KATATONIA

City Burials

2020 - Peaceville Records

A CURA DI
STEFANO PENTASSUGLIA
22/05/2020
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Introduzione Recensione

Me lo ricordo ancora come fosse ieri il giorno in cui li ho scoperti, nella calda primavera del 2003, quando guardai per la prima volta l'immagine di quella bambina con l'ala di un cigno tra le braccia, sullo sfondo di una metropoli oscura e glaciale. Era la copertina di "Viva Emptiness", dal genio creativo dell'illustratore Travis Smith, e l'attrazione fatale che provai all'istante verso quel gruppo si sarebbe presto trasformata in ossessione. Iniziò così la mia scoperta della loro arte, la ricerca spasmodica nei meandri del loro passato, quello di una band che, un passetto alla volta, non aveva mai smesso di crescere. Una storia a ritroso nel tempo, che partendo dai colori così grigi e cupi di "Viva Emptiness", si sarebbe evoluta di continuo attraversando tutta una serie di stili e sfumature differenti, dai contorni sempre più lucidi, più rotondi e ragionati, in un viaggio cromatico che era espressione grafica di un viaggio musicale e, soprattutto, emozionale: il malessere e il senso di sconfitta nel marrone spento di "Last Fair Deal Gone Down" e del bagno lurido sulla sua copertina, con i suoi richiami ai Cure più tormentati e la rilettura del dark in chiave metal; il disagio esistenziale nel gelido blu di "Tonight's Decision", colore freddo per un album freddo, perso in quelle bellissime atmosfere intime e notturne; l'inquietudine opprimente della vita tra le calde tinte di "Discouraged Ones", con quell'ombra nera schiacciata dall'abbraccio tra il rosso e il giallo, compressa come le note tra le distorsioni arcigne di "Nerve" e "Stalemate" e stremate come la melodia di "Deadhouse". E poi il passato più lontano, quello più ancorato alle radici death e doom, nell'inquietante viola del capolavoro "Brave Murder Day", album culto simbolo di un'epoca e di un'innocenza giovanile che non tornerà mai più, destinata a cedere il passo a una inevitabile maturità. Persi il conto di quante volte avevo ascoltato in fila tutti quegli album, ma continuai a farlo, per anni e anni, senza stancarmi mai, perché ormai quella band svedese così cupa e malinconica mi era entrata nel cuore, ci aveva depositato i sedimenti delle sue (ora mie) emozioni, e non ne sarebbe uscita mai più.

Se c'è un'evoluzione, nella storia discografica di una band, che ha da sempre esercitato su di me un fascino magnetico e quasi morboso, è proprio quella che hanno avuto i Katatonia dall'ormai lontano 1993 al nostro attuale 2020. Paragonabile in un certo qual modo alla parabola rock dei cugini Anathema e, in senso lato, a quella dei connazionali Opeth, la carriera musicale di Jonas Renkse e soci è inserita a pieno titolo in quelle che non hanno mai esaurito la propria vena creativa e la propria voglia di sperimentare, affinando di anno in anno il proprio sound, in una maturazione lenta ma costante nel tempo. Partiti, come i già citati Anathema, come uno dei gruppi di punta di quella scena gothic/death/doom svedese degli anni '90 che sfidava a viso scoperto i sempre più promettenti cugini d'Albione, lo stile dei nostri è passato attraverso una serie di step musicali (e cromatici) che hanno trasformato sempre più la passionalità naif dei loro esordi in una razionalità esistenzialista sempre più asettica e pe(n)sante, lucida, conscia dei propri mezzi espressivi  e in linea con la propria maturità artistica. I giovani Katatonia volevano urlare in faccia al mondo il proprio disagio e il proprio dolore; i Katatonia adulti hanno capito che, per fare in modo che il mondo capisca quelle urla, bisogna entrargli dentro e urlargli dall'interno.

È in quest'ottica che occorrerebbe guardare a tutti i lavori dei Katatonia più moderni, da "The Great Cold Distance" in poi, per rendersi conto di come questa band straordinaria abbia affrontato la sua maturità artistica e sia venuta a patti con i propri demoni (già, quelli dell'opener di "Tonight's Decision"), razionalizzandoli in un ammodernamento del suono che, se da un lato li ha resi più morbidi e commerciali agli occhi dei meno attenti, non ha mai smesso di iniettare sempre una nuova intensità nelle proprie composizioni. Questo nuovo "City Burials" non fa eccezione ma, anzi, sposta ancora più in là l'asticella dell'esplorazione, aumenta la posta in gioco e decide di osare, sperimentato sonorità del tutto nuove e avanzando in territori che prima la band aveva solo guardato da lontano. Non è un caso che l'album sia stato prodotto e concepito interamente da Jonas Renkse, decennale leader, cantante (ed ex batterista) dalla chioma nera e dallo sguardo vacuo, che così ha avuto modo di mettere sul piatto una gran fetta delle sue molteplici influenze, dal dark al prog, dall'heavy anni '80 all'electro-rock,  riuscendo anche ad affinare sempre più la sua tecnica vocale, liberarla da ogni impudicizia e rendersi protagonista di una prova magistrale dietro al microfono, forse la migliore che si sia mai ascoltata nella sua carriera. Mettiamoci anche il massiccio influsso sulle composizioni del nuovo chitarrista Roger Ojersson, le ricche sfumature atmosferiche che gli arrangiamenti elettronici e tastieristici dell'attento Frank Default, alias Anders Eriksson, hanno saputo donare a certi brani, e il supporto vocale della splendida cantante svedese Anni Bernhard, alias Full Of Keys, e potremo capire facilmente come questo nuovo "City Burials" sia un concentrato di nuovi spunti e opportunità creative per una band che, a quasi trent'anni suonati di carriera, non ha ancora smesso di crescere, sperimentare e credere in sé stessa. 

