KAYLETH

Space Muffin

2015 - Argonauta Records

A CURA DI
LORENZO MORTAI
15/04/2015
TEMPO DI LETTURA:
8

Recensione

Verso l’inizio degli anni ’90, è avvenuto un passaggio assai importante (e per alcuni disastroso) per la musica alternativa; si è cominciato piano piano a dimenticare quella pomposità e quella deflagrazione sonora che era tipica degli anni ’80, con tutti i suoi crismi, effetti e sound potenti, a favore di qualcosa che veniva più dalle budella che dal cervello (fatta eccezione per generi leggermente più estremi come il Thrash o il Death, che in questa decade hanno comunque trovato pane per i loro denti). Un sound decisamente più oscuro, frutto di quella delusione di fondo data dalla fine dei “magici” (polvere sotto il tappeto) anni ’80, in cui, malgrado la scarsa qualità del ragionamento e anche del modo di vivere, si cercava sempre di andare avanti al massimo, tutto era bello, tutto era lucente, ma come succede sempre, la magia finisce. E’ così che sono venuti fuori generi come il Grunge nella fredda e ventosa Seattle, portata avanti da individui stanchi, stanchi di tutto ciò che avevano intorno, quella delusione che raccontavamo poco fa li prendeva direttamente allo stomaco come un pugno ben assestato, e loro non potevano far altro che perire sotto i suoi colpi e trasporre quel dolore viscerale in musica. Il Grunge si sa, affonda le sue radici tanto nel Punk anni ’70, quanto nel Rock e nel Metal, con tante sfumature che si uniscono fra loro. Oggi però non siamo qui per parlare di Seattle, ma per spostarci nella assolata e calda California, in cui, come succede spesso in questi casi, ci fu una risposta pronta al meccanismo dei Nirvana, anche se celato sotto un altro nome. Quando i Kyuss misero piede per la prima volta su un palco, il pubblico fu quasi stupito e al tempo stesso stranito nel vedere questi ragazzi suonare una musica che affondava le proprie mani tanto nel Metal classico, con svariate partiture aggressive, quanto in generi decisamente di impronta Sabbathiana come il Doom o il Rock Psichedelico, dando a tutto un’impronta oscura, assai oscura. Fu li, quando John Garcia e Josh Homme pubblicarono, nel 1990, Sons of Kyuss, che diedero vita al secondo (ma non per importanza) movimento degli anni ’90, definito semplicemente come Stoner. Nel corso degli anni si è cercato più volte di dare una definizione di Stoner, ed è un compito che non auguro a nessuno, neanche al mio peggior nemico; come accade per il Grunge infatti, lo Stoner è un calderone che sobbolle sempre sul fuoco, formato però da così tanti ingredienti, che è difficile indovinarli tutti. Si tende infatti spesso, come per Seattle, a non chiudere lo Stoner nei canoni prettamente musicali, ma piuttosto a vederlo come una specie di movimento culturale, formato da svariati artisti ognuno con le sue caratteristiche principi. Questa, per esempio, è la definizione di Stoner che dà AllMusic: “Le band Stoner metal aggiornarono il sound lungo e ipnotizzante e i riff ultra-pesanti di band come Black Sabbath, Blue Cheer, Blue Öyster Cult, e Hawkwind filtrando il loro sound di metal tinto di psichedelia e di acid rock, a un sound ronzante della prima ondata di grunge della Sub Pop”. Direi che, al di là delle possibili interpretazioni personali, l’analisi è più che corretta, le formazioni presero quella acidità tipica degli anni ‘60/’70, la macchiarono con sonorità decisamente più cupe, e la fecero diventare rabbiosa con una sana spolverata di Metal duro e adamantino . Al di là dei Kyuss infatti, molti gruppi negli anni seguenti hanno issato la bandiera dello Stoner, e la hanno portata avanti con fermezza e sagacia, senza mai perdere la lucidità (anche se il termine stesso Stoner preclude la mancanza di essa, derivando dal termine Stoned, che significa essere fatto o allucinato); si passa dunque dall’aggressività spaziale degli Orange Goblin (una delle formazioni con più influenze Metal nella scena Stoner), allo psichedelico dei Monster Magnet, fino ad arrivare alle pesanti influenze prettamente Doom degli Sleep. Dunque, un genere che cerca di accontentare tutti? Forse, sicuramente la sua aggressività di fondo, i suoi ritmi da attorcigliamento di budella, le sue voci solitamente graffiate ed incisive, ne fanno uno dei generi più interessanti e prolifici degli anni ’90, soprattutto qualcosa alla cui base vi è sempre la solita parola, sperimentazione. Sono ormai passati più di 20 anni dalla nascita di questo genere, molta acqua sotto i ponti, quasi una alluvione, eppure c’è chi ancora oggi intende riportare in auge questo genere (che in realtà non è mai morto del tutto); in America abbiamo diverse formazioni che continuano imperterrite ad iniettarcelo nelle vene, si