JETHRO TULL

Heavy Horses

1978 - Chrysalis Records

A CURA DI
SANDRO PISTOLESI
28/03/2021
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione recensione

Per le band che suonavano progressive rock continuare a fare la loro amata musica nel 1977-78 non è stato per niente facile. Dall'altra parte dell'Oceano in molti dirottavano le nuove composizioni verso lidi commerciali, portando avanti il fenomeno dell'AOR, mentre nel Regno Unito le spartane canzoni punk stavano prendendo il sopravvento, forti anche della nuova moda e dello stile di vita che andava a braccetto con la musica. Creste colorate, pelle nera e borchie rendevano roba da preistoria i pantaloni a campana e gli sgargianti abiti in stile hippie. La nuova moda si stava diffondendo a macchia d'olio, le brevi canzoni con pochi accordi suonate in maniera rozza venivano preferite da una buona fetta di pubblico alle interminabili e ultra tecniche suite. Le maggiori band che fino a pochi anni prima incantavano le platee venivano immeritatamente considerate dei dinosauri, ovviamente con senso dispregiativo. Gli ELP, vicini ad un clamoroso scioglimento, pubblicavano il loro ultimo discutibile album "Love Beach" per soli obblighi contrattuali, mentre della magnifica formazione dei Genesis erano rimasti solamente tre superstiti, come recitava il titolo loro nuovo album, lavoro che si discostava assai dal magnifico sound dei primi anni settanta. "Tormato" degli Yes, se pur lontano dai capolavori del passato, conteneva comunque qualcosa di buono. I Jethro Tull, che non hanno mai avuto un profondo amore nei confronti della moda, avevano sorpreso tutti, loro avevano provato prima di tutti ad abbandonare la via del progressive, ma i deludenti risultati ottenuti li spinsero a tornare immediatamente sui propri passi tornando sposare il loro modo di fare musica, infischiandosene delle nuove tendenze musicali e continuando a suonare l'affascinante progressive rock contaminato dalla musica folk che veniva dal cuore, prendendo proprio alla lettera il termine progressive, ovvero di sorprendere con qualcosa di nuovo, anche se il "nuovo" poteva sembrare obsoleto. Ian Anderson era convinto che quelle semplici canzoni costruite con tre accordi ben presto avrebbero annoiato il pubblico, e che il nuovo movimento punk avrebbe avuto vita breve. Il precedente "Song From The Wood" aveva meritatamente dato ottimi frutti, nonostante il complicato periodo storico musicale in cui era stato pubblicato, anche il tour a supporto aveva dato molte soddisfazioni alla band. I nostri mantengono inalterata quella che per chi scrive è la migliore formazione di sempre dei Jethro Tull e senza pensarci due volte decidono di continuare sulla strada intrapresa, mixando il progressive rock con il folk, dando però più importanza alla chitarra elettrica, ma soprattutto evitando di essere risucchiati dalla melmosa palude del punk e del pop elettronico, rifiutandosi di cambiare smodatamente il loro stile come in vero fecero alcune note band inglesi. In "Heavy Horses (Cavalli Pesanti)" le atmosfere sono assai meno allegre e più cupe rispetto a "SFTW", in netto calo ma per fortuna non del tutto assente l'aura medievale che predominava nell'album precedente. Le liriche mantengono temi "naturali", abbandonando però i miti e le leggende folcloristiche della Perfida Albione, spostandosi come si evince dal titolo dalla parte degli animali. Cani, gatti, falene, topi e cavalli sono i protagonisti assoluti di ben cinque tracce. Torna primattore anche l'essere umano con bambini e operai che si prendono la gloria su un paio di tracce. Vengono affrontati problemi ambientali ed il lato negativo del progresso. Trovano ancora spazio le ormai immancabili tematiche amorose, affrontate come sempre in maniera del tutto originale. Le registrazioni avvennero nel mese di Gennaio del 1978, a bordo della Maison Rouge Mobile, durante il tour inglese. Il materiale scritto da Anderson, fra una data e l'altra durante gli spostamenti, prevaleva in quantità ma peccava in qualità, gran parte delle canzoni furono scartate, considerate inadatte e prive di un soddisfacente sviluppo. Dopo un'accurata e rigida cernita, ne rimasero solo nove che andarono a comporre la track list del nuovo long playing, tra le quali spicca la maestosa title track, con il tempo diventata un classico imprescindibile della band. Il titolo è un cristallino omaggio nei confronti dei magnifici cavalli da tiro che in passato gli agricoltori usavano per lavorare la terra, cavalli che con il passare del tempo venivano accantonati in virtù delle più comode e funzionali macchine agricole e dei potenti trattori. La categoria degli "heavy horses", oltre al regale Shire, il più grande equino al Mondo, famoso per essere usato per trainare la carrozza di sua maestà la Regina D'Inghilterra, comprende anche il famoso Clydesdale, il Percheron e il Suffolk Punch, per citare le razze più in uso nel Regno Unito. E' giunto il momento di mettere sul piatto o nel lettore CD l'undicesimo lavoro in studio dei Jethro Tull, continuando l'affascinante viaggio nel mondo della Natura accompagnati da una interessante colonna sonora di progressive-folk rock firmata Jethro Tull.