Heart Set To Divide

Probabilmente non poteva esserci un brano migliore di "Heart Set To Divide - Cuore impostato per dividere" ad aprire un album come "City Burials", e questo per almeno due buone ragioni. La prima è da ricercare nella natura complessa, camaleontica e fortemente umorale di questo brano, ricco di sensazioni, emozioni, cambi di tempo e di stati d'animo, che diventa così subito emblema di quello che è il più grande punto di forza di tutto l'album: quello di basarsi su ogni possibile influenza musicale di Renkse e di non lesinare sulla scelta dei mezzi espressivi. La seconda riguarda invece l'impostazione tipicamente progressive del brano, cosa che da un lato lo lega al recente passato di "The Fall Of Hearts" fungendo quasi da ponte stilistico tra i due album, e dall'altro mette in mostra le nuove potenzialità della band nel maneggiare la materia prog, qui spogliata del superfluo e ridotta all'essenziale, a ciò che serve per colpire e per emozionare. E così che l'oscura intro iniziale, atmosferica al punto giusto e dal sapore vagamente lugubre, ci mette poco a trasformarsi in un brano che strizza l'occhio al prog metal più ortodosso, prima di ripiegare su ritmiche rallentate e su un ritornello dark tipicamente "katatonico". Per tutto il brano il feeling principale resta quello dell'ombra e della decadenza, mettendo subito a proprio agio quei fan di lunga data che temevano cedimenti all'ariosità e alla speranza.

Ma la vera protagonista di "Heart Set To Divide" resta l'affascinante voce di Jonas Renkse, calda, suadente, intensa ma al contempo delicata, che cavalca dolcemente le note di chitarra come un surfista sulle onde e si fa portatrice di un amaro sguardo al passato, diventando il suono del rimorso, dei condizionamenti che imprigionavano i nostri sogni, di quello che poteva essere ma, purtroppo, non è stato: "I am shedding my scars / I was sick but / I was set for the stars / The road was mine but / I worried still / And closed was the door / Of my past perception / And my disposition / Had then been  chained" ("Sto perdendo le mie cicatrici / Ero malato ma / Ero impostato per le stelle / La strada era mia ma / Ero ancora preoccupato / E chiusa era la porta / Della mia percezione passata / E la mia indole / È stata incatenata"). La prova di Renkse dietro il microfono appare davvero sopra le righe e ci fa sentire a casa, mentre sul finale la sua voce si trasforma in sussurro e chiude un brano che, tra echi progressive e influenze darkwave, cancella ogni nostro dubbio su quella che poteva essere la forma fisica dei Katatonia nel 2020. Un inizio davvero con i fiocchi.

Behind The Blood

Siate sinceri, da quanto tempo non sentivate degli assoli del genere dai Katatonia? Dopo il decadentismo esistenziale dell'opener "Heart Set To Divide", sarebbe stato legittimo aspettarsi un altro brano lento e atmosferico, non certo quella botta di energia che questa "Behind The Blood - Dietro il sangue" ci trasmette dal primo istante. Le influenze renksiane risalgono qui agli anni '80, con un Blakkheim che mette in mostra tutto il suo talento chitarristico nel costruire ritmiche pompate, chitarre graffianti e arcigne, note orientaleggianti e assoli al fulmicotone, in un marasma rock'n'roll che ricorda da un lato le melodie di scuola scorpioniana e dall'altro l'estetica heavy dei Priest, prima di ricollegarsi a una forma-canzone più propriamente "alla Katatonia". La voce di Renkse non è da meno, e sembra che stavolta il suo tormento sia mutato dal rimorso alla pena amorosa, motivo di passione, ma anche del dolore più intenso che un essere umano possa provare: "I can feel you tear me asunder / My love, I can feel you push / And give way to drowning / I can feel you pierce my heart" ("Sento che mi stai facendo a pezzi / Amore mio, sento che spingi / E cedi all'annegamento / Posso sentirti perforare il mio cuore").

Lanciato come singolo di presentazione del disco, "Behind The Blood" è comunque ben lungi dall'essere un brano rappresentativo dell'opera nel suo complesso. Piuttosto ne rappresenta una delle tante facce, quella più catchy e mainstream, luminosa ma non troppo, ben ancorata al chiaroscuro e che un'orecchiabilità che si sposa bene al contesto generale di tutto il disco. È un brano che travolge, che diverte ma senza mai esagerare, senza mai farci distogliere la mente da quelle che sono le coordinate stilistiche proprie della band, fatte di decadenza, metropoli di ghiaccio e immagini grigi su sfondi neri. Non saranno certo due assoli e qualche melodia orecchiabile di troppo a rovinare lo spleen di Renkse e soci, e a ricordarcelo è anche l'azzeccato videoclip di Ash Pears, dove panorami periferici, finestrini rigati di pioggia e luci urbane fortemente suggestive fanno da sfondo ai pensieri di una malinconica metallara al volante. A conti fatti, c'è da dire che questo "Behind The Blood" non è personalmente tra i miei brani preferiti del disco, ma mi sembra tuttavia abbastanza palese il perché sia stato considerato il più adatto a essere lanciato come singolo: è quello più energico, più orecchiabile e più vicino a quelle che sono le leggi del mercato discografico. Fortunatamente, è anche un brano che, a dispetto del suo cervello rock un po' mainstream, ha all'interno un cuore pulsante 100% Katatonia

