Jethro Tull

Minstrel In The Gallery

1975 - Chrysalis

A CURA DI
SANDRO PISTOLESI
23/11/2020
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione recensione

Come spesso accade per molti musicisti, la vita sentimentale si rispecchia inevitabilmente sulle nuove composizioni. Ian Anderson nel 1974 stava gettando le basi per una nuova storia d'amore con la bella Shona Learoyd, già vicina alla band durante il precedente tour, ma la scottante rottura con la sua prima moglie Jennie Franks bruciava ancora dentro al cuore del Menestrello Scozzese. Forse per staccarsi da qualsiasi ricordo del matrimonio andato in frantumi che in qualche modo potesse tormentarlo, comprò una nuova casa, ma insolitamente la tenne vuota a lungo, prendendo una residenza temporanea in hotel, dove a detta sua era molto più facile trovare l'ispirazione per del nuovo materiale. Inevitabilmente le nuove composizioni erano invase da atmosfere colme di mestizia e liriche fortemente introspettive. Se poi aggiungiamo che anche il matrimonio di John Evans era andato in frantumi, mettendo in luce una preoccupante regressione musicale, il gioco era fatto. Nel frattempo, i nostri, insoddisfatti dalle strutture dei vari studi di registrazione decisero di allestire una bizzarra struttura mobile denominata Maison Rouge Mobile, una sorta di attrezzatissimo studio di registrazione ambulante perfettamente funzionale secondo le loro esigenze. Ian Anderson, in completa solitudine nella sua stanza d'albergo scrisse le basi delle nuove composizioni fra l'inizi di Dicembre del 1974 ed il Gennaio dell'anno successivo. Neanche le calorose atmosfere natalizie riuscirono a smorzare la mestizia e la malinconia che permeava nelle nuove composizioni. Le registrazioni furono effettuate a bordo dell'improbabile studio mobile durante il tour europeo, per la precisione mentre la band stava portando a termine un estenuante viaggio che come meta aveva Monaco. Tutte le composizioni, ad eccezione della title track che vede la collaborazione di Martin Barre sono state scritte ed arrangiate da Ian Anderson.  I chiacchiericci e i rumori che precedono ogni traccia accentuano il senso di "home made" dell'album. Anche la struttura dei brani è insolita rispetto agli standard, raramente troviamo ritornelli ripetuti a più riprese, il Folle Compositore di Dunfermline preferisce rivisitare in chiave diversa le poche strofe scritte. L'insolito metodo di registrazione a bordo della Maison Rouge Mobile durante il viaggio faceva sentire buon Ian una sorta di menestrello al centro della galleria di un affascinante castello medievale, da qui il titolo dell'album "Minstrel In The Gallery (Menestrello Nella Galleria)". Così facendo però i nostri potevano sfuggire alle avide mani del fisco britannico, che all'epoca tassava le composizioni degli artisti musicali addirittura fino al 98%.  Purtroppo, per una serie di spiacevoli eventi, l'armonia all'interno del gruppo si stava deteriorando minacciosamente. I problemi familiari di John Evans lo avevano portato in una sorta di torpore artistico che stava cancellando le meravigliose escursioni pianistiche con le quali ci aveva incantato sino ad ora. Anche quella pasta d'uomo di Barriemore Barlow iniziava minacciosamente a dare segni di squilibrio, alimentando sovente futili polemiche fini a se stesse. Ma la situazione più preoccupante era quella di Jeffrey Hammond Hammond. Troppe volte aveva paventato l'idea di abbandonare la band per dedicarsi alla sua grande passione preTulliana, la pittura. Infatti, una volta registrato l'album, l'ultima data dei Jethro Tull con Jeffrey Hammond alle quattro corde fu quella conclusiva del Minstrel In The Gallery Tour, precisamente il 3 Novembre del 1975 alla The St. John Arena di Columbus, nell'Ohio. La leggenda narra che Jeffrey bruciò il suo amato costume sul palco della St. John Arena, gesto simbolico per comunicare la sua decisione di appendere al chiodo abiti e strumenti. Da quel giorno, il Bassista Di Blackpool si sposò e si ritirò fra le verdi colline della contea del Gloucestershire, lontano dai massacranti tour e dalle estenuanti sessioni di registrazioni, guadagnandosi da vivere con la sua più grande passione, la pittura. E mentre A Londra veniva aperto da Malcolm McLaren e Vivienne Westwood il negozio "Sex", dedicato alla vendita di vestiario e accessori punk e in una cantina londinese un certo Steve Harris si apprestava a formare gli Iron Maiden, Ian Anderson si ritrovò improvvisamente senza un bassista ma soprattutto senza un amico. Doveva rimpiazzalo al più presto per il bene della band, ma questa è una storia che affronteremo nella prossima recensione. Con l'ottavo album in studio continua la metamorfosi del sound tulliano. Si ritorna a brani di durata elevata e composizioni complicate, rispolverando il progressive rock temporaneamente accantonato con l'album precedente. Oltre alla celeberrima title track, nel nuovo full lenght emerge la splendida suite "Baker St. Muse", una delle più belle composizioni firmate da Ian Anderson e per molti addirittura superiore alle suite precedenti, gioia per chi come me ama il prog di gran classe. Apprestiamoci dunque ad analizzare l'ottavo album in studio dei Jethro Tull.