...And the Mouse Police Never Sleeps

I neo sposini Anderson, vista la perfetta sintonia con la Natura riscoperta con la nuova vita di campagna, si circondarono di piante ed animali. La prima traccia del nuovo album intitolata "... And The Mouse Police Never Sleeps (... E La Polizia Dei Topi Non Dorme Mai)" è un chiaro omaggio agli amorevoli quanto letali gattini che avevano adottato. Ad aprire il brano è un proprio un sornione micetto che fa le fusa, seguito da una pregevole trama con la sei corde acustica pizzicata ad arte, quasi subito affiancato da un flauto dai sentori esotici e da una zoppicante ritmica sincopata dove emergono le note plettrate del basso di John Glascock, taglienti e graffianti come i letali artigli di un gatto e vera colonna portante del brano. Le prime righe descrivono tutta la bellezza del felino più amato dall'uomo, manto nero lucente, muscoli tonificati, occhioni verdi e brillanti come l'acciaio, coda dritta. Sempre sull'attenti in cerca di una probabile preda. Nella sua mente è sempre presente una succulenta torta di mele e topolini. Il breve inciso fa salire il brano, "... And The Mouse Police Never Sleeps (... E La Polizia Dei Topi Non Dorme Mai)" canta con simpatia Ian Anderson con una linea vocale sibillina. Immaginatevi la vita di quei poveri topolini di campagna, con intorno tre o quattro letali macchine da guerra sempre in agguato, in cerca di una preda. Mentre si muovono nei meandri della cantina devono sempre guardarsi le spalle, il pericolo è dietro l'angolo. I topi a cui è stato affidato il compito di vedetta non possono mai addormentarsi, ogni minima distrazione può essere fatale. Nella seconda strofa il Cantastorie Scozzese ci fa notare quanto sia letale il gatto, muovendosi di soppiatto senza fare alcun minimo rumore, come se indossasse degli scaldapiedi da letto si avvicina alla preda designata per poi darle il colpo di grazia. Ma su dieci vittime ne mangia soltanto uno, le altre fanno parte dell'allenamento quotidiano, e possono sempre far comodo come regalino da lasciare sul tappeto di casa Anderson. Attento piccolo popolo peloso, il gatto è attivo per tutta la notte! Altra alternanza di ritornello e strofa, dove il micio è ancora protagonista, ormai conosce a memoria tutti i migliori appostamenti, proprio come un cacciatore o un pescatore, ovviamente la cantina è paragonabile ad una riserva di caccia, dove pullulano decine di prede fin troppo facili da catturare. Si affila spesso gli artigli, tenendo sotto controllo la situazione demografica del piccolo roditore. Durante il giorno si riposa con pigrizia, bevendo del latte caldo gentilmente offerto dai suoi umani, risparmiando le forze fisiche e mentali per la notte, dove concentrerà tutte le sue energie per distruggere il maggior numero di esemplari dell'odiato atavico nemico. Questa è la cruda e dura legge della Natura, il leone mangia la gazzella, il gatto uccide il topo, solo gli esemplari più scaltri riusciranno a vedere il tramonto del giorno successivo. Un assordante secondo di assoluto silenzio fa da apripista ad un vibrante assolo di flauto che poi va ad intrecciarsi con le tastiere, mentre il duo Barlow-Glascock continua ad ipnotizzarci con l'ossessiva ritmica. I topi poliziotto non possono permettersi di dormire, altrimenti molte tegole fredde si tingeranno di rosso. In chiusura troviamo una pregevole coda strumentale che sfuma lentamente lasciando il campo ad un'ossessiva e luciferina cantilena che gioca sulla sovrapposizione delle parole del titolo, dando l'idea di un macabro sermone celebrato durante una messa nera, che sinceramente si protrae fin troppo.

Acres Wild

La successiva "Acres Wild (Acri Selvaggi)" è il brano che più si avvicina allo stile del precedente "SFTW" una brillante cavalcata folk che rievoca la musica tradizionale scozzese, le liriche sono incentrate sull'amore, ma ancora una volta lo sono in maniera originale, infatti Anderson elenca vari posti dove intende fare l'amore con la sua adorata nuova mogliettina, raccolti in due scenari ben distinti, uno rurale ed uno metropolitano. I quasi trenta secondi dell'introduzione rievocano atmosfere medievaleggianti con un magico intreccio tra i classici strumenti a corda ed il festoso violino suonato da Darryl Way, cofondatore dei Curved Air, ospite d'onore su due tracce. Il mandolino accompagna l'epica linea vocale di Ian Anderson, ricamata da un vincente giro di basso di John Glasckok, colonna portante del brano che fa quasi da controcanto agli epici versi cantati, invitandoci a suonare il mitico basso immaginario che ci accompagna ormai da lustri. "I'll make love to you in all good places (Farò l'amore con te in tutti i posti migliori)" sono le parole di un certo effetto scelte dal Paroliere Di Dunfermline per aprire la prima strofa, elencando una serie di spazi aperti come le maestose montagne che sovrastano le highlands scozzesi, la riva dei fiumi limacciosi che scorrono veloci verso il Mare Del Nord, le affascinati brughiere dove regnano i cardi e dove corrono gioiose le lepri blu, una bellissima specie di lepre che si credeva ormai estinta, ma che per fortuna è stata riscoperta recentemente sull'Isola Di Pianosa, nell'Arcipelago Toscano. Nell'inciso i sogni d'amore continuano sull'affascinante Isola Di Skye, la più grande dell'Arcipelago Delle Ebridi Interne, conosciuta dai celti come "Isola Alata", isola che tutt'oggi mantiene inalterata la sua incantevole bellezza che la posiziona meritatamente al sesto posto della classifica delle isole incontaminate di tutto il Mondo. Proprio durante la stesura del nuovo album, gli Anderson stavano visionando dei terreni da acquistare sull'affascinante ed incontaminata Isola Di Skye, per farne la loro nuova dimora. Per sottolinearne la magia, il nostro la definisce un posto dove risuona ancora la danza dei secoli nei suoi incontaminati acri selvaggi. Un festoso intermezzo che rievoca la musica tradizionale scozzese, con mandolino e violino a farla da padrona ci separa dalla seconda strofa, dove cambia drasticamente lo scenario. Le colorate e frizzanti atmosfere naturali vengono sostituite dal grigiore di un decadente scenario metropolitano, con vicoli bui e stretti contornati da malinconiche finestre chiuse e camini fatiscenti, qualche triste discoteca sparpagliati fra i selvaggi acri di cemento. Dopo un altro medievaleggiante intermezzo strumentale ci viene mostrato un altro aspetto caratteristico dell'urbanizzazione albionica, le classiche case in mattoncini rossi e cemento, spesso devastate dall'umido nei quartieri più poveri. Ma fare l'amore è sempre bello, ovunque lo si faccia, il contorno è relativo. In chiusura torna l'inciso, dove il triste scenario urbano viene spazzato via dalla magia incontaminata dell'Isola Di Skye, uno dei tanti capolavori di madre Natura che non ha niente a che vedere con il grigio cemento dell'urbanizzazione. La lotta fra la Natura ed il progresso è un argomento tanto caro ad Anderson che si ricollega alle liriche dell'album precedente. I nostri si congedano con un ultimo stacchetto strumentale.