va dagli americani Queens Of the Stone Age, agli Spiritual Beggars, fino agli Australiani Wolfmother, fra i pochi ad aver raggiunto un successo anche nel mainstream. In Italia la scena non è mai stata molto prolifica, vuoi per mancanza di assonanze con gli Stati Uniti, o vuoi semplicemente perché nel nostro paese i generi che vanno sono altri; se si scava un po’ a fondo però, troviamo anche qui i nostri mastini da battaglia, ed è il caso della spaziale band che andiamo a recensire oggi, il cui monicker è già tutto un programma. I Kayleth provengono dalla Shakesperiana provincia di Verona, e sono attivi sulle scene ormai da 10 anni, con diverse collaborazioni, concerti e ben tre demo ed un EP sullo scaffale, collezionati in anni di fatica e sudore. Le loro reminiscenze sono primordiali e virulente, dagli Orange Goblin ai Kyuss stessi, una formazione che certamente si propone di riportare sul palco le basi di questa corrente musicale. Dopo anni di demo e concerti però, ai Kayleth era (come è normale che sia) venuta voglia di produrre qualcosa che fosse completo e veramente loro; dopo lunghe sessioni in sala prove, altro sudore versato, progetti che svolazzavano come impazziti, ecco che nel 2015 la mistica creatura ha preso vita, grazie ad Argonauta Record. Space Muffin è un disco che si promette (e ci promette) di mischiare fra loro lo Stoner ovviamente, con reminiscenze che vanno dal Rock classico, fino allo Space più lontano nella galassia, sparandoci in giro per lo spazio come il cosmonauta di turno. Già l’emblematica copertina ci fa ben sperare (ricorda assai i lavori che il buon Roger Dean ha realizzato per svariate formazioni, dal progressivo degli Yes e degli Asia, fino all’Hard Rock acido e possente dei Budgie); una aliena mistica e aggraziata si trova sul primo piano, su quella che parrebbe essere una spiaggia lontana da noi, tre piramidi egizie sullo sfondo, una luna enorme, anzi due, il tutto inserito in una palette cromatica che si esaurisce nei toni del verde e del grigio. Bando agli indugi però, abbiamo parlato anche troppo, gli otto slot di questo Muffin siderale ci aspettano, per cui inseriamo il cd nel lettore, e prepariamoci a questo viaggio cosmico assieme ai Kayleth.



Una chitarra claustrofobica e che ci fa sentire impotenti apre il primo brano, Mountains (Montagne); il sound è quello tipico del genere fin dai primi accordi, Tony Iommi sarebbe fiero di loro, considerando che le possenti plettrate di Massimo Dalla Valle ricordano assai quelle dei Black Sabbath, pur condendole con una sana vena di modernità. Il brano cambia in continuo, è costantemente in divenire, un unico tema di fondo, su cui Massimo e soci ricamano come impazziti, il tutto supportato dalla cadenzata voce di Enrico Gastaldo, che col suo piglio viscerale ci entra direttamente nello stomaco ed inizia a staccarne piccoli pezzi, facendoci contorcere fra dolore ed estasi. Sono presenti all’interno anche sacre partiture Space, come accennavano prima, ed ecco che, dopo la seconda metà del pezzo, anche gli effetti sintetizzati fanno capolino dentro le nostre orecchie, ci barcameniamo fra l’aggressività della chitarra e della batteria, e il dolce e cosmico suono del synth, suonato da Michele, provetto Gagarin della formazione veronese, il quale riesce, pur venendo spesso surclassato dagli altri strumenti, a dire la sua, ponendosi sempre sotto la luce dei riflettori. Il brano continua così, con un breve intermezzo rallentato, prima dell’ultima esplosione finale, esplosione che però ha sempre quel tiro come di “chiuso”, pare d’essere in una stanza buia e senza finestre, con questo sound così celebrale nelle orecchie, il sangue comincia a scorrere da ogni nostro orifizio, ma loro non smettono di suonare, vogliono penetrare direttamente nella nostra calotta cranica, ed insinuarsi come fameliche tenie fra le pieghe della nostra mente. Il testo della canzone non è né lungo, ne  tantomeno pregno di parole auliche o ricercate, ma il suo significato è assai profondo. Ispirandosi probabilmente ad una parte dell’artwork, quella della montagna, i Kayleth ci invitano alla ricerca, spasmodica e costante, ma di cosa? Beh, della musica; secondo il loro (ma anche nostro) modo di vedere, le note sono taumaturgiche, la musica può guarire ogni male, ogniqualvolta ne facciamo richiesta, ogni momento in cui ci sembra di non arrivare  alla fine, lei è li, pronta a tenderci la mano e salvarci anche da noi stessi se è necessario. Perché la vita è una montagna da scalare, e noi dobbiamo, man mano che procediamo nel corso del nostro divenire, trasformarci in provetti alpinisti, pronti a cercare gli appigli giusti, sempre sul pezzo con la parete che stiamo affrontando, perché