JETHRO TULL
Stormwatch
1979 - Chrysalis Records
SANDRO PISTOLESI
29/03/2021
Introduzione recensione
Possiamo tranquillamente asserire che i Jethro Tull hanno superato brillantemente l'avvento del fenomeno punk, sciorinando due album di progressive rock folk che si piazzano subito dietro ai capolavori del passato. Nel frattempo, Ian Anderson nell'estate del 1978 in uno dei rari periodi di inattività della band, concentrò tutte le sue forze finalizzando l'acquisto di una tenuta denominata Strathaird Estate, ubicata sull'affascinante ed incontaminata Isola Di Skye, isola scozzese entrata nel cuore del Polistrumentista Scozzese e già omaggiata sul precedente album. Colpito da alcune letture che riguardavano l'acquacultura, Ian decise di ampliare le sue entrate economiche entrando nel mondo del commercio con un allevamento di salmoni, che ben presto si espanse, introducendo un impianto di affumicamento. Dai 4 operai dell'inizio ben presto si arrivò a 400 posti di lavoro, occupati ovviamente dagli abitanti dell'isola, che dopo una iniziale diffidenza lo proclamarono "salvatore" dell'Isola Di Skye. Per la cronaca, la florida attività ha avuto vita longeva, ed il nostro l'ha ceduta agli inizi del nuovo millennio. Come se non ci fossero abbastanza impegni, ci si mise anche suo fratello Robin, che commissionò a lui ed a un suo illustre omonimo, Jon Anderson degli Yes la composizione della colonna sonora di uno spettacolo intitolato "The Water's Edge" per celebrare il decimo anno di attività dello Scottish Ballet. Non fu facile trovare il tempo per il lavoro commissionato, ma una volta rientrato dal tour americano, chiese aiuto a Martin Barre e a David Palmer (viste le sue notevoli capacità orchestrali), mettendosi al lavoro. Per farla breve, il progetto fu un vero e proprio fiasco a causa di una poco professionale organizzazione da parte dell'entourage della Scottish Ballet. In molti, a partire dai due Tulliani coinvolti, si lamentarono a causa dei microscopici e poco evidenti accrediti nelle locandine del progetto. Comunque sia, qualcosa di buono nel progetto ci fu, come ad esempio il segmento finale della suite composto da Palmer, che finirà nel nuovo album con il titolo "Elegy" Intanto, il 22 Settembre del 1978 la band aveva rilasciato il primo doppio live ufficiale, intitolato "Bursting Out (Esplodere)". La track list è composta da tracce registrate in occasione del tour Europeo di Heavy Horses fra il Maggio e il Giugno del 1978, se pur non vi è certezza circa l'esatto luogo di registrazione di ogni singola traccia. Ed è proprio durante questo maledetto tour che per un banale incidente John Glasckok si ruppe un dente. Come di consuetudine, fra una data e l'altra i nostri si dedicavano alla composizione e alla registrazione del nuovo materiale che sarebbe andato a finire sul nuovo album intitolato "Stormwatch (Allarme Tempesta)", lavoro che possiamo considerare un concept album a tema ambientale incentrato su una visione pessimistica del rapporto uomo-natura e che continua in qualche maniera la strada progressive rock folk intrapresa con "Song From The Wood" e continuata poi con "Heavy Horses", andando a chiudere quella che molti sostengono essere una memorabile (forse non voluta) trilogia folk. Se le liriche continuano la tradizione folk intrapresa due anni prima, musicalmente il nuovo lavoro è una sorta di crossover fra il folk rock dei due suoi predecessori ed i futuri lavori che inevitabilmente hanno un sound contaminato dagli anni'80 ormai alle porte. C'è una terribile tempesta in arrivo che sta per abbattersi sull'umanità, tempesta che Madre Natura usa per ribellarsi al cinico interesse dell'uomo verso il progresso e alla noncuranza delle conseguenze che l'industrializzazione ha a discapito dell'ambiente, conseguenze che spesso possono rivelarsi letali per alcune specie animali o floreali ma a lungo termine anche per l'essere umano stesso. Ma purtroppo per i nostri all'orizzonte c'è un'ulteriore minacciosa tempesta che si sta avvicinando per scaricare tutta la sua energia negativa, mettendo a repentaglio l'esistenza di una delle band più significative della storia del rock. Quel maledetto dente rotto, forse fin troppo trascurato, portò una grave infezione che debilitò notevolmente il fisico di John Glasckok. L'infezione raggiunse una valvola cardiaca malformata, presa in eredità dal padre, costringendolo ad abbandonare momentaneamente la band nel bel mezzo del tour, dove il bassista fu sostituito ad interim da Tony Williams. La valvola danneggiata fu sostituita dopo una complicata operazione. Passato un periodo di convalescenza, non affrontata in maniera esemplare invero, John provò a rientrare nella band mentre era al lavoro sui brani per il nuovo album in contemporanea con l'ultima parte del tour americano che si concluse a San Antonio il Primo Maggio del 1979. Purtroppo questa fu l'ultima presenza di John Glasckok sul palco con i Jethro Tull. Accerchiato forse da persone poco raccomandabili, il Talentuoso Bassista ignorò più volte i consigli di Ian Anderson che lo invitava a condurre una vita più sana e consona con il suo stato di salute. L'abuso di alcool, la marjuana e i numerosi festini, di certo non favorirono una soddisfacente ripresa fisico-mentale, in più ci si misero i problemi di rigetto della nuova valvola impiantata, un letale mix che mise a dura prova il fisico del bassista e la pazienza di Ian. Pur avendo dato il contributo su tre tracce, John Glasckok fu costretto per ovvi motivi ad abbandonare definitivamente la band. Le parti di basso furono completate da Ian Anderson, che dopo aver contattato invano Jeffrey Hammond, per avvicinarsi maggiormente allo stile Glasckokiano suonò un Fender Precision, il basso preferito da John Glasckok, che se ne andò prematuramente il 17 Novembre del 1979 (per uno strano gioco del destino il giorno del compleanno di Martin Barre) a soli ventotto anni, mentre la band era in tour. Questa terribile tempesta aveva portato inevitabilmente malumori su tutta la band, in primis su Barriemore Barlow, amico fraterno del Compianto Bassista. Si stavano manifestando minacciose crepe all'interno della band, crepe che di lì a poco sarebbero diventate voragini. Ancora oggi, i nostri si domandano se hanno fatto proprio di tutto per aiutare John a riprendersi. Inevitabilmente nei solchi del nuovo lavoro permea un'aura funesta che sommata al pessimismo con cui vengono affrontati i problemi ambientali, rende "Stormwatch" l'album più oscuro non solo della trilogia folk ma di tutta la discografia Tulliana fino a quel momento. Andiamoci dunque ad ascoltare questo album, che a detta di alcuni membri della band non sarebbe dovuto uscire, visto il grave lutto che aveva colpito i Tull.