Lacquer

Ed eccolo qui, il primissimo singolo dell'album, quello che ci ha fatto sobbalzare un po' tutti sulla sedia, facendoci pensare "Ma non staranno mica per fare la fine degli Ulver?". In effetti la scelta di "Lacquer - Lacca" come singolo di lancio per "City Burials" è stata furba, se non emblematica. Per quanto si tratti infatti di un'eccezione stilistica nel quadro generale dell'album, usarlo come canzone per promuovere il disco acquista in tal senso un'accezione simbolica, è un voler ribadire e confermare di non essersi mai fermati e di essere ancora in piena evoluzione, è un mettere le mani avanti per dire "noi, ve lo diciamo, i Katatonia del 2020 sono questi". È la pietra tombale di qualunque illuso che si aspettasse ancora un "Brave Murder Day" dei giorni nostri. Un brano elettronico. Perché di questo si tratta: un brano che accantona definitivamente il metal, per gettarsi in un onirico viaggio electro-rock che ricorda da un lato certe atmosfere dei Massive Attack e dall'altra, seppur solo a sprazzi, il lato più malinconico del dubstep di Burial. Audace, per una band i cui esordi furono emblema del doom/death. Ma non certo la prima (chi ha detto di nuovo Ulver?).

A conferma che il metal non è l'unico filtro attraverso cui è possibile guardare l'anima inquieta dei Katatonia, il mondo oscuro a cui Renkse ci ha abituato è ben lontano dal ricevere spiragli di luce da un semplice cambio di sonorità.  Anzi, al contrario, usare nuove modalità espressive sembra conferire rinnovata lucidità al suo malessere. La sua voce, calda e gelida al tempo stesso, messa in risalto (anch'essa) da sapienti effetti elettronici, persa a metà strada tra la morbidezza del sospiro e l'intensità del sussulto vocale, ci avvolge come non mai proprio perché, questa volta, sono lente e soffici atmosfere elettriche a fargli da sottofondo e non ruggenti chitarre a strappargli la scena. Non da meno il testo della song che, soprattutto nel ritornello, tira fuori perle di pessimismo renksiano che le nuove sonorità sembrano ancor più elevare a inni di sconfitta e omaggi alla resa: "The levee breaking / I can't live to fight once more / The road to the grave is straight as an arrow / I'm just staying around to sing your song, baby" ("L'argine si sta rompendo / Non posso vivere per lottare ancora una volta / La strada verso la tomba è dritta come una freccia / Sono in giro solo per cantare la tua canzone, tesoro"). Inutile nasconderci dietro un dito: non saranno le accuse di tradimento al Dio Metallo che renderanno meno bella questa "Lacquer", sicuramente uno dei brani più riusciti e ispirati per il nuovo corso dei Katatonia. Una chicca di pura e nera introspezione elettronica.

Rein

"Rein - Briglia" è un brano complesso. Non tanto per i suoi repentini cambi di tempo e per i suoi stati umorali sempre in bilico tra dolcezza e dolore, quanto per i suoi diversi registri stilistici che combaciano tra loro alla perfezione, pur lasciandoci un attimo straniti (perlomeno la prima volta che lo ascoltiamo). Già l'introduzione appare "strana", con quei giri di chitarra che creano cerchi nell'ombra e ti chiedi dove vogliano andare a parare, poi a poco a poco notiamo reminescenze dei Tool che si fanno sempre più insistenti, specialmente nel momento in cui la schitarrata di Blakkheim dà un potente scossone al brano, creando uno stacco ad hoc per un cambio di registro. E in quel momento i vecchi fan avvertiranno un sussulto al cuore, con quelle sonorità che sembrano essere uscite direttamente da "Viva Emptiness", tanto da apparire quasi come un omaggio al fondamentale album del 2003. Seppur rivisitate in ottica moderna, quelle atmosfere sembrano così autoreferenziali da sfiorare l'autoplagio, tanto ci ricordano la deliziosa oscurità che anni fa ci attorcigliava in canzoni come "Will I Arrive" e "Inside The City of Glass".

Ma le sorprese di "Rein" non finiscono certo qui. A un certo punto i tempi rallentano e i toni si abbassano, mentre il sospiro di Renkse non può non farci tornare in mente gli Opeth dei lavori più progressive. Quando le ritmiche riprendono vigore vediamo tornare i Katatonia dei giorni nostri, ma poi di nuovo quello stacco alla Tool, e atmosfere chitarristiche che provengono direttamente dai territori del post metal e persino del post rock. E intanto ritorna quel ritornello "alla Viva Emptiness", ovviamente la parte più oscura di tutto il brano, in cui il pessimismo cosmico di Renkse non fa che ricordarci, senza troppi giri di parole, quanto sia inutile programmarsi il futuro, dato che tutto è nelle mani del destino: "The plans you make / For the perpetual tomorrow / Will be collapsing still" ("I piani che fai / per il domani perpetuo / Crolleranno ancora"). "Rein" forse è un brano un po' troppo "coraggioso", un po' azzardato, che gioca con diversi stili e diversi mezzi espressivi per tentare di comunicare i diversi stati d'animo nel cuore inquieto di Jonas, ma la sua eccessiva acerbità lo trattiene dal diventare uno dei pezzi più riusciti di "City Burials". Certo fa strano parlare di "brano acerbo" per un lavoro dei Katatonia ormai maturi, ma se quest'album rappresenterà, come credo, un nuovo corso per la band di Stoccolma, allora nell'usare questo nuovo stile ci sarà da limare, affinare e rifinire certe spigolosità che ne compromettono l'equilibrio d'insieme. Resta tuttavia un gran bel brano e un esperimento molto interessante, che mette in luce quanto alla band di Renkse piaccia giocare con le sue diverse influenze e quanto riesca a farlo bene, al netto di una coesione per adesso non ancora perfetta. Ma è un'audacia che non si può, e non si deve, non apprezzare.

