JETHRO TULL
Stand Up
1969 - Chrysalis
SANDRO PISTOLESI
15/02/2017
Introduzione recensione
Come si poteva presagire dal titolo, l'album d'esordio dei Jethro Tull fu il primo e l'ultimo con le sonorità incentrate fortemente sul blues. A volere fortemente suonare la calde note blue del delta del Mississippi era il chitarrista Mick Abrahams, la cui ingombrante figura teneva a freno l'estro e l'eccletticità di Ian Anderson. I Jethro Tull si ritrovarono ad avere due galli nel pollaio, ed era fin troppo evidente che qualcuno era di troppo. Terry Ellis, che in passato vedeva il Chitarrista Di Luton come papabile leader della band, ben presto si convinse che le idee di Ian Anderson erano ben più convincenti rispetto al blues trito e ritrito di Abrahams ed iniziò a spingere in modo che i Jethro Tull virassero verso il folk rock proposto da Anderson, con il suo flauto al centro dell'attenzione. Benché anche altre band utilizzassero il flauto in un contesto rock, Genesis su tutte, il Madman Flautist è da sempre considerato il precursore del flauto traverso nel rock. Il gelo fra Ian e Mick si stava allargando in maniera preoccupante, fomentato dal desiderio del produttore Terry Ellis di allontanarsi dal blues. Mick iniziò a vendicarsi saltando le prove, suonando male durante le serate, dandosi per malato mentre se la spassava con la sua ragazza e molti altri esecrabili espedienti che portavano verso in una inevitabile rottura. La goccia che fece traboccare il vaso fu il suo rifiuto ad andare a suonare negli Stati Uniti. Convocato da Terry Ellis nel proprio ufficio, la leggenda narra di una furibonda lite con tanto di pesanti epiteti, scrivanie rovesciate e le inevitabili dimissioni da parte del Chitarrista di Luton, che proprio non accettava che il produttore gli imponesse che cosa suonare. La settimana successiva, Abrahams fu di nuovo convocato da Ellis, che gli comunicò che era stato licenziato dalla band. Lui sarcasticamente gli rispose che non era possibile, in quanto se ne era già andato da solo. Dopo poco tempo, nel Dicembre del 1969, il nostro formo i Blodwyn Pig, band dove poteva suonare liberamente ed in maniera incontrastata il suo amato blues. Iniziò il casting per il sostituto. Fra i tanti a spuntarla fu un tal chitarrista mancino di nome Tony Iommi. Ma l'Axeman di Birmingham, pur vantando qualche esibizione live con i Jethro Tull, tardava ad ambientarsi, in particolare non si trovava a suonare le nuove composizioni di Ian Anderson. Anche se la stampa lo dava praticamente assunto (invero i giornali avevano precedentemente dato in maniera inesatta come nuovo chitarrista dei Jethro Tull Davy O'List dei Nice) la band non era poi così convinta di aver trovato il giusto sostituto di Abrahams. L'ultima testimonianza dei Jethro Tull con Tony Iommi alla sei corde si tenne l'11 Dicembre del 1968 agli Intertel Studios di Wembley, dove eseguirono "A Song For Jeffrey", peraltro suonando in playback ad eccezione di Ian Anderson, che pare per l'occasione presentò una nuova linea vocale. Anche se non ne sussistono le prove tangibili, sembra che fu eseguito anche un secondo brano. Dopo quella serata, Tony Iommi intraprese una strade ben più oscura che tutti noi conosciamo, insieme ad un certo Ozzy Osbourne. Senza un chitarrista, la band si vide sfuggire inevitabilmente molte serate e allettanti opportunità. Poi, Ian Anderson, si ricordò che durante i provini, fra gli oltre cinquanta pseudo chitarristi ce ne fu uno la cui prova non fu certo delle migliori ma che aveva un certo fascino e che tempestava di telefonate la band per avere una seconda chance. Forse addolcito dal clima natalizio, Ian decise di chiamare Martin Barre e di darli una seconda opportunità, con una audizione che si tenne il giorno della Vigilia di Natale del 1968. Il nuovo chitarrista non iniziò nel migliore dei modi, presentandosi all'audizione con la sua chitarra elettrica ma senza un amplificatore, costringendo Ian Anderson a stare con l'orecchio attaccato alla chitarra per riuscire a percepire quel che suonava. Con un tour americano alle porte e niente di meglio fra le mani, Ian Anderson e compagni decisero comunque che Martin Barre poteva essere il sostituto ideale di Martin Abrahams. Il giorno successivo mentre le famiglie normali erano intente a consumare i tradizionali riti della Santa Festa, i Jethro Tull consumarono la prima storica prova con il nuovo chitarrista, mentre il primo concerto si tenne il 30 Dicembre del 1968 ai Winter Gardens di Penzance, in Cornovaglia. Da quel giorno il nuovo arrivato sarà il membro più longevo della band secondo solo a Ian Anderson, rimanendovi saldamente fino ai tempi nostri. Martin Lancelot Barre nasce a Kings Heath, un sobborgo a sud di Birmingham, il 17 Novembre del 1946. Successivamente la famiglia si trasferì a Solihull, dove Martin ottenne il diploma alla Tudor Grammar School. La passione per la musica gliela trasmise il padre, che a scappa tempo amava suonare il clarinetto, ma l'unico talento musicale in famiglia era suo nonno, violinista in un'orchestra di Parigi. Come premio per il diploma conseguito, il padre gli comprò una chitarra, con annessi alcuni dischi dei migliori musicisti jazz dell'epoca. Dopo aver militato in maniera effimera in piccole band locali, nel 1963 registrò la sua prima demo con i Dwellers, band che oltre ad eseguire brani strumentali, rivisitavano classici dei Beatles. Nel frattempo, Martin migliorò il suo bagaglio musicale imparando a suonare il flauto ed il sassofono e proprio grazie alle nuove abilità acquisite, dopo aver girovagato in diversi gruppi underground, entrò a far parte dei Moonrakers. Convinto di poter fare della musica la sua vita, interruppe gli studi, ma purtroppo nel 1966 i Moonrakers si sciolsero. Poi, tramite un annuncio sul Melody Maker, entrò a far parte dei The Noblemen, gruppo soul alle prese con seri problemi di formazione ed in cerca di un sassofonista. Dopo aver mutato il nome in Motivation, la