basta un passo falso, un piede messo nella posizione sbagliata, per cadere nell’abisso che ci siamo lasciati alle spalle. I veronesi ci aiutano dicendoci che noi siamo fatti di suono, così come tutto il mondo, ogni cosa che i nostri occhi vedono produce un suono, dalle micro frequenze udibili soltanto da orecchi particolari, fino a quei rumori che possono farci star male, che ci entrano dentro come la picca di un legionario agguerrito, e ci squarciano il ventre come se fossimo maiali da cucinare. L’aiuto attraverso il quale capiamo tutto questo è la musica, essa, come abbiamo già detto, è onnipresente sulla terra, basta saper ascoltare, basta tendere l’orecchio nella direzione giusta, e le nostre ferite potranno guarire quasi con fare magico, le ossa rimarginarsi come in un ipotetico Swamp Thing Mooriano (fumetto che racconta la storia di un fantomatico uomo/palude vivente, in perfetta sincronia con la natura), il dolore cessare di esistere, basta infilarsi le cuffie. Testo dunque semplice, ma efficace, messaggio bellissimo e profondo, il tutto supportato da una musica lenta e costante, graffiante, ma mai troppo, perentoria, ma mai banale, insomma, è Stoner, ed in quanto tale votato alla sperimentazione costante. Di inizio e ritmo decisamente più spigliato e la nicchia seguente, occupata da Secret Place (Posto Segreto); l’incipit di questo brano ci rimanda decisamente alle sonorità di inizio anni ’70, riff veloci e non troppo elaborati, ma pur sempre assai efficaci, ci ritmano la testa fin dai primi accordi, ricami gloriosi di corde di chitarra e batteria, che insieme esplodono in ogni momento possibile, mentre il basso se ne sta lì, pronto a scaturire tutta la sua potenza ove sia necessario, dando anche energia alla voce, che come al solito ci fa volare la mente a toni già sentiti (il suo stile di canto certo non è personalissimo, ma per il genere che suonano questi pazzi veronesi, è perfetto); sul finale la chitarra si concede un sacro momento per intricare un ultimo assolo, che però viene subissato di rozzezza grazie agli effetti graffiati che vengono dati, quindi il tutto si trasforma, man mano che ci avviamo verso la fine, in un enorme pozza di suoni alle volte indistinguibili, ma sempre nel segno del Rock e della musica alternativa. L’intera struttura del brano infatti, verso la fine, diventa così cacofonica da risultare quasi fastidiosa (anche se in senso positivo) per noi malcapitati ascoltatori che stiamo lì a prenderci gli schiaffi dai Kayleth, schiaffi che però hanno il gusto e la prestanza di un vero artista. All’interno delle liriche stavolta, dopo esserci bagnati nel potere curativo della musica, parliamo di posti, posti che sono solo nostri, e che ci servono quando vogliamo isolarci dal mondo. Esiste infatti, per ogni essere umano vivente, quel luogo sulla terra in cui ritirarsi in pace da sé stesso e da tutti coloro che lo circondano, un luogo che può essere fisico, come una stanza, una sala prove o quant’altro vi venga in mente, ma che può anche essere immaginario, e prendere semplicemente la forma della nostra mente. Il protagonista di Secret Place è stanco, stanco di correre per il mondo come un animale impazzito, stanco di coloro che gli corrono dietro come se fosse il Messia del niente, e quindi decide di fermarsi ed entrare nell’unico luogo in cui sa che nessuno verrà a cercarlo, il suo tanto amato posto segreto. All’interno di questo cantuccio formato dal suo sentimento positivo, il nostro uomo si cura e si rimette in piedi, pronto ad affrontare di nuovo il mondo con rinnovato vigore, ma soprattutto con la nuova voglia di combattere, voglia che, nei mesi e negli anni precedenti, aveva gradualmente perso; nulla ormai può impedirgli di correre di nuovo, quelle laceranti ferite operate da coloro che gli hanno voluto male, sono ormai un lontano ricordo, rimarginate del tutto dalla sua volontà, ma anche dal potere del posto segreto, un pertugio in cui gettare dolore e disperazione, ricevendo in cambio amore e serenità. E’ un concetto questo che, come il brano precedente, pecca forse di costruzione troppo semplicistica (in fondo la lirica è soltanto un ripetersi delle stesse frasi), ma la genialità dei Kayleth risiede proprio in questo, nel dare prima di ogni cosa tanto spazio alla musica, far si che essa riesca a trasporre il sentimento sviluppato dal tema del pezzo stesso (ed infatti qui vediamo una accelerazione dei toni, proprio come la corsa che sta affrontando il protagonista), mentre il testo viene quasi relegato a seconda posizione, ma non per mancata importanza, piuttosto per lasciare che quelle parole così poco austere e grandi, facciano da apripista per la libera interpretazione dell’ascoltatore, che