KAOTIK
Torment
2015 - Unleash the Underground Records
ANDREA FUMAGALLI
08/01/2016
Introduzione Recensione
Ci troviamo oggi a recensire il secondo album dei canadesi Kaotik, pubblicato a distanza di circa tre anni dal debutto "Starving Death". I Kaotik si definiscono una band death metal old school (come spesso succede con gruppi del genere negli ultimi tempi, visto il gran numero di "revival" sorti un po' in ogni genere del Metal, soprattutto in ambito estremo ed Heavy) e amano dare vita a sonorità tipiche del periodo che va dalla fine degli anni '80 all'inizio degli anni '90, il periodo dove il death metal si sviluppò come genere a sé stante, passando dall'essere semplicemente una versione estrema del thrash metal e ad acquisire sfumature sue proprie. Il gruppo diede alle stampe il suo primo ep "New Born Chaos" nel 2009, un lavoro che permise al gruppo di acquisire popolarità e di iniziare a muoversi nel circuito underground canadese. Nel 2012 arriva come dicevamo il debutto "Starving Death", uscito sotto "Massacre Recrods" e ci ritroviamo in seguito nemmeno un anno fa, nel 2015, anno che vede l'uscita del loro nuovo album, "Torment", oggetto di questo articolo e pubblicato sotto una nuova etichetta, la "Unleash the Underground Records". La formazione del gruppo, ad oggi, viene composta da Pierre che si occupa della voce, Sam e Fred alle chitarre, Jeff al basso ed Alexis alla batteria. La produzione dell'album, curata nientemeno che da un professionista come Dan Swano (fra le sue collaborazioni ricordiamo Bloodbath, Edge of Sanity e Katatonia ), risulta essere assai pulita e non troppo "marcia", anche se non eccede mai nel perfezionismo fine a se stesso. E' certamente un lavoro minuzioso, maallo stesso tempo riesce a dare "calore" agli strumenti, i quali non suonano mai "finti" come può succedere con molte nuove produzioni degli ultimi anni. C'è da dirlo, questa riuscita finale è stata chiaramente l'intento del gruppo sin dall'inizio, ovvero quello di evitare sonorità troppo moderne e pompate che rischiano poi di far suonare "fasulli" molti prodotti che invece, ritoccati meno, sarebbero potuti essere molto più efficaci e soprattutto aggressivi. Una sorta di volontà di trasmettere della sana e vecchia violenza Death, quindi, anche passando per espedienti "visivi". L'artwork è difatti affidato all'inossidabile Dan Seagrave, che tutti i deathsters conoscono per i suoi lavori nell'ambito degli arto work dei gruppi death metal e non: basti citare le copertine disegnate per gruppi come Malevolent Creation ("The Ten Commandments"), Morbid Angel (il leggendario "Altars of Madness"), Suffocation ("Effigy of the Forgotten") e Vader ("The Ultimate Incantation") per renderci conto, "iconograficamente", con chi abbiamo a che fare. La sua mano è ben visibile anche su quest'artwork: abbiamo infatti una bella raffigurazione degli abissi marini, popolati da creature mostruose e minacciose come l'ambiente ostile che le circonda, ed anche la scelta dei colori si rivela azzeccata e ci permette di godere del disco anche da un punto di vista estetico. Un fondale marino che sembra richiamare molto gli ambienti Lovecraftiani tanto cari ai Morbid Angel. Senza indugio alcuno, dunque, apprestiamoci ad analizzare l'ultima fatica di questa giovane band canadese. "Torment" ci aspetta, prepariamoci a godere di una bella mazzata Death vecchio stile!