Minstrel in the Gallery

Si parte con Minstrel in the Gallery (Menestrello Nella Galleria), articolata title track di oltre otto minuti che in un solo colpo rispolvera il folk ed il progressive tanto caro ai nostri, con una grintosa iniezione di hard rock grazie ai taglienti riff di chitarra. Il magico intreccio fra la chitarra acustica ed il flauto ci trasportano nel lontano medioevo, accompagnando un talentuoso menestrello nel bel mezzo di una galleria circondata da alte balconate (galleria che rappresenta metaforicamente la Maison Rouge Mobile, ma anche uno dei tanti palchi dove la band si esibisce dal vivo). In passato, la figura del menestrello era solita intrattenere i padroni con spettacoli canori e musicali. Ian Anderson si sente proprio così, un umile menestrello che mette a disposizione dei magnati delle case discografiche il proprio talento, infatti tra le righe, il Menestrello Scozzese guarda con una sorta di irriverenza il pubblico, incrociando i loro sguardi e squadrando i diversi stereotipi di personaggi accorsi a vedere il suo spettacolo. La sua canzone parla di odio e amore e attira diversi esemplari della casta sociale britannica, come carrozzieri (?) oppure i fantomatici "mangiatori di zucca"; difficile entrare nell'impenetrabile mente di Anderson e stabilire quale cerchia di persone racchiude con il termine "mangiatori di zucca". Spesso come accaduto in passato, Ian non è nuovo a tirare pungenti e impalpabili frecciatine a chi in gli ha fatto un torto, oppure potrebbe trattarsi di una semplice licenza poetica in rima. L'idea personale che mi sono fatto è che i fantomatici "mangiatori di zucca" potrebbero essere gli avidi personaggi che si aggirano nel mondo discografico, che con il coltello dalla parte del manico tentano a tutti i costi di controllare le idee dei musicisti, spingendoli verso composizioni commerciali in modo da arricchirsi a loro spese. Le balconate ospitano una vasta scelta di personaggi provenienti delle varie classi sociali inglesi, si va dall'operaio ai colletti bianchi, troviamo anche personaggi che svolgono mansioni dove è richiesta una buona dose di azione (pompieri, forze dell'ordine ndr), ma che per l'occasione assistono disinteressati allo spettacolo, massaggiandosi le parti intime. Il madrigale prevede anche versi sarcastici in grado di ammutolire anche i comici più arditi, facendoli sembrare neonati con il pannolino. Ian Anderson si è sempre dimostrato attaccato alle tradizione inglesi, infatti nella terza strofa chiama in causa il backgammon, un antichissimo e popolarissimo gioco da tavola inglese (anche se nel resto d'Europa e pressoché sconosciuto), risalente ai primi del '600, che ricorda vagamente la nostra dama. Molti padri di famiglia, frustrati dalla monotonia della vita familiare e definiti addirittura misogini, alla domenica scaricano le loro frustrazioni settimanali partecipando a tornei di backgammon. Sempre nella terza ed ultima strofa, il Cantastorie Di Dunfermline, finora protagonista solitario, chiama a se il resto della band sul palco, forse rendendosi conto di non essere né migliore né peggiore del formicaio umano che sta assistendo allo spettacolo, buttando via lo specchio, simbolo del narcisismo e rivedendo se stesso in ognuno del pubblico, pubblico che non capisce che chi sta sul palco è esattamente un essere umano come loro. Uno spagnoleggiante crescendo della chitarra acustica annuncia la fine dello spettacolo. Al minuto 02:18, la band precedentemente chiamata sul palco si fa sentire realmente. Le acide scale sparate dalla chitarra di Martin Barre ci trasportano prepotentemente dall'affascinante medio evo ai lisergici anni settanta. Da qui in poi si va avanti con una sontuoso e prolungato intermezzo strumentale. Sembra che i Tull si facciano la guerra a suon di interminabili corse sulle pelli, funamboliche scale di basso e graffianti accordi distorti. In questa seconda parte del brano torna prepotentemente a galla l'anima progressive della band, impreziosita dalle funamboliche escursioni al flauto di Ian Anderson e svariati cambi di tempo. Nella terza ed ultima parte del brano, i nostri dimostrano di avere talento ed estro da vendere, rivisitando le prime strofe in chiave elettrica. La linea vocale di Anderson abbandona i toni giullareschi di inizio brano e si fa ben più decisa seguendo la trascinante e variopinta ritmica del duo Hammond- Barlow. Le articolate trame della chitarra si dividono fra graffianti accordi e tortuose scale, che di tanto in tanto si fondono ora con il flauto ora con l'organo, dando vita ad un classico imprescindibile della discografia Tulliana che sfuma lentamente in fader verso l'epilogo, lasciando un indelebile segno.  Il brano è stato rilasciato come singolo con "Summerday Sands" come B-side. 

