KAIROS
Wicked Callings
2015 - Bleeding Records
ANDREA CERASI
19/05/2015
Recensione
Arrivano dalla Svezia, sono giovani e forti, nonché eredi di una gloriosa tradizione metallica di fattura scandinava. Basterebbe questa introduzione per dare credibilità a questi giovanissimi ragazzi di Goteborg che nel 2012 formano i Kairos (Tom Hamstrom – vocals, Erik Andersson – Drums, Carl Rudhede – lead guitars, Emil Beaird – guitar, Viktor Envall – bass). Dopo aver suonato per un paio d’anni col nome di Furious ecco il biglietto da visita con un Ep autoprodotto dal titolo di “Life On The Edge”, registrato nel 2013, col quale bussano alle porte delle case di produzione alla ricerca di un contratto. Li accoglie la piccola Bleeding Records Music che, in breve tempo, licenzia l’opera che andiamo ad analizzare: “Wicked Callings”, album di debutto uscito da pochissimo (il 24 aprile) e, per il momento, soltanto in formato digitale (ma presto arriverà in formato cd). Nonostante la giovane età, il combo svedese ha decisamente le idee chiare, basta guardare sul profilo Facebook per intuire le influenze che plasmano il suono della band: Judas Priest, Saxon, Accept, sono le fonti primarie di ispirazione, perciò non si rimane tanto sorpresi dallo loro musica una volta premuto il tasto play sullo stereo. E’ si, perché un disco come quello dei Kairos nulla aggiunge in questo affollato panorama musicale, accontentandosi di ricalcare fedelmente le orme delle storiche band appena citate, ma non solo, perché molti sono i punti di contatto con i gruppi che hanno reso grande il loro paese: la Svezia. In “Wicked Callings”, infatti, rivivono echi di band che io ho amato da ragazzino e che amo tuttora, come gli Universe, i barocchi Silver Mountain, gli Heavy Loud, i Torch, i 220 Volt, gli Overdrive e i mitici Axewitch. Insomma, band magari passate in penombra ma che hanno consegnato alla storia di un genere come quello dell’heavy metal dei piccoli gioielli, facendo poi da ponte verso quei gruppi nordici che, a partire dalla metà degli anni 90, hanno conquistato il mercato mondiale e l’Olimpo del rock duro. La Svezia, molto probabilmente, è oggi la nazione più prolifica in campo metal, in grado non solo di sfornare band in quantità industriale ma di mantenere persino una qualità musicale eccellente, indipendentemente dal genere suonato, e la cosa, almeno ai miei occhi, è davvero sbalorditiva, visto che il paese è popolato da pochi milioni di abitanti. Evidentemente la quasi totalità della popolazione ha una buona indole artistica e i Kairos non fanno eccezione, confermando, come se ce ne fosse ancora bisogno, l’innato talento proveniente dalla terra dei vichinghi nel suonare un qualsiasi genere di musica. Il purissimo heavy metal descritto in questa recensione è figlio della fiera tradizione scandinava, ma anche della mitologica N.W.O.B.H.M., sembrando in tutto e per tutto un prodotto concepito negli anni 80, sia nei pregi (una buona e genuina produzione e una gustosa vena melodica) che nei difetti (sviluppi strumentali molto semplici e testi elementari). Ma andiamo ad esaminarli.