si sente davvero libero di viaggiare nella galassia di questi veronesi, interpretando il brano come più vuole, e perché no, inserendoci anche qualcosa di suo. Una voce orientale ci fa quasi sobbalzare, facendoci pensare che siamo forse in un altro album, ma poi ci rendiamo conto che siamo all’interno di una creatura che è in costante divenire, ed è allora che ci rilassiamo, e iniziamo a goderci Spacewalk (Camminata Spaziale); per un attimo i Kayleth abbandonano le sonorità Stoner, per concentrarsi principalmente sulla parte Space della loro musica, introdotta dal synth che ci fa sentire a bordo di una navicella spaziale diretta verso lidi sconosciuti, viaggi nel cosmo che non finiscono mai, e noi, come provetti astronauti, vediamo la terra e il mondo farsi sempre più piccole man mano che ci allontaniamo dalla sua azzurra ed immutata superficie, nel frattempo una voce elettronica ci comunica i dati telemetrici, ossigeno, temperatura, distanza massima. E’ una quiete però, quella dell’elettronica, che dura poco, il tempo di un respiro (dato che parliamo di ossigeno) e subito le plettrate tornano spontanee ad uscire dalla sei corde, il ritmo si fa pressante, impettito e duro, mentre la voce, dal pulito della tecnologia d’esordio del brano, passa al solito tono graffiato e sintetico, una voce che proviene dal nulla, una voce che proviene dal deserto quasi (non dimentichiamoci infatti che lo Stoner ha avuto la sua scena principe in California, come già, detto, ma particolarmente nella zona di Palm Desert, dove, forse grazie al paesaggio così desolato e immutabile, chissà, ha preso vita questo sound a metà fra inferno e paradiso), una voce che vuole scannarci come un cane rabbioso, ma noi siamo li, pronti a farci sbranare. Spacewalk è forse uno dei pezzi più interattivi e sperimentali dell’intera opera di Space Muffin, una lunga suite di alternanze e di suoni apparentemente discordanti fra loro, ma che in realtà si danno man forte ed energia l’un l’altro (il main theme poi, ricorda molto alcuni pezzi proprio degli Orange Goblin, a cui i Kayleth peraltro si ispirano), una alimentazione costante dei due poli, negativo e positivo, che però rispetto alla natura corrente del mondo, si attraggono creando un vortice di tensione e pathos davvero interessante. Oltre che di passeggiate spaziali, nel brano si parla anche di morte, data dal progressivo esaurirsi dell’ossigeno, il nostro astronauta, nel suo scrutare il mondo dall’alto, si accorge a poco a poco che l’aria sta finendo, la diminuzione progressiva della fonte di vita lo porta a fare una enorme digressione sulla propria vita, ponendosi interrogativi e domande a cui forse non riuscirà a dare mai una risposta. Sono argomenti che compenetrano nell’essere umano, fonte di ispirazione e spada di Damocle allo stesso tempo, l’uomo dello spazio sta assaporando a pieno la vita ed il presagio di morte, in un equilibrio a metà fra raziocinio e follia pura, una diatriba eterna dei due piani dell’universo. Un altro tema spaziale ed elettronico ci apre la traccia successiva, Bare Knuckle (Mani Nude); il tema però stavolta dura ancor meno che nella traccia precedente, e veniamo subito presi in ostaggio dalla solita chitarra che ci vomita addosso ritmi ossessivo compulsivi come se fossimo di fronte al delirio di un pazzo, la batteria si crogiola nel suo essere metronomo, ogni tanto spiazzandoci con qualche volo pindarico sui piatti, il basso viene innalzato ulteriormente, e le sue corde spesse si fanno ben sentire durante tutti e sei i minuti del brano; in tutto questo ci siamo scordati del synth, che abbiamo perso qualche secondo dopo l’inizio del brano, semplicemente viene coperto dagli altri strumenti, ma se si drizzano bene le orecchie, lo potremmo sentire imperversare costantemente durante il brano, dando delle scosse terapeutiche alla musica, e rendendo l’intero brano ancor più cosmico. Nella seconda parte la chitarra, al solito, si ritaglia il proprio spazio personale, un lungo ed elaborato solo condito da effetti la fa da padrone per qualche tempo, togliendoci il fiato e facendoci tornare con la mente ai gloriosi anni della chitarra elettrica. Sul finale del brano ogni strumento, voce compresa (che qui abbassa leggermente i toni per permettere l’innalzamento degli strumenti di contorno) esplodono in un turbine di suono, una vera stanza chiusa in cui serrare per sempre ogni nostra emozione, un tetraedro di colpi, plettri, corde, ugole e tasti che non finiscono mai, nella più mera e sacra tradizione Stoner. Qui si parla di partenze e viaggi, che peraltro sono un po’ il filo conduttore di tutta l’opera firmata Kayleth: un uomo ha pagato tutti i suoi debiti, ogni persona che gli aveva fatto minacce o