Cold Wind to Valhalla

Come si evince dal titolo, la successiva ed assai più breve Cold Wind to Valhalla (Vento Freddo Per Il Valhalla) è una sorta di poesia ancestrale che omaggia la mitologia norrena. La protagonista è una giovane shield-maiden ossia una donna armata di spada e scudo che aveva scelto di combattere come un guerriero al fianco degli uomini, tralasciando i lavori domestici in virtù dei sanguinari scontri a cui erano soliti gli irriducibili guerrieri vichinghi. Chi sceglieva la strada delle battaglie non temeva la morte, se un valoroso guerriero cadeva sotto i colpi del nemico, il triste epilogo gli avrebbe spalancato le porte del Valhalla, vagamente paragonabile al nostro Paradiso. Nella mitologia norrena, il Valhalla (Valholl, sala degli uccisi) è una maestosa ed enorme sala situata ad Asgard, il mondo divino governato da Odino. Una volta raggiunto il Valhalla, i valorosi guerrieri avrebbero combattuto al fianco del loro Dio onnipotente durante il Ragnarök, la battaglia finale tra il bene e il male che avrebbe deciso le sorti dell'intero Mondo. Il brano viene aperto da un epico strumming di chitarra che rievoca la tradizione scozzese. Il flauto soffia tagliente come il gelido vento del nord che accompagna la graziosa fanciulla in sella ad un bellissimo unicorno, malamente ferrato, che a fatica si alza battendo le ali, aiutato dalla fredda spinta della brezza nordica. Il quintetto di archi diretto egregiamente da David Palmer rende ancor più epico il tutto, accompagnando assieme alle Valchirie la nostra protagonista verso la sala degli uccisi. Una volta giunta a destinazione potrà fare colazione con gli dei, momento scandito dall'ingresso in scena di tutti gli strumenti, che girano magicamente quasi all'unisono guidati dal forsennato giro di basso di Jeffrey Hammond. La chitarra di Martin Barre si lamenta in maniera inquietante, quasi a voler imitare il richiamo dei cervi di Yggdrasill o di qualche altro animale della mitologia norrena, arrivando lentamente ad un assolo psichedelico dai sentori Hendrixiani. Gli strumenti continuano la loro epica cavalcata, inseguendo il leggiadro unicorno, ormai giunto a destinazione, accolto dalle ancelle di Thor e dai numerosi eroi che popolano il Valhalla. Proprio in conclusione, il Cantastorie Scozzese esce dal binario ritornando sul Mondo terreno, dove ahimè, secondo lui, a differenza del Valhalla siamo purtroppo a corto di eroi. 

Black Satin Dancer

Continuiamo con Black Satin Dancer (Ballerina In Raso Nero) altro brano introspettivo dai due volti, che dopo una prima parte melliflua sfocia prepotentemente nella follia. Jeffrey Hammond scandisce il tempo con lugubri note guidando un esotico flauto che apre la traccia numero tre. Poche note di chitarra accolgono il Cantastorie Scozzese, che con una linea vocale carica di rimpianti parla del capolinea di una storia d'amore. Ci sono moltissime probabilità, visto il momento che stava attraversando Anderson, che la ballerina in raso nero in questione sia la sua ex moglie Jennie Franks, dalla quale si era recentemente separato, o comunque sia una sua vecchia fiamma. Un breve sussulto della sezione ritmica annuncia l'ingresso di John Evans. La sua escursione pianistica è di gran classe e ben presto viene raggiunta dal quintetto d'archi in gran spolvero, guidato sapientemente da David Palmer. Anche se è ben chiaro che la storia d'amore è giunta al capolinea, Anderson chiede un ultimo focoso atto sessuale, mettendo da parte tutte le problematiche ed i rancori che hanno portato a termine il rapporto. Sarà breve ma intenso. Nella seconda strofa la sezione ritmica entra a pieno regime ma con estrema dolcezza, quasi timorosa di rompere l'idilliaco momento dell'amplesso dei due amanti. "Thin wind whispering on broken mandolin (un vento sottile sussurra in un mandolino rotto)" è una poetica metafora che suggella la fine del rapporto, sostanzialmente simile al nostro "il giocattolo si è rotto", durante il rapporto, le menti dei due amanti rivivono velocemente i momenti più belli della loro storia fino a raggiungere l'orgasmo. John Evans tira fuori dal cilindro un inquietante tema che ricorda un vecchio carillon, tema che in crescendo viene seguito dal resto della band. Prima il flauto, poi la chitarra scimmiottano il tema lanciato da Evans, il tutto ricamato dai pianti dei violini. Gli strumenti ricreano alla perfezione l'amplesso dei due amanti con un andamento sinuoso e trascinante, fino ad arrivare al climax, che culmina con un bellissimo assolo di chitarra. Martin Barre dimostra ancora una volta di avere oltre alla tecnica anche un grande cuore, sparando una serie di note da brividi. La canzone sembra dolcemente avviarsi lentamente verso l'epilogo, intorno ai tre minuti e mezzo riprende con un prolungato intermezzo strumentale. Tutti gli strumenti sembrano impazziti, i BPM aumentano in maniera vertiginosa, Ian Anderson sembra indemoniato, masticando parole quasi incomprensibili mischiate a folli schiamazzi di flauto. Poi irrompe come un tuono a ciel sereno Martin Barre con un acido riff di chitarra, si ha l'idea di essere passati al brano successivo, ma non è così. L'organo lo segue passo dopo passo, il duo Barlow-Hammond accompagna con una ritmica da fuori di testa, tempi dispari e colpi stoppati. Incredibilmente Ian Anderson riesce a ripetere alcuni versi delle due strofe iniziali seguendo gli strumenti ormai fuori controllo. Flauto e chitarra iniziano un prolungato dialogo, le note fuoriescono dagli strumenti che sembrano impazziti come le parole di due due pazienti del Ashecliff Hospital fuori di senno che dialogano fra loro, mischiando urla con discorsi privi di senso. Giunti verso l'epilogo di questo folle interludio strumentale, c'è ancora tempo per recitare alcuni versi delle strofe; Anderson, accompagnato dal pianoforte accentua il senso di rimpianto con una mesta linea vocale che suggella la fine definitiva della storia d'amore. 