“Can’t Contain” è un breve brano, concepito per un’apertura perfetta, dotato di un riffing potente, dinamico, dove le chitarre scalciano lasciandosi alle spalle un gran polverone, le strofe sono decise così come la sezione ritmica dalla quale emerge prepotente il basso pomposo di Envall e la voce stridente e acuta di Hamstrom, dotato di una vocalità ottima per l’heavy metal. La batteria di Andersson domina la scena dirigendo la parte strumentale, rallentando tra una strofa e l’altra per poi scatenarsi in una classica speed song. A passo spedito si arriva al solo centrale dal quale si capisce che la band ha talento e perizia tecnica, laddove Rudhede e Beaird incrociano le asce in una serie di assoli vorticosi. Dal punto di vista melodico la canzone ha una buona orecchiabilità, non scontata e dal piglio giusto, nonostante non sia dotata di un vero ritornello ma di un semplice pre-chorus sulla scia di molte canzoni targate Judas Priest, band dalla quale sono prelevati alcuni passaggi e arrangiamenti vocali. “Can’t Contain” funziona, i Kairos aprono “Wicked Callings” nel miglior modo possibile e subito si comincia a scuotere il capo a colpi di headbanging. Persino il testo è molto classico e rientra nella tradizione hard ‘n’ heavy vecchia scuola, dove si parla di sogni e di speranze che alimentano la foga giovanile, tipica di chi ha un sogno da realizzare e di che si deve battere ogni giorno contro tutti per emergere dalla folla. La vita è una maledizione e quando si raggiunge il limite della sopportazione, a causa delle mille critiche e dello sconforto che giunge silente, si comincia a urlare con tutte la voce, sempre più forte, fino ad abbattere quei muri che contornano la realtà e la vita stessa. Si grida per esprimere i propri sogni di gloria, per sbatterli in faccia alla gente e rivelarsi per quello che si è davvero. E’ la semplice consapevolezza di se stessi e la voglia di realizzazione che ci spinge a fare sempre di meglio. Il pezzo è un inno all’individualità e alla libertà di espressione. “Reaching Deeper” prosegue imperterrita sulla stessa scia della precedente traccia, l’andamento è sinuoso ma anche aggressivo, ricordando vagamente la carica trasgressiva dei conterranei Hammerfall, la sezione ritmica non spinge troppo sull’acceleratore rimanendo in media velocità. Ottima l’interpretazione del singer, in grado di alternare note pulite ad acuti straziati, spingendo al limite la sua voce, specie nel buon ritornello che si stampa subito in testa nonostante la semplicità di fondo, inoltre risulta di grande impatto sonoro il corposo basso di Envall, sempre in prima linea, pronto a destare attenzione e a elevare la qualità del brano. Ma ogni musicista fa la sua discreta figura, lasciandosi andare all’hard ‘n’ heavy più tradizionale, anche se l’assolo di chitarra questa volta non brilla, decretando comunque la riuscita di una buonissima canzone, sicuramente capace di colpire al primo ascolto. Il testo horror è ben calibrato e mette un brivido sulla pelle. Narra di un luogo maledetto, dove alcuni bambini si sono avventurati per un’esplorazione, ma si sono addentrati troppo nella valle delle tenebre e sono stati divorati dalle stesse. Spariti nel nulla, inghiottiti dalle cave oscure di quei terreni, le loro anime sono andate perdute, rubate da chissà quale mostruosa presenza. Dopo giorni di ricerche alcuni di essi vengono ritrovati ma quei ragazzini non sono più gli stessi, perché hanno la mente alterata e gli occhi vitrei, come se fossero posseduti da un demone che hanno osato disturbare. La verità non verrà mai a galla e rimarrà affogata nel mistero più buio. Sembra di leggere un racconto di H. P. Lovecraft tanto è alta la tensione ed ecco che la metafora del brano prende forma: la troppa curiosità è deleteria e bisogna dunque saper gestire i propri impulsi e i propri istinti, prima di perdere ciò che si è. “Fatal Race” è introdotta dalla potenza della batteria e subito intervengono le chitarre sparate a mille e infine la voce, in questo caso acida, del vocalist Hamstrom che si diverte ad imitare Rob Halford negli acuti sporchi. Refrain fresco e d’impatto, ma soprattutto