The Winter Of Our Passing

Pochi dubbi sul fatto che "The Winter Of Our Passing - L'inverno della nostra scomparsa", ben lungi dal cedere a quelle tentazioni prog che animavano l'opener come la precedente "Rein", sia il brano più orecchiabile e dedito alla comune forma-canzone dell'intero lotto. E appare quanto mai azzeccata l'idea di porre un brano del genere proprio al centro del disco, sia perché ci permette di prendere un po' di fiato per poi addentrarci nella seconda parte dell'album (impegnativa anch'essa, anche se non quanto la prima), sia perché, dal punto di vista sonoro, stilistico e tematico, rappresenta un po' il punto nevralgico dell'intero lavoro. Se le sonorità e lo stile richiamano qui quelle di "The Great Cold Distance", è innegabile che le atmosfere ci facciano ripensare a quella perla nera che fu "Night Is The New Day", e non a caso: adesso, come allora, gli squisiti arrangiamenti electro-rock di Frank Default donano al brano quel retrogusto dark, notturno e un po' sexy, ma allo stesso sufficientemente mainstream da restare stampato nelle orecchie a lungo, che avevamo già avuto modo di apprezzare nel disco del 2009.

A dispetto della sua aura gelida e nebbiosa, come delle sue tematiche forse ancor più toccanti, in quanto stavolta vanno a toccare un aspetto delicato come i ricordi dopo una rottura amorosa, "The Winter Of Our Passing" è un brano fresco, energico e facilmente assimilabile, che si fa davvero ascoltare con piacere e ci mostra dei Katatonia moderni, in grado di controllare quei tormenti emotivi a cui ci hanno abituato in passato e di plasmare la propria materia oscura per piegarla ai voleri del più accessibile alternative rock. Per quanto il brano in questione non sia forse tra i migliori del disco, non si può dire che, nella sua cristallina semplicità, non sia riuscito alla perfezione. Tutto qui funziona: i ritmi sincopati della strofa su cui si stende la voce nervosa di un Renkse ormai perfettamente a suo agio in mezzo a tutti quegli arrangiamenti elettronici, quel bridge così gelido e dark, e poi quel ritornello travolgente che quasi ci vien voglia di cantarlo. E c'è tempo anche per un rallentamento, un intermezzo intimista e riflessivo, in cui il buon Jonas si mostra vulnerabile, di fronte al muro di un passato ormai insanabile, in balia di memorie che fanno male: "The feeling that did remain / If we take some time to remember it / The feeling of what was good / Do you recall it at all?" ("La sensazione che è rimasta / Se ci prendiamo del tempo per ricordarlo / La sensazione di ciò che era buono / Lo ricordi davvero?"). Un brano semplice, ma genuino e delizioso, che insiste ancora sull'elettronica come mezzo espressivo d'eccellenza sui cui poggiare la propria, rinnovata oscurità. E siamo pronti a ripartire.

Vanishers

So già che non sarete d'accordo, ma lasciatemi spiegare. Quando dico che "Vanishers - Svaniti" è uno dei brani che mi ha regalato più emozioni in "City Burials", non intendo che sia una canzone del tutto riuscita. Ha dei difetti evidenti, primo tra tutti un ritornello che pare quasi smorzato, spezzato, come se gli mancasse qualcosa e non sia nel pieno delle sue potenzialità. Siamo lontani, penserete voi, dai fasti di "The One You Are Looking For Is Not Here", da quella raffinatezza compositiva che permetteva all'incisiva ugola di Silje Weergeland di posarsi sui nostri sensi senza chiederci il permesso. Ma qui sono proprio i presupposti a essere completamente diversi. "Vanishers" non è semplicemente un brano in cui i Katatonia hanno voluto cimentarsi con una ballad lenta e dolciastra, trovando un punto di forza nella soave voce di Anni Bernhard del progetto Full Of Keys, qui danzante con i demoni di un Renkse che pare ancora più accorato e intimista del suo solito, per quanto possibile. È un brano che, come più o meno l'intero "City Burials" nella sua interezza (incluse tracce più complesse come "Heart Set To Divide" o "Rein"), è un vero inno alla semplicità, una composizione che si spoglia dell'ingombrante matassa gothic-prog che avviluppava le note dello stesso "Dead End Kings" con la già citata "The One", e vuole semplicemente riconsegnare alle nostre orecchie una musica che sa donarci intensità emotiva, e che sia con tre note invece di trecento, poco importa.