band iniziò a farsi notare nell'underground musicale britannico, suonando di spalla a svariate band americane. Poi, dopo una serie di sfortunati eventi che portarono la band sull'orlo di uno scioglimento, Martin si ritrovò a suonare nuovamente la chitarra. A causa di un problema di omonimia con un'altra band, cambiarono nuovamente il nome in The Penny Peep Show, ottenendo poi un contratto con la Liberty Records per l'incisione di un disco. Per uno strano gioco del destino, il loro primo singolo fu pubblicato il 16 Febbraio del 1968 in contemporanea con il primo singolo dei "Jethro Toe". Con il passare del tempo, la band cambiò nuovamente il nome in The Garden Of Gethsemane, semplificandolo successivamente in Gethsemane. Grazie alle loro improvvisazione sul palco, che vedevano Martin Barre passare dalla chitarra al flauto con una disinvoltura disarmante, suonarono di spalla a band del calibro di Fleetwod Mac, David Bowie e guarda caso Jethro Tull. Poi però l'interesse della casa discografica verso i Gethsemane andava lentamente scemando e Martin Barre iniziò a guardarsi intorno, tempestando di telefonate Ian Anderson dei Jethro Tull, per andare ad occupare la casella vuota di chitarrista, tutto il resto è storia. Con il talento del nuovo arrivato in continua evoluzione, Ian Anderson voleva chiudere in maniera definitiva con il blues, puntando su una più suggestiva impronta folk, contaminata da piacevoli venature di musica classica e musica orientale, ovviamente mixando il tutto con una buona dose di sano hard rock. Per rendere il più originale il nuovo sound dei Jethro Tull, Ian introdusse nel suo arsenale una balalaika, un mandolino, un buzuki (un'antico strumento musicale greco parente stretto del mandolino) ed una chitarra acustica della Yamaha, acquistata a buon prezzo. Ian Anderson prese la passione della musica classica quasi per caso. Uno studente che abitava al piano di sotto della sua abitazione durante il soggiorno a Londra, tentava disperatamente di imparare con la chitarra (con scarsi risultati, invero) la "Bourrée" di Bach. La "Bourrée" è una antica danza francese le cui origini si perdono nel tempo. Nei primi anni del 1700 (è difficile risalire alla data esatta) Johann Sebastian Bach compose una Bourrée, inserendola nella famosissima "Suite n° 1 per liuto in Mi minore", ed è proprio questa versione che lo pseudo chitarrista cercava di imparare. Sentendo il brano in loop, Ian Anderson lo memorizzò con estrema facilità, rielaborando una sua versione con il flauto, mettendo poi il tutto nel cassetto che conteneva le idee per i nuovi brani dei Jethro Tull, ignaro che con il tempo diventerà una delle canzoni simbolo della band. Con il nuovo chitarrista abile e arruolato, i Jethro Tull riprensore l'attività live, suonando anche da spalla a Jimi Hendrix. Un altro enorme passo della band fu quello di andare a suonare in America. Il problema era che durante il tour, i nostri si ritrovarono a presentare "This Was" che negli Stati Uniti non era stato ancora pubblicato (vi uscì il 3 Febbraio del 1969, oltre quattro mesi dopo la pubblicazione in patria.) e come se non bastasse, presentavano anche il nuovo chitarrista che non aveva suonato su quell'album. Nonostante tutto, le prestazioni furono apprezzata e la stampa osannava quella band di inglesi vestiti come barboni, con uno strambo funambolo al flauto. Fra una data e l'altra, ci fu anche il tempo di scrivere un nuovo singolo, "Living In the Past", composto con la collaborazione di Terry Ellis a Boston e registrato presso i piccoli ma accoglienti Vantone Studio siti a West Orange nel New Jersey. Durante il tour americano, i nostri ne combinarono ovviamente di cotte e di crude. Un aneddoto in particolare, che sembra uscito da un film comico, merita di essere citato. Ian Anderson ha sempre ostentato di essere contrario all'uso di droghe e all'abuso di alcool, ma nonostante questo, durante uno dei tanti spostamenti in America a bordo di una macchina a noleggio, i Jethro Tull furono presi in custodia dalla polizia, in quanto nell'auto fu rinvenuta una bottiglia di whisky aperta (lasciata dal precedente cliente che aveva noleggiato l'auto) ed alcuni semi che i poliziotti sospettavano fossero di marjuana (invero si trattava dei semi di sesamo caduti da un panino), e tenendo conto che a bordo dell'auto vi erano quattro capelloni mal vestiti, per la polizia non fu certo difficile fare 2+2. Per fortuna, una volta dimostrata la loro innocenza, il loro stato di colpevolezza cessò. Finito il rocambolesco tour, ad Aprile del 1969 i nostri tornarono in patria. Era venuto il momento di pensare ad un secondo album, quello che li avrebbe consacrati oppure relegati ad insignificante band che vivacchia suonando in piccoli locali. Per fortuna che Ian Anderson aveva molti brani in cantiere, quindi non rimaneva che prenotare i Morgan Studios di Willesden a Londra e darsi da fare. Delle dieci tracce che compongono la track list di "Stand Up (In Piedi)", ben nove sono targate Ian Anderson, la restante, che porta l'illustre firma di Johann Sebastian Bach è comunque stata rivisitata e arrangiata dal medesimo. Il titolo è opera del produttore Terry Ellis. Pur non essendo un concept, l'album spesso mette in mostra un filo conduttore che ci riconduce al rapporto di Ian Anderson con la famiglia. Stessa cosa si poteva dire dell'album precedente, dove tutti i brani sembravano ricondurci ad una storia d'amore finita male. Con l'avvento di Martin Barre alla chitarra, scompaiono quasi totalmente le influenze blues, tutte le composizioni mettono in mostra la visione musicale che ha sempre voluto Ian Anderson, ovvero quello di miscelare al rock influenze di musica classica e jazz, variegando il tutto con atmosfere folk e medievali, grazie all'introduzione dell'uso di alcuni strumenti che con il rock avevano poco a che fare. Penso sia giunto il momento di scoprire quali sorprese cela il secondo lavoro in studio dei Jethro Tull.