No Lullaby

Come si evince dal titolo "No Lullaby (Nessuna Ninnananna)" nonostante le liriche siano esplicitamente rivolte ai bambini in fasce, musicalmente non è affatto una ninnananna, ma si tratta indubbiamente del pezzo più heavy dell'album, con un grintosissimo Martin Barre in gran spolvero. Con questa canzone che sfiora gli otto minuti, l'Istrionico Vocalist mette sull'attenti tutti i bambini, ma soprattutto i suoi figli, Gael, di cui è impossibile scoprire l'esatta data di nascita ma che sicuramente è nata nei primi anni settanta, di lei però sappiamo che dal 2006 è diventata la moglie di Andrew Lincoln, meglio conosciuto come Rick Grimes, leader indiscusso della serie televisiva The Walking Dead. L'altro figlio, James Duncan è nato nel maggio del 1977 e che al momento della stesura del brano probabilmente doveva ancora iniziare a fare i primi passi. Per la cronaca, James Duncan in futuro diventerà un affermato batterista, che ha collaborato anche con il padre. Il brano si apre con dei fraseggi di chitarra, sembra quasi che Martin Barre stia improvvisando per accordare lo strumento e mettere a punto il suono, sparando una serie di riff che odorano di rock blues, seguiti di tanto in tanto da potenti colpi della sezione ritmica. Il basso e la gran cassa iniziano a pulsare come un cuore, portandoci lentamente verso la prima strofa. Adagiandosi su un soffice tappeto d'organo, Anderson gioca con l'eco, e invita i neonati a tenere gli occhi aperti, a drizzare le orecchie e ad imparare ad urlare al primo segnale di minaccia, perché al di là delle sbarre del loro accogliente e caldo lettino ci sono una miriade di pericoli e molte persone cattive pronte a far male a quelle innocenti creature, fra queste righe, leggo un velato attacco alla pedofilia, argomento già affrontato dal nostro in passato. Parole forti che non somigliano affatto ad una ninnananna. Una fiabesca trama di flauto ci separa dalla seconda strofa. C'è un lucchetto alla finestra, una catena alla porta ed un grosso cane a fare da guardia all'ingresso della casa. Possono sembrare ostacoli insormontabili , ma sono soltanto delle protezioni se pur crude, che servono per salvaguardare i bambini dai pericoli che si celano nelle tenebre, qui coloritamente definiti come draghi e bestie infernali pronte a rapirti alla minima distrazione. Dopo un'altra incantevole trama di flauto, ricordandosi chi era irrompe Martin Barre con un memorabile riff di chitarra che ci rimanda ai gloriosi fasti di Aqualung. Si cambia decisamente atmosfera, il brano cresce smodatamente d'intensità grazie al formidabile duo Barriemore-Glasckok che nell'occasione pare tarantolato tirando fuori una ritmica da fuori di testa. Quasi impigliati nella appiccicosa ragnatela formata dalle note del basso, ora i consigli di Anderson si rivolgono agli adolescenti, quando escono per la prima volta dal calore protettivo delle mura domestiche, affacciandosi ancora con il sonaglio in mano su un nuovo mondo che pullula di insidie. Là fuori dovranno imparare ad accettare e ad incassare ma soprattutto a non cadere nei mille tranelli tesi dal Diavolo. La vita d'ora in avanti sarà un'aspra battaglia dove è severamente proibito addormentarsi, ma saranno loro le nuove leve che porteranno avanti il lungo cammino dell'umanità. Trascinato dall'indemoniata sezione ritmica, Anderson tutto d'un fiato arriva fino alla chiamata alle armi, l'orsacchiotto di pelouche sarà sostituito da un pesante fucile, ora più che mai i giovani uomini dovranno tenere gli occhi aperti per poter tornare sani e salvi a casa. Nella strofa conclusiva, il nostro invita tutti i genitori a non raccontare bugie, ma di mettere in guardia i loro figli su tutto quello che troveranno là fuori. Niente bugie, niente ninnananna. Al minuto 03:17 incontriamo un pregevole assolo di chitarra ricamato perfettamente dal flauto, i due strumenti si danno battaglia, accompagnati sempre dalla forsennata sezione ritmica. Dopo un paio di passaggi dell'ultima strofa il brano cambia nuovamente. Si ritorna all'inizio, quando gli strumenti sembravano improvvisare, per poi riproporre tutta la prima parte del brano. Sinceramente questo copia-incolla rende eccessivamente lungo e monotono il brano e la cosa mi stupisce in negativo. Di solito mi aspetto sempre qualche colpo di scena da parte di Ian Anderson, specie nei brani di durata maggiore. Il brano si dissolve molto lentamente, allungando ancora di più il brodo.