"Vanishers" nasce proprio in questo modo, come una ballata soffice, semplice nella sua forte emotività e pura come la carezza di una madre al suo bambino, che non si preoccupa di limare tutto o di trovare l'incastro armonico perfetto, ma punta tutto sulle sensazioni che riesce a trasmettere all'ascoltatore. Laddove Silje in "The One?" mostrava i denti e doveva orientarsi con forza tra le costruzioni armoniche della band, qui la voce della Bernahrd diventa qui una vera e propria controparte muliebre di Renkse, si abbandona alla propria voluttuosa femminilità, ci avvolge in modo tanto sensuale quanto carezzevole, soprattutto quando indugia lentamente nei versi di un ritornello misterioso ma piuttosto emblematico dell'immaginario katatonico: "Ehy, we are dead now / AAffinity has been found below the ground" ("Ehy, siamo morti ora / L'affinità è stata trovata sottoterra"). Gli arrangiamenti elettronici di Frank Default, allo stesso modo, con pochi accordi prendono il posto di complicate trame chitarristiche, e intervengono a cullarci e rilassarci, in uno sfondo sonoro che a qualcuno potrà ricordare certe epifanie del Petter Carlsen più malinconico. E in sonorità del genere, non me ne vogliate, mi ci trovo molto più a mio agio che non in quelle del disco targato 2012. "Vanishers", in sostanza, è questo. Una carezza, una ballata nera e misteriosa ma cristallina e senza fronzoli, come una notte dal cielo limpido e dalla temperatura mite. Un brano che ci mostra dei Katatonia molto più vicini al periodo di "Last fair Deal Gone Down", dove la semplicità strutturale era tutto, ma con gli occhi orientati al futuro, a suoni più moderni e senza fronzoli, dove ciò che conta sono le emozioni e non la gara a chi ce l'ha più lungo. E dove magari, a volte e se la situazione lo richiede, senza farsi problemi se sia una scelta ortodossa o meno, l'istintiva chitarra deve farsi da parte e lasciare il posto a un riflessivo sintetizzatore. Chapeau.

City Glaciers

Sfido chiunque a dire che il primo minuto di "City Glaciers - Ghiacciai di città" non abbia preso ispirazione dagli ultimi Tool e A Perfect Circle. La voce di Renkse si muove sinuosa proprio come quella di Maynard, tra ritmiche di batteria sinusoidali e arpeggi circolari, eppure anche qui l'atmosfera è smaccatamente katatonica, e notiamo fin da subito quanto l'uso di certe sonorità prese in prestito da Keenan e soci sia stata squisitamente incastrata con quell'oscurità di cui era pregno "Viva Emptiness", e che qui ritroviamo con un approccio più pop, rispolverata, più rifinita, ma non per questo meno efficace. L'estro di Frank Default passa qui in secondo piano per dare maggior risalto agli effetti di chitarra di Blakkheim che, mantenendo sempre lo stesso riff e spostandolo su differenti tonalità riesce a creare una piacevole sensazione di straniamento che è perfetta per accompagnare i tormenti vocali di Jonas, del tutto a suo agio nell'interpretare l'inquietudine keeniana dall'ottica oscura dei Katatonia. Forse un po' troppo monocorde rispetto a ciò che il brano richiederebbe, il cantante svedese riesce comunque a destreggiarsi in mezzo alle sonorità messe in piedi da Anders, e a riversare sul microfono pesanti dosi del suo pessimismo esistenziale: "Where are we to run? / Our season won't come / And everything you have said so far has been wrong." ("Dove dobbiamo correre? / La nostra stagione non arriverà / E tutto ciò che hai detto finora è stato sbagliato").

"City Glaciers" è un brano molto bello, non c'è che dire, nonostante a me sia piaciuto meno di quanto mi aspettassi, dopo aver letto in giro commenti che inneggiavano al capolavoro e che a me sembrano francamente esagerati. È un'onesta canzone dei nuovi Katatonia, quello sì, dove le sonorità più moderne e le già citate ritmiche alla Tool contribuiscono a creare l'atmosfera nota dopo nota, a mantenerla tesa e palpabile per tutta la sua durata, fino a sfociare in un ritornello tutto sommato riuscito e ben orchestrato, sorretto da cori avvolgenti e costruito su ritmiche cadenzate e melodici intrecci di tastiera e chitarra. Ma la parte migliore resta per me il bridge finale prima del ritornello, probabilmente la più ispirata di tutto il brano per come riesce abilmente a far danzare le chitarre di Nystrom e Ojersson in un malinconico balletto emotivo, che con le sue reminescenze opethiane tocca corde a cui noi, fan di vecchia data dei Katatonia, siamo da sempre fin troppo sensibili. E loro sanno fin troppo bene dove mirare per farci male.

Flicker

Fa strano pensare come un brano decisamente meno ispirato rispetto agli altri come "Flicker - Tremolio", che a qualcuno potrà anche piacere molto, per carità, ma che personalmente ho trovato quasi alla stregua di un filler, possa essere così rappresentativo dell'album nel suo complesso. E questo perché, bene o male, nonostante la canzone in sé non mi abbia fatto impazzire, c'è da ammettere che al suo interno c'è davvero un po' di tutto. Ci sono gli arrangiamenti di tastiera di Frank Default, qui presenti e incisivi in tutta la loro oscurità, tanto da risultare quasi un po' lugubri e con influssi prog, vagamente sulla scia degli Opeth dell'ultimo "In Cauda Venenum"; ci sono quelle ritmiche cadenzate che sembrano farla un po' da padrone in tutto il disco, qui anche con accenni di tempi dispari che fanno sembrare il brano ancora più prog-friendly; ci sono i bridge elettronici, che riescono a infondere maggior cupezza e tensione all'atmosfera generale; c'è quel ritornello ormai marchio di fabbrica dei "nuovi" Katatonia, con quel suono di chitarra patinato e Jonas che tira fuori le zanne, pur mantenendo in sostanza un profilo vocale basso; e poi, come sempre, c'è quella bella (si fa per dire) iniezione di ottimismo renksiano che ci illumina la giornata come non mai: "With no one waiting / I am waiting for no one" ("Con nessuno che aspetta / Io aspetto per nessuno").