Cape Torment
Una intro di batteria dà il via alla traccia numero uno del lotto, "Cape Torment (Il Promontorio del Tormento)", la quale parte subito a discreta velocità con la voce abrasiva del singer (che ricorda, nel suo manifestarsi, quella di una leggenda come John tardy degli Obituary) subito pronta ad aggredire l'ascoltatore, senza pietà. Le chitarre, grosse e taglienti, suonano altrettanto grossi bicordi prima di approdare su di un riff in tremolo picking, sorretto dalla doppia cassa della batteria, un tutto sul quale si staglia sempre la voce di Pierre, violenta ed impetuosa. Dopo la strofa si accede ad un intermezzo in cui chitarre melmose la fanno da padrone, e giunge poi il momento dell'assolo, "classico" del genere e comunque ben suonato. Si ritorna al riff in tremolo picking e all'intermezzo, dopo una variazione si arriva ad un'accelerazione che ci porta ad un altro assolo, successivamente al quale si riparte con il riff iniziale e con una rullata che porta poi ad un nuovo rallentamento. La doppia cassa rafforza alternatamente il riff di chitarra fino alla conclusione del pezzo, che scorre dunque tosto e violento, in perfetta linea con quelli che erano gli intenti iniziali. Ci avevano parlato di sound vecchia scuola, ebbene questo è quel che abbiamo avuto modo di sentire. Nelle liriche del pezzo si va ad affrontare un argomento storico decisamente originale e se vogliamo "sottovalutato" o comunque mai troppo considerato, che è quello della guerra d'indipendenza americana. Il racconto, difatti, parte dalle riflessioni di un soldato dell'esercito inglese, altrimenti noto con il nome di "giubbe rosse". All'inizio del pezzo si descrive il viaggio attraverso l'oceano atlantico, un viaggio avventuroso e pericoloso, dove i soldati affrontano enormi rapide ed una tempesta impetuosa, che non sembra volerli far arrivare tutti vivi a destinazione. Il viaggio verso il "nuovo mondo" era difatti ostile e pericoloso, in pochi potevano reggere un'imbarcata simile. Una volta arrivati sul posto, stanchi e frustrati, i soldati si fanno portatori di una violenza sconfinata, distruggendo tutto ciò che trovano sul loro terreno e compiendo gesti di assoluta brutalità. La cosa veramente feroce nell'insieme è che nel testo si va a puntualizzare come i soldati si sentissero a proprio agio durante la guerra sapendo di trovare come avversari inermi contadini e non certo un esercito regolare (almeno fin quando i ribelli americani non riuscirono ad assemblare un vero e proprio esercito in grado di battersi alla pari con gli inglesi). In una macabra conclusione, il gruppo va poi a raccontare di come ogni prigioniero di guerra fosse impiccato per dissuadere altri coloni dall'intraprendere azioni armate. Quei corpi penzolanti, infatti, valevano più di mille parole.
Dying Race
Il secondo pezzo di "Torment", ovvero "Dying Race (Razza Morente)", si apre al contrario del precedente brano con un riff cadenzato ed "aperto"; ben presto la chitarra solista inizia a suonare poche ed angoscianti note che la batteria va a sostenere in maniera molto efficace con un ritmo lento ed essenziale, quasi a voler lasciare spazio alle sole chitarre, capacissime di esprimersi al loro meglio grazie a questo particolare accorgimento. Ecco che, però, il gruppo all'improvviso si ferma e si giunge ad un riff decisamente più veloce di quanto già udito, suonato in tremolo picking, sostenuto questa volta da un veloce tupa-tupa. La strofa, cantata in maniera diretta e aggressiva, ci porta subito al refrain che viene seguito subito da una nuova strofa, ed ancora una volta dopo di essa abbiano ancora il refrain, con la differenza che quest'ultimo, in questa occasione, viene rallentato grazie ad una progressiva decelerazione dalla batteria. Un intermezzo dove a farla da padrone sono ancora le chitarre ci porta ad un assolo pulito e ben suonato, dopo questo momento si riprende il riff in tremolo picking già udito in precedenza e si riparte a discreta velocità fino ad arrivare di nuovo ad un refrain che chiude il pezzo, ancora una volta diretto e privo di troppi fronzoli. Si cambia totalmente argomento rispetto al precedente brano, andando qui a parlare di un'immaginaria invasione aliena ai danni del nostro pianeta. Con l'arrivo degli alieni, un arrivo che poteva essere previsto se lo studio relativo a forme di vita extra-terrestri fosse stato approfondito, viene scatenato l'inferno sulla terra causato da una guerra galattica. Gli alieni in questione sono esseri evoluti dotati di armi letali, esseri a conoscenza della loro potenza e che fanno terra bruciata attorno a loro. La razza umana non può fare niente di niente alla potenza degli invasori e l'umanità viene per l'appunto sterminata. Ci beavamo del progresso e delle nostre conquiste, in questo frangente invece ci rendiamo conto di non essere nulla riguardo a questi invasori, ben più forti ed evoluti di noi, dotati di una potenza inimmaginabile. Il mondo è dunque condannato alla fine, non ci resta altro da fare che arrenderci alla supremazia extraterrestre sottomettendoci a quelli che, da oggi in poi, saranno i nostri signori e padroni.