velenoso, capace di innescare risse da strada quando meno te lo aspetti, cantato in pulito e sorretto da chitarre che più compatte si muore, mentre la batteria continua a dirigere la violenta sezione ritmica. Ma non finisce qui, perché assistiamo a grandi incroci sonori tra Beaird e Rudhede che violentano gli strumenti per quattro minuti, raggiungendo poi l’orgasmico solo di Maiden-iana memoria. Ma tra le strofe prende forma la sagoma degli Axewitch di “The Lord Of Flies” (1983) e di “Visions Of The Past” (1984) o l’irruenza ascoltata oltre trenta anni fa nel primo omonimo album dei Torch (anch’esso uscito nel 1983), segno che la Svezia ha sempre saputo consegnare grandi band al mondo discografico. “Fatal Race” ha l’attitudine giusta per farci tornare indietro nel tempo, è veloce, è sporca, è genuina e possiede anche delle belle linee melodiche. Le liriche sono una goliardica metafora di vita, a cui la tradizione metal ci ha abituati, in bilico tra critica sociale, tematiche giovanili e dilemmi esistenziali, laddove l’esistenza umana è paragonata a una gara fatale su dei bolidi che infrangono la barriera del suono e cavalcano i venti, scrutando il paesaggio dall’alto. La sfida è contro il tempo, bisogna girare la ruota del fato e buttarsi rischiando la morte su questa landa dimenticata dagli Dei. Basta un solo errore ed è finita, si finisce dritti tra le fiamme dell’inferno, perciò bisogna essere preparati, sicuri di sé, avere le idee chiare e soprattutto essere fortunati, perché il destino non guarda in faccia nessuno. Si prosegue imperterriti con “Prove I’m Better”, dall’apertura ipermelodica in stile hard rock anni 70, davvero avvincente e che si snoda in una struttura sensuale e orecchiabilissima, dotata di un pre-chorus e un ritornello dalla zuccherosa melodia AOR che colpisce dritto al cuore. Un cuore che palpita di amore incondizionato verso il verbo Priestiano (Vedere “You’ve Got Another Thing Coming”) dove l’ammorbidimento della sezione ritmica è una conseguenza ovvia e le chitarre dal riffing tagliente dettano gli ordini su tutto. Scheletro armonioso per un brano compatto ed efficace, in grado di risvegliare antiche memorie, nel quale il bell’assolo di Rudhede non è altro che la ciliegina sulla torta. Il testo battagliero e goliardico guida la musica, in una specie di combattimento mentale per dimostrare di essere cambiati, di essere diventati persone migliori. E’ proprio nel momento del dolore che un uomo deve dare il meglio di sé per percorrere il giusto cammino, la via della gloria interiore. I limiti che ognuno di noi si impone non sono altro che barriere mentali perché il vero nemico di noi stessi è la mente, perciò bisogna lottare per trovare la forza e riempirsi di odio per sferrare un gancio e buttare a terra l’avversario, di qualunque cosa si tratti, e erigersi sopra la folla smorzando quei sorrisetti da presa in giro. La sezione melodica non si esaurisce qui, perché è giunto il momento power-ballad con la toccante “Silence Of The Night”, aperta da un delicato arpeggio e dalla voce sognante del cantante, molto buona la melodia dall’antico sapore anni 70. Dopo il primo ritornello il brano si carica con l’intervento della batteria che preavvisa un imminente velocizzazione, dunque si cambia registro con una sterzata improvvisa che fa da ponte per la scossa che tutti si aspettano. Ecco, infatti, che emergono le chitarre elettriche a dar man forte, rendendo corposo e carico di energia la ballata. Gli echi della N.W.O.B.H.M. tornano prepotenti trasformando completamente la concezione di “Silence Of The Night” in un heavy sparato a mille sulla scia dei Judas Priest di “Stained Class”. La foga sonora si esaurisce in breve, giusto il tempo di un refrain rafforzato, poi il ritorno all’arpeggio iniziale che sfuma decretando la fine di un pezzo dall’animo struggente pienamente riuscito incentrato sui consigli che la notte porta dopo una rottura amorosa. La notte e le stelle osservano dall’alto gli amanti, cullando i tristi pensieri, ma non c’è niente di cui aver paura. La colpa non è di nessuno eppure nell’aria si sente odore di vendetta e odio, la gente è cieca in