JETHRO TULL

This Was

1968 - Chrysalis

A CURA DI
SANDRO PISTOLESI
25/01/2017
TEMPO DI LETTURA:
5

Introduzione recensione

Spesso mi vien da pensare che alla fine degli anni sessanta, sulla Gran Bretagna sia atterrata un'astronave aliena, dove scaltri omini verdi si sono mescolati fra la popolazione. Questa potrebbe essere una spiegazione plausibile riguardo alla innaturale germogliazione di talenti musicali nati in quel periodo nella terra di Albione. In quegli anni sono emerse tutte le migliori band della storia del progressive rock, basti pensare Genesis, Yes e EL&P, e alla band seminale del genere, i King Crimson. Ma anche le radici dell'hard rock e conseguentemente dell'heavy metal nascono in quel periodo, inginocchiamoci di fronte al trittico di band che ancora oggi influenza chi ama suonare la musica dura, ovvero Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath. Un'altra band destinare a fare storia nacque in quel periodo, i Jethro Tull, fondati dall'istrionico Ian Anderson. Andiamo ora a scoprire le origini della band capitanata dal Pifferaio Magico. Alla anagrafe Ian Scott Anderson, il futuro "The Madman Flautist" nasce il 10 Agosto del 1947 a Dunfermline, in Scozia, dalla madre Irene e dal padre James. Nel 1951, la famiglia Anderson si trasferisce ad Edimburgo, attraversando il Firth Of Forth, il suggestivo fiordo scozzese tanto caro ai Genesis. Dopo essersi iscritto alla Roseburn Primary School di Edimburgo nel 1953, il nostro mostra subito di avere un bel caratterino. Raggiunta l'età di otto anni, la famiglia gli impose di frequentare la scuola domenicale di istruzione religiosa, dove era rigorosamente richiesto il tradizionale kilt scozzese. Al giovanissimo Ian non piaceva proprio indossare quel ridicolo capo di abbigliamento che metteva in mostra le sue esili gambe. Dopo un paio di sedute, gli venne la brillante idea di nascondersi fra la vegetazione antistante la chiesa, rimanendovi per tutta la durata della funzione, per poi uscire tranquillamente insieme a tutti gli altri fedeli, come se niente fosse. I primi approcci con il mondo della musica avvennero nel 1956, quando i genitori, fans di Elvis Presley, che proprio in quel periodo stava imperversando sul mercato musicale britannico, gli regalarono un ukulele, perfetta imitazione di quello usato dal Re. Ma Ian non era soddisfatto, e due anni più tardi, convinse il padre a comprargli una chitarra classica. Finite le scuole elementari, gli Anderson si trasferirono nuovamente, per la precisione a Blackpool, una ridente cittadina di mare ubicata nella contea inglese del Lancashire, non molto distante da Liverpool e Manchester. I notevoli risultati ottenuti alla Blackpool Grammar School For Boys nelle discipline matematica e scienze, lasciavano presagire un brillante futuro sul quale Ian puntava molto. Ma l'idea che avrebbe segnato il suo destino gli venne sfogliando le pagine della mitica rivista musicale Melody Maker, una sorta di bibbia per i musicisti britannici degli anni settanta, che con i suoi annunci ha contribuito alla formazione delle band più importanti della storia del rock. Conobbe Jeffrey Hammond (del quale parleremo approfonditamente in un prossimo futuro, in quanto entrerà a far parte dei Jethro Tull nel 1971) e lo convinse a mettere su una band, ispirato dal successo che aveva nei confronti del gentil sesso di una band locale, gli Atlantics. Con Ian in possesso della sei corde regalatagli dal padre, Jeffrey optò per il basso elettrico, che reputava lo strumento più semplice da imparare a suonare (???). Per il ruolo di batterista, fu reclutato un certo John Spencer Evans (altro futuro membro della band), che nonostante fosse nato come pianista, fu convinto da Ian ad imparare a suonare la batteria. Ma le lezioni di batteria ebbero un impatto devastante sulle delicate mani di John Evans, che in cambio di un ritorno alle tastiere, offrì il suo garage da allestire come sala prove. Purtroppo il batterista non fu facile da reperire, e per un po' di tempo, John Evans fu costretto a sedersi ancora dietro alle pelli. Nell'autunno del 1963 nacquero ufficialmente i Blades, che presero il nome dal locale di Londra dove James Bond giocava una partita a bridge nel libro di Ian Fleming "Moonraker: Il Grande Slam Della Morte". Visto che i nostri non riuscivano a trovare un cantante, Ian Anderson decise di provare a cantare e suonare la chitarra. Il trio si fece le ossa nei vari circoli giovanili parrocchiali rivisitando brani blues e jazz. Successivamente, il bassista Michael Stephens degli Atlantic, decise di abbandonare le quattro corde e andare a suonare la chitarra nei Blades, liberando Ian Anderson da un compito di cui non si sentiva del tutto all'altezza. Dopo una fugace e disastrosa apparizione di un certo Paul Jackman dietro alle pelli, i Blades decisero finalmente di mettere un annuncio in modo da reclutare un batterista alla loro altezza. Tra i due candidati, fu scelto Barrie Barlow (anch'egli in seguito futuro membro dei JT). Con John Evans finalmente alle tastiere, i Blades assestarono la formazione, ottenendo un discreto successo. Ma Ian Anderson non aveva ancora ben chiaro quale strada intraprendere, indeciso fra un carriera in Polizia e la pittura. La musica non sembrava essere in grado di fornirgli garanzie per il futuro, poi improvvisamente il suo amore per la sei corde si riaccese, acquistando prima una chitarra elettrica Burn Black Bison e poi una Fender Stratocaster da un certo Lemmy Kilmister, che aveva deciso di passare alle quattro corde. Nel 1965, la band cambiò il nome in John Evan Band, con la lettera "S" volutamente omessa per una migliore assonanza. La line up fu impreziosita da Jim Doolin alla tromba e da Martin Skyrme al sax. Ci fu un avvicendamento anche alla chitarra, fuori Michael Stephens e dentro un altro ex Atlantics, Chris Riley. I nostri beneficiarono anche dell'apporto di un manager, Johnny Taylor, che iniziò a portare i primi ingaggi alla band. Fra avvicendamenti vari in formazioni, serate e concorsi vinti, si arrivò ad una line up che comprendeva Ian Anderson, John Evans, Neil Smith, Tony Wilkinson, Neil Valentine, Barrie Barlow e Glenn Cornick al basso, nato come Glenn Douglas Bernard il 23Aprile del 1947 a Barrow-In-Furness, nella conte inglese della Cumbria, sulla penisola di Furness. Decise di cambiare cognome in quanto tutti lo chiamavano "Barnyard (cortile, aia)", diventando prima Glenn Douglas e poi Glenn Cornick, prendendo il cognome del patrigno. All'età di quindici anni iniziò a suonare la chitarra, poi, un anno dopo si dedicò allo studio del basso elettrico. Dopo aver suonato in qualche band locale, nel 1965 si trasferì a Blackpool dove formò gli Hobos, finendo poi con i John Evan Band, che nel frattempo avevano variato nuovamente il nome in John Evan Smash e dove iniziava a manifestarsi una notevole attitudine alla composizione di materiale inedito da parte di Ian Anderson che nel frattempo si vide saldare un debito da un conoscente a corto di soldi con un flauto. Quello che allora sembrava un insignificante evento, segnerà in positivo la vita di del Menestrello Scozzese. Ian provò a portare il flauto sul palco, senza però ottenere risultati soddisfacenti. Ma con il tempo, iniziò ad affinare lentamente la sua abilità con il flauto, ritagliandosi un prezioso spazio nella scena underground. Iniziarono le prime registrazioni, ed il gruppo attirò le attenzioni del chitarrista Mick Abrahams, che entrò a far parte della band. Il nuovo axeman nasce a Luton il 7 Aprile del 1943, come Michael Timothy Abrahams. Sin da piccolo fu affascinato dalla carismatica figura di Elvis Presley, di cui ne imitava perfettamente le movenze. Arrivato al giorno del ventunesimo compleanno, la famiglia gli propose di scegliere il regalo fra un lussuoso party ed una chitarra. Senza pensarci sopra, scelse una Gibson SG, con l'intento di fare della musica la sua professione. Mick si portò dietro