North Sea Oil
Ad aprire le danze è "North Sea Oil (Petrolio del Mare del Nord)" brano che si avvicina molto al sound del capostipite della trilogia folk e che mette subito in evidenza il marchio di fabbrica tulliano, un evocativo flauto che scorrazza su una ritmica spedita, facendosi largo fra un interessante intreccio fra la chitarra elettrica e l'acustica. Ian Anderson fa di tutto per rimpiazzare al meglio l'assenza forzata di John Glascock, il tocco non è il medesimo, lo si sente chiaramente, ma con l'aiuto di qualche effetto a pedale il risultato ottenuto dal nostro può considerarsi abbastanza soddisfacente. Con una linea vocale che lascia trasparire una leggera venatura di sarcasmo, il Paroliere Di Dunfermline ci espone la sua visione pessimistica nei confronti dei giacimenti petroliferi del Mare Del Nord, scoperti agli inizi degli anni sessanta. I primi tentativi di perforazione iniziarono nel 1966 prendendo poi piede tre anni dopo, con la scoperta di uno dei più grandi giacimenti petroliferi del Mondo. Lo sfruttamento commerciale iniziò nel 1971 con le navi cisterna e dal 1975 con oleodotti che si collegavano all'Inghilterra. Nero e vischioso, il petrolio viene definito dal Paroliere Scozzese come una prugna zuccherata che alimenta il mercato energetico. C'è una vera e propria corsa all'oro nero da parte dei più facoltosi magnati del Pianeta. Paradossalmente l'uomo si sta arricchendo a discapito dell'ambiente con un regalo di Madre Natura che viene dal passato. Preoccupato per le ripercussioni ambientali di questa improvvisa industrializzazione che stava prendendo piede nel Mare Del Nord, il nostro spera in un crollo vertiginoso dei guadagni, l'unica medicina per risanare i danni ambientali fatti dall'industria del petrolio. Interessanti gli ammalianti fraseggi di chitarra del bridge annunciano il breve inciso, dove il nostro si limita a pronunciare in maniera sibillina il titolo del brano. Al minuto 01:40 come un'improvvisa tempesta si abbatte un caotico interludio strumentale. Gli strumenti gridano progressive, basso chitarra e flauto alimentano un vortice psichedelico di note fra cui rimbalzano parole del meteorologo Francis Wilson invitato dai nostri ad annunciare le drastiche previsioni metereologiche, mentre è aimè impossibile descrivere cosa fa il tentacolare Barriemore Barlow dietro al drum set. La strofa riporta la calma, il prezzo del petrolio sale alle stelle, secondo Anderson basteranno altri dieci anni per cancellare il cipiglio colmo di superbia dei magnati petroliferi. Ma il nostro teme che questo sia solo l'inizio di un pericoloso cammino che si concluderà con una nuclearizzazione globale con tutte le sue gravi ripercussioni ambientali. Dopo un altro passaggio dell'inciso i nostri ci salutano con un finale strumentale che vede trionfare il flauto, trasportato da un suntuoso tappeto di doppia cassa. Il brano, che è stato rilasciato come singolo il 5 Ottobre del 1979, non è affatto male, ma secondo il mio modesto parere avrei preferito una maggiore presenza da parte dei due tastieristi, a mio avviso troppo in ombra.
Orion
"Orion (Orione)" è la prima delle tre tracce che vedono John Glascock alle quattro corde e si sente. Nonostante la struttura semplice che vede una classica alternanza di strofa e ritornello è uno dei miei brani preferiti dell'album, grazie ai certosini arrangiamenti ed alle vincenti linee vocali da brividi che entrano con fin troppa facilità nelle nostre teste e nei nostri cuori. Il brano si apre con l'inciso, che mette in evidenza uno spaziale tappeto di tastiera martellato con grinta da Barriemore Barlow. Nella seconda parte la sezione ritmica entra a ranghi completi, accompagnando Martin Barre che con grintosi accordi distorti attira la nostra attenzione, aprendo i cancelli al Cantastorie Di Dunfermline che invoca Orione, la costellazione più famosa al mondo, venerata dalla notte di tempi. Le sue oltre centotrenta stelle ben visibili sono facili formano una sorta di clessidra, le tre stelle più luminose poste al centro formano la cintura di Orione. Secondo la mitologia romana, Orione era un gigante nato dall'urina di Giove, Mercurio e Nettuno. La leggenda narra che Orione, in pochissimo tempo, divenne un gigante di straordinaria bellezza, talmente alto che, mentre scendeva da una montagna appoggiato ad un olmo, la sua testa era nascosta tra le nubi. Fu preso in custodia da Diana e divenne un abile cacciatore. Anche secondo la mitologia greca Orione era un bellissimo gigante, figlio di Poseidone ed Euriale. Durante le battute di caccia era sempre accompagnato dal suo fedele segugio, Sirio. La strofa è per chi scrive una delle più belle composte da Anderson, una raffinata e cristallina chitarra acustica accompagna una linea vocale da brividi enfatizzata dalle tastiere. La sezione ritmica entra con grazia, quasi timorosa di incrinare le fragili note uscite dalla sei corde acustica. John Evans ricama con preziosi intarsi di pianoforte. Il nostro chiede ad Orione di brillare e di vegliare su un Mondo ormai in balia del progresso, di custodire gli spazi aperti minacciati dal grigiore del cemento e dalla noncuranza dell'uomo che non bada a tutte le conseguenze portate dal preoccupante fenomeno dell'inquinamento ambientale. Arriva anche David Palmer con una suggestiva trama orchestrale. Orione viene invocato assieme al suo fedele cane, ancora più luminoso del padrone, gli viene chiesto di sfoderare la sua spada ingioiellata mentre il tempo scorre veloce sulla Terra. La Spada di Orione è un asterismo ben riconoscibile da qualsiasi luogo del Pianeta, posto a sud della brillante Cintura di Orione. Torna l'inciso, con tutta la sua grinta, Anderson chiede al bellissimo gigante quale sia il suo segno zodiacale, forse riferendosi allo Scorpione, che in una delle tante leggende lo uccise con la sua mortale puntura. "I'm high on my hill and I feel fine. Orion, let's sip the heaven's heady wine. (Sono in alto sulla mia collina e mi sento bene. Orione, sorseggiamo il vino inebriante del paradiso.)". Mi piace pensare che l'ispirazione è venuta ad Anderson durante una rilassante notte passata ad osservare le stelle dall'alto della collina presente sulla sua tenuta sull'Isola di Skye, magari in compagnia di un buon Chianti d'annata. Nella strofa successiva la presenza di John Glasckok si fa sentire, facendosi largo fra le fantastiche armonie orchestrali. Da qui in avanti strofe e ritornello si alternano in serie, proponendo qualche nuovo sottile ma prezioso arrangiamento e criptiche licenze poetiche che ruotano attorno al difficile rapporto fra l'uomo e Madre Natura. La straordinaria bellezza di inciso e strofa fanno passare in secondo piano la struttura semplice del brano che le vede alternare in maniera canonica e vi confesso che non mi annoierei mai di sentirle.
