler turbare la sopraggiunta quiete di fondo. A un minuto e venti il refrain, declamato a gran voce, malinconico, potente e come già accennato, non esente da una "venatura epica" (nell'accezione più onnicomprensiva del termine, dato che tale parola è stata ampiamente inflazionata e settorializzata). Al termine del refrain si continua su binari carichi di grinta, accesi, scortati dal riff marziale dell'inizio e da vocals acide, cariche di acredine. Verso i due minuti e trenta si apre una parte più vellutata, soffusa, con un sottofondo musicale evanescente e un supporto vocale venato di una certa tristezza. Un sottofondo ampiamente sintetizzato da quindi il via ad una nuova ripetizione del refrain (03:08 min) che ci porta dunque ad un bellissimo solo guitar (03:40 min) ancora una volta triste e malinconico. A quasi quattro minuti e venti si odono funesti dei rintocchi di campane, che decretano la fine del pezzo e rappresentano il trait-d'union con la successiva successiva title track "Human Awakening". Il testo esprime un senso di desolazione di un uomo (lo stesso, crediamo, di De Apokalypse") che rimembra sul passato del nostro pianeta, dei nostri territori sconvolti da guerra e piaghe, sull'orrore di quello che è stato e che possibilmente ha portato al declino dell'esistenza come noi la conosciamo. L'uomo è intrappolato su un'isola mentre fuori si respira un'aria post-apocalittica. Ma non è solo: si trova con un misterioso interlocutore che fa una breve apparizione, nascosto da fumo ma il cui volto risalta subito all'attenzione del protagonista. Il secondo personaggio rimane brevemente a guardare il protagonista, per poi, nel finale, andar via e lasciare il protagonista immerso nei suoi abissi mentali, a rimuginare sulla catastrofe che tutto ha spazzato via, sugli orrori visti e sul suo senso di scoramento. ("Frammenti di follia sparsi tutti intorno,/ guardo indietro.. si alza il sipario,/ e comprendo il senso dell'esistenza./ Il sentiero prescelto, fino alla fine,/ il paese delle meraviglie di tutti i folli,/ senza speranza sono bloccato su quest'isola,/ naufrago ma folle dentro [...] Non posso credere che sia proprio tu,/ vedo la tua faccia immersa nel fumo./ Annaspo, respiro,/ finché questi ricordi vivono in me, danzandomi attorno come fantasmi./ ...immediatamente te ne vai.").
Human Awakening
La nona traccia, come riportato in precedenza risulta essere l'ottima title track "Human Awakening (Il risveglio dell'umanità)", possibilmente l'apice del disco in questione. Un suono destinato a ripetersi più e più volte, lentamente risucchiato da una spirale sonora a metà strada tra certe soluzioni dei Tangerine Dream e l'intreccio sintetizzato di "On The Run" (pezzo dei Pink Floyd incluso nel capolavoro "Dark Side Of The Moon"). Verso il quarantesimo secondo lo scenario si tinge di toni apocalittici, alimentato da sonorità possenti e in odore di giudizio finale. L'armageddon sembra essere alle porte, e ci sembra di poter intravedere gli angeli, armati di trombe a decretare la fine del tutto. Il rifferama si fa serrato, arrembante sino a trovare, in prossimità del minuto e quaranta, maggiori spiragli di luce: i toni incalzanti sembrano smorzarsi a favore di soluzioni più evocative. Un guitar work dal forte potere psicotropo, magniloquente quanto triste si ripete più volte sino a confluire per gradi in una struttura liquida e inumana. A questo punto si inserisce il vocalist, con voce dimessa, accompagnato da una struttura di fondo basilare e funzionale, pregna di una certa malinconia di fondo. Un vigoroso giro di chitarra oltre i tre minuti e quaranta funge da spartiacque per introdurre la successiva parte più dinamica ed aggressiva, nella quale anche la voce di Luciano sembra caricarsi di dosi aggiunte di vigore. Il brano prosegue sino alla fine in una strutturazione/destrutturazione sonora capace di rendere tali trame cangianti e del tutto esenti dalla trappola mortale della noia. Facile considerare questo brano conclusivo come l'apoteosi espressiva del disco in questione. A livello lirico ci troviamo di fronte ad una visione in chiave estremamente positivistica del futuro dell'umanità. Siamo attualmente persi nell'oscurità dell'ignoranza, ma facendo appello alla nostra forza interiore e alla voglia di cambiare le cose, il futuro potrà essere radioso per tutti noi. Sarà una battaglia durissima, ma l'odio morirà e verrà ridotto, da possente Maestro della razza umana, ad un qualcosa di strisciante e privo di poteri. Il futuro è nostro, abbiamo le chiavi per poterlo rendere migliore ("Nessuno può vivere se nessuno è capace di sognare./ Trasformiamo in passato umano questo sentiero di polvere!/ Aspettiamo il Sole del Domani, io vedrò brillare il Paradiso!/ Credo in una vita priva di tristezza, io vedrò brillare il Paradiso!/ Ma il tempo scivola sempre più veloce, e mi sento tradito, perché respiro sempre la stessa aria, tutti i giorni./ Dentro questa oscurità, scorre la vita, persa quanto non lo è mai stata. Tanti rimpianti nella mia mente,/ forse tutto questo è fuori dal mio controllo./ Il risveglio dell'umanità riflette la Luce eterna...").