Requiem

La successiva Requiem è un grazioso intermezzo acustico dai sentori beatlesiani che liricamente va a riprendere il brano precedente. Con l'inappropriato titolo per una canzone d'amore, il nostro vuole celebrare una messa funebre per un rapporto amoroso ormai evaporato in maniera definitiva. In questi tre minuti e quarantacinque si sprecano le licenze poetiche e le metafore, ma scavando a fondo possiamo dedurre che i bellissimi versi sono dedicati ancora una volta alla ex moglie Jennie Franks, la quale ha evidentemente lasciato un vuoto incolmabile nel cuore del Menestrello Scozzese. E' proprio tra le prime righe che troviamo l'indizio più evidente: "Well I saw a bird today - flying from a bush and the wind blew it away. (Beh, oggi ho visto un uccellino volare da un cespuglio e il vento lo ha spazzato via.)" canta Anderson accompagnato egregiamente dalla sua chitarra acustica con una trama articolata e per niente banale. Di norma noi attribuiamo al termine "bird" il significato di "uccello", ma se scaviamo a fondo nello slang inglese scopriamo che la parola in questione è molto versatile e a seconda del contesto della frase, può assumere altri significati come ad esempio tipo, ragazza o donna e addirittura nei casi più estremi dito medio. Nel nostro caso è lapalissiano che l'uccello in questione sia una ragazza che ha lasciato un'insanabile breccia nel cuore di Anderson, ragazza che una volta consumatosi il rapporto amoroso è volata via lontana come un leggero uccellino trasportato via dal vento per chissà quali altre mete. L'essere umano è tutto sommato un essere debole che sovente non regge le pressioni della vita, come spesso le minuscole e delicate creature animali non reggono il confronto con Madre Natura, è questo che intende il Poeta Di Dunfermline quando canta di una coloratissima farfalla che spinata da un gelido vento si avvicina troppo al sole, bruciandosi le ali. Con la seconda strofa entrano in scena il violoncello e i quattro violini, guidati da David Palmer. Le corde dei cinque strumenti tanto cari a Niccolò Paganini sembrano piangere di fronte alle parole del Cantastorie Scozzese; si cala una nebbia colma di tristezza sul brano. Sebbene il rapporto fosse ormai chiaramente giunto al termine, entrambi non avevano il coraggio di dividersi. E' Ian che ha trovato il coraggio di incamminarsi verso la stazione e salire su un taxi, guardando dal vetro sporcato dalla pioggia la sua ex amata che lo implorava di restare, mentre velocemente la macchina nera si disperdeva nel caotico traffico londinese. Il mattino successivo si è ritrovato da solo a celebrare con un requiem la fine della sua storia d'amore, storia d'amore che agli inizi pareva indistruttibile. Ma come tutti noi sappiamo, anche di fronte agli ostacoli più difficili da superare, la vita va avanti, chiusa una porta, di lì a poco se ne aprirà un'altra, e chissà se anche la prossima volta Ian girerà ancora una volta le spalle incamminandosi mestamente lungo lo Strand. 

One White Duck(1) / 010 = Nothing at All

La storia continua con One White Duck(1) / 010 = Nothing at All (Un'Anatra Bianca / 010 = Assolutamente Nulla), il bizzarro titolo invero racchiude due canzoni ben distinte, unite poi in un secondo tempo. Le due canzoni, pur essendo il seguito naturale alle due tracce precedenti possono considerarsi l'una la nemesi dell'altra, in quanto la prima parla di una separazione e la seconda di un improbabile tentativo di riconciliazione. Scoprirete che musicalmente si tratta di un brano relativamente semplice e simile alla traccia precedente, incentrato sul dialogo fra la chitarra acustica e la piccola orchestra diretta da David Palmer, ma dalle liriche importanti e complicate da decifrare. 


Andiamo per ordine ed iniziamo con "One White Duck". Accompagnato da un radioso arpeggio di chitarra acustica Anderson dipinge un bellissimo quadro mischiando alla bellezza della natura comuni oggetti che si trovavano in casa. L'orizzonte offuscato dalla nebbia indica la nuova strada da intraprendere. Dopo la chiusura di una storia, imboccata l'autostrada, troveremo per forza di cose un nuovo sentiero da imboccare, cercando di gettarsi il passato alle spalle. Arriva il quintetto di violini a spruzzare una sensazione di amarezza, non è facile dimenticare, nella mente rimangono impressi alcuni particolari a cui magari prima non si faceva caso, come delle rose profumate o la riproduzione di un'anatra bianca appesa alla parete (da qui il titolo della prima parte della canzone ndr). All'epoca era molto comune trovare nelle casi inglesi una riproduzione di tre anatre disposte in scala, dalla più piccola alla più grande. Erano simbolo di ordine ed amore. Qui si parla però di una sola anatra, possibile che ci fossero anche altre versioni del comune gadget ornitologico, ma conoscendo Anderson, fra le righe potrebbe celarsi anche la rottura del rapporto amoroso. Le tre anatre possono simboleggiare un'allegra famiglia, una sola anatra un cuore solitario. Troviamo anche un omaggio alla musa ispiratrice di Anderson, prima di lasciare la casa, vuole suonare un ultima volta il violino della compagna, ma fra le righe potrebbe celarsi anche un torbido desiderio sessuale, sta a voi stabilire quale sia il violino e quale l'archetto. Una volta lontano da casa, il nostro ha ancora nel cuore la storia, e se pur distante, sovente invia all'indirizzo della vecchia dimora cartoline che riprendono paesaggi che ha visitato. 