Home
L'album cala vistosamente d'intensità e di qualità con la successiva "Home (Casa)" una breve e fin troppo melensa ballata orchestrale che si ricollega al calore domestico tanto caro al nostro, già omaggiato nei due precedenti album con "Fire At Midnight" e "Journeyman". Preziosi fraseggi di chitarra acustica ed elettrica aprono i cancelli a David Palmer che ruba la scena con una melliflua trama orchestrale d'altri tempi, che devo dire con il tempo risulta fin troppo invadente. Il Poeta Scozzese dipinge uno dei suoi memorabili quadri d'autore: i timidi raggi di Sole dell'alba irrompono sui giardini sempre assonnati, qualcuno si sveglia per andare al lavoro e vuole essere salutato dal raggiante sorriso della compagna che illuminerà tutta la giornata, bramandolo per poi ritrovarlo al suo ritorno. Basso e batteria entrano in scena e fanno crescere il brano quando serve, svolgendo il compitino senza deliziarci con graditi virtuosismi. Nella seconda strofa viene scomodata Lady Luck, la Dea Bendata che dall'alto sembra osservare immobile il destino dell'uomo, mentre un Jumbo (Jumbo Jet è il simpatico soprannome del Boeing 747, il più grande velivolo civile degli anni settanta, conosciuto anche con un secondo soprannome, Queen of the Skies, ovvero Regina dei Cieli) sorvola i mari profondi, quasi disturbando il paesaggio. Qui Anderson confessa di essere stato costretto a volare più volte per ovvi motivi di lavoro, ma di certo l'aereo non è il suo mezzo di spostamento preferito, non nascondendo di aver pregato ogni volta Dio e gli angeli affinché lo riportassero sano e salvo a casa, fra le calorose braccia della sua nuova moglie. Se ben vi ricordate l'ispirazione per il titolo "Too Old to Rock 'n' Roll: Too Young to Die!" nacque proprio durante un volo più che turbolento che mise a dura prova i nervi del nostro amato Pifferaio Magico. Nel breve inciso David Palmer arriva a coprire gli altri strumenti con il pianto dell'orchestra a dir poco stucchevole per non dire fastidioso. Con licenze poetiche di altissima qualità continua l'attacco nei confronti del progresso, al nostro non piacciono le ciminiere fumanti che con le loro grigie scie disturbano il bellissimo paesaggio offerto dai campi dorati, oltre a diffondere nell'aria sostanze nocive per ogni essere vivente, si sente un po' come il pettirosso, che durante le sue migrazioni estive, trova sovente porzioni di bosco mangiate dal grigiore del freddo cemento. L'unica medicina che riesce a placare questi malumori è il ritorno a casa. Brano che sia per qualità e per durata tende a scomparire in mezzo a due tracce di qualità eccelsa come la precedente "Orion" e la successiva traccia numero quattro che supera abbondantemente i nove minuti. Stranamente, "Home", canzone che io reputo l'anello debole dell'album e per quanto mi riguarda destinata a finire nel dimenticatoio, è stata pubblicata come singolo il 22 Ottobre del 1979.