Conquerors
Uno stacco di chitarre dà il via al terzo pezzo della relase, "Conquerors (Conquistatori)", il quale continua a seguire il trend del disco sfoderando un sound old school come gli altri brani finora ascoltati. Una canzone che risulta essere lenta e soffocante nel suo proseguire, le chitarre procedono nel loro incidere claustrofobico mentre la batteria, senza esagerare, disegna tempi compatti e diretti, mantenendo per bene il tempo. La voce risulta essere sempre aggressiva e occupa uno spazio fondamentale all'interno della struttura del pezzo, andando a riempire magnificamente il lavoro compiuto dagli altri strumenti. Grossi bicordi di chitarra ci conducono attraverso questo frangente del pezzo, mentre assoli di chitarra ispirati e ben suonati, dal sapore decisamente old school, danno varietà ad una canzone sino ad ora molto regolare a livello di struttura generale. Da circa la metà pezzo, però, abbiamo una "novità" consistente in un'accelerazione ove le chitarre alternano ritmiche questa volta leggermente più veloci a fraseggi solisti, per poi arrivare ad un altro, monolitico, rallentamento. Dopo questa decelerazione improvvisa si parte con una nuova cavalcata dove i bicordi di chitarra vengono sorretti da una batteria sempre precisa e quadrata, e di fatto si ritorna ad uno dei primi riff uditi, un ritorno che conclude un altro pezzo "fedele alla linea" e ben eseguito. Si ritorna a parlare di guerra ma si effettua una sorta di "salto indietro" nel tempo rispetto al primo brano. Se prima parlavamo delle Giubbe Rosse giunte in America per sedare le rivolte dei coloni, questa volta parliamo del viaggio e delle vicende intraprese proprio da un primissimo gruppo di coloni conquistatori che raggiungono una terra appena scoperta, conosciuta come di "America". Si narrano le difficoltà del viaggio, le scarse speranze degli uomini di arrivare a destinazione perduti tra l'enorme spazio oceanico: il clima all'interno dell'equipaggio è sempre più teso, nessuno si fida del proprio compagno e tutti cominciano a sospettare persino dei loro famigliari, avendo paura di venire traditi e gettati in mare per garantire al resto del gruppo viveri a sufficienza. L'unione è invece importantissima per il momento che queste persone stanno vivendo, perché solo così si potrà pensare di sopravvivere ed arrivare sani e salvi a destinazione. La cosa più paradossale è che, sfortunatamente, dopo il difficile arrivo inizia per i conquistatori la vera tortura: i nativi del luogo, infatti, per anni minacciati dall'invasione europea, non sono più così indifesi come si credeva. Essi infatti aggrediscono i soldati, privandoli dello scalpo e aspettando con calma l'arrivo di nuovi "conquistatori" a cui riservare lo stesso trattamento.
Mentally Death
La quarta traccia dell'album, "Mentally Death (Mentalmente Morto)", si apre con un riff in tremolo picking e una velocità decisamente maggiore rispetto a quella delle precedenti canzoni. A differenza dei primi tre pezzi, più di matrice U.S., possiamo notare come in questo caso emerga pienamente, dal sound dei Nostri, un'influenza di tipo europeo (Asphyx su tutti ), componente del Death che comunque i Torment hanno dichiarato di apprezzare quanto il Metal Estremo del loro continente d'origine. I tempi di batteria non sono dunque velocissimi, ma danno la giusta energia a dei riff di chitarra che si dimostrano taglienti e decisamente coinvolgenti. Il singer intanto non risparmia gli ascoltatori con le sue urla belluine, e con il refrain il gruppo scarica sempre sull'ascoltatore tutta la potenza che è in grado di buttare sul campo, senza filtri o pietà alcuni. Si continua con un rallentamento e con un assolo di chitarra sempre ben suonato, dopo questo frangente si riprende con il ritornello, vero e proprio pezzo forte del brano, che gioca tra rallentamenti soffocanti ed accelerazioni improvvise in cui la doppia cassa sotterra letteralmente noi ignari spettatori di questo massacro. SI riprende poi il riff iniziale e si dà il via ad una nuova strofa la quale termina con un rallentamento che conclude definitivamente il pezzo. Si cambia nuovamente argomento e si va ad affrontare il tema della malattia e della morte. Nel brano viene data voce ad un soggetto "cerebralmente morto", un soggetto ormai abbandonato al suo destino che attende inerme la morte, senza più essere in grado di muoversi o di reagire. La situazione dell'essere umano è a questo punto penosa, la sua è carne da macello, senza alcun valore. La morte fisica non sarà che la fine della sofferenza, egli infatti non fa altro che aspettare la Mietitrice, contando addirittura i secondi che lo separano da essa. A cosa serve un corpo, se non si è in grado di muoverlo? A cosa serve pensare, se nessuna azione (nemmeno la più semplice) può più essere compiuta? Paradossalmente è molto più dignitoso restare nella propria tragica condizione sperando solamente che le sofferenze giungano presto al termine. Magari per mano di qualcuno, o forse in modo naturale.. l'importante, è che si cessi di esistere per trovare finalmente un po' di pace.