Al minuto 02:19 evaporano gli archi e lo strumming di chitarra si fa assai più energico, inizia "010 = Nothing at All". Troviamo subito una licenza poetica molto enigmatica alla quale possiamo attribuire più significati "So fly away Peter and fly away Paul (volate via Pietro e Paolo)". L'istinto ci rimanda immediatamente ai personaggi evangelici, due personaggi così diversi ma uniti dal medesimo amore nei confronti di Gesù. Ma come sappiamo, spesso i versi scritti da Anderson sono molto criptici e allo stesso tempo versatili, ecco che in giro esistono altre due teorie riguardanti queste poche righe (è incredibile come i testi di Ian Anderson possano attirare l'attenzione e fare elaborare diverse teorie interpretative, a conferma della genialità innaturale dell'iconico personaggio scozzese). La prima vede un omaggio ad una antica filastrocca inglese intitolata "Two Little Dickie Birds" pubblicata per la prima volta sulla raccolta fiabesca Mother Goose's Melody a Londra nel lontano 1765. La terza ipotesi vede un tributo ad un brano dei Peter, Paul and Mary, un gruppo folk americano in voga negli anni sessanta. La canzone in questione, datata 1969 si intitola "Leaving On A Jet Plane" ed effettivamente se andate ad ascoltarvela come ho fatto io, potete notare che la struttura musicale ricorda vagamente il nostro brano. Io comunque voto per la prima che mi è venuta in mente. Il vivace strumming di chitarra ci trasporta magicamente di fronte ad un falò, incantati dalle storie del Menestrello Scozzese cariche di rammarico e piene di autocritiche che trasudano una grande voglia di espiazione e ricongiungimento. Come se volesse espiare mette in mostra le i suoi difetti e le sue poche doti di fronte ai mille pregi della donna "Way and my zero to your power of ten equals (il mio zero paragonato alla tua decima potenza è uguale al nulla assoluto)". Ormai privo di difese ha tolto le catene che lo separavano dall'amante rendendolo disponibile ad una riconciliazione. Qui le liriche raggiungono un livello qualitativo notevole, Ian Anderson usa frasi profonde e ricercate che raramente ci capita di incontrare in un testo di musica rock. Si sprecano i doppi sensi e i giochi di parole in questo più che complesso testo. L'amore viene definito una four letter words, ergo una parola profana che fa riferimento agli organi sessuali, la versione inglese delle nostre parolacce. Anche qui siamo di fronte ad un bivio: si può fare del sesso anche quando una storia d'amore è giunta al capolinea, come un gesto meccanico usato per sfogarsi, oppure ci si domanda se nemmeno il sesso è in grado di risanare un rapporto ormai in frantumi. A voi la scelta. Ancora più enigmatica è la strofa conclusiva, Anderson si definisce un "asso nero degli accalappiacani" a me è venuto in mente l'asso di picche, spesso definito la carta della morte, sinonimo di negatività, quindi con una fantasia fuori dal comune si definisce il peggiore degli accalappiacani, ovvero incapace di catturare il suo sogno più prezioso, quello di tornare fra le braccia dell'amore della sua vita. Ormai è stufo di consumare squallidi freddi pasti d'occasione, al Cantastorie di Dunfermline manca il tradizionale pranzo domenicale inglese preparato dalla sua amata. Che dire con i Jethro Tull non ci si annoia mai, anche un semplice brano acustico di riempimento diventa occasione di dibattito. 

Baker Street Muse

E in men che non si dica siamo arrivati alla perla dell'album Baker Street Muse (La Musa Di Baker Street) forse la più bella composizione firmata Ian Anderson, per certi versi superiore alla suite Tulliana per eccellenza (Thick as a Brick ndr), in quanto di una durata minore che la rende più accessibile, nonostante anche qui si superino abbondantemente i sedici minuti. Come la tradizione progressive comanda, il brano è suddiviso in quattro movimenti ben distinti, legati tra loro con una disarmante naturalezza. Studiando il testo mi sono accorto che curiosamente nei crediti dell'album i primi due capitoli della suite risultano invertiti, io comunque ve li ripropongo nell'ordine naturale partendo da quello che effettivamente è il primo paragrafo e non il secondo, intitolato I. Nice Little Tune (Piacevole Motivetto). Una classicheggiante escursione con la chitarra acustica raggiunta dal pianoforte e dai violini accompagna Ian Anderson che ci mostra una galleria di scatti fotografici effettuati sulla maestosa Baker Street, indubbiamente una delle strade più famose di Londra, basti pensare che Sir Arthur Cona Doyle la scelse come dimora per il Mitico Sherlock Holmes, precisamente al numero 221B. Ubicata nella Città di Westminster, Baker Street fu costruita nel XVIII secolo dal costruttore William Baker, da cui ha preso il nome. Il Cantastorie Scozzese, si diverte ad effettuare dei click istantanei che immortalano la vita quotidiana di una delle arterie più trafficate della capitale inglese. Superando una fermata del bus tormentata dal vento, il primo scatto cattura una scintillante vetrina di un negozio, poi l'obbiettivo della macchina fotografica si sposta sui alcuni pedoni diretti al lavoro o a fare shopping, su persone che si incontrano scambiandosi affetti. Camminando lungo l'importante arteria stradale, il fotografo giunge al sottopasso della metropolitana. La stazione di Baker Street è una delle più antiche di Londra e come le più grandi metrò dà vita ad un oscuro mondo sotterraneo a se stante, popolato da reietti in cerca di carità. Il primo a finire nell'obbiettivo è un venditore di fiammiferi, purtroppo per lui cieco, forse un veterano reduce dalla guerra; nella sua voce Anderson scorge comunque qualcosa di melodico, e in questo breve versetto iniziamo a scoprire quale sia la musa in questione. Una volta fuori dalla metropolitana, il nostro viene catturato dall'inconfondibile aroma di curry che esce da un ristorante indiano. La cucina indiana è una delle più amate dal Cantastorie Scozzese che con un "Indian restaurants that curry my brain (Ristoranti indiani mi cucinano il cervello con il curry)" rende bene l'idea. Andando avanti incontriamo un'edicola, molto spesso la stampa metteva al centro dell'attenzione Ian Anderson ed i Jethro Tull, e sovente gli articoli non erano sempre rose e fiori. Arriva l'inciso, dove troviamo anche il resto della band all'opera, cantato con una linea vocale sibillina a cui fanno eco i luciferini strilli dei violini. La protagonista è una ragazza che Ian non riesce a conquistare né con trucchetti né con la compassione, l'unica strada percorribile per averla è quella della musica mostrandosi a lei come un musicista radioso che vola verso il successo. In quel momento, stava frequentando Shona Learoyd, che in futuro diventerà la sua seconda moglie, è quindi molto probabile che la ragazza da conquistare sia lei. Nella strofa successiva respiriamo un'atmosfera diversa, più spensierata, grazie all'egregio lavoro di tutti gli strumenti. L'obbiettivo cattura momenti meno incantevoli della Londra anni '70, come una riluttante chiazza di vomito, resa verdastra da un letale cocktail di birra, rum e coca, disgustante immagine subito cancellata dello scatto successivo che immortala un'attraente segretaria in minigonna che esce da uno dei tanti uffici ubicati in Baker Street. Dopo un secondo passaggio del ritornello troviamo un intermezzo strumentale dove Martin Barre e Ian Anderson se le suona di santa ragione brandendo chitarra e flauto. Un ipnotizzante ma pregevole assolo di chitarra ci porta verso il finale di questo primo capitolo.