Dark Ages
Per gli amanti compulsivi di progressive rock come me, quando nella track list di un album spicca un brano che si protrae intorno ai dieci minuti si drizzano subito le antenne, se poi il titolo è "Dark Ages (Anni Oscuri)" il gioco è fatto. In effetti la canzone non tradisce le aspettative con cavalcate, cambi di tempo, interludi strumentali di pregevole fattura e mirati virtuosismi che non sfociano mai nell'autocelebratismo, con Barriemore Barlow e Martin Barre sugli scudi. Il brano viene aperto da un oscuro pad di tastiera, massacrato da improvvisi colpi stoppati. Fra sibilline note di pianoforte, inquietanti rumori e fraseggi all'unisono, Ian Anderson avverte l'essere umano che su di lui sta per scatenarsi una violenta tempesta che porterà un freddo e lunghissimo Inverno sula sua testa. Negli anni settanta, alcuni scienziati e climatologi paventavano l'avvento di una possibile nuova era glaciale. Per fortuna tale teoria fu un clamoroso insuccesso, ma il nostro, preoccupato della situazione ambientale, avverte un'umanità disinteressata al limite dell'apatia dell'avvento di un era oscura, rifacendosi all'alto Medio Evo, quando dopo la caduta dell'Impero Romano l'oscurità ebbe la meglio sulla luce, con un preoccupante abbassamento demografico dovuto alle malattie e da un andamento economico ai minimi storici. Il Paroliere Scozzese ci illustra con classe alcuni stereotipi della borghesia britannica che noncuranti della tempesta che sta per arrivare, continuano le loro monotone azioni quotidiane con una imperturbabile indifferenza. Un inquietante tema di tastiera che sembra uscito da un vecchio film della Hammer richiama a pieno regime la sezione ritmica, il brano decolla, spinto dalle fredde trame orchestrali di David Palmer, mentre Anderson trova una originale allusione paragonando l'umanità ad un televisore che si spegne, con il piccolo punto bianco che muore lentamente divorato dall'oscurità. Cavalcando grintosi accordi distorti nell'inciso il nostro ci canta "Dark Ages shaking the dead" il gelido inverno riesce a risvegliare i morti ma non riesce a curare l'apatia dei vivi. Al minuto 02:35 Martin Barre irrompe con un riff di Sabbathiane memorie, Barrie Barlow dà il via ad un bellissimo climax che insieme a dei taglienti sospiri di flauto ci porta ad un repentino cambio di tempo. Ha inizio una epica cavalcata, dove stavolta Ian Anderson dimostra di cavarsela bene anche con le quattro corde. Il nostro porta avanti la sua campagna contro il progresso e le conseguenze che ha sull'ambiente, ma soprattutto indice una crociata contro i magnati dell'edilizia che si arricchiscono noncuranti dei gravi danni ambientali, costruendo strade ed aeroporti che sfregiano il verde patchwork di Madre Natura. Gli dei del cemento vivono nell'eccesso fra costosi champagne e festini, mentre ai comuni mortali viene indorata la pillola. Il successivo ritornello viene proposto in un'altra veste. Barriemore Barlow fa magie sul rullante, mentre gli epici violini di David Palmer fanno decollare nuovamente il brano. La tempesta sta per incombere sulla società, i politici tentano di contrapporsi segnando delle linee di picchetto, ma non rinunciando alla loro corsa al potere, nonostante un infernale caos sia alle porte. Calano nuovamente i bpm con il ritorno dell'inciso, seguito da un prolungato interludio strumentale dove si sprecano i virtuosismi da parte di tutta la banda. Corse sulle pelli, scale di basso, fraseggi di chitarra e sfuriate di flauto si susseguono dando vita ad una vera e propria tempesta di note. W il progressive! Un nuovo Medio Evo è alle porte, il popolo affamato protesta per le strade, bussando alla porta di tutti gli esercizi commerciali che hanno mantenuto il vitale sangue blu della Terra Di Albione. Con sarcasmo, per placare le proteste, l' Istrionico Leader chiede ai magnati dell'industria di provare il vecchio trucco della moltiplicazione del pane e dei pesci, in passato qualcun altro vi riuscì. Il successivo ritornello vede David Palmer e John Evans protagonisti in solitario. Violini e pianoforte si intrecciano su un vellutato pad di tastiera, invocando la sezione ritmica per un'ultima cavalcata ritmica. Dopo circa sette minuti e mezzo il brano sembra improvvisamente avviarsi verso l'epilogo, ma non è così. Cala una calma surreale, è la calma prima della tempesta. I due tastieristi dialogano quasi sottovoce, accompagnando Ian Anderson che chiede se l'umanità è pronta per un lunghissimo inverno in stile Games Of Thrones. I nostri ci salutano poi con l'epico ritornello chiudendo nel migliore dei modi questo ottimo brano che odora di progressive rock.
Warm Sporran
Per coloro che possiedono la versione in vinile, la successiva strumentale "Warm Sporran (Sporran Caldo)" chiude il lato A; si tratta del primo dei due brani che richiama maggiormente il folk rock dei due album precedenti, andando a rispolverare gli atavici suoni della musica gaelica, e lo si evince già dal titolo. Lo "sporran" è infatti una piccola borsa in pelle o pelliccia, accessorio immancabile per chi indossa il kilt tradizionale, in quanto il caratteristico indumento scozzese non prevede le tasche. Indossato nei pressi della zona inguinale tramite tracolla o catena, lo sporran solitamente viene utilizzato per trasportare denaro o effetti personali, in passato veniva usato anche per trasportare piccole armi, munizioni o all'occorrenza razioni alimentari, mentre ai tempi odierni è divenuto essenziale per contenere cellulare e chiavi dell'auto per tutti quelli scozzesi che giustamente sono ancora attaccati alle vecchie tradizioni gaeliche. Non ha nulla di scozzese l'introduzione, molto più vicina al funky che alle vetuste sonorità dell'Antica Caledonia. Il protagonista è il basso effettato di Ian Anderson, ma se sotto l'aspetto tecnico l'escursione alle quattro corde del Polistrumentista Di Dunfermline è impeccabile, il suono risulta fin troppo freddo e sintetico rispetto al tocco caldo di John Glasckok. Peccato che il povero John non abbia potuto dare il suo apporto su tutte le tracce dell'album, perché a mio avviso avrebbe dato quel tocco di magia e calore in più che a tratti sentiamo mancare. Le note gravi cariche di effetti vengono affiancate all'unisono da una gelida escursione pianistica di Mr. John Evans. Si inizia ad intravedere il tartan con l'avvento del flauto, che viaggia a braccetto con la sei corde acustica, seguito a ruota all'unisono da un oscuro coro druidico d'altri tempi che possiamo identificare in un ritornello. Dopo circa un minuto all'orizzonte scorgiamo le Highlands, Barriemore Barlow guida la parata con una marcia dai sentori militari, le trame del flauto emanano sentori epici, rafforzate all'unisono da Martin Barre con il mandolino. L'inciso successivo suona più epico spostato di un paio di ottave più in alto. Al minuto 1:44 il Pifferaio Magico ci incanta come serpenti con un magistrale assolo di flauto, ricco di tecnica e talento. Le note escono come impazzite dal flauto traverso, impossibile non immaginarsi il Ian Anderson saltellare come un satiro per poi soffermarsi nella sua inconfondibile posizione del fenicottero mentre suona il suo strumento preferito, immagine diventata il simbolo dei Jethro Tull targati anni settanta. Fa un'ultima capatina veloce il freddo funky dell'introduzione, per lasciare subito il campo al brioso ritornello. Ma in un brano che rievoca la musica tradizionale scozzese non poteva mancare il festoso suono delle cornamuse, le calde note uscite dalle sacche di pelle seguono la brillante marcia di Mr. Barlow trasportandoci trionfalmente verso il finale, dove ritroviamo il brioso ritornello che lentamente si dissolve in fader, lasciandonell'aria il profumo della Scozia d'altri tempi.