gli era venuta a brutto muso davanti, adesso non c’è più, sono spariti ed eclissati come polvere nelle sue mani. E’ tempo di partire per il nostro protagonista, partire per destinazione sconosciuta, esplorare quel mondo che fino ad ora, per vicissitudini e problemi, non ha mai potuto conoscere, e quindi via, zaino in spalla, suole e tacchi, il mondo è lì davanti, basta afferrarlo. Però, dubbi, ansie, errori da poter ricommettere, gli fanno mettere in discussione qualsiasi cosa, fino quasi a portarlo a non voler più partire, ma rimanere lì, piantato come un chiodo nella sua mediocrità, nell’autocommiserazione degli sbagli commessi. Arriva però in soccorso l’amico, colui che sempre ti tende la sua calda mano quando hai bisogno, e cerca di fargli capire che se il nostro uomo non parte ora, non potrà mai più farlo, finchè è giovane e le speranze sono ancora fervide in lui, è quello il momento di andarsene, non aspettare di essere un vecchio pieno di rimpianti, perché i dubbi che ora sembrano soltanto finissimi spilli, col tempo possono diventare veri e propri chiodi da fabbro piantati nella testa e nella pelle, senza farti andare via. Una canzone dunque che, rapportata ad uno stile musicale così feroce, ma al tempo stesso malinconico, ci fa capire che l’equilibrio della nostra vita è sempre appeso alle nostre scelte, solo noi siamo in grado, magari anche con qualche consiglio da chi ne sa di più o semplicemente da chi ha già operato alcune scelte, di andare avanti nell’esistenza, di prenderla la vita per le corna e scuoterla dal suo torpore, iniziando finalmente a godere di ogni singolo attimo che ci viene messo davanti. Decisamente dal tono ancor più ritmato e triste è lo slot successivo, occupato da un titolo che è destinato a rimanere per sempre nelle nostre menti, Born to Suffer (Nato per Soffrire): inizia, come i due brani precedenti, con uno spaziale tema di sintetizzatore, che ci fa ormai quasi da HAL 9000 in questo ascolto targato Kayleth, da il tempo e ci ricorda sempre che è lì a fissarci, dandoci consigli su come proseguire il viaggio negli abissi spaziali. Stavolta dicevamo, il tema è decisamente più sofferente (nome omen, direbbe qualcuno), i toni si abbassano, l’aggressività di fondo lascia spazio ad un dolore intenso e costante per tutti i minuti che si susseguono, anche se quell’acredine su cui i veronesi poggiano saldamente i piedi, non viene certo dimenticata, specialmente nel secondo intermezzo del brano. Sul finale poi, veramente da antologia, si intrecciano fra loro ritmi ipnotici e veloci, prima di arrivare in fondo, stremati e senza energie quasi per tutto lo sforzo impiegato nel seguire ogni movimento dato dal gruppo; è un brano con una struttura leggermente più complessa degli altri, parte piano e lemme, quasi come se dovesse rimanere così per sempre, ma poi la stanchezza di suonare lo stesso ritmo ha la meglio, ed ecco che una granata ci viene lanciata negli orecchi direttamente, esplosione di suoni, e poi si ritorna al lento dell’inizio, chiusura del cerchio e fine, come se nulla fosse. Il tizio che ci si presenta davanti è un uomo distrutto, la sua vita ormai non ha alcun significato, va avanti per inerzia, e probabilmente con lo stesso moto perpetuo andrà a morire come i leoni, solo e senza amici; egli è nato per soffrire, soffrire di dolori che gli uomini normali non sopporterebbero neanche per qualche secondo, sono i dolori della mente, quelle sofferenze che invece di lasciare cicatrici visibili e che si possono al massimo risolvere con qualche punto, recano dei danni molto più profondi e insiti dentro l’anima, tagli e tumefazioni che non si possono aggiustare, il nostro orologio interno è destinato a rompersi prima o poi. Tuttavia, come sentiamo dalle sue parole, il provare dolore ha portato il nostro uomo a scavare sempre più a fondo nei meccanismi che regolano l’animo umano, sempre in cerca di qualcosa che sia “al di sotto” della linea di orizzonte, costantemente ad osservare e catalogare i reperti della propria e dell’altrui vita, in un continuo peregrinare nel mondo, senza mai fermarsi. Egli paragona il sapere la verità sul mondo al topic di fissare la luce del sole per molto tempo, ci si può fare male, ma è un male a cui, in un modo o nell’altro dobbiamo abituarci, e così dobbiamo fare anche per la verità, essa è devastante spesso e volentieri, sono cazzotti che ci vengono tirati direttamente nei ventricoli del cuore, ma sopportiamo ed andiamo avanti, del resto, siamo tutti, per qualcosa o qualcuno, nati per soffrire. Un rumore quasi da stazione affollata, voci che imperversano a destra e a manca, ci fanno quasi pensare di essere là in mezzo, ma poi, una batteria distopica e pressante ci aliena la