A New Day Yesterday
Ad aprire le danze è "A New Day Yesterday (Un Nuovo Giorno Ieri)?", l'unico brano che lascia trasparire ancora qualche scoria di blues, anche se è doveroso sottolineare di un blues oscuro, lontano anni luce da quelli che proponeva Mick Abrahams. Basso e chitarra viaggiano all'unisono, accompagnati in maniera convincente da Clive Bunker che ci delizia con una serie di filler. Dopo alcuni secondi, Ian Anderson tesse un paio di ricami con l'armonica, per poi cantarci di una storia d'amore folgorante ma difficile da portare avanti a causa degli impegni musicale del Menestrello Di Dunfermline. Tutto si è consumato nell'effimero spazio di un giorno. Dopo una romantica passeggiata i due hanno trovato l'amore baciandosi. Nell'inciso, guidato da uno scolastico cambio di tono, con una calda linea vocale blueseggiante, Ian Anderson ci canta di quanto il desiderio di vedersi nuovamente era forte da parte di entrambi, ma l'impegni hanno subito tarpato le ali alla relazione amorosa appena sbocciata, e quella che sembrava l'alba di un nuovo giorno si è trasformata immediatamente in una vecchia storia. Nella seconda strofa viene esternato tutto il disappunto, pare che Ian avesse cercato a lungo una storia amorosa, e proprio quando era riuscito a trovarla, se la vede sfuggire di mano a causa di una vita troppo incasinata. Nel secondo ritornello, il nostro pare comunque rassegnarsi, il suo nuovo stile di vita on the road non può permettergli di mantenere in saldo una relazione amorosa come la gran parte dei suoi coetanei, con il malaugurante sentore che non sarà l'unica relazione della sua vita ad essere andata in malora. Dopo un piccolo interludio strumentale, dove basso, chitarra e armonica si intrecciano giocando intorno al riff portante, arriva l'assolo di chitarra. Martin Barre dimostra subito di avere uno stile molto diverso rispetto al suo predecessore. Se pur suonando sopra un accompagnamento blues, il nostro fa vedere che ha grinta da vendere, dando vita a taglienti fraseggi di puro hard rock. A seguire, la chitarra lascia il campo a Ian Anderson, che ci graffia con il suo inseparabile flauto. Dopo un flebile abbassamento dei toni, i nostri partono nuovamente con l'oscuro riff blueseggiante, riproponendoci per un'ultima volta strofa e ritornello, chiudendo poi il brano con il caratteristico sfogo degli strumenti all'unisono.
Jeffrey Goes to Leicester Square
La successiva "Jeffrey Goes To Leicester Square (Jeffrey Va A Leicester Square)" è ancora una dedica che Ian Anderson fa all'amico Jeffrey Hammond, con il quale il nostro sembra avere un feeling particolare e che in un futuro prossimo riuscirà a portare all'interno della band. Si tratta di una breve ballata dai sentori medievali ed orientaleggianti. Il brano inizia con un simpatico dialogo fra gli strumenti che evoca atmosfere del Sol Levante. In questa traccia, Martin Barre ruba la scena a Ian Anderson e suona il flauto. Se pur dimostra di saperci fare, lo stile è assai diverso, il nuovo arrivato ha un modo di suonare molto più dolce e meno tagliente rispetto al Madman Flautist. Gli strumenti a corda ed il flauto, accompagnati da una raffinata figurazione di percussioni, rievocano atmosfere d'altri tempi. Con una linea vocale dai sentori madrigali, il Cantastorie Scozzese ci canta le gesta dell'amico Jeffrey, che camminando per Leicester Square posa gli occhi su una figura femminile alquanto ammaliante. La donna dall'aspetto folgorante attira su di se la totalità degli sguardi maschili, Jeffrey, pur consapevole di avere poche speranze di strapparle un appuntamento, sente che la donna gli ha rapito letteralmente il cuore. In mezzo troviamo un breve interludio strumentale che vede il flauto di Martin Barre protagonista, poi i nostri ripartono con la ballata che canta di Jeffrey, ostinato a incontrare nuovamente lo sguardo della bellissima donna, sfiorando lo stalking e cercando di scoprire chi sia l'uomo fortunato che può vantarsi di uscirci insieme o di condividerci un appartamento, consapevole che non esiste la benché minima possibilità che possa essere lui. In chiusura ritroviamo il brillante ed esotico dialogo fra gli strumenti sentito in apertura, che precede un secondo assolo di flauto che mette la parola fine al brano.