Something's on the Move
La seconda facciata del disco si apre con "Something's On The Move (Qualcosa E' In Movimento)", un brano dal ritmo frenetico che strizza l'occhio all' hard rock. Ad aprire le danze è Martin Barre con un graffiante riff, subito affiancato dal ruggente organo di John Evans e poi da taglienti trame di flauto, gelide come la Signora dei Ghiacci, che sta scendendo giù dalla fredda Scandinavia, un posto magico dove Madre Natura ci delizia con l'estasiante spettacolo dell'aurora boreale. Vestita completamente in bianco e con le lunghe unghie adornate da rare gemme preziose, indossa una vistosa tiara nera; la tiara è una particolare corona utilizzata dai papi, da sempre simbolo di sovranità. Ormai è tardi, i giochi sono fatti, gli avvertimenti di Ian Anderson sono stati vani ed inascoltati, dal suo binocolo si intravede la Regina Dei Ghiacci che si sta minacciosamente avvicinando, trascinata dalla forsennata ritmica di Mr. Barlow. Dietro di se lascia una scia di ghiaccio, mentre alle sue spalle turbinano nebbie gelide. A suo seguito ha una schiera di figli di ghiaccio, li stessi che affondarono il Titanic il 15 Aprile del 1912. La frenesia degli strumenti emana una discreta dose di ansia, rendendo ben l'idea del pericolo incontrastato che si sta avvicinando minacciosamente. Gelidi spifferi di flauto aprono i cancelli all'inciso, che mette in mostra l'ennesima linea vocale vincente, esaltata dal pianoforte e da mirati accordi di chitarra. Il giradischi sta suonando l'ultimo valzer, siamo ai titoli di coda, il meteorologo ci avverte che una gelida tempesta è in movimento e si sta avvicinando in maniera inarrestabile. Dopo un breve interludio strumentale ritorna la strofa con il suo ritmo frenetico, come frenetica è la discesa della Regina Bianca, che durante il suo cammino sulla scacchiera di Madre Natura cattura le pedine nere una dopo l'altra. Bellissima questa metafora usata da Anderson che paragona l'esistenza dell'umanità ad una partita a scacchi contro un avversario nettamente più forte. La Regina dei Ghiacci è inarrestabile e sulla Terra sta per piombare una nuova era glaciale che darà un duro colpo a tutta l'umanità, mettendo a repentaglio l'esistenza della razza umana. Nella seconda metà degli anni settanta, l'avvento di una nuova era glaciale era sostenuto da una schiera di scienziati e meteorologi, che per fortuna sono stati smentiti. Ogni epoca ha i propri terrapiattisti. Ormai la città di Londra è coperta da una spessa coltre di neve e ghiaccio, lo stesso destino che capiterà alle altre città dell'Europa e poi del Mondo intero, trasformando il Pianeta Terra in una infinita e bianca distesa di ghiaccio. Ian Anderson chiede aiuto al Sole, ma Madre Natura vorrà veramente aiutare quell'umanità che ha causato tutto questo? Dopo un altro passaggi del vincente inciso troviamo un bellissimo interludio strumentale dove flauto e chitarra se le danno di santa ragione. Di qui in avanti strofa e ritornello si susseguono, si piange sul latte versato, la Natura si è presa con gli interessi la rivincita sull'umanità e sul progresso. La Signora Dei Ghiacci lascia il compito a Martin Barre per i suoi gelidi saluti. I funambolici fraseggi di chitarra sfumano molto lentamente, lasciandosi dietro una gelida scia di ghiaccio.
Old Ghosts
Il vento gelido soffia nei primi secondi di "Old Ghosts (Vecchi Fantasmi)", brano che si presenta con una bellissima introduzione in crescendo. Pianoforte e orchestra dialogano quasi sottovoce, ben più rumorose sono invece le voci del flauto ma soprattutto della chitarra distorta, il comizio è guidato dalla marcia trionfale di Barriemore Barlow, impreziosita da pungenti scale di basso che attirano subito la nostra attenzione. Devo dire che in questo brano la performance di Ian Anderson alle quattro corde è più che soddisfacente sia sotto il punto di vista tecnico che di esecuzione, grazie ad un minore uso degli effetti. Dopo circa trenta secondi arriva una preoccupante calma, quella che precede la tempesta. La sezione ritmica continua la sua marcia ossessiva, accompagnando David Palmer, protagonista in questa prima strofa con le sue sibilline trame orchestrali. La tempesta è alle porte della città, i primi ad avvertirla sono gli animali, i gatti si agitano con i peli dritti sulla schiena e la coda ingrossata, atteggiamento caratteristico di un micio che avverte un pericolo imminente. Anche i cani hanno un atteggiamento guardingo, segnano il loro territorio ringhiano con la coda bassa, i loro ululati licantropeschi mettono i brividi. L'uomo pare continuare con il suo apatico disinteresse nei confronti di tutto ciò che ha scatenato, fatta eccezione dei bambini, loro sì, sembrano avvertire la minaccia che sta per piombare sopra le loro teste, non giocano più con gioia e spensieratezza, ma con esitazione, come quando sanno che stanno per commettere un malestro. Ma come sempre l'essere umano cerca di trarre vantaggio da situazioni spiacevoli, in agguato ci sono loschi individui in impermeabile pronti a colpire non appena se ne paventa l'occasione, girando il coltello nella piaga con gesti che definire deplorevoli è un eufemismo. Nel frattempo, all'orizzonte, fra le dense trame della nebbia si fa avanti un minaccioso quanto prezioso arazzo che sembra essere di seta. Martin Barre spruzza una buona dose di grinta sull'inciso dove con una linea vocale carica di positività Ian Anderson ostenta tutto il suo ottimismo, è convinto che uscirà indenne dalla furia della tempesta, divincolandosi tra le spire del tornado e uscendo fuori come un vecchio cane dolorante che aveva smarrito la via di casa, ma che riesce sempre a trovare le forze per tornare dal suo amato padrone, mentre i vecchi fantasmi continuano a giocare pesante nei confronti di Madre Natura. Torna a spirare il gelido vento di inizio brano e con lui le trame della bellissima introduzione. La strofa successiva vede ancora protagonista l'orchestra, liricamente è paragonabile ad una poesia. Il Cantastorie Scozzese si ripara dalla furia della tempesta con il suo lungo pastrano, mentre sibilano numerosi vortici che trasportano le foglie secche degli alberi, che volando verso la calda luce del sole assumono una colorazione che va dal marrone all'oro. La tempesta finalmente è finita, nel cielo terzo ora brilla focoso il Sole, i suoi raggi sciolgono finalmente la coltre di ghiaccio che permeava sulla città. Nonostante tutto Ian Anderson riesce a rimanere ottimista, anche lui non era del tutto convinto a sposare le avveniristiche teorie catastrofiche di una nuova era glaciale, mettendo così un lieto fine alla sua storia. Dopo una doppia dose di ritornello ci assaporiamo una lunga coda strumentale dove i nostri a turno si mettono in mostra con preziosi virtuosismi, dando vita ad una vera e propria tempesta di note che lentamente si disperde verso l'orizzonte luminoso.