mente, ed è così che entriamo dentro Lies Of Mind (Bugie della Mente); quattro minuti di follia musicale completamente targati Kayleth, che qui si spostano verso sonorità decisamente più Doom/Sludge, grazie soprattutto alla batteria e alla chitarra, che pur mantenendo le strutture assai simili ai brani precedenti, abbassano i toni rendendo tutto tinto dei colori notturni. La voce qui si spinge forse un po’ verso i lidi di Osbourne (una peculiarità che, nel disco, abbiamo sentito svariate volte, non stupisce certamente per poliedricità, ma c’è anche da ammettere che ci sta maledettamente bene), col suo piglio infernale, ma come sempre, nella musica dei Kayleth ciò che domina veramente è la musica, ed è lei infatti a cui viene lasciato il sanguinario trono su cui sedersi. Assistiamo a lenti, ma bellissimi cambi di ritmo e tempo, si passa dal soffocamento del Doom e del Proto Doom, a suoni più psichedelici/Space dati dal sintetizzatore e anche dalla voce, che ogni tanto pare uscire dall’oblò di uno Space Shuttle, nonostante la sua linearità di cui abbiamo già parlato. E’ un pezzo assai interessante questo, una ulteriore prova di quello che questi folli e completamente anticonformisti veronesi riescono a fare, se fino ad ora infatti ci avevano allietato con reminiscenze anni ’70, adesso è il momento di spengere la luce, mettere i bambini a letto, e far uscire i demoni dalle tombe; è il momento del male, che da questo brano viene fuori con tutta la sua carica di dolore e tortura, ma noi siamo ascoltatori forti e continuiamo fino alla fine, anche se ci arriviamo con qualche brandello di carne in meno. La Mente, un corpo etereo e meraviglioso che, nonostante le migliaia di anni che l’uomo ha sulle spalle dalla venuta sulla terra, ancora continua ad essere studiato, si dice che usiamo soltanto una piccolissima porzione del nostro cervello, e che alcuni ingranaggi che muovono la mente di un uomo, ancora ai più siano sconosciuti, persino a chi la materia grigia la studia. Esistono però leggi che muovono la nostra natura di esseri senzienti, regole che non sono scritte in nessun libro, ma che ci consentono di andare avanti a vivere come tutti gli altri, sono precetti a cui è impossibile non far fronte; i Kayleth ci invitano a non perderci troppo negli sconfinati spazi che albergano nella nostra testa, sarebbe troppo per qualsiasi individuo, piuttosto ci chiedono e ci dicono che loro agiscono d’istinto, danno retta allo stomaco o al cuore piuttosto che alla testa, organi che decisamente sono più semplici, essendo formati da sentimento e pura volontà di azione; in più, parafrasando il titolo, la mente alle volte “ci mente”, fa strani scherzi, ci mette filtri di fronte agli occhi per nasconderci la verità, essendo raziocinio puro, è il suo naturale modo di agire. Non per questo ovviamente la mente va lasciata completamente sola con sé stessa, ma piuttosto si deve cercare di non pensare troppo a quelli che sono i movimenti della natura, alcune cose succedono perché devono succede, altre succedono perché noi stessi le facciamo accadere, ma in linea di massima ogni maledetta cosa che popola il globo ha un suo motivo di esistere, e noi non possiamo, in tanti casi, farci assolutamente niente. Di avviso e di piglio decisamente più Metal oriented invece è la penultima traccia, forse l’ultimo pianeta che visitiamo prima di riportare la navicella a casa, lo facciamo grazie a Try to Save the Appereances (Cercare di Salvare le Apparenze); una nenia disperata e tenebrosa ci inietta subito una dose di rocciosità, prima che gloriose partiture di chitarra, unite alla solita batteria cadenzata e stavolta anche all’elemento sintetizzato, ci portino sul penultimo satellite del nostro viaggio, atterriamo, e ci troviamo nel bel mezzo di una guerra. Il pezzo procede lineare e costante, continua quel classico ritmo senza pareti e finestre a cui i Kayleth ci hanno ormai abituato fin dall’inizio del disco, la voce di Enrico continua a essere qualcosa di forse già sentito, ma che si inserisce perfettamente nelle partiture suonate dagli altri membri, e questo non ci fa storcere il naso, anzi, ci fa chiedere un’altra dose. Dopo gli intermezzi prettamente Space dei brani precedenti, i veronesi decidono di nuovo la virata verso gli anni ’70, tornano gli assolo di chitarra elaborati, pur nella loro semplicità, con quel piglio famelico di suono e di energia, la nostra, che noi concediamo senza troppi problemi; procediamo così fino alla fine, alternando momenti di pura spazialità elettronica, ad altri in cui pare d’essere di fronte a quell’Hard Rock oscuro e tetro che, più di 30 anni fa, plasmò e fece contorcere d’estasi la mente di molti. Torna anche la struttura leggermente