fatto di emozioni ma il tempo aggiusta tutto. Bisogna rialzarsi e camminare a testa alta, la caduta segue il dolore della perdita di qualcuno che, oramai, non può più essere trovato e ci si ritrova soli a contemplare le stelle. Rialzarsi e odorare le ceneri che sono state bruciate vivendo in un costante pericolo ma riappropriarsi della propria vita è d’obbligo, anche se questo è un percorso senza fine che conduce all’inferno della solitudine. Fraintendere i sentimenti è roba frequente, ognuno conosce le sue verità e ognuno fa la sua scelta. Si torna a spingere sull’acceleratore con l’emblematica “Accelerated”, un macigno forgiato nell’acciaio pesante e dalle tinteggiature oscure. I passaggi dello scheletro musicale sono selvaggi, così come la voce estesa di Hamstrom, sempre bravo nell’interpretazione, anche la batteria di Andersson è violenta. Le asce restano sempre in primo piano e sono decorate dal corposo basso di Envall regalando potenza e suntuosità alla sezione ritmica. L’atmosfera sospesa in fase centrale colpisce l’ascoltatore e lo prepara alla seconda fase della canzone nella quale il singer canta sussurrando, accarezzando le note, per giungere a un chorus robotizzato (per via degli effetti vocali) davvero semplice ma coinvolgente. La traccia più lunga dell’album è un concentrato di vitalità ed estasi battagliera, un inno alla libertà cercata e raggiunta col sacrificio e il duro lavoro. L’energia, agognata da tanto tempo, cresce dal terreno che si è calpestato, infrangendo la fiducia in un sogno che mai si avvererà e lottando per la realtà. E’ tempo di partire prima di essere devastati, è tempo di gridare e ribellarsi alla sottomissione e all’elemosina. Nessuno dei nemici realizza di essere vicino alla fine, eppure hanno gettato i dadi e ora ne devono pagare le conseguenze per il male causato, tutti i guerrieri sono chiamati in causa e radunati in branco poiché l’unione fa la forza, perciò basta rimpianti, è il momento di agire per ritrovare la libertà che si è perduta. Dal testo feroce, e in un certo senso criptico, si intuisce una metaforica critica alla società, ossia un qualcosa che spezza sogni e opprime il popolo, così, soltanto spezzando le catene dell’obbedienza, si riuscirà a trovare la giusta libertà che ogni persona merita. “A Far Cry” è una brevissima strumentale carica di nostalgia ed emozione basata sulla chitarra virtuosa di Rudhede, il quale si lancia in un vero e proprio assolo, lungo un minuto e mezzo che aggiunge pathos e magia all’intero lavoro, riuscendo a fare da intro (per la brevità e la connessione alla seguente, difatti, non possiamo parlare di un brano vero e proprio) alla successiva “One Man Army”, dalle ritmiche serrate al limite del thrash metal costituite da continui accelerazioni e rallentamenti che fanno presa sul pubblico al primo ascolto. Ottime le strofe, cattive al punto giusto e cantate con timbro sporco, e buono il corale ritornello che si stampa sulla pelle come un tatuaggio indelebile. Incisiva parte centrale dominata da un solo siderurgico e splendido lavoro da parte di tutti gli strumenti in gioco, mentre il finale, nel quale viene protratto e trascinato a lungo il chorus, è destinato a imporsi su tutto per via della sua pesantezza thrashy decorata dall’intervento di numerosi cori (dei dannati) che sembrano usciti da un’opera targata Metallica o Anthrax. “One Man Army” è espressione individuale di un uomo che osa ribellarsi, esprimere il proprio odio e sputarlo in faccia ai viziosi secondini (o guardiani) del luogo definito sacro. Soltanto lui ha il coraggio di alzare la testa e di scagliarsi contro di loro, prepotenti e dittatori, con un unico obiettivo: rendere giustizia. Egli un Santo nato per la verità e si sta battendo per dimostrare tutto quello che c’è di sbagliato al mondo, erigendosi sul popolo e guidandolo alla rivolta. Le liriche sembrano la prosecuzione di quelle di “Accelerated”, infatti, in un certo qual modo, i due brani sembrano legati dalla stessa sete di giustizia e voglia di gridare a squarciagola le frustrazioni della popolazione e di immolarsi per la libertà individuale ma anche sociale. Si arriva