Moths

Come si evince dal titolo, la successiva "Moths (Falene)" è dedicata ad un piccolo ma affascinante e misterioso lepidottero, la falena. Nonostante siano strette parenti delle coloratissime e simpatiche farfalle diurne, sin dalla notte dei tempi, forse a causa delle abitudini prettamente notturne, come del resto la civetta ed il gufo, le falene sono sempre state considerate insetti nefasti che in qualche maniera hanno a che fare con il maligno. Un'antica credenza popolare vuole che la falena sia l'anima di una strega in cerca del suo corpo, mentre tutt'oggi, in molti credono che l'innocua visita di una falena fra le nostre mura sia segno di sventura. Ma Ian Anderson si discosta da queste infondate credenze popolari e accompagna il volo delle falene con un gioioso strumming con la chitarra acustica dedicando al lepidottero dalle abitudini crepuscolari questo simpatico brano che vede un David Palmer in gran spolvero. Anche la solare linea vocale ricamata da un eco di tastiera diffonde una contagiosa tenerezza nei confronti dell'innocuo insetto che ama svolazzare intorno a fonti di luce sintetica non appena il Sole cede lo scettro alla Luna. Le falene si manifestano con l'avvento dell'estate, attirate dalla luce domestica che risalta fra le tenebre sono pronte ad entrare appena si apre una vetrata, spinte da una piacevole brezza estiva. Talvolta, con un istinto suicida si avvicinano pericolosamente alla fiamma danzante di una candela. Con l'ingresso della sezione ritmica il brano cresce. Il Cantastorie Scozzese dipinge uno dei suoi memorabili quadri che rappresentano una fresca notte estiva, con i giovani germogli che profumano l'aria e le ninfee che si muovono come barche a vele sullo specchio di uno stagno, mentre una coppia sta facendo l'amore. Il ricamo della tastiera viene rafforzato da un brioso trillo del flauto e da un raffinato arrangiamento orchestrale firmato David Palmer. Le falene fanno da spettatrici alla notte d'amore dei due amanti, talmente presi che immaginano di volare tra le tenebre con delle ali impolverate, come quelle delle farfalle notturne. I sogni ed i progetti dei due amanti si intrecciano con le cristalline note della sei corde acustica, la perfetta colonna sonora per le ricercate licenze poetiche fra le quali spicca la criptica "Flutter through the golden needle's eyein our haystack madness (Fluttua attraverso la cruna dell'ago d'oro nella nostra follia del pagliaio)", come se i due amanti, circondati dalle falene, fossero alla ricerca dell'amore perfetto in un mondo dove regna la follia. Dopo un breve stacchetto strumentale il nostro omaggia con ironia un altro simpatico animale, il lemming, che sostiene che la vita è troppo lunga, e detto da un esserino la cui longevità supera raramente i dodici mesi, è tutto un programma. La vita dei due amanti è così intensa che brucia veloce come lo stoppino di una candela, che si allunga man mano che la cera si consuma. Ogni attimo di vita va assaporato con la massima intensità, gustandone tutte le essenze, prima che la candela si consumi del tutto. Al minuto 02:11 incontriamo un interludio strumentale che sprizza gioia da tutti i pori. Il flauto e l'orchestra danno vita ad un vero e proprio jingle di gioia e spensieratezza che non sfigurerebbe come colonna sonora di una pubblicità che ci mostra una improbabile famiglia stra felice alle prime ore del mattino, pubblicizzando dei biscotti da colazione. La poesia continua nell'ultima strofa, con l'arrivo delle falene che si rispecchiano nei bellissimi occhi della ragazza, lasciandoci con un degno e poetico finale. Il brano è stato lanciato come singolo apripista il 7 Aprile del 1978.