Bourée
Andando avanti incontriamo una delle tracce più famose dei Jethro Tull, ovvero "Bourée" (la lettera "R" in meno rispetto al titolo originale è un fatto voluto e non un errore), un errore invece fu quello della casa discografica che attribuì a Ian Anderson la paternità della canzone, quando tutti sappiamo che la versione originale è opera di Johann Sebastian Bach, il quale la inserì in una suite che al suo interno comprendeva diverse tipologie di danze come la Allemande, la Sarabande e la Courante, il tutto racchiuso nella magnifica "Suite n° 1 per liuto in Mi minore" catalogata come "BMV 996". Ad oggi, si tratta della più antica composizione per liuto firmata Bach. L'estrema difficoltà della diteggiatura fece sì che molti interpreti usassero la chitarra classica anziché il liuto durante le esecuzioni. Dalla notte dei tempi, è un classico con cui i chitarristi amano ostentare tutta la loro abilità con la sei corde. La versione rielaborata dalla geniale mente di Anderson vede però il flauto ed il basso elettrico protagonisti assoluti, fondendo la musica classica con il jazz. Con il tempo, oltre ad essere diventato un classico imprescindibile della band, è divenuto il pezzo per eccellenza con cui identificare il flauto in un contesto di musica rock. Curiosamente, Ian Anderson ha più volte ammesso di non aver mai sentito la versione originale durante la sua rielaborazione del brano, basandosi su quello che aveva sentito strimpellare dal suo vicino di casa. Ma veniamo al sodo, Pifferaio Magico replica alla perfezione con il flauto le trame che in origine venivano eseguito non senza difficoltà con il liuto. Accompagnato dai cadenzati passi lunghi del basso, le note del flauto sembrano svolazzare come leggiadre farfalle variopinte in una frizzante e colorata mattinata primaverile. Possiamo individuare due tracce ben distinte di flauto, ma dai crediti dell'album ci risulta che siano eseguite entrambe dal Flautista Di Dunfermline. Dopo circa trenta secondi, annunciato da un flebile lamento che si fonde alla trame del flauto, entra in scena anche Clive Bunker, che con una ritmica prettamente jazz segue le orme lasciate da Glenn Cornick. Ian Anderson, dopo alcune battute eseguite in tranquillità, inizia un virtuoso assolo con il flauto che diventa sempre più nevrotico con il passare dei secondi, discostandosi dalla versione originale, dove regnavano affascinanti atmosfere barocche, e aggiungerei giustificando l'azzeccato soprannome di "Madman Flautist". A questo punto la versione originale del brano si sarebbe conclusa, ma i nostri ne hanno ancora, dimostrando tecnica ed inventiva da vendere e continuando ad improvvisare. Dopo i nevrotici aliti del flauto è il basso a diventare il protagonista assoluto. Glenn Cornick va a riprendere le trame del liuto con un virtuoso arpeggio di basso che repentinamente si trasforma in un funambolico assolo. Sul finale della scorribanda solista eseguita in completa solitudine, vien affiancato da un delicato sospiro del flauto che sembra evidenziare il gran finale. Ma il brano non è ancora finito, il basso risorge dalla ceneri come una fenice, riprendendo il giro dell'introduzione, affiancato poi da Ian Anderson con il flauto che ci ripropone il main theme sentito ad inizio brano. Un lamento in pieno stile "Roland Kirk" annuncia il ritorno della batteria. I nostri sfruttando al meglio il tema portante e ci trasportano dolcemente verso il classicheggiante finale del brano. Nonostante la natura strumentale, la canzone fu pubblicata come singolo balzando alla prima posizione della classifica dei singoli più venduti in Inghilterra, diventando ben presto un'icona con la quale veniva identificata la band.
Back to the Family
"Back To The Family (Di Nuovo In Famiglia)" è il primo brano che incontriamo con il quale i nostri ci illuminano sulle nuove sonorità della band, mescolando il folk con il rock in una micidiale alternanza fra riff grintosi e atmosfere pastorali. Dopo un effimero fraseggio di chitarra acustica, il brano diffonde atmosfere folkeggianti, dettate da una chitarra leggermente sporcata dal distorsore. Insolitamente, un fraseggio di chitarra acustica sembra porre fine al brano, ma è ovviamente troppo presto. Una grintosa progressione di power chord distorti ci mostra quanto Martin Barre sia diverso dal suo predecessore, donando un'anima hard rock alla band. Trasportato dagli energici accordi della chitarra ben sostenuti dalla sezione ritmica, Ian Anderson esterna tutta la confusione che regna dentro alla sua testa. La vita di città piena di impegni porta lo stress a livelli di guardia. Il telefono che squilla a qualsiasi ora, la frenesia della vita quotidiana, i problemi che si manifestano in quantità industriale senza dare un attimo di respiro. Un assolo nevrotico con il flauto annuncia quella che potrebbe essere la soluzione a tutti i problemi: tornare a vivere dai suoi, nella tranquillità della campagna inglese, lontano dai frenetici ritmi cittadini e dai mille problemi quotidiani. Il brano cala nuovamente, riprendendo le calde atmosfere iniziali. Una volta ritornato in famiglia però Ian Anderson si rende conto di quanto sia monotona la vita con i suoi, e incredibilmente inizia a sentire la mancanza di tutti quei problemi che doveva risolvere, delle telefonate che lo svegliavano di soprassalto nel bel mezzo di un sogno. Lo stare senza far niente immerso nella tranquillità della campagna lo annoia terribilmente, ed in maniera sorprendente prende un treno per fare ritorno in città. Quella vita molle e tutta quella tranquillità lo deprimeva, non era affatto per lui, doveva tornare al più presto in città! Ma una volta in città, lo stress torna a metterlo a dura prova, tanto da fargli rimpiangere la monotona vita di campagna, dando vita ad un circolo vizioso senza una fine di continuità. Con il ritorno in città tornano i potenti riff di chitarra sparati da Martin Barre, sottolineando in maniera esaudiente la netta differenza fra i due stili di vita, calma ma monotona quella di campagna, stressante ma eccitante quella metropolitana. A dipingere perfettamente i ritmi frenetici della metropoli, torna un nevrotico assolo di flauto. Spinto dal sostenuto ritmo della batteria e dagli accordi distorti della chitarra, Glenn Cornick inizia ad inseguire le trame del flauto con il basso, dando vita ad un meraviglioso intreccio di note che possiamo prendere come esempio per descrivere chi siano i Jethro Tull. Successivamente è il turno dell'assolo di chitarra. Con caustici fraseggi, Martin Barre alla prima occasione cancella gli assoli pieni di note blue trite e ritrite del suo predecessore, mettendo in mostra una buona dose di inventiva che si sposa alla perfezione con la genialità di Ian Anderson. I funambolici fraseggi della sei corde ora si intrecciano con i taglienti aliti del flauto, dando vita ad un epico duello che sfumando lentamente in fader ci abbandona senza né vinti né vincitori.