Collapsing Universe
Si conclude in bellezza - ma veramente in bellezza! - con la (quasi) strumentale "Collapsing Universe (L'universo collassa)". Pezzo molto affascinante, capace di fare presa immediatamente, si fregia di una struttura estremamente evocativa, supportata dalla voce della soprano (dei vocalizzi: ecco perchè "quasi strumentale") che fa capolino in varie parti della trama regalandoci ben più di un brivido. Il brano in se risulta capace di trasportarci lontano, molto lontano con la mente, fuori dal nostro concetto di spazio e immensamente dentro la nostra coscienza. Un brano dal potere psicotropo, capace di regalarci un autentico viaggio pure nella sua non gargantuesca durata (ci aggiriamo intorno ai quattro minuti e quaranta). Un inizio trasognato in cui a troneggiare è il synth vede presto l'inserimento delle female vocals. A un minuto e venti circa fa il suo ingresso la chitarra elettrica, che screzia il tessuto sonoro con poche, semplici frustate: note aperte decisamente adeguate al contesto (non avrei visto nient'altro in questo frangente, fidatevi!). Dal canto suo il synth sa regalarci ugualmente tante emozioni, intrecciato alla chitarra con il suo serpeggiare sci-fi di note. La chitarra e il synth si ergono così a protagoniste, sposandosi in un caldo abbraccio, danzando in un colorato flusso sonoro che ci traghetta in "altri piani dell'esistenza". A meno di due minuti e venti riappaiono le female vocals, perfettamente piazzate, incredibili in questo contesto avveniristico ed emozionale. Oltre i due minuti e quaranta un bellissimo assolo di chitarra, che - inutile a ripetersi - si colloca perfettamente nell'affresco facendoci venire letteralmente la pelle d'oca. Tutto sembra perfetto, in questo contesto. Un brillante gioiello capace di contendersi con il precedente brano (la title track) il podio del pezzo più bello del disco. Un disco che comunque non conosce cedimenti, in cui tutti i brani sono collegati tra loro da un sottile fil-rouge e che vanno considerati sempre entro questo preciso contesto, prima ancora che visti come singoli brani in se. Tutti frammenti dunque di un'OPERA che va apprezzata nella sua totalità, i cui brani sono solo sfaccettature di un diamante lucente come pochi.
Conclusioni
Arriviamo così al termine di questo disco, che senza troppi preamboli può tranquillamente fregiarsi della nomea di "viaggio". Un viaggio recondito verso piani ignoti, un viaggio nella nostra coscienza. Non è un semplice disco, questo, ne un disco semplice. Mentre in molti parti discografici il concetto di trasfigurazione mentale di piani esistenziali è semplicemente suggerito, qui in qualche modo si entra in uno spazio adiacente al concetto di "altrove", ove questo termine coincide con l'ipotesi filosofica di altri spaccati del nostro io, gemellati alla proiezione di un tutt'uno con lo spazio esterno. Io e spazio esterno. Gli abissi mentali e gli abissi reconditi dell'"essenza" esteriore al nostro io. Essere (Dasein) ed Esistere alla maniera di Heidegger. In un tutt'uno ("L'essenza [essentia] di questo ente, per quanto in generale si può parlare di essa, dev'essere intesa a partire dal suo essere [existentia]." Martin Heidegger). Per farla breve - e non troppo intrecciata - qui ragazzi miei si viaggia, si va lontano con la mente. In più, se ci mettiamo una nutrita dose di preparazione tecnica dei membri dell'ensemble, ci rendiamo dunque conto che il piatto servito è perfetto. Un metal "all'avanguardia" senza essere avantgarde, un metal capace di mischiare progressive, industrial ed influenze esterne al settore metallico in maniera perfetta ed abile, capace di spingere il nostro genere preferito verso ambiti ancora da esplorare. Sono tanti i maestri contemporanei che hanno seminato germi di genio e follia, e sono in attesa che il loro prodotto dia pienamente i suoi frutti nel metal a venire, che quanto preconizzato, profetizzato, intuito sia raccolto dai futuri testimoni del genere pesante. Alcuni hanno già iniziato a fare ampiamente scuola: mi vengono in mente gli Strapping Young Lad - e tutti i vari progetti di Devin Townsend - i Meshuggah, i Dillinger Escape Plan. Forse anche Senmuth, genio ai più ignoto. Altri aspettano che quanto seminato possa attecchire nel "metal che verrà". Un esempio è proprio rappresentato dai nostri conterranei Kernel Generation. Che in soltano un ep e un full length hanno dimostrato di avere le idee non chiare, ma CHIARISSIME su quel che per loro può essere lo sviluppo del genere metallico nel futuro prossimo venturo. Perchè, parliamoci chiaro, dapprima con Human Awakening, e poi con questo Forward The Future, hanno capito come codificare tutta una serie di influenze in un linguaggio nuovo, al passo con i tempi, che non mancherà di affascinare chi del metal ama la componente più sperimentale - io ad esempio - ed avanguardistica. Il disco in questione mostra poi che le varie influenze ispiratrici sono state convogliate in una maniera saggia ed esperta oltre che ispiratissima, senza creare polpettoni estremamente eterodossi in cui le influenze divengono indigeribili grumi a discapito della fruibilità finale. Tante parole spese per ribadire e sottolineare che ci troviamo di fronte ad un disco ottimo, che ancora una volta - come è capitato per il precedente Ep - ci fa ben sperare per il futuro. La strada è stata tracciata, il sentiero è ormai chiaro. Ora ci aspettiamo che i Kernel percorrano questi binari con sapienza, la stessa sapienza messa in campo per delimitarli, sicuri che il futuro non potrà che riservarci piacevoli sorprese. Lunga vita ai Kernel e al metal che verrà.
2) Age Of Aquarius
3) Welcome To Decadence
4) Harbingers Of Doom
5) Xibalba Be
6) De Apokalypse
7) Dead Brain
8) Chosen Path
9) Human Awakening
10) Collapsing Universe