anche un suo ex batterista, Clive William Bunker, nato a Luton il 30 Dicembre del 1946. Come gran parte degli aspiranti musicisti, il nostro iniziò dalla chitarra, ma gli scarsi risultati lo dirottarono alla batteria. Ma la band non procurava gli introiti sperati, tutti i membri si procuravano lavoretti di fortuna per racimolare qualche sterlina utile ad arricchire le loro attrezzature, mentre John Evans nel 1968 decise di sciogliere la band per dedicarsi agli studi, proprio pochi giorni dopo aver iniziato le registrazioni di un singolo con il produttore Derek Lawrence, che proprio nel momento in cui la band si scioglieva, aveva ottenuto un accordo con l'etichetta MGM. La label facente parte dell'impero cinematografico Metro-Goldwyn-Meyer, vedendo discrete potenzialità nella ormai ex John Evan Smash, pretese di pubblicare ugualmente il singolo, qualunque fosse il nome della band. Non badando tanto al nome, i nostri ultimarono le registrazioni del singolo "Aeroplane", registrando successivamente una composizione di Mick Abrahams, intitolata "Sunshine Day", che fece innamorare il produttore Derek Lawrence. Durante le serate, i nostri si esibirono con il moniker "Navy Blue", ma era giunto il momento di affrontare la questione nome in maniera seria ed approfondita. All'inizi del 1968, il manager Dave Robson suggerì il nome "Jethro Tull", prendendo spunto da un agricoltore risalente al 1700. Alla band il nome piaceva, suonava bene, evocando atmosfere pastorali e campagnole. Andiamo ora a scoprire le origine dell'uomo, che in maniera quasi casuale ha fornito il nome ad una delle band più significative della storia del rock. Jethro Tull nacque a Basildon, nella contea dell'Essex meridionale a circa quaranta chilometri da Londra, a Marzo del 1674, purtroppo non è possibile stabilire il giorno esatto, in quanto il suo certificato di nascita è andato perduto. Dicerto però sappiamo che i genitori erano Jethro Senior e Dorothy Tull e che fu battezzato il 30 Marzo del 1674 presso la Basildon Church. Vivendo in una casa di campagna, il piccolo Jethro era da sempre stato attratto dall'agricoltura. Dopo essere stato iscritto all'albo degli avvocati, durante un viaggio in Francia ed in Italia il vedere tanti campi coltivati pieni di ortaggi riaccese la sua passione per l'agricoltura. Durante i vari soggiorni studiò a fondo i metodi di coltivazione francesi ed italiani, e una volta ritornato in patria, appese la toga di avvocato al chiodo, dedicandosi a trecentosessanta gradi all'agricoltura. Il 26 Ottobre del 1699 si sposò con Susannah Smithe, dalla quale ebbe un figlio maschi e quattro femmine. La famiglia Tull si trasferì in una ridente fattoria ubicata a Howberry, nell'Oxfordshire, dove venne fuori tutta la sua leonardiana intelligenza che lo portò ad ideare macchinari ed espedienti che resero i suoi raccolti più abbondanti rispetto agli standard. Nel 1701 inventò una macchina seminatrice. La geniale invenzione effettuava un foro a una profondità specifica, depositando un chicco e ricoprendo tutto alla fine dell'operazione, arrivando a seminare ben tre file alla volta. Grazie alla seminatrice, i suoi raccolti incrementarono una produzione superiore dell'800% rispetto alla semina manuale. Inoltre introdusse l'utilizzazione dei cavalli al posto dei buoi e inventò una macchina tirata da un cavallo per pulire la terra ed eliminare le piante infestanti. Queste e molte altre sue invenzioni, insieme gli innovativi metodi di coltivazione furono racchiusi nel libro "New Horse Hoeing Husbandry" pubblicato nel 1731. Per uno strano gioco del destino Jethro Tull era anche un appassionato di musica, per la precisione amava suonare l'organo. Il pioniere dell'agricoltura moderna si spense a Shalbourne il 21 febbraio del 1741. Ritornando al 1968, per un errore più o meno volontario del produttore Derek Lawrence il primo singolo "Aeroplane" fu incredibilmente pubblicato dalla MGM con il moniker Jethro Toe. Un altro errore fu commesso nei crediti del brano, dove assieme a Ian Anderson veniva accreditato Glenn Cornick con il vecchio nome Len Barnard. Tutti questi goffi errori da parte di Derek Lawrence e della MGM portarono ad un inevitabile divorzio. Poco convinti dell'operato della label, i soci Terry Ellis e Chris Wright decisero di dissociarsi dalla MGM, fondando la Chrysalis Productions, prendendo poi i Jethro Tull sotto la propria ala e proponendogli di incidere un long playing. Inizialmente però non fu tutto rose e fiori per Ian Anderson. Alla Chrysalis vedevano come leader della band Mick Abrahams ed inoltre non erano convinti riguardo all'uso del flauto all'interno di un contesto musicale blues. Il nostro si mise a lavorare alacremente sui minimi particolari, in modo da conquistare l'ambito trono di leader del gruppo. Oltre al flauto, iniziò a suonare anche l'armonica, eseguendo le parti stando in piedi su una sola gamba. Questo strambo modo di suonare ed una buona dose di grinta sul palco, fecero sì che il nostro attirasse su di se l'occhio della stampa. Ian Anderson iniziò a contornarsi di strumenti inusuali in modo da attirare una maggiore attenzione sulla sua eccentrica figura. Le vecchie chitarre erano ormai un ricordo, il suo arsenale comprendeva flauti, armoniche, una sveglia (?), una bottiglia d'acqua, meglio se bollente (??) ed un "claghorn", un innovativo strumento ibrido da lui brevettato, ottenuto dal connubio di un flauto in bambù, un bocchino di sassofono ed un clacson a tromba di una bicicletta. Invero, la paternità di questo strumento non ci è ben chiara, in quanto sia Ian Anderson che Jeffrey Hammond ne rivendicano la paternità. Grazie all'istrionico Anderson, la band iniziò a ritagliarsi uno spazio importante all'interno del movimento musicale britannico, ottenendo l'opportunità di suonare di spalla ai Pink Floyd. Nel frattempo, Ellis e Wright stipularono un contratto per i Jethro Tull con la Island per l'incisione di un disco, riservandosi i diritti della distribuzione e di tutte le operazione inerenti all'incisione e alla produzione, di cui si occupò personalmente Terry Ellis, usufruendo di un "prestito" di mille sterline da parte del padre, dopo che alcuni produttori di fama mondiale avevano declinato gentilmente l'invito. Nell'estate del 1968, Jethro Tull e staff si riunirono nei Sound Techniques Studio, ubicati a Chelsea, uno dei più esclusivi distretti di Londra, dove iniziarono i lavori per il disco e dove Ian Anderson e Mick Abrahams si contendevano la leadership della band a colpi di flauto traverso e schitarrate blues. Chi la spuntò? Il fatto che questo sarà l'unico disco con note blue della band e che il Chitarrista di Luton lascerà la band poco dopo aver terminato il disco la dice lunga, nonostante il duo Ellis- Wright spingesse inopinatamente per sostituire il Menestrello Di Dunfermline, cercando di consegnare lo scettro ad Abrahams. Il fatto che solo tre dei dieci brani siano stati composti in collaborazione è un altro sintomo di come i due non legassero fra di loro, inoltre, pare che ci fosse anche un po' di acredine fra chi suonava la chitarra ed il basso. Nella aspra lotta fra il blues ed il jazz, spuntò un terzo incomodo, il folk, che in sordina ne uscirà vincitore, delineando le future sonorità dei nostri. Anche il titolo scelto per l'album è più che eloquente: "This Was (Questo Era)", come dire, questo è quello che eravamo, non sentirete mai più i Jethro Tull suonare del blues. Per rendere migliore il prodotto finale, fu ingaggiato David Palmer, che si occupò degli arrangiamenti dei fiati sul brano "Move On Alone". Le liriche insolitamente brevi e sbrigative, sembrano voler lasciare spazio alla musica e seguono quasi tutte un unico filo conduttore che ci porta dritti verso una delusione amorosa che ha lasciato un segno indelebile nel cuore della figura maschile. Dopo questa lunga ma doverosa introduzione, è giunto il momento di analizzare il primo long playing dei Jethro Tull.