"Flicker", in buona sostanza, è probabilmente uno dei brani più complessi in tutto "City Burials", per come cerca di far restare in equilibrio, esaltandoli a vicenda, vari elementi, sia sonori e sia emotivi, che i Katatonia hanno voluto utilizzare in pieno e infondere nell'anima di questo disco. Eppure la composizione di per sé non sembra poi particolarmente ispirata e, tra tastiere troppo brevi per farci avvertire quella tensione che cercano pian piano di costruire, elettronica usata un po' a casaccio e un ritornello che si perde per strada senza capire bene dove andare a parare, l'intero brano finisce per perdere di mordente e non colpire come sarebbe lecito aspettarsi da una band di questo calibro. In fondo quasi tutti i dischi hanno almeno un brano che ci lascia un po' interdetti e che, per qualche motivo, non ci convince e non riusciamo a farci piacere; non stupisce quindi che anche "City Burials" abbia il suo. Resta però l'amaro in bocca nel vedere l'impegno che i nostri ci avevano messo nel far coesistere così tanti elementi, pur non riuscendo poi a farli stare bene insieme in un discorso coerente e sufficientemente ispirato. Peccato.

Lachesis - Neon Epitaph

In rotta ormai verso la conclusione di questo oscuro viaggio nella mente renksiana, è tempo di un interludio che possa farci prendere una boccata d'aria prima della doppietta finale. Compito che viene svolto egregiamente da "Lachesis", brano tipicamente d'atmosfera e squisitamente elettronico, dove il buon Frank Default, oltre a dar libero sfogo ad arrangiamenti elettronici delicati e rarefatti, si cimenta con le note emotive di un pianoforte che ti entra nelle ossa e si sposa alla perfezione con il cantato di un Jonas ancora più intimo e riflessivo. Una pausa perfetta prima di addentrarci tra i riff iniziali di "Neon Epitaph - Epitaffio al neon", che con le sue ritmiche spigolose ricorda molto il riffing di Adam Jones, chitarrista dei Tool, ancor più di quanto non facessero prima "Rein" e "City Glaciers". Attenzione, il fatto di nominarli così spesso non significa che il combo svedese si sia ispirato più di tanto ai pazzi losangelini in questo disco, quanto piuttosto che certe soluzioni ritmiche e chitarristiche non possono fare a meno di farci tornare in mente quelle sonorità a cui sono dediti Keenan e soci; l'impronta generale dei brani, tuttavia, resta quella tipica dei Katatonia, soprattutto nell'approccio ombroso e decadente che i nostri continuano a dare ai loro brani e all'atmosfera che li circonda.

"Neon Epitaph" è, da un certo punto di vista, una canzone contraria e speculare alla precedente "Flicker": laddove la precedente canzone appariva complessa e sfaccettata senza però dimostrare un'ispirazione convincente, la penultima traccia di "City Burials" si mantiene sempre su coordinate relativamente semplici e riconoscibili, con un riffing osucro figlio di "Viva Emptiness" e "Dead End Kings", che nella sua spontaneità appare quanto mai godibile e riuscito. C'è da dire, tuttavia, che il gioco di chitarra e voce messo qui in atto da Renkse e Blakkheim è particolare e quanto mai efficace; lungi dal seguire il riffing che gli cresce sotto i piedi, l'ugola del cantante svedese, stratificata su diverse linee espressive tra strofa, bridge e ritornello, si incastra perfettamente con le plettrate ruggenti di Nystrom, senza tuttavia seguirlo nelle sue note ma, al contrario, procedendo per una strada tutta sua, come fosse una terza chitarra a dettare la melodia sulle ritmiche che la sorreggono, tra l'altro utilizzando cambi di tempo e registro davvero interessanti. L'effetto è, come lecito aspettarsi dai Katatonia, intenso e delizioso, e ad arricchire il tutto contribuiscono stacchi atmosferici e stacchi in palm-mute che donano profondità alla composizione e la avvicinano ancor più a quel prog-metal di scuola tooliana che avevamo apprezzato giù nel riffing portante di tutto il brano. Un gioiellino.

Untrodden

Arrivare alla fine di "City Burials" significa intravedere un bagliore in lontananza, un flebile fascio di luce che appare all'uscita di questo oscuro tunnel in cui la mente di Renkse ci ha imbrigliato per bene. Una luce che traspare da timide e delicate note di chitarra, nonché da sottili note di elettronica, arrangiamenti crepuscolari che incorniciano il canto del cigno (è il caso di dirlo) di un Jonas stanco, afflitto, ma forse proprio per questo ancora più viscerale e appassionato. Pur mantenendo quella vena malinconica che è marchio di fabbrica in qualsiasi produzione targata Katatonia, la conclusiva "Untrodden - Inesplorato" riesce comunque a lasciarci con una venatura di speranza, un leggero tocco di ariosità che nelle nostre orecchie appare come il contorno di un'alba che si erge dalla notte più nera. Tocco che si mantiene anche nell'immediato ritornello, tanto dolce quanto malinconico, che arriva all'improvviso e ci regala un'ultima, suggestiva visione dell'immaginario renksiano, con versi evocativi e smaccatamente katatonici, seppur orientati a un futuro che risorge dalla desolazione: "Will you meet me there / Underneath the pallid city lights / In the rain of Summerland / Over the ashes / Our memories in open hands" ("Mi incontrerai là / Sotto le pallide luci cittadine / Nella pioggia della Terra d'Estate / Al di là della cenere / I nostri ricordi in mani aperte").