Dun Ringill
"Dun Ringill" è l'altro brano che sposa il folk rock dei due precedenti album, sia musicalmente, in quanto è l'immancabile tassello acustico con cui ormai ci ha abituato Ian Anderson, sia liricamente. "Dun Ringill" dal gaelico "Dùn" (forte) e Ringill (punta del burrone) è un'antichissima fortificazione collinare risalente all'età del ferro, ubicata sull'Isola Di Skye, a pochi passi dalla tenuta di Ian Anderson. La sua posizione strategica che la vede collocata sulla cima di una scogliera che si affaccia sul mare, permetteva agli abitanti di contenere le numerose invasioni durante il corso dei tempi, in primis quelle dei popoli norreni provenienti dalla vicina Scandinavia. Intorno al tredicesimo secolo, l'affascinate fortezza ha fatto da sede al potente clan scozzese dei MacKinnon. Ad oggi, a causa dell'erosione del tempo e delle mille battaglie affrontate, di Dun Ringill rimangono solo le rovine, cumuli di rocce invase dalle piante infestanti e i resti di alcuni misteriosi passaggi. Rimane però inalterato il fascino che trasmette, fascino che ha ispirato Ian Anderson durante una delle numerose escursione a scopo meditativo e rilassante che il nostro era solito fare, nonostante le condizioni climatiche avverse durante le stagioni più fredde. Ad inizio brano ritroviamo il meteorologo Francis Wilson che con l'aiuto di un inquietante gioco di echi recita in maniera ridondante le prime righe che con profonde licenze poetiche annunciano l'avvento della tempesta. L'escursione sulla sei corde acustica è ancora una volta pregevole, come del resto la linea vocale. Aiutato da azzeccati giochi con l'eco che perdurano per tutto il brano, il nostro mette in luce tutto il fascino che prova nell'atavica fortezza collinare, la magia e la tranquillità che riesce ad emanare è una vera e propria panacea per cancellare i malumori di una giornata andata storta. Come sempre le composizioni acustiche del nostro se pur brevi non sono mai banali, il mirato passaggio ai 3/8 del ritornello fa salire il brano. Siamo invitati tutti fra le rovine affascinati di Dun Ringill, "Oh, and we'll watch the old Gods play by Dun Ringill (Oh, e guarderemo gli antichi Dei suonare da Dun Ringill)" Difficile stabilire se questi versi si riferiscono alla tempesta in arrivo a siano un omaggio velato alla band. La successiva strofa si apre con "We'll wait in stone circles (Aspetteremo in circoli di pietra)", curiosamente "In a Stone Circle" è la traccia che apre il secondo lavoro solista Andersoniano del 1995 intitolato "Divinities: Twelve Dances with God". E' molto probabile che i circoli in pietra siano un chiaro riferimento all'antico sito neolitico di Stonehenge, altra affascinate a struttura che da sempre ha incantato Anderson, già esplicitamente citata su "Song From The Wood". Con la tempesta alle porte, (se fate attenzione potete percepire tuoni e vento in sottofondo che si incastrano fra le cristalline note della chitarra acustica), il nostro si affida agli Dei, affinché gli venga data la forza per superare incolume la vendetta di Madre Natura. A mettere il sigillo su questa piccola perla è l'inciso, le cui note lentamente lasciano il campo al caratteristico e rilassante canto dei gabbiani. Il video di "Dun Ringill" diretto da David Mallett. è presente su "Slipstream" la prima pubblicazione video della band, datata 1981 ed ovviamente in VHS, che raccoglie estratti dal tour del futuro album "A" ed alcuni videoclip. Ad onore di cronaca, il video che vede protagonista assoluto Ian Anderson è stato girato su una spiaggia vicino a Beachy Head. Oltre ad un paio di apparizioni fugaci di Martin Barre e Dave Pegg, nel video compare anche il famoso binocolo di "Stormwatch" che scruta la tempesta in arrivo.