My Sunday Feeling

Ad aprire le danze è "My Sunday Feeling (Il Mio Umore Domenicale)" un travolgente rock blues firmato Anderson contaminato dalle affascinanti trame del flauto traverso. I grintosi riff sparati dalla chitarra di Abrahams vengono sostenuti da una complicata ritmica dai sentori jazz e ricamati dai sospiri del flauto, che mettono un deciso contrappunto alla fine di ogni capoverso delle strofe. Con la sua ormai inconfondibile timbrica, Ian Anderson ci canta dei postumi di un Sabato sera da leoni, che pare sia una cosa del tutto abituale, in quanto il nostro sa già che sarà colpito dal traumatico post sbornia che rovinerà l'ennesima Domenica, passata a cercare di ricordare cosa sia successo la sera precedente. Nel ritornello, dove la parte strumentale rimane pressoché invariata, rientrando nei canoni del blues, il nostro si domanda a più riprese se qualcuno sa dirgli dove Diavolo si sia addormentato, cercando aiuto in una sigaretta, sperando che questa riesca a schiarirgli le idee. Dopo circa un minuto e mezzo viene fuori tutta l'anima blues di Mick Abrahams, che si dilunga in un prolungato assolo che sembra provenire direttamente dalle rive del fiume Mississippi. Clive Bunker, accompagna con una ritmica jazz massacrando la pelle del rullante, impreziosito dal sinuoso giro di basso di Mr. Glenn Cornick. Un preoccupato Ian Anderson, se pur in maniera meno incisiva, ricama con il flauto traverso, inseguendo l'amico nemico chitarrista per tutto l'assolo. Ritornano strofa e ritornello, dove viene evidenziato il disagio provocato dai postumi di un Sabato vissuto fra gli eccessi, con il Cantastorie Di Dunfermline che arriva addirittura ad implorare aiuto. Con poche parole messe insieme a modo giusto, il nostro riesce a dipingere in maniera esaudiente quello che almeno una volta ha colpito ognuno di noi in età adolescenziale, con quel fastidioso cerchio alla testa che caratterizzava in maniera negativa la Domenica, un giorno di festa per gli adulti, un calvario per i giovani. L'ormai classico malumore domenicale fatica ad andarsene dalla sua testa. L'unica soluzione pare sia quella di infilarsi nel suo caldo letto, cercando di riordinare le idee e sperando che quella noiosa sensazione esca nella sua testa. Ma tutti sappiamo che la prossima Domenica saremo nuovamente a parlare del pessimo umore domenicale di Ian Anderson. Nella parte finale del brano, Glenn Cornick si prendo il suo momento di gloria, rievocando la sinuosa partitura di basso che ha reso celebre il brano "Pink Panther Theme" di Henry Mancini. Dopo qualche passaggio in solitario, il nostro viene affiancato dal Drummer Clive Bunker, che torna ad accompagnare in jazz style, mentre flauto e chitarra vanno di pari passo fino al brusco gran finale. Direi un ottimo biglietto da visita, senza ombra di dubbio la migliore traccia del platter.