Al minuto 05:06 ha inizio il secondo paragrafo dal bizzarro titolo II. Pig-Me And The Whore (Il Pigmeo E La Puttana). Invero pigmeo si scriverebbe "pygmy", ma ormai sappiamo che Anderson ama prendersi svariate licenze grammaticali più o meno lecite, in questo caso trasforma la parola pigmeo in "pig-me" ovvero maiale e me, forse per attribuire un ulteriore senso di "sporco" alla storia che ci sta per raccontare o per far trasparire il desiderio sessuale nei confronti dall'ambita ragazza del ritornello. Un solare strumming di chitarra accompagna le liriche che qui assumono un tono bernesco e incentrate su un piccolo ometto alle prese con una prostituta tedesca over-size. Arriva Jeffrey Hammond, protagonista assoluto con un pungente giro di basso che non si limita ai soli compiti ritmici tenendo in piedi il brano. Anderson riesce in maniera esaudiente a sottolineare la sproporzionata differenza di stazza fra i due improbabili amanti, leggendo il testo ci viene immediato immaginare la bizzarra scena. Ignoro se questo improbabile confronto fra Davide e Golia celi fra le righe un simbolismo che come spesso accade va a parare da qualche altra parte. Il bizzarro nanerottolo pare avere una voglia insaziabile di sesso, nonostante la partner occasionale non sia proprio di primo pelo ed abbia un fisico ormai allo sbando che la rende più simile ad una damigiana che ad una donna. Voglia che non viene placate nemmeno dal suo conto bancario decisamente in rosso, lui è ansioso di gettarsi da dove è venuto, costi quel che costi. Anche questa è un geniale escamotage per rappresentare con raffinatezza l'organo genitale femminile, ovvero il posto da cui siamo venuti tutti quanti. Più avanti non a caso viene menzionata un'altra "famosa" arteria di Londra, Blandford Street, paradiso della perversione, regno di locali streep-tease e dei sexy shop. Da qui in poi si sprecano i doppi sensi e le metafore per descrivere la consumazione del rapporto sessuale fino ad arrivare ad un complicato raggiungimento dell'orgasmo, descritto in maniera poetica ed originalissima con un "Shedding bell-end tears in the pocket of her resistance (Versando lacrime dalla campana nella tasca della sua resistenza)" Nello slang inglese più rozzo, il bellend è il glande, quindi non è difficile dedurre quali siano le lacrime e a cosa il nostro si riferisca con la tasca della sua resistenza.