Slow Decay
Un granitico groove di batteria, sul quale emergono prontamente delle potenti chitarre, dà il via alla quinta track dell'album, "Slow Decay (Decadenza Lenta)". Abbiamo durante la prima strofa una voce sempre magnificamente abrasiva per di più arricchita in questo caso da improvvisi chorus, il cui manifestarsi ci porta immediatamente ad un'accelerazione che mostra tutta l'influenza Thrash dei nostri, i quali vogliono comunque ricordarci le nobili radici di un genere del quale si professano strenui seguaci. Si ritorna poi al riff portante, con il quale si arriva ad un rallentamento basato sulla stessa scia di note appena udite ma che vengono valorizzate dall'intervento della chitarra solista e da un cambio di ritmo generale. Dopo questa variazione si arriva ad un assolo basato su fraseggi pentatonici, suonati con la tecnica del legato, e si riprende con l'accelerazione e si approda al refrain. Le chitarre sono a questo punto taglienti come asce e incidono oscure e marce come non mai nella mente dell'ascoltatore, catapultandoci in un vero inferno Death. Dopo il refrain ecco che emerge un riff che potrebbe provenire da uno dei primi dischi dei Carcass, e che ci porta ancora una volta un assolo questa volta basato su fraseggi a loro volta basati sulla scala minore. Si riprende con il riff principale e si ricomincia una nuova strofa. Ancora una volta abbiamo il refrain e la variazione già proposta in precedenza, sino ad arrivare alla conclusione. Nel testo si narra di un apocalisse zombie che si scatena sulla terra, una tematica molto cara al cinema dell'orrore ed in generale al mondo Horror moderno, che sembra particolarmente avvezzo alla tematica del morto vivente (sia nell'accezione classica, sia nell'accezione "contaminazione per colpa di un virus). Gli umani sono persi e limitati nella loro impotenza, non potendo sapere quale male li attaccherà. Alba dopo alba le creature aumentano e si sprofonda nel vuoto eterno, le persone sane vengono infettate dal morbo e finiscono a loro volta . I violenti attacchi si consumano uno dopo l'altro lasciando sul terreno sangue e carne fino al'estinzione totale dell'umanità, presto ridotta ad un ammasso informe di creature fameliche che, finite le "scorte", cominceranno ben presto a mangiarsi fra di loro, terminando per sempre la razza umana.
Six Feet Under
Se le precedenti due tracce avevano dato all'ascoltatore il modo di esaltarsi e di godersi un po' di sana velocità, con "Six Feet Under (Sei Piedi Sotto Terra)" ritorniamo ai tempi soffocanti e marci che hanno qualificato diversi altri momenti di questo disco. Durante la prima strofa le chitarre si limitano a suonare grossi bicordi e la batteria rimane essenziale pur intervenendo con diversi fill sui piatti. Dopo uno stacco di basso si riprende la strofa fino al refrain, anche questo lento ed oscuro, in linea con tutto ciò che stiamo ascoltando. L'intero ensemble di strumenti risulta essere ormai collaudato, la pulizia di esecuzione del combo è notevole e tutto risulta essere compatto ed al suo posto, senza sbavature ed incertezze. Dopo il refrain si arriva ad un assolo prima lento e poi decisamente più veloce, il quale trova la sua base ritmica su un riff in tremolo picking che verrà ripreso da entrambe le chitarre al fine di dare vita ad un'accelerazione in grado di smorzare l'atmosfera malvagia e soffocante. Dopo il refrain si continua con i tempi veloci e i tupa-tupa della batteria, la quale ormai ha preso definitivamente il volo. Le chitarre risultano essere a questo punto taglienti mentre la voce completa il tutto, riempiendo come al solito con ferocia ed aggressività. Con uno stacco di chitarra il gruppo ritorna a marciare con tempi più lenti e meditabondi che in fade-out ci conducono alla fine del pezzo; un altro momento in puro stile vecchia scuola, aggressivo quanto basta e ben eseguito. Nel testo si continua con la descrizione di quella che potrebbe essere una risposta umana agli attacchi degli zombie di cui parlavamo in precedenza. Inizialmente si va a descrivere il nemico, un nemico che infesta le notti delle persone scavandosi poi durante il giorno una fossa che a malapena lo contiene. Una volta però preparata la difesa, al sorgere della notte le creature si desteranno unicamente per trovare dinnanzi ai loro occhi una brutta sorpresa. Questa volta è infatti l'umanità che è decisa a scatenare una vera e propria apocalisse, mediante decisi bombardamenti a tappeto in grado di polverizzare il nemico. Gli zombie vengono sterminati e diventano la cenere nella quale si dovevano essere già trasformati. Per una volta è l'umanità a rendere pan per focaccia al nemico, riuscendo nell'ardua impresa di farsi valere contro un'orda di soprannaturalità la quale, almeno in questa occasione, trova un nemico ostico e decisamente difficile da battere. Mai, d'altro canto, essere troppo sicuri dei propri mezzi.