Some Day the Sun Won't Shine for You

Si continua con "Some Day The Sun Won't Shine For You (Un Giorno O L'Altro Il Sole Non Splenderà Per Te)", una ballata country-blues che rievoca atmosfere da saloon firmata ancora da Ian Anderson, che stavolta abbandona il flauto in virtù di quell'armonica a bocca che in sede live amava suonare stando in piedi su una sola gamba. Il particolare arrangiamento del brano rievoca la celebre "Key To The Highway" scritta dal pianista blues Charlie Segar nel lontano 1940 e rivisitata con successo un anno dopo dal blues man Big Bill Broonzy. Basso e chitarra si fondono in uno scolastico tema blues, servendo su un piatto d'argento l'accompagnamento ideale per un assolo di armonica. Consumato dalla precedente performance, Clive Bunker si ferma ai box, recuperando energie per il prossimo brano e facendo sbizzarrire i compagni. Anche in questo caso le liriche sono ridotte ai minimi termini, lasciando spazio alle scorribande old Texas del Menestrello Di Dunfermline e la sua armonica a bocca. Forse i malumori domenicali di Ian Anderson hanno provocato ripercussioni sulla sua vita sentimentale, la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che ha portato una temine una storia d'amore. Il nostro prende la decisione più drastica, facendo le valige e togliendo il disturbo. Sfruttando la più classica delle linee vocali blues, Ian Anderson e Mick Abrahams, l'uno di pochi istanti di ritardo rispetto all'altro, ci cantano di questa storia d'amore volta al termine. Paradossalmente, la cosa che più infastidisce Ian è la totale certezza che la sua ormai ex fiamma lo saluterà con un nauseante sorriso stampato in volto, evidenziando che non rimpiangerà affatto i bei tempi passati insieme, mentre lui se ne andrà mestamente con una profonda ferita al cuore. Ma come spesso accade, il tempo è la migliore cura tutti i mali. Con i brutti ricordi ormai alle spalle, il sole è tornerà ad illuminare la sua vita, con la speranza che un giorno, prima o poi, la Stella Infuocata smetta di splendere per lei, oscurando la sua vita come prima aveva oscurato la sua. Dopo aver espletato in maniera sbrigativa le effimere liriche, Ian Anderson torna protagonista con la sua armonica a bocca, disegnando fantastici scenari che ci portano all'interno di uno dei tanti saloon del Far West. Il basso e la chitarra viaggiano all'unisono fondendosi nel caratteristico giro blues che si sposta sulle toniche. Nel finale, le due voci tornano protagoniste, lanciando un maleficio sulla ragazza, mettendola in guardia che un giorno o l'altro, il Sole non splenderà per lei.

Beggar's Farm

La successiva "Beggar's Farm (La Fattoria Del Mendicante)" è la prima delle due uniche tracce firmate Anderson-Abrahams, una raffinata composizione blues rock contaminata dal jazz e dalla musica folk che ci preannuncia quale sarà la strada che Ian Anderson intenderà intraprendere nel prossimo futuro. Basso e chitarra danno vita ad un ridondante tema ossessivo, accompagnato con classe e delicatezza da Clive Bunker con una ritmica dai sentori jazz. Anche in questo brano i nostri danno più importanza la flauto che alle liriche. Come da tradizione blues strofa e ritornello si differiscono poco fra di loro, limitando il cambio ad uno scolastico cambio di tono enfatizzato dal flauto, che nell'inciso si sovrappone alla voce disegnando un'atmosfera sognante. Quando Ian Anderson esula dalle affascinanti sventagliate con il flauto, ci narra le conseguenze della precedente rottura con la sua ragazza. Ora il nostro, ormai senza un tetto dove rifugiarsi, ha trovato ospitalità alla "Beggar's Farm (La Fattoria Del Mendicante)" una azienda agricola che accoglie gli homeless a poco prezzo ed in cambio di mano d'opera. Se pur lascia trasparire una velata dose di disprezzo, nella mente di Ian si aggirano ancora come spettri i ricordi legati alla ragazza. Un vero e proprio tormento che lo portano ad augurarle che prima o poi anch'essa si ritroverà a bivaccare alla Beggar's Farm, e quando accadrò, con l'orgoglio di un leone il nostro si girerà dall'altra parte, sperando nel frattempo di aver trovato un'altra anima gemella. Solo se ella saprà chiederlo con grazia e garbatezza, allora Ian sarà disposto a prestarle orecchio. Al minuto 01:30 una corsa sulle pelli annuncia l'assolo di chitarra, ovviamente di forte matrice blues, con le calde note blue della sei corde inseguite dagli inquietanti sospiri del flauto. Dopo un secondo passaggio di strofa e chorus, Ian Anderson ruba la scena con un nevrotico assolo di flauto, disegnando quelle che saranno le future sonorità dei nostri. Arrivati verso la parte conclusiva dell'assolo, per pochi istanti diminuiscono l'isteria e la frenesia del The Madman Flautist, ma è solo un bluff, il nostro ritorna preparandoci per il finale, andando a concludere in solitario, accompagnato da sensuali gemiti di donna e da una prolungata corsa sulla pelle del rullante che ci porta verso il brusco finale.