Giunti al minuto 06:37 troviamo la terza parte della suite intitolata III. Crash-Barrier (Ballerina Del Guard-Rail) aperta da una marcia brillante che sprizza felicità da tutti i pori, felicità che evapora velocemente quando la chitarra acustica ed il mesto canto dei violini prendono il sopravvento. Cambia lo scenario, con il calare delle tenebre l'aspirante fotografo è giunto in Marylebone Road, altra importantissima e trafficata arteria stradale di Londra (che ospita una delle più affascinanti attrazioni offerte dalla Città in riva al Tamigi, il museo delle cere di Madame Tussauds ndr). Non penso sia un caso che in Marylebone Road sia ubicata (se pur non menzionata tra le righe) la Royal Academy of Music, tanto per ritornare sulla musa in questione. Superato un negozio che vende materiale elettronico, il nostro incontra sul suo cammino una barbona; il rimando al protagonista della canzone tulliana per l'eccellenza è breve ed immediato, l'obbiettivo immortala una "Aqualung" al femminile. Seduta sul ciglio della strada, dove una doppia riga gialla segnala che lì proprio non si può stare. L'ennesima figlia della metropolitana di Baker Street non ha un tetto, non ha un pezzo di pane, non ha nulla. Gli sporchi vestiti in grigio la rendono ancora più triste, ma ormai sappiamo bene che Anderson ha sempre avuto un debole per i meno fortunati, lui la vede come una ballerina della strada, che magari ha un figlio da qualche parte. Nel frattempo sopraggiunge un poliziotto, dall'andatura goffa a causa degli scomodi scarponi che corredano la sua elegante divisa blu, pronto a far valere la propria autorità nei confronti della povera reietta. Il poliziotto, scaricando su di lei tutte le sue frustrazioni, cerca maldestramente di tirare su la malcapitata barbona che caduta fra le braccia di Morfeo ha fatto della strada il proprio letto. Anderson rivisita la squallida scena, immaginando di vedere due insoliti Romeo e Giulietta durante un ballo. Il fotografo, disturbato dalla scena, dopo averla immortalata interviene, facendo notare al poliziotto che la povera reietta non disturba nessuno, in quanto la strada sia completamente deserta. Il fiero rappresentante di Scotland Yard fa l'orecchio da mercante e continua la sua opera di sloggiamento. A quel punto, il fotografo si offre di portarla in una pensione a proprie spese, ma il poliziotto, stizzito e sostenendo che certa gente deve imparare ad essere indipendente, continua imperterrito il suo lavoro, confermando i rigidi metodi che le forze dell'ordine hanno nei confronti di chi purtroppo ha avuto meno fortuna nel corso della vita.

E siamo all'atto finale di questa splendida suite, dal titolo Mother England Reverie (Sogno Di Madre Patria) che inizia precisamente al minuto 10:04. Fra le dolcissimi trame delle chitarre e i vellutati sospiri del flauto possiamo percepire i rumori del traffico quotidiano londinese. Anche in questo caso le prime strofe sono accompagnate prevalentemente dalla chitarra acustica e dall'orchestra. Ian Anderson si conferma un ottimo interprete della sei corde acustica, tirando fuori dal cilindro trame interessanti e complicate. Un' azzeccato riff di chitarra acustica, spesso seguito all'unisono dalla sorella elettrica e dal piano, va ricamare la fine di ogni strofa, insinuandosi nella nostra mente come il più orecchiabile degli incisi. Impossibile non fischiettare quelle note geniali legate magicamente tra loro. In questa ultima parte Ian Anderson attacca quelli che per lui sono i nemici peggiori della musica, ovvero la carta stampata. Vengono citate esplicitamente la rivista musicale Rolling Stones e il Time (con un divertente gioco di parole non ho tempo per il Time) ma è ben chiaro che l'attacco ha più di due bersagli. L'altro acerrimo nemico dei musicisti dell'epoca è l'avido fisco, sempre pronto a spolpare le band con tasse vertiginose, nonostante, come dichiara esplicitamente Anderson, lui non abbia né una casa in campagna né una macchina (pare che tutt'oggi ne sia ancora privo), non gioca a tennis e neanche vuole un funerale da star. Lui è solo un musicista che suona in un solo gruppo, anche qui, si difende dalla stampa che ha sempre sostenuto che i Jethro Tull sono la band di Ian Anderson, ma a posteriori, come dare torto alla stampa? Il Polistrumentista Scozzese è stato l'unico membro ad essere sempre presente nonchè il compositore principale di musica e liriche. Improvvisamente la chitarra assume toni grintosi, annunciando l'ingresso in campo del resto della squadra. Come cantano i Rammstein questa non è una canzone d'amore, fra le righe leggiamo un vero e proprio attacco nei confronti della patria e di conseguenza di sua maestà la Regina. Gli accordi distorti sottolineano la rabbia di Anderson, che di tanto in tanto dipinge preziosi ricami con il flauto. Senza ombra di dubbio, musicalmente parlando qui il brano raggiunge l'apice. Brividi. Durante questa epica cavalcata, il Polistrumentista Scozzese ammette di essere spesso cinico nelle sue canzoni, così come troppo spesso è cinica la Madre Patria nei confronti dei cittadini albionici. Intorno al minuto 13:50, vengono riprese strofe e temi musicali in maniera stralunata coinvolgendoci in un'oscura cavalcata dai toni minacciosi che accoglie il ritorno dell'inciso sentito ad inizio brano, dove Anderson confessa di essere imprigionato nella realtà di Baker Street, la stessa catturata con mirati scatti fotografici. Chapeau.

Grace

Per quanto mi riguarda l'album avrebbe potuto anche chiudersi qui, ma Ian Anderson aveva un'ultima cartuccia da sparare, ecco che in coda a chiudere troviamo l'effimera Grace (Grazia), che è ancor più breve dei cinquantun secondi che potete riscontrare nei crediti, in quanto il brano si spenge dopo soli trenta secondi, per continuare con un prolungato silenzio fino al termine. "Grace" si riduce a soli 5 versetti che vanno a riprendere alcuni passaggi dell'album, accompagnati dall'immancabile chitarra acustica, guarnita con qualche spolverata di violino. Il Cantastorie di Dunfermline dà il buongiorno al sole e ad un uccellino (In "Requiem" il sole aveva bruciato le ali della farfalla, mentre l'uccellino volato via veniva usato come metafora per simboleggiare la sua ex moglie.) C'è un buongiorno anche per la sua signora, chissà se la sua ex moglie oppure la sua futura compagna. Infine c'è un buongiorno anche per la colazione, rammentata in "010 = Nothing at All". Ma a cospargere un velo di dubbio sulla breve poesia arriva un ultimo enigmatico verso: "May I buy you again tomorrow? (Posso comprarvi ancora domani?)". La mente di Ian Anderson è un bunker impenetrabile, quelle poche parole sibilline mettono un tarlo nella nostra testa, è difficile stabilirne il significato, probabile che sia un attacco al consumismo o alle classi più benestanti, che tramite il denaro hanno l'opportunità di comprarsi tutti i beni della vita in qualsiasi momento, compresa una compagna.