Look Into The Sun
Passiamo ora a "Look Into The Sun (Guardare Il Sole)", una malinconica ballata d'amore dal sapore anni settanta che rievoca atmosfere estive da vino e falò. Il brano è incentrato sui preziosi arabeschi disegnati da Martin Barre con la sei corde acustica, il quale intreccia sapientemente cristallini fraseggi con uno strumming da spiaggia, emanando piacevoli atmosfere dal sapore folk. Di tanto in tanto, il nostro mette qualche caloroso contrappunto con la chitarra elettrica. Curiosamente al basso non troviamo Glenn Cornick ma bensì Andy Johns, tecnico del suono che dimostra di saperci fare anche con le quattro corde, facendo un grande lavoro di riempimento con trame sinuose e raffinate, inseguendo spesso i fraseggi della chitarra elettrica. Le armonie melanconiche sono terreno fertile per Ian Anderson, che con mestizia canta di una storia d'amore non andata a buon fine. Per esternare tutto il suo dolore, il Menestrello Scozzese usa la metafora della "canzone triste", mai facile da cantare, ma che rimane comunque la cosa più semplice con la quale sfogare i suoi sentimenti. Un vigoroso strumming acustico enfatizzato dal basso dona una leggera dose di energia al ritornello, dove si apprende che la storia si è consumata durante un'Estate, ed inevitabilmente, ogni qual volta Ian Anderson si trova a guardare il Sole, non può far altro che pensare alle spensierate giornate passate insieme alla sua ex fiamma. La fine della storia d'amore ha avuto lo stesso effetto che ha la brutta stagione quando scalza l'Estate, portando freddo ed oscurità. Ma si tratta solo di un ciclo naturale, è l'Estate è pronta a tornare a scaldare nuovamente i cuori. Ian Anderson spera che la sua ex un giorno possa ascoltare questa melanconica ballata e rendersi conto di cosa si è persa lasciandolo. In fondo al suo cuore rimane sempre una flebile speranza che i due possano un giorno tornare insieme, del resto, prima o poi l'Estate arriva sempre. Strofe e ritornelli si succedono in maniera scolastica, dipingendo tristi atmosfere e sporcati di tanto in tanto da effimeri interludi che vedono protagonisti caustici fraseggi di chitarra ottenuti premendo il pedale dello wah-wah. Nel finale, i nostri puntano tutto sull'inciso, arricchito da ridondanti fraseggi di chitarra che lentamente evaporano in fader.
Nothing Is Easy
"Nothing Is Easy (Non C'è Nulla Di Facile)" è un altro brano passato alla storia per l'uso del flauto, in particolar modo per quanto riguarda l'introduzione, meno aggressiva rispetto agli standard Andersoniani ma di grande effetto, grazie anche al lisergico wall of sound degli altri strumenti che gridano fortemente anni '70. Dopo un minaccioso alito in "La", Il Pifferaio Magico inizia a disegnare trame dal sapore esotico con il suo inseparabile flauto traverso, ricamate da decisi colpi stoppati all'unisono dal resto della banda. Successivamente Ian Anderson ci ipnotizza con un ossessivo tema di flauto, ricamato da un ridondante tema di chitarra e da una zoppicante cavalcata ritmica, sulle onde della quale arriva la strofa, dove il Cantastorie Scozzese con versi ultra positivi ci invita a fare buon viso a cattivo gioco di fronte agli ostacoli che quotidianamente ci si prospettano davanti durante il duro sentiero della vita. Come dice esplicitamente il titolo, nella vita non c'è nulla di facile. Quando la sorte ci gira contro, bisogna affrontare qualsiasi problema con calma serafica e cercare di distrazioni, cercando di non cadere però in circoli viziosi come il gioco d'azzardo, la droga o l'alcool, inutili placebo che con il tempo non faranno altro che aggravare la situazione. Martin Barre risponde ad ogni capoverso mettendo un deciso contrappunto con la sei corde, dandoci l'idea di un accesa discussione. Il ritornello, appoggiandosi su un disturbante tappeto di basso, si limita a rimarcare che nulla è facile, lasciando il campo ad un lisergico interludio strumentale. Fra i colpi stoppati della sezione ritmica, flauto e chitarra danno alito ad un acceso dibattito, passando successivamente la mano a Martin Barre, il quale ci ipnotizza con un caustico assolo di chitarra che porta ancora con se le scorie della musica psichedelica, che in quel periodo era in procinto di lasciare le luci della ribalta al progressive rock. Successivamente, accompagnato da una raffinata ritmica jazzata è il turno dell'assolo di flauto. Dopo aver disegnato esotici arabeschi, il Madman Flautist riprende il tema ossessivo sentito nella parte finale dell'introduzione, aprendo i cancelli al ritorno della strofa, dove continuano messaggi che sprizzano positività da tutti i pori, invitando a pensare che quando la situazione sembra essere al collasso, da qualche parte nel Mondo c'è sempre qualcuno che se la passa peggio di noi, ma questi, con forte di spirito, pensa comunque in maniera positiva cercando di divertirsi. Ritorna il chorus, dove Ian Anderson rimarca che dopo una tempesta tornerà sempre a splendere il Sole, dopo di che ritroviamo una prolungata coda strumentale, dove Martin Barre e Ian Anderson combattono a suon di note sparate con i rispettivi strumenti. Anche la sezione ritmica recita la sua parte in questo finale autocelebrativo, con prolungati filler e sinuose trame soliste del basso che ci portano dritte verso l'interminabile gran finale settantiano.
Fat Man
La successiva "Fat Man (Grassone)" è la prima ed affascinante escursione nella musica orientale da parte della band, accompagnata purtroppo da liriche a mio avviso infelici, che se pur sarcastiche possono risultare offensive. Clive Bunker fa un grande lavoro dietro al set di percussioni, rievocando esotiche ritmiche tribali seguite magistralmente da Martin Barre con un particolare e vigoroso strumming con la chitarra acustica, seguendo il tempo dettato da uno squillante piattello. L'eclettico Ian Anderson dopo il flauto introduce pionieristicamente altri due inusuali strumenti in un contesto rock, portandoci nelle pacifiche terre d'oriente con il mandolino e la balalaika, che vanno magicamente ad intrecciarsi con la sei corde e le esotiche percussioni. A rifinire le piacevoli atmosfere del Sol Levante troviamo dei quasi impercettibili sospiri del flauto, che danno l'idea di essere eseguiti con un rudimentale strumento a fiato ottenuto da una canna di bambù. L'esotico wall of sound orientaleggiante non si sposa affatto con le liriche, dove Ian Anderson ostenta con fierezza la sua magrezza, elencando una serie di situazioni dove per forza di cose un uomo dalla fisionomia segaligna ha la meglio nei confronti di quelli a cui Madre Natura ha donato qualche chilo di troppo. Troppo pesi ed ingombranti per essere portati in giro, secondo Ian Anderson chi è grasso ha poche possibilità di trovare una donna che lo ami al mattino, ma soprattutto la notte, oltre ad altri milioni di problemi che possono portare i chili in più. Verso la metà del brano incontriamo un intermezzo strumentale, dove gli strumenti danno vita all'affascinate intreccio dal sapore d'Oriente sentito nei primi secondi del brano. Successivamente, Clive Bunker ci fa sognare con un esotico assolo con le percussioni. Le trame orientaleggianti degli strumenti crescono gradualmente aprendo le porte al ritorno della strofa, impreziosita dal sabbioso suono delle maracas. Il Cantastorie Scozzese continua a sparare a zero su chi è decisamente più robusto di lui, giurando che farà di tutto per mantenere la sua esile corporatura. Il verso "Won't waste my time feeling sorry for him (Non butterò via il mio tempo a dispiacermi per lui.)" ci lascia presagire però che le liriche abbiano un obbiettivo ben preciso, magari quello di convincere a darci un taglio un amico che tiene poco alla sua salute rimpinzandosi di schifezze fino all'inverosimile. In questo caso allora potremmo leggerle con un altro metro che in qualche maniera ne addolcirebbe il succo. Ian Anderson gioca il jolly proprio in chiusura, dicendo che esiste però un'occasione in cui un grasso la spunterebbe su un magro: se entrambi rotolassero giù da una montagna, non ci sono dubbi su chi sarebbe il vincitore.