Move on Alone

Andando avanti incontriamo l'effimera "Move On Alone (Me Ne Andrò Da Solo)", brano firmato Abrahams, dove il nostro si occupa anche della voce solista. Per rendere meno banale la triste ballata blues i nostri si sono avvalsi della preziosa collaborazione di David Palmer come direttore ed arrangiatore della sezione degli ottoni. Il Chitarrista Di Luton apre con un melanconico arpeggio eseguito con l'inusuale chitarra a nove corde, che rispetto alla sei corde comune ha le quattro corde raddoppiate e il mi cantino più acuto singolo. L'arpeggio viene rafforzato da una incisiva linea di basso e accompagnato con delicatezza da Clive Bunker. Gli ottoni diretti da David Palmer donano un piacevole retrogusto vintage al brano. Il ritornello fa salire leggermente il brano, con gli ottoni protagonisti. Strofa e ritornello si alternano in maniera scolastica per poi lasciare il campo alla sezione di fiati, che in maniera brillante ci accompagna verso l'epilogo, seguita all'unisono dalla chitarra. Con un cantato assai meno interessante rispetto a quello di Ian Anderson, Mick Abrahams ci racconta di una vita andata letteralmente a rotoli, dopo la rottura di una relazione amorosa che perdurava da molto tempo[S1] . La donna, andandosene, ha lasciato una profonda ferita in mezzo al cuore dell'uomo, il quale si trova spaesato, un pesce fuor d'acqua. Tutti i vecchi amici, con il passare del tempo si sono trasferiti, costruendosi una propria vita. Preso dallo sconforto, l'uomo si siede sotto al sole, contemplando la strada da intraprendere. Con un letto vuoto ed un cuore letteralmente ghiacciato, l'unica soluzione è cercare di dare una svolta alla sua vita, ormai piatta come l'encefalogramma di uno zombi. La mancanza di stimoli lo ha portato a trascurare se stesso e la sua abitazione, diventata ormai un porcile. Il dolore e la solitudine sono talmente forti che l'uomo arriva a pensare di non arriverà alla vecchiaia. Stufo di piangere sul latte versato e completamente fuso psicologicamente, alla fine riesce a prendere la decisione più ovvia, quella di andarsene in giro per il Mondo da solo, sperando che chiusa una porta se ne apra un'altra.

Serenade to a Cuckoo

Dopo questo brano che lascia il tempo che trova, incontriamo il primo dei quattro brani strumentali, "Serenade To A Cuckoo (Serenata Per Un Cuculo)" che dall'alto dei suoi 6.08 minuti è il brano più lungo del platter. Si tratta della rivisitazione di un classico del jazzista Rahsaan Roland Kirk, vera e propria musa ispiratrice per Ian Anderson. Se da una parte la natura aveva tolto la vista al polistrumentista statunitense di origini africane, era riuscita a compensare donandogli un immenso talento musicale. Passato alla storia per la sua capacità di suonare fino a tre sassofoni insieme, Kirk è considerato assieme ad Herbie Mann il pioniere del flauto jazz moderno. La sua personalissima tecnica con il flauto traverso ha ispirato moltissimi musicisti nel corso del tempo, tra cui il nostro Ian, che ha imparato a suonare il flauto esercitandosi proprio con il brano in questione. Se vi ascoltate la versione presente sull'album "I Talk With The Spirits", (o meglio ancora la versione live del 1972, facilmente reperibile sul canale Youtube, dove potete vedere con i vostri occhi di che cosa era capace Kirk) vi accorgerete che ci sono alcuni passaggi impossibili da replicare perfino per il nostro The Madman Flautist, specie nella prima parte del brano. Senza contare che in alcuni punti Roland Kirk riesce a suonare armonica e flauto contemporaneamente e a replicare il tipico suono dell'orologio a cuccù con un flauto suonato con il naso, mentre nella seconda parte mixa in maniera strabiliante la voce con il flauto, ottenendo un effetto suggestivo. Ma veniamo alla versione "made in Anderson", che è doveroso sottolineare viene eseguita ad un numero di BPM ridotti rispetto all'originale. Accompagnato da una delle più classiche ritmiche jazz, il Pifferaio Magico dimostra di aver imparato brillantemente a suonare il flauto traverso, rivisitando secondo il suo inconfondibile stile le gesta di Roland Kirk, le cui leggiadre trame sono ispirate al classico suono di un orologio a cucù, che segnala il passaggio delle ore imitando il caratteristico verso del cuculo. Glenn Cornick muovendosi a passi felpati, accompagna con un sinuoso giro di basso le sognati trame del flauto. La chitarra, dopo una prima parte limitata ad un blando accompagnamento, al minuto 02:40 inizia un raffinato assolo che mixa il blues con il jazz, mentre il flauto si limita a preziosi ricami, lasciando il campo alla sei corde. Questo è uno degli extra inseriti dai nostri, in quanto nella versione originale non era previsto un assolo di chitarra, visto che Kirk era accompagnato solo da un batterista e da un contrabbassista. Nella parte finale, Ian Anderson prova ad inserire alcuni lamenti vocali, ma è sin troppo evidente che il risultato è ben lontano alla versione datata 1964, dove flauto e voce si fondevano alla perfezione. Degli esotici sospiri del flauto preannunciano che a breve Ian Anderson tornerà protagonista con un deciso e brillante assolo, riprendendo poi le rilassanti trame sentite nella prima parte del brano. Le note emanate dal flauto svolazzano leggiadre come farfalle risvegliate dal primo Sole primaverile, accompagnandoci lentamente verso l'epilogo di un brano rivisitato con intelligenza e personalità.