Journeyman

Ben più ossessiva è "Journeyman (Operaio)" brano aperto e sostenuto dalle ridondanti e pungenti note del basso plettrato di John Glasckok. Le liriche ci illustrano in maniera conformista la monotona vita quotidiana dei pendolari, costretti a passare ore ed ore sul treno prima di raggiungere il posto di lavoro, spesso fin troppo lontano dal calore domestico, la cui mancanza pesa come un macigno sull'umore degli stessi. La spirale di note sparate dalle quattro corde rispecchia a pieno la monotonia del viaggio quotidiano dei pendolari, ipnotizzati dall'uggioso scorrere delle traversine della ferrovia. I vagoni sono come una seconda casa per gli operai che quotidianamente fanno spola dalla calorosa casa alla fredda e triste fabbrica. Il lungo verme di carrozze si muove brontolando nell'oscurità, attraversando antiche gallerie vittoriane cosparse del muschio verdastro che trasuda umidità. Lo scenario al di là del finestrino è sempre dannatamente lo stesso, argini bagnati, orticelli e vecchi campi di battaglia che portano ancora le piaghe della guerra. L'ossessivo giro di basso viene scimmiottato dalla chitarra elettrica e ricamato dal flauto, che di tanto in tanto sbuffa come la locomotiva del treno. Barriemore Barlow, accompagna con una ritmica zoppicante che ingigantisce l'ossessività del brano, dimostrandosi uno dei migliori interpreti della batteria del momento. Durante le folli notte passate sul treno, i pendolari sono sempre accompagnati dalla fedele valigetta nera posata ai piedi, come un fido cane che dorme tranquillo vicino al padrone. Con ogni stazione superata il calore domestico si avvicina, è una sorta di conto alla rovescia che ha come meta una meritata cena ormai freddata e le morbide pantofole riscaldate dal caminetto, qui che il nostro si riallaccia alle liriche di "Fire At Midnight" brano presente sull'ottimo "Song From The Wood". La strofa si conclude con un sintomatico flip-flop, ovvero un circuito sequenziale molto semplice, sottolineando l'uggiosità della vita dei pendolari. Dopo una serie di fraseggi che odorano di blues e sibillini trilli del flauto, al minuto 01:40 Barriemore Barlow rompe la monotonia ipnotizzante del brano con una serie di fil sulle pelli a cui è difficile star dietro. Durante il viaggio di ritorno, gli stanchi operai fantasticano con la mente, valutando se ci fosse il tempo per prendersi un tè nella ridente Gerrards Cross. A rompere questi sogni torna la strofa ipnotizzante, ossessiva e monotona come la vita dei protagonisti del brano. Il treno ulula nelle tenebre, una volta raggiunta l'ultima stazione il motore sembra quasi piangere la fine del viaggio. Nelle carrozze rimangono i giornali e i cruciverba abbandonati dagli operai che finalmente sono giunti a destinazione. Il capostazione ordina alla guardia di spengere il riscaldamento. Anche il lungo serpente di carrozze ha diritto a qualche ora di riposo, prima di ripartire per l'ennesima monotona giornata, portando gli operai verso le grigie fabbriche, continuando senza fine di continuità l'infernale corsa. Martin Barre ci accompagna verso il finale con uno sferragliante e lisergico assolo di chitarra a cui si intrecciano fredde trame di flauto e un gelido tappeto di tastiera, abbandonandoci lentamente in fader.

Rover

La voluta "monotonia" del brano precedente viene prepotentemente spazzata via dalla gioiosa introduzione e dalle successive cristalline ed ammalianti note della sei corde acustica con cui si apre "Rover (Vagabondo)", non certo uno dei brani più famosi dei Tull, ma sicuramente uno dei punti più alti dell'album per chi scrive. Come spesso accade per le liriche stese dalla magica penna di Ian Anderson, anche in questo caso interpretarle non è una facile missione. Se fate un giro in rete, visto il titolo, in molti sposano la teoria che il brano sia dedicato ad un vagabondo o un viandante, forse forviati dal titolo, ma una mia accurata ricerca mi ha fatto scoprire che "Rover" era il nome dell'adorato cane della famiglia Anderson, e devo dire che leggendo attentamente fra le righe, mi torna molto più facile sposare questa mia teoria, ovvero che questo brano sia dedicato al simpatico cane chiamato Rover, giusto per par condicio, visto che la traccia di apertura era dedicata ai gatti. Ma veniamo al brano, aperto da un breve introduzione dal sapore esotico, dove chitarra, glockenspiel, tastiera e sezione ritmica si intrecciano magicamente, aprendo i cancelli ad un azzeccatissimo refrain di chitarra acustica che ci conquista all'istante. Barriemore Barlow dona ritmo massacrando il charleston, mentre il flauto e la sei corde elettrica riempiono i pochi spazi vuoti lasciati dalle brillanti note acustiche che scendono leggiadre come una pioggerella di glitter, annunciando il Cantastorie Di Dunfermline che omaggia il suo fido cane Rover, donandogli magicamente il dono della parola, visto che è proprio lui a parlare in prima persona. Come la maggior parte dei cani, anche Rover insegue passo dopo passo le gesta del suo amato umano, sempre pronto a tutto quando la voce del padrone comanda. Ama fare scorribande nei verdi prati della campagna inglese, ma non disdegna nemmeno le spiagge, specialmente se Shona li liscia il pelo con una spazzola. A Rover piace anche riportare il bastone lanciato fra le spumeggianti onde del mare, basta che non venga spinto fuori portata dalla corrente, nel caso meglio trovare un altro pezzo di legno per giocare. Ben più complicato l'inciso, sia musicalmente che liricamente. Gli strumenti ci lasciano sospesi, tra le licenze poetiche scopriamo che appena gli capita l'occasione, Rover è pronto a scappare per una corsetta non autorizzata, ma pronto a farsi ritrovare e a tornare nella sua calda cuccia. La seconda strofa mantiene intatta tutta la sua brillantezza, Rover ci informa che predilige l'Estate e ama strofinare il suo umido musetto fra i lunghi capelli dei sui amati padroncini. Sono queste umili cose che fanno felice il migliore amico dell'uomo. Dopo un altro passaggio del ritornello incontriamo un interessante interludio strumentale che va a riprendere l'esotiche note dell'introduzione. Nonostante la struttura semplice il brano ci piace e non vediamo l'ora di assaporare la strofa con il suo azzeccatissimo refrain di chitarra acustica, i nostri lo sanno e ci ripropongono per un ultima volta il binomio vincente strofa ritornello. Rover ama i palloncini colorati che vendono alle fiere, proprio come un bambino e ci confessa che talvolta si spaventa se perde il suo guinzaglio. Il brano ci lascia con un caloroso assolo di flauto, ricamato da alcuni soffici fraseggi di chitarra che si dissolvono dolcemente in fader, lasciandoci con la voglia di premere il tasto repet e riascoltare questa notevole canzone.