all’unica cover del disco, la bella “I Don’t Know” del mitico Ozzy Osbourne e traccia apripista del suo debutto solista, lo storico “Blizzard Of Ozz”, pubblicato nel 1980, dopo appena due anni dalla dipartita dai Black Sabbath e realizzato con una formazione straordinaria, con Lee Kerslake (Uriah Heep) alla batteria, Bob Daisley (Rainbow, Black Sabbath, Uriah Heep, Gary Moore, Yngwie Malmsteen) al basso, Don Airey (Zeno, Whitesnake, Helix, Thin Lizzy) alle tastiere e Randy Rhoads (Quiet Riot) alla chitarra. La versione dei Kairos rimane fedele all’originale superando la prova a pieni voti e dando la giusta carica, le chitarre spingono che è una bellezza ma tutti i ragazzi, in definitiva, si tolgono dalle spalle il peso degli illustri predecessori che la incisero trentacinque anni fa, portando a casa un gran pezzo. Lo scheletro della canzone è classico, le strofe sono veloci e dirompenti, il refrain d’impatto, il tutto intervallato da un mistico cambio di tempo nella parte centrale che dà il via a un assolo pregevole. Il basso macina km e rifinisce alla perfezione l’armatura di questa vecchia traccia, irrobustita da una buona produzione che sembra far rivivere quei tempi, come se gli anni si fossero fermati e il giovane Randy Rhoads (R.I.P.) fosse ancora tra noi a strimpellare la sua chitarra. Non so per quale motivo si è scelto di rifare proprio questa cover ma devo ammettere che suona dannatamente bene, inoltre il testo si associa abbastanza ai temi trattati in “Wicked Callings”, visto che il tutto è incentrato sulla ricerca di verità e di un futuro speranzoso. Ma è difficile dare risposte, nessuno può conoscere ciò che avverrà, Del domani non v’è certezza, scriveva Lorenzo De’ Medici secoli fa, perché ci sono dei significati reconditi dietro ogni cosa, significati che nessun uomo può interpretare poiché la vita è sempre soggetta a cambiamenti. Il destino non è scritto, l’esistenza è una ruota che gira alla rinfusa. I miracoli, così come i profeti, sono falsità. Chiude il lavoro l’atipica (almeno per i canoni dei Kairos) “Satisfaction Heaven”, glam metal song dall’incedere solare e dalle contaminazioni punk rock, grazie all’attitudine sporca e genuina ma che sarebbe perfetta per un disco di hard rock melodico per via della gioiosa melodia del ritornello, molto 70’s in stile Boston ma anche Journey, e strofe che si contraddistinguono dall’andamento generale dell’album perché briose e vivaci, strutturate su continui cambi di tempo che interrompono la pomposità del rock rallentando e creando un riffing tipicamente metal. Parliamo di un brano versatile, dalla forma tripartita, influenzato da tre generi diversi come l’heavy metal, il rock classico e condito con una spruzzata di punk, perciò risulta essere una traccia interessante e molto piacevole, senza contare le buone prestazioni dei singoli membri, ognuno col proprio spazio e in grado di mettere in luce le proprie qualità. Un altro inno alla notte, questa volta dalla carica positiva e scanzonata, alla ricerca di sogni e speranze a lungo desiderate e finalmente avverate grazie alla forza d’animo che illumina da dentro e che coinvolge l’intera folla radunata grazie alla passione per la musica. Tutti pronti a festeggiare in un’orgia di emozioni incontrollate derivate dalla musica stessa e poi condivise, col sorriso stampato in volto si illumina la notte, le passioni ardono come stelle e, in coro, ci si lascia cullare tra le note in una sorta di paradiso. E’ l’effetto che fa la musica, cioè tende ad unire le folle e a colmare i vuoti, e la notte non è altro che un pretesto per festeggiare cantando a squarciagola liberandosi delle frustrazione della vita. Anche se “Satisfaction Heaven” risulta un po’ fuori contesto, dal punto di vista musicale, rispetto alla struttura del disco, dal punto di vista tematico invece è ben contestualizzata perché ripropone il tema della foga notturna, della ribellione e dell’unione pronta a scattare al fine di raggiungere una realizzazione non solo individuale ma anche corale. Questo inno alla musica, e alle soddisfazioni che comporta, è un encomio adatto a porre la parola fine sul lavoro esaminato.