Dharma for One

Si continua con un altro brano strumentale, "Dharma For One (Dharma Per Uno)", firmato a quattro mani da Ian Anderson e Clive Bunker, il quale durante il brano si cimenta in un sostanzioso assolo di batteria. Il titolo lascerebbe pensare ad un tributo a Ritchie Dharma, una delle numerose meteore passate per la John Evan Band, ma invero trae ispirazione al libro "The Dharma Bums (I Vagabondi Del Dharma)", scritto dallo scrittore statunitense Jack Kerouac nel 1958, dove vengono condensate vaste meditazioni sul buddhismo, tanto da far sì che il libro venisse inteso come una sorta di bibbia del misticismo dalla beat generation. Chissà se anche gli autori della splendida serie Tv "Lost" si sono ispirati al libro (o magari alla canzone in questione) per il misterioso "Progetto DHARMA". Il brano parte in quarta, con un travolgente lavoro da parte della sezione ritmica a supportare le scorribande di Ian Anderson con il flauto. Dopo un prima parte dove si limitava a sparare acidi accordi sporcati dal distorsore, la chitarra inizia un bellissimo duetto con il flauto. Giocando intorno al medesimo tema, i due strumenti sembrano inseguirsi velocemente, dandoci l'idea di due uccelli che si librano leggiadri in aria durante un corteggiamento amoroso. Dopo un effimero stacco, dove basso e flauto si muovono brillantemente all'unisono, si riparte con la strofa, che poi lascia il campo a Mr. Bunker, che ci delizia con un a prolungata corsa sulle pelli, solamente l'antipasto dell'assolo che vi ho preannunciato precedentemente. Il minuto 01.09 è un momento storico, in quanto Ian Anderson esegue un assolo con il "claghorn", il bizzarro strumento ibrido di cui non ci è ben chiara l'origine. In effetti, il risultato ottenuto è veramente spiazzante, sembra di sentire un flauto con imita la voce di un sassofono! Al minuto 01:27, Clive Bunker inizia un prolungato assolo di batteria, un classico degli anni settanta che purtroppo con il passare del tempo è andato man mano a scomparire dai canoni della musica rock, se non in qualche sporadico live, dove alcuni nostalgici batteristi di vecchio stampo cercano di riportare in auge il drum solo. Dopo aver massacrato le pelli di rullante e tom tom, il nostro rallenta bruscamente i BPM, per poi riprendere il frastornante assolo, accompagnato sporadicamente in sottofondo da bizzarre percussioni e inquietanti schiamazzi. Dopo quasi due minuti passati in perfetta solitudine, Bunker viene affiancato per alcune battute dal compagno di sezione ritmica, Le note pastose del basso ci arrivano allo stomaco, e l'effetto di disturbo si fa ancora più pesante quando sopraggiunge Ian Anderson con i micidiali schiamazzi del "claghorn". La parte finale del brano rispecchia perfettamente la musica di fine anni sessanta, con gli strumenti che riescono a disorientarci, catapultandoci in un nauseante viaggio lisergico, a cui pone fine Clive Bunker con un prolungato filler, anticipando il brusco gran finale.

It's Breaking Me Up

Dopo un brano cantato da Abrahams e due strumentali troviamo "It's Breaking Me Up (Mi Sta Facendo A Pezzi)", un brano dove la voce solista è quella del Menestrello di Dunfermline e firmato dal medesimo ma che purtroppo sfocia ancora nelle calde sonorità blues del Mississippi. Il nostro si arma della sua armonica a bocca e inizia a disegnare stanche trame, supportato da una tediosa ritmica blues e da calorosi fraseggi di chitarra che poi andranno a delineare la melodia della linea vocale, confermando la monotonia del genere. Ian Anderson si cala perfettamente nella musica del Delta con i caratteristici e monotoni lamenti antifonali, da risultare quasi irriconoscibile, cantandoci tutta la malinconia susseguente ad una rottura di un legame amoroso, che a questo punto presumo sia il medesimo che fa da collante a tutto l'album. Districandosi fra la scia di note blue, il nostro è ridotto letteralmente a pezzi dopo che la sua donna lo ha lasciato, ma quello che più lo inquieta è scoprire cosa ci sia dentro quella donna che lo ha stregato e ridotto in briciole. Lui la rivede in ogni angolo, ed ogni suo ricordo si tramuta in una letale ferita che lacera il suo cuore. Lui cerca di tenere duro, cerca di non esternare il proprio dolore perché sa, che la donna aspetta solo di vederlo piangere, appostata come un rapace che studia la sua prossima preda. Dopo aver esaurito le lacrime, cerca di trovare conforto in un'altra donna, ma purtroppo la nuova fiamma non possiede nemmeno una minima parte della misteriosa energia con cui lo ha ammaliato la ex. Come la scuola blues comanda, l'inciso si limita ad un semplice salto di tono dove il nostro conferma di essere distrutto. Andando avanti troviamo un caloroso duetto chitarra armonica che fa da bridge ad un assolo di Ian Anderson con lo strumento a fiato inventato nel 1821 dal tedesco Christian Friedrich Ludwig Buschmann. Per chi come me non ama il blues, il brano ci ha già detto tutto quel che aveva da dire. I nostri si dilungano con strofe e ritornelli ricamati dall'armonica, fino a sopraggiungere al sospirato assolo di chitarra. Nella prima parte Mick Abrahams si limita in maniera alquanto banale a scimmiottare il main theme del brano, poi un breve sussulto ritmico apre le porte alla seconda parte dell'assolo, praticamente identico a qualsiasi altro assolo blues, giocando sulle classiche scale diatoniche. Voce e chitarra continuano ad intrecciarsi, accompagnandoci molto lentamente verso il sospirato finale, dove l'armonica si prendere gli oneri di portare il brano verso l'estinzione, seguendo uno scontato graduale calo di BPM.