meno elaborata sentita nei primi pezzi, un ritorno costante delle parti, come l’oscillare di un pendolo, ci fa ormai sentire a casa, desiderosi di sentire ancora e ancora le tracce partorite dalla mente di questi pazzi. Abbiamo detto che su questo pianeta in cui siamo atterrati, ci ritroviamo di fronte ad una guerra, una guerra di apparenze e bugie, di cose non dette che dopo tempo tornano a ghermire le proprie prede, speranzose di poterle assaggiare finalmente. Si parla anche di corruzione, bugie, illusioni che vengono poste davanti allo sguardo di molti per nascondere la verità; l’unica soluzione è saper guardare, spingere il proprio sguardo al di là di quella linea di confine che separa cielo e terra, riuscire a squarciare il velo di Maya che la società e i potenti vogliono a tutti costi farci indossare, ed essere finalmente liberi di esplorare la platonica caverna come più ci pare, ma anche essere liberi di uscire, vedere ciò che contiene il mondo, scatola di magie e misticheggianti rituali, tornare dentro quel pertugio in cui siamo stati rinchiusi, e raccontare a chi è ancora là che cosa abbiamo visto, su cosa il nostro sguardo si è posato, cercando di convincerli a fare la nostra stessa scelta. Un ultimo ”atterraggio” dunque quello sul pianeta Try to Save, che ci ricorderemo per tanto tempo, ma è tempo, come le altre tracce, di risalire sul Lem e tornare alla nave, stavolta per compiere il passo più duro e fervido di attesa, tornare finalmente a casa con nuove esperienze nell’anima. I nostri aficionados di Romeo e Giulietta decidono di chiudere il disco, anzi, il viaggio spaziale, con un pezzo totalmente strumentale (scelta che, considerando la linearità di testi e voce, poteva essere quasi obbligata). NGC 2244 non è una cifra messa così a caso perché i Kayleth non avevano niente di meglio da fare; essa è il codice di riconoscimento di un bellissimo gruppo di stelle che si trova nella nostra galassia, precisamente si tratta di un ammasso aperto (per chi non fosse un appassionato di astronomia, si definisce ammasso aperto un insieme di stelle nate da una gigantesca nube molecolare, ma che invece di disgregarsi, rimangono insieme grazie alla reciproca ed ancora presente attrazione gravitazionale) presente nella nebulosa Rosetta (la cui intestazione inizia appunto con NGC), facente parte a sua volta della costellazione dell’Unicorno (una delle costellazioni più moderne, visibile da entrambi gli emisferi): l’ammasso NGC 2244 è visibile anche con strumenti amatoriali, quindi tutti noi possiamo scorgere il cielo con un telescopio e riuscire a vederla. Dunque un ammasso aperto è colui che ci guida verso la fine del viaggio, invece che tornare saldi coi piedi sulla nostra terra, l’atterraggio è da effettuarsi nel niente luminoso più assoluto, gettandosi a capofitto all’interno dell’ammasso celeste. I Kayleth decidono di rendere omaggio a questo ammasso roseo e denso di stelle grazie ad una suite di quattro minuti a metà fra le classiche sonorità Space, è infatti l’unico pezzo in cui il synth ha quasi totale e piena libertà di espressione, e lo Stoner che ha dominato e domina tutt’ora la musica dei veronesi, col suo tiro folle e senza troppe regole. Il ritmo che ne scaturisce ci fa veramente sentire degli esploratori spaziali alla ricerca di una dimensione sconosciuta, pronti a gettarci in ogni avventura per vedere che cosa cela la verità; ci sentiamo dunque come parte di qualcosa, continuiamo a navigare in questo niente nero e pieno di puntini bianchi luminosi, perdendoci nella sua infinità, la colonna sonora perfetta per restare in contatto con la propria mente. Niente parola in questo pezzo, lo abbiamo detto all’inizio, ma ripeto, considerando che nei brani passati fino ad ora il testo (la voce no, perché comunque occupa un ruolo grande nella musica dei Kayleth, pur coi limiti già detti) è stata una delle cose più semplificate del disco, a vantaggio di una più corposa esecuzione e ricerca musicale, fare un brano totalmente strumentale era quasi inevitabile, come se avessimo concluso il percorso con il sottofondo del vuoto cosmico, in cui i suoni non si sentono più, ci addentriamo nello spazio nero e la nostra voce non riusciamo più a sentirla, udiamo solo una accozzaglia (ragionata, ribadiamo) di suoni distorti e in perfetto dualismo fra loro. Una degna conclusione di un bellissimo disco dunque, affidata alle sapienti mani dei musicisti che fino ad ora hanno saputo veramente traslare lo spazio nei vari generi; in questo ultimo e mirabolante passaggio, i Kayleth mettono la firma per continuare il loro viaggio, senza fermarsi, la loro navicella non ne ha ancora abbastanza, il carburante basta, quindi possono continuare a vagare.