One Brown Mouse

La successiva "One Brown Mouse (Un Topo Marrone)" è il brano più folkeggiante dell'album, una radiosa ballata acustica con qualche azzeccata spruzzata di chitarra elettrica a rafforzarne la struttura. Le liriche che hanno come protagonista un simpatico topolino marrone sono ispirate ad una vecchia poesia scritta da Robert Burns, affermato poeta scozzese della seconda metà del 1700. La poesia, intitolata "To A Mouse (Ad Un Topo)" risale al Novembre del 1785 ed è presente nella raccolta Burnsniana "Poems, Chiefly In The Scottish Dialect", comunemente nota anche come "Kilmarnock Edition", pubblicata e stampata per la prima volta da John Wilson a Kilmarnock il 31 luglio del 1786. Per la cronaca, la raccolta costava 3 scellini e ne furono stampate 612 copie. "To A Mouse" ha una storia particolare, in quanto Burns la scrisse dopo aver accidentalmente distrutto il nido di un minuscolo topolino di campagna con il suo aratro. Tra le righe, l'affranto poeta si scusa con il topo per avergli creato grossi problemi, distruggendogli la casa proprio con l'Inverno alle porte. Le scuse comunque coinvolgono l'intera razza umana, rimarcando la tirannia dell'uomo nei confronti di Madre Natura, con il progresso che interferisce sul destino di ogni singola creatura, compreso l'uomo stesso, senza badare a tutti gli effetti collaterali, argomento caro ad Ian Anderson e affrontato anche nel precedente "SFTW". Ma dopo questi dovuti cenni storici, torniamo la brano in questione, aperto da una solare escursione sulla chitarra acustica, ricamata da fiabesche trame di tastiera. La raggiante linea vocale ci presenta un simpatico topolino domestico marrone in gabbia, sempre sorridente e positivo nonostante si trovi confinato in un piccolo spazio dal quale non è in grado di uscire. I suoi sensibili baffetti sono sempre in movimento, in cerca di qualcosa da rosicare. Dopo la prima strofa entra in scena la Barriemore Barlow, mai invadente e sempre con una gran classe da mettere in mostra, affiancato dalle pungenti ma raffinate note plettrate di John Glascock. Ian Anderson immagina che il topolino, stufo della monotonia della sua vita, desideri ardentemente di essere un umano, padrone del suo destino e capace di poter fare delle scelte. Al minuto 01:07 il brano cresce grazie ad una velata dose di accordi distorti e martellanti note di pianoforte, il topolino si chiede se realmente il suo padrone tenga a lui, come di solito tiene ad un cagnolino o un micetto, oppure si tratti di un semplice sfizio destinato ad un triste epilogo. A seguire incontriamo un articolato interludio strumentale con le tastiere in evidenza a recitare trame fiabesche che non sfigurerebbero nella colonna sonora di un vecchio film della Disney. La marcia del rullante apre i cancelli ad un ultimo passaggio della strofa che in loop ci accompagna dolcemente verso la fine, lasciandoci in testa l'azzeccata melodia della linea vocale con la quale Anderson invita il topolino a sorridere in maniera solare e contagiosa, illuminando le sue giornate.