Cat's Squirrel

Andando avanti incontriamo un altro brano strumentale, "Cat's Squirrel (Lo Scoiattolo Del Gatto)", un brano tradizionale blues rivisitato da Mick Abrahams. Rispetto al precedente è indubbiamente meno ossessivo, con nevrotici fraseggi di chitarra sempre intrisi di note blues ma assai meno tediosi. Le origini del brano si perdono nella notte dei tempi. La paternità è da attribuire a Charles Isaiah Ross, meglio conosciuto come Dottor Ross a causa della sua passione di leggere libri di medicina, un talentuoso polistrumentista mancino blues che spesso amava esibirsi come one man band. Invero, alla sua prima stesura, il brano si intitolava "Mississippi Blues" e il Dottor Ross lo usava come intrattenimento per tirare su il morale dei commilitoni durante le operazioni belliche nel Pacifico. Il brano narrava della sua infanzia in riva al fiume Mississippi, quando, già da bambino, si divertiva a suonare di nascosto l'armonica di suo padre. All'età di nove anni, allargò le sue conoscenze musicali imparando a suonare la batteria e la chitarra.  Nel 1950, dopo aver assistito ad un concerto di K.C. Douglas, fu ammaliato dal riff di chitarra del brano "Catfish Blues" e lo inserì nella sua "Mississippi Blues". Concluso il servizio militare nel 1951, il Dottor Ross formò un paio di band senza successo, che lo portarono a continuare la carriera musicale come one man band, sfruttando le tecniche strumentali apprese durante l'infanzia. Nel 1953 ebbe finalmente l'opportunità di registrare la sua "Mississippi Blues", inserendo anche il riff di chitarra "rubato" a Douglas, sfruttando il fatto che non era ancora stato inciso e depositato. Sull'onda del successo del brano, Ross incise nuovamente il brano sotto il titolo "Cat Squirrel". Solo nel 1964, Ross riuscì ad incidere un album, intitolato "Call the Doctor", inserendo ovviamente nella track list anche il suo pezzo forte. L'album ebbe una notevole influenza su molti musicisti britannici, su tutti Eric Clapton, che rivisitò "Cat Squirrel" tramutandola in un brano strumentale ed inserendola con il titolo "Cat's Squirrel" nell'album di debutto dei Cream "Fresh Cream" uscito nel 1966. Mick Abrahams, ascoltando il disco, rimase a sua volta folgorato dalla canzone e decise di rivisitarla, ignaro delle lontane origini. Solo in futuro venne a sapere che si trattava di un vecchio brano blues composto da Charles Ross, ma con tutti questi passaggi, la versione finale dei Jethro Tull, a partire dalla durata quasi triplicata, ha poco a che vedere con l'originale, se non il brillante riff di chitarra, che come un treno ci investe sin dai primi secondi, supportato in maniera energica e trascinante dalla sezione ritmica. Dopo dodici secondi, il Chitarrista Di Luton abbandona il suntuoso riff di chitarra, lasciandosi andare in un vorticoso assolo pieno di note blue. Le note sparate dal basso di Glenn Cornick tengono testa ai nevrotici fraseggi della sei corde. Dopo circa un minuto, torna a far capolino il riff portante, seguito da una decadente corsa sulle pelli dei tom tom che insieme agli stanchi lamenti della chitarra ci lascia presagire che il brano sta volgendo al termine, ma non è così. Filler di batteria e fraseggi di chitarra si dilungano fino al minuto 02:40, quando il brano sembra estinguersi, attenendosi abbastanza fedelmente alla durata della versione originale. Ma lentamente il brano rinasce come una fenice dalle sue ceneri. Uno psichedelico riff di chitarra aumenta lentamente il numero dei BPM, supportato da decisi filler sulle pelli dei tom. Dopo aver raggiunto la massima velocità, Mick Abrahams rallenta nuovamente, sparando una serie di fraseggi che con la mente ci portano direttamente sulle rive del Delta del Mississippi, fondendosi poi con il main theme che K.C. Douglas si è visto ingenuamente portare via sotto al naso. Successivamente basso e chitarra ritornano ad intrecciarsi dando vita ad un appassionante duello a suon di funambolici fraseggi e supportati da un travolgente lavoro di Mr. Bunker dietro alle pelli. Abusando degli effetti a pedale, Abrahams rallenta nuovamente smorzando la tensione con calorosi fraseggi blueseggianti, che poi lasciando il campo al riff portante che ci accompagna con energia verso il gran finale. Molto strano il fatto che Ian Anderson non abbia approfittato per intervenire con la sua armonica a bocca, in quanto nella atavica versione originale, chitarra e armonica vanno praticamente di pari passo.

Song for Jeffrey

Come si evince dal titolo "A Song For Jeffrey (Una Canzone Per Jeffrey)", Ian Anderson dedica il brano a Jeffrey Hammond, vecchio amico conosciuto a Blackpool con cui aveva condiviso i palchi e le cantine sia con i Blades che con i The John Evan Band. Il brano inizia con esotici sospiri del flauto, accompagnati dai passi felpati del basso. Successivamente, basso, chitarra e flauto si fondono insieme dando vita ad un suggestivo intreccio che si segnala come uno dei momenti migliori dell'intero platter, che purtroppo non viene sfruttato a dovere. Come un ciclone irrompe l'armonica a bocca, anticipando di qualche istante l'ingresso in scena del Vocalist Di Dunfermline, la cui voce sembra provenire da un'altra dimensione, a causa degli effetti e del mixaggio che la confluisce sul solo canale destro. Con una linea vocale epica quanto inquietante e con le parole difficili da decifrare, il nostro ci canta di quanto sia stato doloroso separare il percorso musicale con Jeffrey Hammond. Ma se il destino era stato crudele da far sì che le vite professionali di Ian e Jeffrey proseguissero verso lidi opposti, allo stesso tempo le farà nuovamente congiungere, in quanto il Bassista di Blackpool, nel 1971 entrerà in pianta stabile nei Jethro Tull dopo la dipartita di Glenn Cornick, dando vita poi ad uno dei più importanti album della storia del rock. La strofa mette in mostra un originale wall of sound che mixa la musica psichedelica con il blues ed il folk, delineando proprio in chiusura di album quelle che saranno le future sonorità a venire della band. Nell'inciso il brano cala notevolmente d'intensità, Clive Bunker si limita ad accompagnare solamente con il charleston, lasciando il campo di accompagnare la voce effettata di Anderson agli strumenti a corda. Una corsa sulla pelle del rullante annuncia il ritorno dell'armonica, seguita dalla strofa. Al minuto 01:32 il brano cala nuovamente, è il momento dell'assolo di Ian Anderson con il flauto traverso. Dopo una prima parte in solitario, il nostro viene raggiunto da tutta la band. Il classico accompagnamento ritmico sessantiano e un'acida trama di chitarra accompagnano gli esotici sospiri del flauto, poi Ian Anderson eseguendo un rapido cambio di strumento va riprendere la linea melodica del solo con l'armonica a bocca. Tornano strofa e ritornello seguite da un secondo assolo di armonica e da un finale assolo con il flauto traverso, dove il Menestrello Scozzese disegna rilassanti trame che sfumano lentamente verso l'estinzione, seguite da un improvviso ed effimero ritorno degli strumenti che suggellano il brano all'unisono. "A Song For Jeffrey" fu il primo singolo dei Jethro Tull ad essere pubblicato per la Island Records, ottenendo un soddisfacente successo nel Regno Unito.