L'infinita classe dei Katatonia, d'altronde, si avverte soprattutto in composizioni come queste, in ritornelli come quello di "Untrodden", che riescono ad essere melodrammatici senza mai sfociare nel patetismo, dolci senza essere stucchevoli, melanconici pur mantenendo sfumature di ottimismo sottili ma ben percepibili. La magia della band svedese è proprio quella, nei suoi momenti più ispirati, di riuscire a mantenere un equilibrio tra le diverse emozioni che la animano, incastrando le note in modo tale da produrre in chi le ascolta sensazioni avvolgenti, multiformi e persino contrastanti. "Untrodden", nella sua semplicità, chiude fin troppo bene un cerchio che si è dimostrato solido per (quasi) tutta la sua durata, donandoci forse il miglior assolo di Blakkheim nell'intero album, e salutandoci con una goccia di luce, per quanto lontana e sommersa dal buio che si avvolge intorno a lei. E l'evoluzione finale del ritornello, costruita soprattutto su diverse coordinate vocali che Renkse accavalla l'una sull'altra, come se avesse deciso di chiudere in bellezza un brano fin troppo "semplice" con un tocco di progressive da cui proprio sembra non riuscire a staccarsi, è la ciliegina sulla torta di un brano (anzi, di un album) che ci lascia con un sorriso sulle labbra e, forse, la voglia di premere ancora il tasto play e immergerci di nuovo in quell'affascinante mondo che i Katatonia, per l'undicesima volta, hanno creato per noi.

Conclusioni

E che forse quell'uomo barbuto il cui volto si staglia dallo sfondo nero della copertina, con in testa quella che sembra una gelida corona di frammenti di vetro, o meglio "pezzi di specchio in frantumi in giorni e notti di nero e argento", sia proprio quel "Dead End King", quel Re a cui si ispirava il titolo dell'album del 2012? Così sembrerebbe, almeno a giudicare dalle poetiche parole del buon vecchio Blakkheim nel descrivere la copertina dell'album (parole più belle della copertina in sé, a dire il vero), e che in qualche modo sembrano voler riallacciare un legame con ciò che è stato il passato più recente degli assi di Stoccolma. Ma se forse gli autori stessi non sono mai i migliori nel descrivere ciò che esce dalle loro mani, non di meno la dichiarazione promozionale rilasciata dalla Peaceville, che ha definito l'album come "opera di elevato progressive rock assorbente, meticolosamente realizzato con dosi di malinconia" sembra invero un po' riduttiva nel delineare quello che è un disco piuttosto complesso, sfaccettato e ricco di interessanti sfumature, sapientemente intrecciate tra passato, presente e (forse) futuro. Jonas Renkse è autore assoluto e nostro Cicerone in questo viaggio nella malinconia che continua imperterrita a insinuarsi negli anfratti della sua mente e, di riflesso, anche nella nostra.

Passato, presente e futuro, dicevamo: è proprio così. Sono questi i tre stadi che avvolgono il nuovo corso katatonico, e "City Burials" non poteva esserne un esponente migliore: un album delizioso, denso di spunti emozionali a dir poco azzeccati, costruito su composizioni intense e ispirate che si risollevano dal prog metal del precedente "The Fall Of Heart" per esplorare territori nuovi, restando coese seppur autonome e diversificate tra loro. Avvertiamo l'eco del passato in quei richiami agli Scorpions e ai Judas Priest, a quegli anni '80 che infarciscono le note di "Behind The Blood". Mai nella storia dei Katatonia avevamo ascoltato degli assoli così sfacciatamente heavy metal, spogliati di velleità esistenzialiste e proposti in tutta la loro sanguigna semplicità, in questo fortunato singolo di lancio, il cui videoclip di Ash Pears ne sottolinea le suggestioni goth rock con luci sfocate e grigie immagini di asepsi urbana. Discorso simile anche per la bellissima opener "Heart Set To Divide", divisa tra echi tooliani, complessità strutturale, aperture malinconiche e quelle atmosfere che furono proprie di "Viva Emptiness", ma l'oscurità propria dell'album targato 2003 la ritroviamo anche nell'intricata "Rain", con le sue ritmiche inquiete immerse in un involucro di ombre scure, costruita su sonorità che, seppur rielaborate in un'ottica più moderna e poliedrica, sembrano anch'esse uscite direttamente dal sesto album dei Katatonia, quello che quasi vent'anni orsono segnò la fine di un'epoca per Renkse e company.