Flying Dutchman
"Flying Dutchman (L'Olandese Volante)" è il brano che rappresenta maggiormente il contesto dell'album, quasi otto minuti di musica di gran classe che mixano alla perfezione il progressive folk dei due lavori precedenti con l'oscuro sound di "Stormwatch" che in linea di massima mette in mostra un'impronta "più moderna" con uno sguardo al decennio futuro. Cambi di tempo e raffinatissimi arrangiamenti danno vita a quella che possiamo considerare la perla dell'album. Secondo il folclore nordeuropeo, l'Olandese Volante è un vascello fantasma che solca i mari in eterno senza una meta ben precisa. A causa di un destino sempre avverso, il capitano e tutta sua ciurma di fantasmi sono condannati ad attraversare i mari perennemente fino al Giorno del Giudizio. La leggenda narra che il vascello durante i sui viaggi senza meta, naviga nei mari aperti sempre avvolto a una coltre di nebbia che lascia trasparire una luce spettrale. Questa descrizione mi fa venire in mente la nave fantasma del mitico film "The Fog" di John Carpenter. Ian Anderson usa l'Olandese Volante come metafora in quelle che sono fra le liriche più ciniche della sua carriera. Se l'uomo non cambierà il suo atteggiamento nei confronti di Madre Natura, sarà condannato a navigare in eterno in cerca di una nuova casa, questo è il succo. Atmosfere da brividi nei primi secondi del brano, un finalmente ispiratissimo John Evans tesse preziosi trame con il pianoforte, avvolte da una leggera nebbia che fuoriesce con dolcezza dal flauto traverso. Al basso ritroviamo John Glasckok e lo si riconoscerebbe anche senza l'aiuto dei credits, le sue pungenti scale, seguite da oscuri accordi distorti di chitarra spruzzano una buona dose di suspense, stendendo il tappeto rosso al Menestrello Scozzese. La linea vocale trasparisce mestizia di fronte al futuro dell'umanità, futuro che si è scritta con le proprie mani o meglio con quelle avide dei magnati a capo delle più potenti multinazionali, che per arricchirsi non hanno mai pensato alle conseguenze che il progresso e l'industrializzazione hanno sull'ambiente, uno dei mali maggiori degli anni settanta, causa invece da sempre perorata dal nostro. Una raffinata rullata degna di uno spettacolo circense spalanca i cancelli all'inciso, dove l'atmosfera si fa meno cupa grazie alle cristalline note del mandolino e ad un repentino innalzamento dei bpm. Il nostro lancia messaggi romeriani contro il consumismo ed ammonisce tutti gli amanti della bella vita, dovranno pagare un salato conto quando arriverà l'Olandese Volante, saranno proprio loro la ciurma del vascello fantasma, condannati a cercare una nuova casa in eterno, dopo aver bruciato tutto quello che avevano fino ad ora. A seguire incontriamo un breve ma interessante assolo di flauto, supportato da una ritmica dai sentori doom. Nella strofa successiva, dove i due tastieristi confezionano atmosfere da brividi, Anderson avverte i ricconi d'Europa che potrebbe avere la stessa sorte dei vietnamiti che per fuggire dalla guerra hanno usato il mare come via di fuga, ricevendo spesso un asso di picche da parte dei paesi del Vecchio Continente alla loro richiesta di soccorsi caritatevoli, rifiuti che li costringevano a vagare per i mari in cerca di una nuova casa dove rifugiarsi lontano dal conflitto bellico, proprio come l'Olandese Volante . Nel secondo ritornello continuano le aspre critiche verso i signori del Mondo. Al minuto 03:40 cambia completamente l'atmosfera. Il flauto è protagonista assoluto in questo interludio strumentale che emana profumati sentori asiatici. Nel turbinio di suoni brillano flauti diversi, possiamo riconoscere anche gli atavici e giullareschi sospiri del tin whistle che pian piano spalancano la strada ad un bellissimo e prolungato assolo di flauto traverso che ci rimanda inevitabilmente ai fasti del passato. Senza ombra di dubbio Barriemore Barlow sembra un altro con il suo grande amico John Glasckok a fianco, il nostro ci sorprende assumendo le sembianze di una aliena creatura tentacolare seduta dietro alla batteria. Dopo questo intermezzo di gran classe torna la strofa, dove il flauto si prende l'ultima dose di meritati applausi, per poi cedere lo scettro alla triste linea vocale del Cantastorie Di Dunfermline, che estrae l'ennesimo cartellino giallo nei confronti della classe benestante, avvertendoli del futuro nefasto che gli spetta. Significative ed esplicite le ultime righe con cui si chiude il brano "Staring ghostly in the mirror it's the Dutchman you will be floating slowly out to seain a misty misery (Guarda lo spettro nello specchio, sei l'olandese e fluttuerai lentamente verso il mare in una nebbiosa miseria)" Saranno i magnati delle maggiori multinazionali europee a salire a bordo del vascello fantasma, costretti a vagare in un infinito mare di miseria. Il flauto traverso mette il più classico dei sigilli tulliani in cera lacca su questo maestoso brano ben strutturato e arrangiato in maniera certosina, brano che possiamo tranquillamente definire fra i più interessanti composti dalla band. Chapeau.
Elegy
Il platter si conclude con una seconda canzone strumentale intitolata "Elegy (Elegia)", brano firmato David Palmer, una delle poche cose buone provenienti della disastrosa esperienza del Scottish Ballet. Escludendo la rivisitazione della "Bouree", si tratta della prima canzone dei Tull che non è stata scritta da Ian Anderson. Come si evince dal titolo, il brano è stato composto da Palmer per sfogare tutto il dispiacere dovuto alla improvvisa morte del padre. Grammaticamente l'elegia è un componimento poetico, meditativo e malinconico, di compianto per una condizione d'infelicità di varia origine (morte o lontananza di persone care, amore non corrisposto), nulla vieta che la melanconica ispirazione possa dare sfogo ad una composizione strumentale. "Elegy" è purtroppo l'ultima testimonianza con le quattro corde di John Glascock, mi piace pensare che a posteriori, questo struggente composizione, oltre ad onorare il defunto padre del compositore, sia una sorta di commovente necrologio musicale nei confronti del Talentuoso Bassista scomparso troppo prematuramente. Il brano si apre con un malinconico intreccio fra la chitarra classica e la chitarra acustica che si adagia su un soffice cuscino orchestrale. La triste melodia delle chitarre viene ripresa con dolcezza dal flauto. La sezione ritmica entra in punta di piedi quasi senza che ce ne accorgiamo, Barlow usa le spazzole per accarezzare dolcemente il rullante, il basso di John Glascock non è per niente aggressivo, le vellutate note si incastonano alla perfezione con quelle delle chitarre. Il brano cresce lentamente, i tristi lamenti dell'orchestra seguono la melanconica linea melodica del flauto. Al minuto 01:46 Martin Barre ci procura una buona dose di brividi facendo piangere la sua chitarra elettrica, il brano cresce inevitabilmente raggiungendo l'apice grazie ad un lavoro più energico della sezione ritmica e delle tastiere. Tutto lascia presagire che siamo giunti al capolinea, ma al minuto 02:26 il brano risorge dalle sue ceneri come una fenice, con un climax di gran classe i nostri confezionano la base per un secondo assolo di chitarra, stavolta dal sound più dolce. Le tristi note della sei corde elettrica se ne vanno lentamente in fader, lasciando una amaro alone di tristezza e andando a chiudere con classe l'album e la formidabile trilogia folk. Gli strumenti durante il brano sembrano piangere, quasi sapessero che di lì a poco questa fantastica formazione se ne andrà per sempre, sciogliendosi come neve al Sole, tanto per rimanere in tema meteorologico. La nave sembra stia affondando lentamente, in preda alla tremenda tempesta che sta minacciosamente avvicinando, ma capitan Anderson e il suo fido nostromo Barre non l'abbandoneranno, riuscendo in qualche maniera ad uscirne indenni, pronti a scrivere ancora pagine indelebili nel grande libro della storia del rock.