We Used To Know
Siamo arrivati a quella che è la mia traccia preferita dell'album, quella "We Used To Know (Ciò Che Conoscevamo)" su cui per ovvi motivi bisogna fare un discorso introduttivo a parte. L'ammaliante progressione armonica degli accordi della chitarra e la melanconica melodia della linea vocale possono far esclamare a molti "Cavolo, ma è uguale ad "Hotel California" degli Eagles!!!" Ma come sul dirsi, "è qui che casca l'asino!" Infatti, Glenn Frey e soci hanno composto solo alla fine del 1976 quella che ben presto è diventata una delle canzoni più famose della storia del rock, ben sette anni più tardi della composizione firmata Anderson, ergo, semmai è "Hotel California" che è uguale a "We Used To Know". In alcune interviste, Ian Anderson ha lasciato trasparire un leggero disappunto al netto del successo ottenuto dal brano degli Eagles, riprendendosi però in maniera diplomatica dicendo che tutto sommato le note sono sette (omettendo i semitoni) è che è possibilissimo che a distanza di anni e chilometri inconsciamente qualcuno componga una progressioni di accordi molto simile ad un'altra, sottolineando anche la diversità della ritmica. Nell'Estate del 1972 durante il tour americano i Jethro Tull ebbero più volte gli Eagles come gruppo di spalla, quindi ci sono buone possibilità che Don Henley e compagnia cantante avessero sentito il brano in questione, rimanendone ammaliati tanto da prenderlo come spunto per una loro composizione. Ian Anderson ha comunque messo una pietra sopra alla questione affermando in maniera lapidaria e pungente che gli piace prendere l'eventuale plagio come una sorta di "omaggio" ai Jethro Tull. Dopo questa necessaria prefazione, vediamo di passare al sodo. Siamo subito incantati dalla geniale progressione di accordi in strumming che si intrecciano con un caloroso fraseggio di chitarra e dalla melanconica linea vocale del Cantastorie Di Dunfermline, che ci canta di quanto fosse dura la vita degli esordi, quando ancora i Jethro Tull si chiamavano John Evan Smash. In quel periodo Mick Abrahams era appena entrato nel gruppo, portando le in sue influenze blues e a sette il numero degli elementi, decisamente troppi per poter guadagnare una cifra ragionevole dalle serate. Per aumentare le entrate, la band a decise di spostarsi da Blackpool a Londra, in modo di avere la possibilità suonare nei numerosi pub che offriva la capitale. Ma il trasferimento a Londra si rilevò troppo dispendioso, nonostante offrisse più possibilità per suonare dal vivo, gli affitti erano alti e dopo soli tre giorni Barrie Barlow, John Evan e i due sassofonisti ritornarono a Blackpool. Ian Anderson ed i superstiti erano comunque intenzionati a rimanere nella capitale e portare avanti il progetto, e dopo aver reclutato Clive Bunker dietro alle pelli, così fu. La struggente linea vocale lascia trasparire che tutto non era rose e fiori. Ian Anderson e Glenn Cornick condividevano una topaia, dove cercavano di sopravvivere in condizioni a dir poco disagiate. E' in quel periodo che Ian Anderson iniziò ad indossare quel lungo pastrano grigio scuro da barbone che portava anche durante i concerti, ma la ragione per la quale lo indossava era semplicemente per proteggersi dal freddo pungente che regnava nel loro rifugio. Nonostante poi siano arrivati a raggiungere un meritatissimo successo, agli inizi sovente avevano avuto paura di non potercela fare, temendo una rapida discesa dalla scala del successo i cui gradini venivano superati con estrema lentezza. In quel periodo, dovevano accontentarsi dell'uovo quotidiano, lasciando perdere la gallina del domani, dovevano accaparrarsi il più possibile prima che l'industria discografica gli dicesse che per loro non vi era un domani. Ma con il tempo, quei giorni grigi se ne sono andati, lasciando spazio a periodi rosei estremamente fruttuosi, e proprio in conclusione Ian Anderson ha un dolce pensiero nei confronti degli amici che nel momento peggiore decisero di abbandonare la nave, augurando buona fortuna e sperando che entrambe le strade intraprese portino al successo, e perché no, un giorno possano di nuovo incrociarsi. L'importante è che sia da una parte che dall'altra, non si dimentichino mai i tempi vissuti insieme. Ma il pezzo forte del brano sono gli assoli. Dopo circa un minuto, il Pifferaio Magico ci incanta con un ineguagliabile assolo di flauto. Le note scorrono via in maniera talmente fluida che ci sembra di sentire un assolo di chitarra, fuoriuscendo dal flauto come la lava dalla cima di un vulcano, inondandoci di indimenticabili emozioni. Brividi. Glenn Cornick fa un grande lavoro con le quattro corde, inseguendo con sinuose scale ora il flauto, ora la chitarra. Martin Barre abusa dello wah -wah dando vita ad un assolo memorabile, di quelli che ti obbligano a suonare una chitarra immaginaria con tanto di smorfie sui punti cruciali. Difficile non pensare che gli Eagles si siano ispirati a questa splendida canzone per comporre la celeberrima "Hotel California". Accompagnati da un Clive Bunker stratosferico che ricama con una serie di filler senza una fine di continuità, basso e chitarra danno vita ad un magico intreccio fino al minuto 02:16, quando fa il suo ritorno la struggente strofa, dove a farla da padrona è la sezione ritmica con passaggi di gran classe sulle pelli dei tom tom e pastose scale sparate dal basso che sovrastano l'ammaliante progressione di accordi della chitarra. A seguire un secondo e fenomenale assolo con la sei corde, che se mai ce ne fosse il bisogno, ci dimostra che i nostri hanno trovato un grande chitarrista. Funamboliche scale e melodici fraseggi sfumano purtroppo lentamente in fader, è uno di quei solo di chitarra che vorremmo non finissero mai, e quando evapora lentamente verso l'estinzione, la voglia di risentire il brano da capo è tanta. Chapeau.