L'evoluzione stilistica di "City Burials", tuttavia, è ben lunghi dall'essere un memoire di influenze datate ma, al contrario, è anche strettamente legata alla storia più recente della band, continuando la tradizione del "passetto in avanti ad ogni album" a cui i nostri ci hanno abituato fin dagli esordi. Riscopriamo quindi il presente con le chitarre di "The Winter Of Our Passing", altro singolo ed episodio tra i più fortunati del lotto, tra atmosfere notturne e malinconiche che, soprattutto nell'ispirato ritornello, richiamano proprio i Katatonia del precedente "The Fall Of Hearts", ma qui destrutturati, spogliati dall'ingombrate matassa prog e ricondotti alla loro essenza primordiale, a quelle emozioni che la chitarra di Nystrom in passato riusciva a infondere in noi poveri ascoltatori anche con quattro accordi in croce. Stessa cosa la ascoltiamo in un altro pezzo da novanta come "City Glaciers" che, nella sua cullante epicità e nelle sue rarefatte carezze chitarristiche, che sembrano danzare in cerchio intorno alla voce di Renkse solo per risaltarne il più possibile l'enigmatico malessere interiore, contribuisce ad affinare quel sound sempre più moderno con cui ormai i nostri ci hanno abituati da "The Great Cold Distance" in poi. Potremmo, anzi, forse dire che il nuovo "City Burials" riesca davvero a fare un passo avanti, a scrollarsi di dosso certa pesantezza che si avvertiva nelle composizioni dei recenti "The Fall of Hearts" e soprattutto "Dead End Kings", per ricondurre alla forma essenziale quelle che sono le coordinate della sua nuova storia discografica: niente più arzigogolati ghirigori chitarristici e giri immensi che poi ritornano (per citare il nostro Antonello nazionale), ma un ritorno a quella forma canzone che va dritta al punto, con strofe e ritornelli ficcanti come in "Last Fair" o "Viva Emptiness", ma con il sound e l'incisività moderni degli ultimi quattro album.  

Ma non di solo passato e presente è fatto questo disco. Avvertiamo qui anche gli echi del futuro, quelle iniziali e timide sperimentazioni che prendono qui forma in maniera più netta e decisa. Abbiamo finalmente un intero pezzo dei Katatonia che decide di osare, di abbandonare non solo il metal ma anche il rock più mainstream, per addentrarsi nello sconosciuto mondo dell'elettronica (e forse persino della dubstep?): quel "Lacquer" che fece così scalpore alla sua uscita e che, oltre a sottolineare quanto sia prezioso il lavoro che l'ormai imprescindibile Frank svolge dai tempi di "Night Is The New Day", ci fa capire quanto l'oscura estetica dei nostri sia adatta a incastrarsi con sonorità così lontane dalla loro comfort zone, molto più simili ai Massive Attack che non agli Opeth o agli October Tide di turno. Ed è un bene, che sia così: ormai la strada dell'innovazione è tracciata, "Brave Murder Day" è un ricordo del '15-'18, e se modernità deve essere, beh, che almeno sappiamo verrà fatta con criterio e genuina ispirazione. Non solo: che la malinconica "Vanishers", episodio che spicca su tutti gli altri per il ricercato duetto con la cantante svedese Anni Bernhard (Full of Keys) sia forse la bandiera più esplicita di questo legame tra emozioni del passato ed espressioni del futuro? Le sue sonorità innocenti, liquide e soffuse, pregne di una semplicità che accarezza il cuore, sono un vero e proprio ponte tra i "vecchi" e i "nuovi" Katatonia, dimostrando come quella sensibilità dark con cui da adolescenti ci martoriavamo ascoltando a ripetizione dischi come "Tonight's Decision" o "Last Fair Deal Gone Down" possono essere rivissute, in modo completamente diverso ma non per questo meno intenso, anche attraverso nuovi stimoli e nuove modalità espressive, come quella di mettere da parte le distorsioni e lasciar parlare l'ugola eterea di una leggiadra fanciulla e le rarefatte atmosfere elettroniche di un sintetizzatore. Si, l'avevano già fatto in "Dead End Kings". Ma la pesante sovrastruttura prog di "The One You Are looking for Is Not Here" soffocava quell'impronta di voce femminea che qui, nella semplicità di brevi e concise partiture elettroniche, risalta in tutta la sua straordinaria bellezza.

"City Burials" è tutto questo. Non solo un concentrato di influenze che il caro Jonas ha tirato fuori direttamente da ogni angolo del proprio palinsesto musicale, dall'heavy metal al progressive, dal goth rock alla darkwave, ma anche una tavolozza vergine su cui mischiare ogni colore della propria creatività, affinando le sonorità del presente e piantando quelli che forse saranno i semi del prossimo futuro in casa Katatonia, senza lesinare su strumenti espressivi inusuali per i nostri come ritmi elettronici o voce femminile. Ma, più di ogni altra cosa, "City Burials" è un album riuscito, che ci riconsegna dei Katatonia in forma come non mai, e a cui sembra che la pausa di quattro anni dopo lo stress dei continui tour abbia giovato e non poco. Un album che, con le sue raffinate sfumature, i suoi contrasti, le sue oscure atmosfere e le sue malinconiche suggestioni emotive, può solo farci sperar bene nel futuro e inserirsi in una storia artistica, quella dei Katatonia, che ancora adesso nel 2020 continua a catturarci con la sua intensità, la sua eleganza ed il suo fascino irresistibile. 

1) Heart Set To Divide
2) Behind The Blood
3) Lacquer
4) Rein
5) The Winter Of Our Passing
6) Vanishers
7) City Glaciers
8) Flicker
9) Lachesis - Neon Epitaph
10) Untrodden
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