Conclusioni

Da fan del genere, ho apprezzato molto il ritorno al progressive rock dei Jethro Tull, dopo il brusco cambio di rotta effettuato con il precedente ma pur discreto "War Child". Per chi scrive si tratta di un bel passo avanti, la title track e la splendida "Baker Street Muse" da sole valgono il prezzo del biglietto e ci entrano subito nel cuore, rientrando prepotentemente fra le migliori canzoni composte dalla band. Se vogliamo trovare un difetto all'album è il poco coinvolgimento degli altri membri del gruppo e rispettivi strumenti. Troppo spesso Ian Anderson accompagna le liriche introspettive con la sola chitarra acustica, affiancato dall'quintetto d'archi diretto da David Palmer, lasciando in disparte chitarra elettrica, tastiere e la sezione ritmica. Non a caso i momenti migliori dell'album li percepiamo nei brani dove la band suona a pieno regime. Ma quando chiamati in causa, tutti si dimostrano all'altezza del loro leader. Martin Barre suona in maniera grintosa, lasciando il segno con un paio di assoli. Jeffrey Hammond, ahimè alla sua ultima apparizione in studio con la band, in un paio di occasioni tiene in piedi i brani, non limitandosi ai soli compiti ritmici, come del resto il compagno Barriemore Barlow, mai banale, mai un colpo fuori posto. Un po' più in ombra l'organo ed il pianoforte di un poco ispirato John Evan, forse scioccato dalla recente rottura del matrimonio, il nostro non è quasi mai protagonista, limitandosi a riempire i pochi spazi lasciati liberi dal tirannico Ian Anderson, che oltre a cantare in maniera eccellente, si dimostra un ottimo interprete della sei corde acustica ed il numero uno in assoluto nell'uso del flauto in ambito rock, nonché un abile songwriter. In ascesa David Palmer, autore degli arrangiamenti orchestrali e sempre più sesto membro della band, onnipresente con il suo quintetto d'archi, per onore di cronaca composto da Katharine Tullborn al violoncello e da Rita Eddowes, Elizabeth Edwards, Patrick Halling e Bridget Procter ai violini. "Minstrel In The Gallery" è stato registrato tra il 15 Maggio ed il 7 Giugno del 1975 a bordo della Maison Rouge Mobile Studio, mentre la band si trovava in quel di Monaco in Francia. E' stato rilasciato dalla Chrysalis il 5 Settembre in Europa, mentre gli Stati Unti hanno dovuto aspettare tre giorni in più. La produzione, manco a dirlo è opera di Ian Anderson. L'album ha ottenuto il disco d'oro negli Stati Uniti e d'argento in patria, dove col tempo è diventato il nono album più venduto di sempre dei Jethro Tull. Il 4 Maggio 2015, per celebrare i 40 anni di vita dell'album è stato pubblicato uno splendido box set intitolato "Minstrel in the Gallery - 40th Anniversary: La Grande Edition". Il lussuoso cofanetto oltre alla versione standard reperibile sia in vinile che in formato digitale, comprende due CD e due DVD dove potete trovare tutti i brani remixati da Steve Wilson, brani inediti ed il concerto tenuto dalla band al Palais Des Sports di Parigi il 5 Luglio del 1975, concerto mixato da Jakko Jakszy. E veniamo infine all'art work che ci propone lo splendido ma inquietante dipinto intitolato "Twelfth Night Revels In The Great Hall (La Dodicesima Notte Festeggiata Nella Sala Grande)" del pittore britannico Joseph Nash, opera risalente al 1838 che ci mostra il festeggiamento dell'Epifania nella great hall del castello Haddon Hall che sorge sulle rive del fiume Wye a Bakewell, nella contea del Derbyshire. Di primo istinto, il quadro ci dà l'idea di una caotica sala dell'Inferno Dantesco. Fra la moltitudine di personaggi più o meno inquietanti, spiccano un bambino che cavalca un alligatore, trattenuto per la coda da un uomo, uno strano essere in maschera che ricorda Big Foot, una scimmia che trascina una pesante palla da carcerato incatenata alla gamba destra e una strana figura sproporzionatamente più alta rispetto al resto della folla, mentre sulla balconata troviamo cinque musicisti che intrattengono gli invitati, proprio come i nostri nella title track. In alto a sinistra troviamo il logo ed il titolo dell'album in un rosso tenue, proposti in maniera spartana in modo da non contrastare lo stile "old" dell'opera. Se pur inferiore ai capolavori assoluti della band "Aqualung" e "Thick As A Brick", "Minstrel in the Gallery" si piazza subito dietro, grazie alla bellissima title track e la fantastica "Baker Street Muse". Da riscoprire assolutamente per tutti coloro che se lo sono perso per strada.

1) Minstrel in the Gallery
2) Cold Wind to Valhalla
3) Black Satin Dancer
4) Requiem
5) One White Duck(1) / 010 = Nothing at All
6) Baker Street Muse
7) Grace
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