Reasons for Waiting
Nella traccia successiva torna David Palmer ad arrangiare e dirigere le trame orchestrali. "Reasons For Waiting (Motivi Per Aspettare)" è una dolcissima ballata acustica d'altri tempi, dove Ian Anderson ostenta tutta la sua ammirazione nei confronti di Roy Harper, uno dei più importanti cantautori di folk rock britannico, musa ispiratrice per il Cantastorie Scozzese, come da lui ammesso più volte in svariate interviste. A colpirci sin dai primi istanti è l'interessantissimo strumming di chitarra acustica con le sue ammalianti pennate in levare. I dolcissimi ricami eseguiti con il flauto che si intrecciano con le trame orchestrali stavolta sono opera di Martin Barre. Quelle che Ian Anderson ha deciso di abbinare a questo brano che rievoca atmosfere medievali non si possono definire delle liriche, si tratta una vera e propria dolcissima poesia dedicata ad una ragazza che lo ha letteralmente stregato. Seguendo la strada aperta dalla chitarra acustica, il nostro recita dolcissimi versetti colmi di struggenti licenze poetiche. La ragazza lo ha talmente ammaliato che lui passerebbe intere giornate solo per vederla dormire. Potrebbe trattarsi di una bellezza conosciuta durante un tour, in quanto un verso recita "Came a thousand miles just to catch you while you're smiling. (Ho fatto migliaia di chilometri solo per coglierti nell'attimo in cui ridi)". I contrappunti ed i tappeti di organo sono opera dello stesso Anderson, che si conferma un polistrumentista di prim'ordine. Dopo un paio di strofe Martin Barre esegue un breve assolo con il flauto, replicato all'unisono dall'organo. Questo intermezzo verrà ripreso più volte in seguito, fungendo da ritornello strumentale. La chitarra acustica annuncia il ritorno della strofa, dove vengono rimembrate le affascinanti camminate nel bel mezzo della notte. I versi scritti da Anderson rievocano una miriade di ricordi passati insieme, colmando in qualche maniera la distanza che separa i due. Dopo un secondo ritornello strumentale, la chitarra stavolta annuncia l'ingresso in campo di David Palmer, che ci fa venire la pelle d'oca con un fiabesco intermezzo orchestrale degno della colonna sonora di una vecchia pellicola della Disney. Gli struggenti lamenti degli archi vengono ricamati con il dolcissimo tema di flauto sentito durante l'introduzione. La strofa finale viene impreziosita dagli archi diretti da Mr. Palmer, Ian Anderson chiude da sommo poeta con versi profondi che meritano di essere citati in tutta la loro interezza: "So here's hoping you' ve faith in impossible schemes, that are born in the sigh of the wind blowing by while the dimming light brings the end to a night of loving. (Ecco, qui c'è la speranza che tu creda nell'impossibile, nato nel sospiro del vento che soffia mentre la luce fioca chiude una notte d'amore)". I nostri chiudono con una coda strumentale, il ritornello anticipa il ritorno di David Palmer che va a chiudere in maniera Hollywoodiana il brano. Come suol dirsi, la classe non è acqua.
For A Thousand Mothers
E siamo giunti piacevolmente all'ultima traccia del platter, "For A Thousand Mothers (Per Mille Madri)", una energica canzone hard rock contaminata dall'uso sfrenato del flauto, dove si riflette il difficile rapporto di Ian Anderson con i propri genitori. Una sorta di rivincita da parte del Cantastorie Di Dunfermline nei confronti dei genitori, i quali sostenevano che il figlio non avrebbe mai fatto della musica la propria ragione di vita. Ma come si evince dal titolo "Per Mille Madri" la canzone è dedicata anche a tutti quei genitori che non concedono ai propri figli lo spazio ma soprattutto la fiducia necessari per farsi largo nel tortuoso fiume della vita e per trovare se stessi, per scegliere la propria strada, anziché quella da loro disegnata in maniera inopportuna, senza conferire con le necessità e le ambizioni dei diretti interessati. Clive Bunker apre il brano con raffinati fraseggi sui piatti e sulle pelli anticipando un travolgente unisono degli strumenti, le cui trame lasciano dietro un leggero sentore di terrore. In pieno stile anni settanta, le pastose note del basso ed i piatti sferraglianti prevalgono sul resto degli strumenti. Ian Anderson non si lascia intimorire e con una linea vocale dal sapore epico ricorda di quando sua madre gli dava contro (pur avendo ragione), dicendogli che stava sprecando il suo tempo con la musica, dicendogli che non avrebbe mai trovato un successo talmente forte da permettergli di campare con la musica. Ogni capoverso cantato viene prontamente ricamato dal flauto. Nel chorus, gli strumenti proseguono la travolgente cavalcata, lasciando il campo al Cantastorie Scozzese che fa centro con una linea vocale che ci cattura all'istante, cantando i quattro venti che invece il tempo glia ha dato ragione. Grazie alla sua tenacia, ha sempre creduto nei propri mezzi, forte di un talento naturale sopra la media. Il nostro si è ripreso la rivincita con i dovuti interessi, passando a prendere i genitori per una cena di famiglia con una scintillante Limousine. Ma lui capisce che loro dicevano quelle cose solo ed esclusivamente per il suo bene, e per questo dedica il brano a loro, che lo hanno messo al Mondo, dotato di un grande talento che gli ha permesso di coronare i suoi sogni. Oltre all'ammaliante linea vocale, il pezzo forte del ritornello sono i decisi contrappunti messi dal flauto, che successivamente si ritaglia un piccolo spazio solista, annunciando strofa e ritornello successivi. Andando avanti incontriamo un grintoso interludio strumentale, dove gli strumenti a corda danno vita ad intrecci di pura matrice hard rock che diventeranno l'accompagnamento per un tagliente assolo di flauto. Dopo un ultimo passaggio di strofa e ritornello, il pezzo sembra estinguersi dietro i decisi colpi all'unisono che ci portano verso il gran finale, ma dopo un secondo di silenzio assordante, in crescendo Clive Bunker riaccende la miccia per una travolgente coda strumentale, dove si alternano le scorribande soliste del flauto e della chitarra, evaporando poi lentamente in fader, stavolta in maniera definitiva, ponendo la degna conclusione ad un grande album.