Heavy Horses

Dopo questa simpatica ballata folk troviamo la maestosa title track, brano più lungo dell'album per distacco, dall'alto dei suoi quasi nove minuti. "Heavy Horses (Cavalli Pesanti)", come del resto gran parte delle title track tulliane è entrata prepotentemente e meritatamente nel cuore dei fans, diventando un classico imprescindibile anche in sede live. In barba al punk che si stava diffondendo a macchia d'olio, i nostri portano avanti le loro idee musicali, regalandoci un brano di puro progressive rock-folk, ricco di grandi atmosfere, di cambi di tempo, interessanti interludi strumentali e virtuosismi da urlo. Nella lunga introduzione strumentale, prima il basso pungente di John Glascock e la dolce chitarra elettrica di Martin Barre, poi il flauto, ci svelano in anticipo la vincente melodia della linea vocale dell'inciso. In questi primi settanta secondi di musica di gran classe i nostri ci fanno respirare le frizzanti atmosfere progressive settantantiane, infischiandosene di ciò che accadeva al di là del loro florido orticello. Imbizzarrite cavalcate ritmiche, preziosi intagli di chitarra ed un flauto assoluto protagonista ci fanno sognare ad occhi aperti. Chapeau. Al minuto 01:10 arriva la strofa; accompagnato da John Evans che disegna una incantevole trama di pianoforte ed aiutato da Glascock con dolcissimi controcanti, Ian Anderson sottolinea il duro lavoro di fatica che quotidianamente fanno i cavalli usati in agricoltura per arare la terra, respirando polvere e bagnando di sudore lo splendido manto, mentre delle fastidiose mosche tentano di saccheggiare le loro narici. Nonostante non ami l'equitazione, il Cantastorie Scozzese nutre una profonda simpatia verso i cavalli, definendo pubblicamente il brano una sorta di "Aqualung equestre", menzionando sul finire della strofa le razze equine più importanti usate in agricoltura: il Suffolk, dalla struttura possente ed uno splendido manto completamente baio, usato anche per trainare carri, il Clydesdale il più particolare grazie alle sue caviglie piumate di color bianco, il Percheron, il più elegante che ha origini francesi. Cavalli che oltre al duro lavoro nei campi, sul viaggio di ritorno trasportano del legname, prima di raggiungere la calda paglia della stalla, come sottolineano le dolci trame del violino. Con l'avvento dell'inciso entra in scena il fenomenale duo Barlow-Glascock con una ritmica da paura, dove emergono le pungenti note del basso plettrato. L'azzeccata linea vocale vien ricamata sapientemente da Martin Barre, i nostri sottolineano il triste fato dei cavalli pesanti, fino ad ora sfruttati fino all'osso per arare i campi ed ora destinati in maniera ineluttabile a finire lentamente nel dimenticatoio con l'avvento del trattore e delle altre macchine agricole, un altro lampante esempio di come il progresso troppo spesso abbia la meglio su Madre Natura. Nella seconda strofa calano nuovamente i bpm, la sezione ritmica va in pausa, lasciando il campo ad una bellissima chitarra acustica, successivamente affiancata da una tristissima trama di violino suonata dalla guest star presa in prestito dai Curved Air. Con il ritorno del pianoforte l'atmosfera si fa ancora più mesta, Ian Anderson, preoccupato di un eventuale rischi di estinzione di queste magnifiche e possenti razze equine, vuol trovare delle puledre in modo che i cavalli da tiro continuino a battere i loro zoccoli ferrati sulla Terra ancora a lungo, immaginandoseli liberi nel bosco, lontani dai lavori di fatica, certo che una volta le macchine agricole li avranno rimpiazzati completamente, rimpiangeremo l'eleganza e la forza con cui aiutavano l'uomo in agricoltura. Dopo un secondo passaggio dell'inciso, Darryl Way ruba la scena con un classicheggiante assolo di violino d'altri tempi, aprendo le porte ad un interludio strumentale che grida progressive a squarcia gola. Seguendo la trascinante cavalcata ritmica, Anderson con grinta continua la sua ode verso i cavalli pesanti, ricamato ora da ridenti sviolinate ora dalle calde note della chitarra di Martin Barre. In questa seconda parte di brano si sprecano i virtuosismi da parte di tutti gli strumenti come i cambi di tempo dettati da un'indemoniata sezione ritmica. Il graduale rallentamento degli strumenti ci lascia presagire un imminente finale, ma al minuto 06:08 il brano riparte, riproponendoci una versione alternativa dell'introduzione arricchita dalla presenza di un violino da brividi. Con un'epica linea vocale Anderson disegna splendidi quadri usando ricercate licenze poetiche che ruotano tutte in torno all'atavico duello fra Madre Natura ed il progresso, districandosi abilmente fra la miriade di note sparate da tutti gli strumenti ed i serrati colpi della sezione ritmica. Cala nuovamente la calma, i violini sembrano piangere di fronte al triste destino dei cavalli pesanti, accompagnati dalle note della chitarra acustica in questa versione alternativa della strofa iniziale. I nostri ci salutano con il ritornello proposto a più riprese che molto lentamente evapora in fader, lasciandoci in testa la vincente melodia della linea vocale e un occhio di riguardo in più verso queste bellissime razze equine sconosciute a molti.

Weathercock

Siamo giunti alla traccia conclusiva, "Weathercock (Banderuola)", i nostri ci salutano col botto, con il brano più "tulliano" dell'album, canzone di gran classe dove si respirano le affascinanti atmosfere folk e medievali, con un flauto primattore e una chitarra protagonista nella seconda parte, a sigillare con la ceralacca il marchio di fabbrica della band. Una dolcissima trama di flauto si insinua delicatamente fra le cristalline note della sei corde acustica e del mandolino, portandoci indietro nel tempo, aprendo il ponte levatoio al Menestrello Scozzese che con un'epica linea vocale saluta la banderuola girevole, l'anemoscopio più antico del Mondo che serve a rilevare la direzione e l'intensità del vento. La più antica banderuola della storia di cui si ha traccia è senza ombra di dubbio quella posizionata sulla cima della Torre dei Venti ad Atene, risalente al 48 A.C e riproducente un tritone. Le banderuole molto spesso raffiguravano animali più o meno reali, la più famosa e di uso comune è sicuramente quella a forma di gallo, con una freccia e le lettere W, E, S, N ad indicare i quattro punti cardinali. Se spira una forte Tramontana, gelido vento che proviene dal Nord, la banderuola ruoterà verso Sud. Anderson dialoga con la banderuola come se fosse un essere dotato della parola e in grado di dare risposte e consigli. Siamo in pieno Ottobre in una fredda serata autunnale, con gentilezza il nostro le chiede come è andata la giornata, se il gelido vento l'ha disturbata, soffiando forte sulla coda. Nell'inciso, ricamato da preziosi intarsi di chitarra, il Cantastorie Di Dunfermline chiede consigli alla banderuola, le chiede la giusta direzione da intraprendere, è lapalissiano che il consiglio è chiesto a nome dell'intera umanità, che sembra aver imboccato la strada sbagliata, trascinata via dall'impetuoso vento maligno del progresso, che corre imperterrito per la sua strada, senza badare alle conseguenze che possono colpire in maniera irreparabile Madre Natura e tutte le sue creature. Incuriosito, il nostro si interroga anche il duro lavoro effettuato dal fabbro per dare vita al simpatico anemoscopio. Nella seconda strofa entra in scena il formidabile duo Glascock-Barlow, come sempre mai banale, accompagnando con una ritmica d'altri tempi che suggella le atmosfere medievali di questo primo scorcio di brano. Continuano i quesiti a sfondo ambientale in questo insolito dialogo fra Anderson e la banderuola, trattata con i guanti quasi fosse una divinità. Durante la conversazione si sprecano le licenze poetiche, confermando se mai ce ne fosse bisogno, l'abilità con la penna di Anderson. Torna con tutta la sua grazia l'inciso, dove viene rinnovata la richiesta di indicare la retta via all'umanità in modo da costruire un futuro migliore in perfetta simbiosi con la Natura. Al minuto 01:50 irrompe il Pifferaio Scozzese con un bellissimo assolo di flauto che ci riporta inevitabilmente ai capolavori delle splendide prime due annate del 1970. Dopo un medievaleggiante interludio strumentale torna per un'ultima volta l'inciso, con il flauto a rafforzare la vincente linea vocale. In chiusura la scena è tutta per Martin Barre, che ci delizia con un bellissimo assolo di chitarra che odora di hard rock, inseguito da taglienti folate di flauto che soffiano come i freddi venti invernali che fanno ruotare la banderuola protagonista di questo brano che sembra appartenere al glorioso passato della band.