Abbiamo fatto un lungo percorso all’interno di questo disco, da quando agli inizi degli anni ’90 per sopperire alla tristezza di aver perso e finito il decennio prima, ragazzi di due città differenti si espressero in maniere separate per portare avanti la propria malinconia, ai 20 e passa anni dopo in cui i nostri veronesi calcano il tappeto del cielo con l’audacia dei pionieri. Da Seattle col suo vento e freddo quasi costante, alla desertificazione di Palm Desert e le sue lande desolate, che hanno portato alla nascita di uno dei generi più prolifici della storia musicale moderna; non ha mai voluto troppi compromessi lo Stoner, solo di essere suonato e sperimentato con tutta la volontà che un uomo ci può mettere, con tutta quella voglia di fare che ci fa arrivare in fondo e dire “Ok, adesso possiamo andare ancora avanti e non fossilizzarci qui”. I Kayleth, dal canto loro, hanno preso in pieno dogma queste parole, sfornando un disco dal loro cilindro magico che, a fronte di una linearità di fondo nella parte vocale (le reminiscenze di Enrico sono, ripetendo, assai chiare e cristalline), ma che si incastra bene col resto, hanno sperimentato assai sulla parte musicale, come è nella tradizione del genere oltretutto. Sono passati dal Doom allo Sludge al Metal classico, fino ad atterrare (è il caso di dirlo) sulle spiagge nebulose dello Space, rendendo omaggio anche in parte a formazioni come Rockets e Kraftwerk, fra i più importanti ed innovativi esponenti del genere elettronico. Un lavoro che consiglio senza dubbio a tutti coloro che hanno una mente aperta, che hanno voglia di sentire parti di chitarra che potrebbero essere suonate in un Sabotage o in un Frequencies from Planet Ten, una voce che ricorda gli anni ’70 in maniera molto marcata, ma anche schiacciare il pulsante dell’iperspazio e godersi momenti in cui l’elettronica la fa da padrone quasi, pur non innalzandosi, se non in un paio di occasioni, a principessa del pezzo stesso. Se mai vi capiterà di avere fra le mani questo disco, divoratelo dalla prima all’ultima traccia, tracannatelo come si fa con un ottimo liquore, non vi lascerà insoddisfatti; divertitevi anche peraltro a foraggiare l’interpretazione dei testi che dicevamo molte (ormai) righe fa, la capacità dei Kayleth di scrivere liriche così scarne lasciando all’ascoltatore quasi il compito di interpretarle e metterci del suo all’interno, è qualcosa che, arrivati alla fine, lascia assai soddisfatti, magari perché ci abbiamo inserito anche delle esperienze personali. E’ anche questo uno degli ormai rari casi nella musica moderna, in cui l’artwork fa la sua parte, nel senso che potrebbe tranquillamente essere un disco da comprare a scatola chiusa anche solo per la sua ipnotica copertina, cosa che negli ultimi anni si sta un po’ perdendo (pur essendoci, come sempre, le eccezioni); quella bellissima aliena con la pelle color del cielo plumbeo ci fa ben sperare di intraprendere da subito un percorso che non scorderemo facilmente. Ed infatti, una volta infilato il cd nel nostro stereo, una cintura ci avvolgerà la pancia, un casco spaziale ci comparirà sulla testa, abbasseremo la visiera, e l’accecante luce del sole del mattino ci investirà con la sua potenza; man mano che procederemo, esso diventerà sempre più un puntino lontano anni luce nel tempo, attraverseremo le epoche e le fasi storiche, mentre il mondo si muove ad una velocità, noi sfrecciamo come impazziti dentro la storia del mondo, per riuscire a vedere una porzione di cosmo su cui mai nessuno ha posato lo sguardo.


1) Mountains
2) Secret Place
3) Spacewalk
4) Bare Knuckle
5) Born to Suffer
6) Lies Of Mind
7) Try to Save the Appereances
8) NGC 2244