Sandstorm
L'apertura del penultimo pezzo, "Sandstorm (Tempesta di Sabbia)", è affidata a chitarre taglienti e ad una batteria granitica ma allo stesso tempo essenziale, molto attenta a non "strafare". Dopo circa quattro ripetizioni abbiamo un break che riduce la velocità del pezzo e ci porta alla prima strofa, dopo la quale si riprende a correre grazie anche al preciso scandire di un tempo di batteria diretto ed energico. Si arriva alla seconda strofa e ad una nuova accelerazione, dopo l'intermezzo si prosegue con il refrain: inizialmente le chitarre suonano il riff e poi proseguono con grossi bicordi mentre, al di sotto del tutto, la batteria rimane sempre veloce e potente. Il refrain viene ripetuto per due volte venendo inframmezzato da un rallentamento ancora una volta costituito da bicordi, si arriva così alla terza strofa e al secondo refrain che, dopo l'intermezzo, ci porta ad una nuova sezione del brano nella quale, con un riff roccioso e potente, il gruppo aggredisce l'ascoltatore; quest'ultimo viene posto di fronte a tutta la potenza della voce del singer, potente ed aggressivo come non mai in questo pezzo. Dopo questa fase si arriva agli assoli di chitarra che vengono suonati con precisione e pulizia. Dopo gli assoli si continua con il riff dell'intermezzo e si arriva così ad una nuova strofa: il riff monolitico ci conduce, tra gli atroci vocalizzi del cantante, alla conclusione del pezzo affidata ad un fraseggio lento e evocativo di chitarra. La tempesta di sabbia di cui si parla nel testo colpisce un gruppo di viaggiatori nel deserto. L a sua violenza distrugge la carovana dei viaggiatori, solo un uomo sopravvive, anche se le circostanze del tutto lo spingeranno a desiderare di non essere mai riuscito a scamparla. La sua vita ormai è in balia del deserto, la sabbia ha modificato le dune e ha perso l'orientamento, la disperazione domina la sua anima. Peregrina senza meta fra le macerie delle carovane, vede i corpi dei suoi cari accasciati ed ormai privi di vita, si domanda ora cosa ne sarà mai di lui, se forse un'oasi potrà apparire. I suoi sogni sono in frantumi. Quel che vede attorno a sé è solo sabbia, ed essendo incapace di suicidarsi, il sopravvissuto si stende proprio sui granelli di quest'ultima. Il sole brucia la sua pelle uccidendolo in maniera miserabile, fra lente sofferenze, in una costante agonia.