Conclusioni

Ancora "Heavy Horses" è il seguito naturale del "SFTW", i nostri non si spostano dal vincente mix che miscela il progressive rock con il folk, riuscendo comunque a produrre qualcosa di diverso. Premetto che si tratta esclusivamente di gusti personali, ma essendo stato letteralmente stregato dalla compattezza dell'album precedente che si muoveva su una set list omogenea che trasudava magia, lo trovo un pelino sotto, ma si tratta comunque di un eccellente lavoro ed è doveroso dare tanto di cappello alla magnificenza della title track e a delle vere e proprie perle come "Rover", "Moths" e la splendida traccia conclusiva. Ancora oggi mi sento in dovere di ringraziare pubblicamente Ian Anderson e i Jethro Tull per non aver mai ceduto di fronte alle nuove tendenze musicali ma di continuare a suonare la "musica dei Jethro Tull" e non quello che chiedevano le case discografiche o le mode del momento, regalandoci perle che ha distanza di quasi mezzo secolo riescono ancora ad emozionarci e a non risultare affatto obsolete. Il Polistrumentista Scozzese anche stavolta ci offre delle performance vocali di rara bellezza, tirando fuori linee vocali memorabili ma soprattutto liriche che esulano dagli standard, dimostrando di essere uno dei migliori, se non il miglior paroliere della storia della musica rock. Alcune pregevoli escursioni con il flauto e la chitarra acustica ci rimandano inevitabilmente al passato e sembrano gridare "ragazzi, sono tornato, anzi, ci sono sempre stato, ma avevo voglia di provare qualcosa di nuovo" Rispetto all'album precedente il ruolo di Martin Barre è decisamente più importante, il nostro si fa sentire con riff e assoli di prim'ordine, dando un tocco hard rock di classe alle nuove composizioni. Non ho più parole per definire il lavoro di John Glasckok e Barrie Barlow, che spesso in fase di recensione gli paragono ad un'unica entità ritmica. Il Bassista di Islington in più di un'occasione regge in piedi i brani da solo. I due oltre ad una tecnica invidiabile hanno il dono di trovare sempre una soluzione originale che sposa in pieno il contesto delle complicate composizioni Andersoniane, valorizzandole al massimo, come del resto anche l'altro duo che si siede dietro al castello di tastiere. John Evans sembra aver ritrovato la strada che sembrava perduta un paio di anni fa, tornando a fare centro con pregevoli trame di pianoforte. David Palmer con successo si divide fra le tastiere e gli arrangiamenti orchestrali (decisamente meno invadenti ndr), sentendosi sempre di più un membro effettivo della band senza sentire il bisogno di mettersi in mostra come quando era ospite. Un notevole e suggestivo contributo lo dà anche la guest star Darryl Way, prestato gentilmente dai Curved Air e presente con il suo inconfondibile violino in Acres Wild e sulla maestosa title track. "Heavy Horses" è stato registrato nel Gennaio del 1978 ai Maison Rouge Studio, in quel di Fulham (Londra). Sotto la certosina produzione firmata Ian Anderson, la Chrysalis lo ha rilasciato il 10 Aprile del 1978 negli Stati Uniti, dove ha raggiunto la posizione numero diciannove, mentre i fans di casa hanno dovuto aspettare undici ulteriori giorni per averlo fra le mani e portarlo ad una soddisfacente ventesima posizione nella classifica dei dischi più venduti del Regno Unito. Ian Anderson ricorda con affetto le estenuanti sessioni fotografiche con James Cotter, che pare abbia sprecato diversi rotolini per ottenere il "quadro" giusto che ritrae il nostro con una mise anacronistica visto il momento, a spasso per le colline britanniche con due magnifici esemplari di Clydesdale come un vecchio stalliere di fine ottocento. La foto sul retro di copertina è invece opera di Shona Anderson e ritrae la band al completo in una affascinante stanza d'altri tempi decorata in legno, con i nostri insolitamente vestiti in maniera elegante con tanto di papillon, vistosa eleganza se soprassediamo su qualche calzino improbabile e cappello fuori luogo. Entrambe le foto sono contornate da una suggestiva cornice verde che evidenzia i temi folk-pastorali dell'album. Come sempre mai invadente e piuttosto sobrio il logo della band, posto in alto. Consiglio vivamente questo album, anche a chi si dovesse affacciare per la prima volta nel fantastico Mondo Tull e non avesse l'intenzione di farlo in maniera cronologica. Sicuramente troverete almeno quattro brani che rispecchiano fedelmente lo stile inconfondibile della band e che non faticheranno a fare breccia nei vostri cuori. Assolutamente da avere.

1) ...And the Mouse Police Never Sleeps
2) Acres Wild
3) No Lullaby
4) Moths
5) Journeyman
6) Rover
7) One Brown Mouse
8) Heavy Horses
9) Weathercock
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