Dunque, giunti a questo punto, è bene gettare le ultime impressioni sul primo album di questa band svedese. I Kairos sono giovanissimi, avranno modo di migliorare sotto alcuni aspetti per raggiungere la piena maturità artistica, ma già da questo esordio se ne intuiscono le capacità, nonché le preziose idee che sono alla base di tale lavoro. “Wicked Callings” è un album onesto, semplice da assimilare e dal tiro giusto, che ha il pregio di glorificare un tipo di heavy metal appartenente a qualche decade fa, seguendo una tradizione ormai fin troppo scontata ma pur sempre piacevole o addirittura sacra. Non ci si deve aspettare grandi novità da un’opera del genere, questo è metallo classico dall’attitudine primordiale, poco esigente ma dotato di buonissimi spunti che si fanno apprezzare non poco. Le dieci tracce che compongono il debutto di questi ragazzi sono ben calibrate, dalla composizione solida e poggiate su belle idee melodiche, inoltre sono suonate con tecnica e soprattutto passione, laddove ogni musicista fa la sua ottima figura, perciò trovo efficace ogni strumento, dal basso corposo alle chitarre taglienti, dall’impetuosa batteria al versatile timbro di Hamstrom, perfetto per il genere e dotato di una grande estensione vocale. Se le premesse sono queste, credo che i Kairos faranno molta strada, magari prestando più attenzione alla struttura dei singoli brani, rendendoli meno semplici e più complessi, oppure migliorando alcuni punti in fase di song-writings. Le basi ci sono e, tenendo presente che questi ragazzi sono davvero giovani, direi che “Wicked Callings” è davvero un buon album che rappresenta un interessante biglietto da visita per il combo. Gli svedesi, al giorno d’oggi in campo rock, sono probabilmente i migliori al mondo e difficilmente deludono le aspettative, perciò la band di Goteborg si inserisce di diritto nell’ennesimo esempio di qualità proveniente dalle terre nordiche. Come accennato in apertura di recensione, questi ragazzi recuperano una vecchia tradizione capace di mischiare l’hard rock anni 70 con l’esplosione della prima N.W.O.B.H.M. (e con i Judas Priest sempre nel cuore) per poi riproporla al pubblico, fin troppo esigente, di oggi. Ci vuole coraggio perché si rischia di risultare (soprattutto alle orecchie di un pubblico giovane) anacronistici, non a caso molti la etichettano come Nuova vecchia scuola e a me, che sono un fondamentalista pur ascoltando di tutto, dal rock più leggero a quello più estremo, fa godere da pazzi. Auguro ai Kairos una lunga carriera.
1) Can't Contain
2) Reaching Deeper
3) Fatal Race
4) Prove I'm Better
5) Silence of the Night
6) Accelerated
7) A Far Cry (instrumental)
8) One Man Army
9) I Don't Know (Ozzy Osbourne cover)
10) Satisfaction Heaven