Conclusioni
Con questo album Ian Anderson si è confermato leader assoluto della band, che vive basandosi sul suo enorme talento e la sua creatività. Da questo preciso momento, il flauto è diventato una parte integrante del suo corpo, ci risulta impossibile immaginarcelo senza il suo inseparabile flauto traverso, che con il tempo identificherà in maniera incontrastata l'immagine dei Jethro Tull. La mia avversità verso il blues ha fatto sì che l'album d'esordio non mi abbia entusiasmato più di tanto, e nonostante da molti sia considerato un esordio con il botto, il passo in avanti compiuto con questo "Stand Up" è enorme, giusto per usare un vasto eufemismo, in special modo sotto il profilo del songwriting e degli arrangiamenti, mai banali e raffinatissimi. Libero dai freni inibitori di Mick Abrahams, Ian Anderson ha liberato tutto il suo talento firmando tutte quante le composizioni che compongono la track list, incantandoci con il flauto, conquistandoci con ammalianti linee vocali e dimostrandosi un valente polistrumentista suonando strumenti inusuali per il rock come il mandolino o la balalaika, oltre a quelli più canonici come la chitarra acustica e l'organo. Come se non bastasse il nostro si è occupato anche degli arrangiamenti e della produzione. Il nuovo arrivato Martin Barre, nonostante i primi goffi passi, una volta ottenuto il posto di chitarrista, ha subito dimostrato di essere l'uomo giusto, dando una impronta originale al sound Tulliano con il suo stile di suonare la sei corde. Mai banale con l'acustica, grintoso con la elettrica, micidiale sulle parti soliste, l'emozionante assolo di "We Used To Know" è il suo fiore all'occhiello. Fra lui e Anderson pare che ci sia una magica alchimia destinata a durare nel tempo, i due si trovano a meraviglia, dando vita a magici intrecci e senza mai pestarsi i piedi l'uno con l'altro. Il talento dei due viene valorizzato al massimo dall'impeccabile sezione ritmica. Glenn Cornick si dimostra un grande interprete delle quattro corde, non limitandosi ai soli compiti ritmici. Con tecnica e velocità riesce sempre a tenere testa alle scorribande della chitarra e del flauto, dando vita a memorabili intrecci. Non da meno il suo collega di reparto Clive Bunker che passa in maniera naturale da raffinate ritmiche dai sentori jazz a tempi energici e trascinati di puro stampo hard rock. Anche nei momenti in cui non è richiesto l'apporto della batteria, sa farsi trovare pronto con sorprendenti performance alle percussioni. Veniamo ora ai dati anagrafici: "Stand Up" è venuto alla luce il primo Agosto del 1969 in Europa, distribuito dalla label Island, mentre gli Stati Uniti e l'Oceania hanno dovuto attendere fino all'inizio del mese di Ottobre, ovviamente del medesimo anno, dove la distribuzione è stata affidata alla Reprise. Le registrazioni hanno avuto inizio il 17 Aprile del 1969 presso i Morgan Studios di Londra e sono terminate il primo Maggio, fatta eccezione della canzone "Bourée" che è stata registrata agli Olympic Studios sempre a Londra, nella giornata del 24 Aprile. La produzione è opera dell'eclettico Ian Anderson, coadiuvato dal produttore Terry Ellis. L'album balzò sorprendentemente al primo posto della classifica Inglese, ottenendo anche una dignitosissima posizione numero 20 negli Stati Uniti, conseguendo la certificazione di disco d'oro in entrambi i paesi. Curiosamente il primo singolo pubblicato fu "Sweet Dream", un brano che non rientrò nella track list finale dell'album. Un plauso particolare merita l'art work, premiata come migliore copertina di un disco nel 1969 dalla rivista musicale britannica New Musical Express. L'idea venne a Terry Ellis nel bel mezzo del tour americano, quando durante un soggiorno a New Haven, nel Connecticut, notò la grande abilita nell'intagliare il legno che aveva un artista americano di nome James Grashow. L'astuto produttore, chiese all'abile intagliatore di seguire la band per una settimana, in maniera da assimilare tutte le sfaccettature dei vari componenti, per poi poterli rappresentare intagliati sul legno, secondo il suo inconfondibile stile. L'opera fu poi riportata su carta, ottenendo un simpatico quadretto che ritrae i quattro menestrelli in versione fumetto, circondati da foglie fiori. Il vinile, all'interno conteneva un pop-up, simile a quello dei libri per bambini, che una volta aperta la copertina si alzava in piedi, in linea con il titolo dell'album. In conclusione si tratta di un disco consigliatissimo. Privo di punti morti o di brani che invitano allo "skipping", ad ogni attento ascolto scoprirete sempre nuove sorprese che si celano dietro i certosini e originalissimi arrangiamenti che esulano dai classici cliché dell'hard rock dell'epoca. La particolarità dell'innesto del flauto come strumento predominante all'interno di un contesto rock lo rende ancora più interessante ed appetibile ad una vasta gamma di ascoltatori. Immancabile nelle collezioni diu chi ama la buona musica.
2) Jeffrey Goes to Leicester Square
3) Bourée
4) Back to the Family
5) Look Into The Sun
6) Nothing Is Easy
7) Fat Man
8) We Used To Know
9) Reasons for Waiting
10) For A Thousand Mothers