Global Genocide
Chitarre pesanti e distruttive come mazze ferrate danno inizio all'ultimo pezzo dell'album, "Global Genocide (Genocidio Globale)". La doppia cassa di batteria non fa altro che aggiungere pesantezza ad un brano che, procedendo nella sua esecuzione, acquista una discreta velocità con un altro riff malato ed oscuro a supporto di quello già udito in precedenza, ad inizio pezzo. La prima strofa gioca ancora su tempi medio-lenti e sulla potente voce del singer, e dopo questa porzione di brano abbiamo un'accelerazione che segna l'inizio del refrain e un nuovo intervento della voce seguito subito da un breve rallentamento e da una nuova accelerazione. Dopo di ciò viene affrontato un nuovo rallentamento, ma subitamente si riprende ad accelerare dando vita a veloci assoli eseguiti in maniera impeccabile. Si ritorna al riff iniziale sul quale si staglia la potente voce di Pierre, arrabbiato e feroce come non mai. Con uno stacco di chitarra, sostenuto sempre dalla batteria, si arriva ad un altro riff roccioso sulla quale ancora una volta emerge un growl abrasivo. Un lancinante screaming lascia intero spazio all'ensemble strumentale che grazie alla batteria riesce a mantenere lo stesso riff per diversi giri senza mai risultare monotono, sino alla conclusione del pezzo e del disco. Nell'ultimo testo di questa release si parla di una rivolta globale delle masse verso i potenti. La violenza scatenata dai rivoltosi è enorme, i deboli vengono uccisi e l'odio verso i potenti alimenta il popolo. Il disordine pubblico è ormai diventato la normalità, siamo nella più completa anarchia. Il vecchio re sarà ucciso e si arriverà ad un governo mondiale basato sulla paura e sull'instabilità, proprio perché l'insurrezione dei ribelli è stata in qualche modo fine a sé stessa. Una violenza basata unicamente sul furore del momento, priva di un piano ben definito per il "dopo". Bombe, spranghe, cariche.. tutto è servito effettivamente a provocare ingenti danni alla macchina dello Stato ma al contempo non ha apportato nessun concreto beneficio al contesto. Cosa sarà, ora, di una nazione priva di leader? Bande di "guerrieri della strada" già spadroneggiano lungo tutto il territorio, un'oligarchia forse ancora peggiore della prima. Il popolo non saprà come autogestirsi e ben presto tutti cadranno, uccidendosi a vicenda.
Conclusioni
Giunti dunque al termine di questo album, è arrivato il fatidico momento di tirare le somme circa quanto ascoltato. Possiamo sicuramente affermare il fatto che si tratti di un disco certamente improntato sui dettami della vecchia scuola, un revival quasi palese, tuttavia è necessario ascoltarlo più di una volta per non rischiare di esaltarlo a priori o gettarlo via, altrettanto aprioristicamente. Dopo svariati ascolti è possibile avere dunque un'idea più o meno definita del contenuto e del valore del disco: prescindendo il lato strettamente tecnico dei musicisti, che risultano essere preparati e ben amalgamati in un unico molto valido, concentriamoci sul valore dei pezzi che il quintetto ci propone. Abbiamo otto pezzi di stampo chiaramente old school, del resto questa è l'intenzione del gruppo (lo sapevamo sin dall'inizio), abbiamo potenza e aggressività, abbiamo anche quella giusta e ben dosata pulizia dei suoni che ci permette di ascoltare il tutto con piacere. Ogni musicista è molto bravo nel seguire quella che è l'intenzione generale della band, senza compiere singole "prodezze" con il proprio strumento, anzi stando attenti a non strafare mai. L'influenza dei più disparati gruppi death metal della vecchia scuola (Obituary su tutti ma anche primi Death e perché no, anche l'ascendente di mostri sacri del genere provenienti dall'Europa come Asphyx e Carcass) è poi sempre udibile e comunque gradevole. Il punto forse più critico del disco è che, in generale, all'interno dei pezzi che singolarmente possono anche essere godibili, non ci sono grossi picchi di ispirazione e a volte si cade in ripetizioni scontate o addirittura inutili che ci portano a chiederci se un pezzo avrebbe potuto essere continuato in maniera migliore, magari non eccedendo troppo proponendo la formula "struttura fissa". Con questo non si vuole dire che il gruppo abbia dato vita ad un disco di scarso valore ma solo che nella prossima relase dovrà cercare di essere, pur rimanendo su un genere old school, più fantasioso, dovrà avere maggiore propensione a variare la tipologia dei riff all'interno dei pezzi, ad alternare maggiormente accelerazioni e rallentamenti, cercando di appesantire l'atmosfera generale creando un qualcosa di brutale, ma anche di personale. Il picco di ispirazione lo abbiamo secondo me nella parte centrale del disco dove per l'appunto ogni pezzo diventa più vario a fronte di un inizio un po' monotono. L'augurio che facciamo ai Kaotik è che possano concentrare la loro capacità strumentale in nuovi riff più esplosivi, che facciano del male a chi ascolta e che possano dare una spinta di maggior fiducia all'ascoltatore che si approccia ai loro lavori.
2) Dying Race
3) Conquerors
4) Mentally Death
5) Slow Decay
6) Six Feet Under
7) Sandstorm
8) Global Genocide