Conclusioni
Con "Stormwatch" i nostri beneamati vanno a chiudere una memorabile trilogia progressive-folk, sigillando col botto questi primi undici anni di carriera, costellati da molti alti e pochissimi bassi. Rispetto ai due precedenti lavori, fra i solchi predomina un sound oscuro che diffonde un'aura di mestizia, dovuta alle liriche pessimistiche e alla morte prematura di John Glascock, che inevitabilmente ha portato una buona dose di sconforto all'interno della band. Con il nuovo decennio alle porte, il sound si fa anche più moderno, grazie ad un maggiore uso di tastiere e sintetizzatori rispetto al capostipite della trilogia, dove invece predominavano suoni e strumenti atavici, rispolverati per l'occasione. Si tratta comunque di un ottimo disco, con almeno quattro-cinque brani che non faticheranno a fare breccia nel cuore dei fans. Ian Anderson è ispiratissimo con il suo amato flauto traverso, sempre entusiasmanti le sue parti di chitarra acustica e ci conquista con alcune linee vocali vincenti. Le liriche folk a tematica ambientale sono fortemente pessimistiche e a volte ciniche, come sempre ricercate ed originali. Stavolta, per cause di forza maggiore il nostro è costretto ad improvvisarsi bassista, con risultati più o meno soddisfacenti. L'ultima testimonianza di John Glascock, purtroppo presente su tre sole tracce (non a caso le migliori del platter ndr), ci conferma che il mondo della musica ha perso un grande musicista, capace di far rendere al massimo il suo amico fraterno e collega di reparto Barriemore Barlow, sempre stupefacente ed originale dietro al suo drum set. Mi sono piaciuti molto i due tastieristi che insieme confezionano atmosfere di notevole spessore. Alle prese con i moderni sintetizzatori, David Palmer, fatta eccezione della melensa "Home", dove l'uso dell'orchestra è a dir poco smodato, si integra alla perfezione con John Evans, tornato ispiratissimo dietro al pianoforte e con l'organo. Ottima la performance di Martin Barre, che amplia il suo background con la chitarra acustica ed il mandolino, mentre con la sei corde elettrica accentua l'alone di mestizia e si mette in evidenza con alcuni bellissimi assoli e preziosi intarsi. Purtroppo questo è l'ultimo atto di quella che per chi scrive è la migliore formazione dei Tull. La morte prematura di Glascock ha portato insanabili crepe all'interno della band, portando addirittura al rischio di un clamoroso scioglimento, ma questo argomento lo affronteremo in maniera dettagliata nella prossima recensione. L'agenda fin troppo fitta di impegni e le condizioni di salute di John Glascock ha fatto sì che le registrazioni di "Stormwatch" siano state alquanto tribolate. Iniziate ad Agosto del 1978 sono terminate a Luglio dell'anno successivo, divise fra i Maison Rouge Studios di Londra, i Townhouse Studios ubicati sempre nella città del Tamigi è l'immancabile Maison Rouge Mobile. La Chrysalis lo ha rilasciato il 14 Settembre del 1979 su tutto il Globo. Per la produzione Ian Anderson è stato affiancato da Robin Black che aveva già collaborato in passato su molti album dei Tull come ingegnere del suono. La collaborazione fra i due ha partorito un sound più moderno e oscuro, in qualche maniera diverso dagli altri due lavori della trilogia folk. Il dodicesimo lavoro in studio dei Jethro Tull ha raggiunto la ventisettesima posizione degli album più venduti nel Regno Unito, facendo meglio nel Nuovo Continente dove raggiunse la posizione numero ventidue, ottenendo la certificazione di disco d'oro, bissata nelle fredde lande Canadesi. La copertina è senza ombra di dubbio la più attraente di tutta la discografia Tulliana. Ideata da Ian Anderson e sotto l'art direction di Peter Wragg è stata disegnata da David Jackson, che ritrae l'Istrionico Cantante infreddolito ed imbacuccato, con tanto di barba gelata, intento a scrutare una terribile tempesta in arrivo con un binocolo di color verde militare, che spicca sulla fredda colorazione grigio-bluastra del resto dell'opera. In alto, logo e titolo in un futuristico carattere digitale di colore rosso, strizzano l'occhio al decennio futuro. In seconda di copertina troviamo un gigantesco orso polare che fuoriesce dai ghiacci, distruggendo una raffineria petrolifera, una visione fantascientifica della Natura che si ribella al progresso, avendo finalmente la meglio. Da bassista dilettante, il mio orecchio sente fortemente la mancanza di John Glascock sulle restanti sette tracce dove non suona per motivi di salute, pertanto la mia valutazione dell'album è un gradino al di sotto rispetto ai suoi due predecessori, si tratta comunque di un album più che discreto che va a chiudere degnamente la fantastica trilogia di progressive folk e che per l'ennesima volta ci consegna un lato dei Jethro Tull che non conoscevamo, The Dark Side Of The Tull. Da acquistare in blocco con i due suoi predecessori, per assaporare al meglio la mutazione del sound tulliano nel giro di tre soli anni.
2) Orion
3) Home
4) Dark Ages
5) Warm Sporran
6) Something's on the Move
7) Old Ghosts
8) Dun Ringill
9) Flying Dutchman
10) Elegy