Round

A porre il sigillo all'album è "Round (Giro)", un effimero brano strumentale che porta la firma di tutta la band con l'aggiunta del produttore Terry Ellis. Nel brano, Ian Anderson mette in mostra tutta la sua poliedricità, sedendosi dietro al pianoforte, iniziando un brano dove le influenze jazz della band vengono fortemente a galla, rafforzate dall'inusuale accompagnamento da parte della sezione ritmica. Tenendo il tempo in maniera ossessiva su un piatto, Clive Bunker riempie colpendo i bordi dei tamburi, intrecciandosi con i passi felpati del basso, mentre la chitarra segue attentamente il cammino del pianoforte. Dopo trenta secondi, Ian Anderson manda tutti a bere un tè caldo, concludendo in solitario il breve brano strumentale con un melanconica partitura di flauto, che lentamente evapora verso l'estinzione.

Conclusioni

La mia atavica avversità verso il blues fa sì che questo primo album dei Jethro Tull non mi entusiasmi più di tanto. Lungi da me criticare un genere che può considerarsi il big bang della musica contemporanea, si tratta solo ed esclusivamente di gusti personali. Ma del resto neanche i Jethro Tull stessi erano poi del tutto convinti della strada intrapresa, fortemente voluta dal chitarrista Mick Abrahams. Già a partire dal titolo, era facile prevedere che negli anni a venire i nostri avrebbero cambiato decisamente strada, puntando su un folk rock che diventerà il loro marchio di fabbrica, non disdegnando piacevoli capatine nel campo del progressive rock. Ma mettendo da parte i gusti personali, non si può dire che fra i solchi dell'album non traspariscano classe, inventiva e discrete potenzialità. Forse, l'ingombrante figura di Mick Abrahams, che dalla sua aveva l'appoggio da parte dei manager e della produzione, ha tenuto a freno l'estro di Ian Anderson, che comunque per chi scrive esce da vincitore assoluto. Oltre a mettere in mostra un interessante timbrica vocale, il nostro tiene testa alle scorribande chitarristiche dell'amico-nemico ora con il flauto ora con l'armonica, sorprendendoci addirittura con un innovativo strumento di cui ne rivendica la paternità, il claghorn e concludendo con classe sedendosi dietro al pianoforte, confermandosi un polistrumentista completo. Dall'altra parte, Mick Abrahams, il leader mancato tanto voluto da Terry Ellis, se la cava discretamente con la sei corde, cantando senza infamia e senza lode un paio di brani. Il suo stile prettamente ispirato al blues fa sì che le sue trame non ci dicano niente di nuovo, come ad esempio anno fatto agli esordi uno Steve Howe o uno Steve Hackett, tanto per fare un calzante esempio. Il nostro viene spalleggiato egregiamente da Glenn Cornick al basso, che spesso dà vita ad intrecci vorticosi durante gli assolo di chitarra, non limitandosi ai soli compiti ritmici del suo strumento. A completare la sezione ritmica troviamo l'estroso Clive Bunker, che quando esula dalla raffinate ritmiche jazz, dimostra di saper picchiare sulle pelli in maniera decisa e convincente. Veniamo ora alle note anagrafiche dell'album. "This Was" è stato registrato fra il 13 Giugno ed il 23 Agosto del 1968 presso gli studio Sound Techniques ubicati a Chelsea, esclusivo distretto di Londra. L'album è venuto alla luce il 25 Ottobre del 1968 per il mercato del Regno Unito, mentre gli Stati Uniti hanno dovuto attendere il 3 Febbraio dell'anno successivo. La distribuzione è stata affidata alla Island Records, affiancata dalla Reprise Records per il mercato a stelle e strisce. Per la produzione, i nostri sono stati coadiuvati da Terry Ellis. L'art work è opera di Brian Ward, che ha realizzato una idea partorita dalle menti di Terry Ellis e Ian Anderson. La foto ritrae i nostri nelle trasandate vesti di improvvisati clochard, in compagnai di tanti adorabili cagnolini di svariate razze. In alto, spicca con un acceso colore arancione il logo del gruppo, con un logo molto vicino allo "Stencil" di Word. In basso, in verde il titolo ammonente, che ci preannuncia che non rivedremo mai più i nostri in quelle vesti. Tirando le somme "This Was" non è di certo un debutto con il botto, ma neanche totalmente da buttare. Senza ombra di dubbio l'introduzione del flauto da parte di Ian Anderson rende il tutto più originale ed interessante, dando un piacevole tono di brio ad un album che senza l'apporto del flauto sarebbe caduto nell'anonimato. Album consigliato a chi è curioso delle origini dei Jethro Tull e a tutti gli estimatori di Ian Anderson.

1) My Sunday Feeling
2) Some Day the Sun Won't Shine for You
3) Beggar's Farm
4) Move on Alone
5) Serenade to a Cuckoo
6) Dharma for One
7) It's Breaking Me Up
8) Cat's Squirrel
9) Song for Jeffrey
10) Round
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