JETHRO TULL

Benefit

1970 - Chrysalis

A CURA DI
SANDRO PISTOLESI
15/03/2017
TEMPO DI LETTURA:
8

Introduzione recensione

Il precedente "Stand Up" può considerarsi a tutti gli effetti il primo vero disco dei Jethro Tull. Non possiamo parlare di una rinnegazione dell'album d'esordio come nel caso dei Genesis, ma sicuramente, con il secondo album i nostri delineano in maniera marcata le loro sonorità e quale sia il concetto di fare musica di Ian Anderson, ormai leader indiscusso della band. Ma l'estenuante tour americano mise a dura prova il quartetto albionico, costretto a passare gran parte della vita lontano dalla loro amata patria. Quello ad accusare maggiormente i disagi di una vita on the road fu Ian Anderson, che iniziava ad avere cattivi pensieri che avrebbero portato ad un clamoroso scioglimento della band proprio sul più bello, quando dopo anni di gavetta erano riusciti meritatamente ad entrare nell'élite della musica rock. Anche Martin Barre non sopportava passare quasi sei mesi all'anno in America, idem per la granitica sezione ritmica, che non riusciva ad assaporare più gli altri piaceri della vita. Prima di arrivare alla più drastica delle decisioni, i nostri decisero di provare a dare un taglio alle date nel Nuovo Continente, riducendole visibilmente.  Il ritorno ai Morgan Studios per comporre nuovo materiale fu la panacea di tutti i mali, in special modo per Ian Anderson, che riversò tutte le sue frustrazioni nelle nuove composizioni, che oltre ai disagi dovuti al massacrante tour statunitense, affrontavano i rapporti con i genitori e con la segretaria della Chrysalis Jennie Franks, che di lì a poco diventerà sua moglie. Ci fu un importante cambio della guardia dietro al mix, come nuovo ingegnere del suono fu ingaggiato Robin Black, che in futuro rimarrà a lungo a fianco della band. Come per il precedente album, anche per il nuovo "Benefit (Vantaggio)" il titolo fu scelto dal produttore Terry Ellis. Trovandosi in mezzo fra l'ottimo "Stand Up" ed il capolavoro assoluto "Aqualung", il terzo album in studio dei Jethro Tull è stato come oscurato, spesso bistrattato dalla band stessa e considerato una sorta di spartiacque. Ma ciò non significa che sia un album da buttare, anzi, pur non contenendo classici imprescindibili del gruppo, non ha faticato ad entrare in maniera indelebile nel cuore dei fans. Ian Anderson, oltre a disimpegnarsi con il flauto e la sei corde acustica, dette un forte contributo con la chitarra ritmica, suonando la Gibson SG prestatagli da Martin Barre. Quello che ne venne fuori fu un album più duro e più cupo del precedente, con la totale scomparsa di note bleu in virtù di affascinanti trame folk e piacevoli venature progressive. Nel frattempo, la rivista musicale settimanale britannica New Musical Express, meglio conosciuta con l'acronimo NME, stava spogliando i voti dei lettori per eleggere il consueto Nuovo Miglior Gruppo dell'anno. Con il numero del 24 Gennaio 1970, i risultati vennero finalmente pubblicati, consacrando i Jethro Tull come miglior banda emergente. Quando le registrazioni erano già a buon punto, Ian Anderson chiese all'amico John Evans di incidere alcune parti di tastiera sull'album. Nonostante i molti impegni, forte del legame di amicizia, il Tastierista Di Blackpool accettò di buon grado, registrando le parti di tastiera durante la notte e finendo accreditato sul disco come special guest con il nome di John Evan, tanto per rievocare i bei tempi degli esordi. Ma durante le esibizioni live dei nuovi brani, si sentiva che mancava qualcosa. Senza l'apporto di una tastiera sul palco, le nuove canzoni perdevano tutta la magia che avevano su vinile. All'epoca John Evans condivideva un appartamento con Ian Anderson e Jeffrey Hammond, e fu proprio quest'ultimo che spesso seguiva la band dal vivo ad evidenziare che c'era il bisogno di una tastiera sul palco, in quanto in sede live i nuovi brani risultavano incompleti. In quel periodo, John aveva intrapreso un soddisfacente percorso universitario al Chelsea Collage Of Science, ma non ci volle molto a convincerlo ad entrare in pianta stabile nella band. Il nuovo arrivato conferiva molte soluzioni in più, valorizzando maggiormente l'estro compositivo di Ian Anderson. John Spencer Evans nasce a Blackpool il 28 Marzo del 1948. La madre, insegnante di pianoforte lo introduce nel mondo della musica, poi l'esplosione dei Beatles e del pop rock lo inducono a prendere alcune lezioni di batteria. Infatti è proprio a causa della difficoltà di trovare un batterista per la sua prima band formata insieme a Ian Anderson e Jeffrey Hammond che lo porta a dedicarsi alle percussioni, anche se era ben evidente che il suo strumento naturale era la tastiera, il resto è storia che potete trovare in maniera dettagliata sulla recensione del primo album "This Was", disponibile sulla nostra testata. La prima serata ufficiale di John Evans con i Jethro Tull si tenne a Norimberga il 5 Aprile del 1970. Come di consuetudine, sul volere di Terry Ellis, prima di dedicarsi all'album, a Dicembre del 1969 i nostri lanciarono sul mercato il doppio singolo "The Witch's Promise /The Teacher", la prima era una dolce ballata folk rock, con chitarra acustica e flauto protagonisti assoluti, mentre "The Teacher", se pur orecchiabile aveva una decisa anima hard rock. Su entrambi i brani suonò anche il nuovo arrivato John Evans. Ma fu l'ultima volta che i nostri correvano dietro al mercato dei singoli, decidendo di riversare in futuro tutte le energie compositive sugli album. E' giunto ora il momento di inserire "Benefit" nel nostro lettore e di apprezzare la naturale evoluzione del sound Tulliano.

With You There to Help Me

Ad aprire le danze è "With You There To Help Me (Con Te Là Ad Aiutarmi)", un brano dove spiccano fantastici intrecci fra le chitarre ed il flauto. I nostri aprono il platter in maniera soffusa, toccando i confini con la musica ambient. Le magiche note che fuoriescono dal flauto di Ian sembrano leggiadre effimere che svolazzano nelle vicinanze di una fonte di luce in una calda notte di mezza estate, il loro intreccio con il pacato strumming di chitarra rievoca atmosfere che ci riconducono in un villaggio dei Nativi Indiani. Con classe entra in scena la sezione ritmica, accompagnando la cantilenante linea vocale di Ian Anderson, che trasuda stanchezza, quella stanchezza accumulata durante l'estenuante tour americano che ha portato la band sull'orlo di una crisi di nervi. La seconda strofa viene ravvivata da un deciso tema all'unisono degli strumenti che mette determinati contrappunti alla linea vocale. A seguire troviamo un bridge dove spicca un caloroso assolo di chitarra ricamato da un vigoroso strumming con la sei corde acustica. L'inciso combacia con il ritorno a casa dei nostri. Si respira aria nuova, gli strumenti suonano con brillantezza, tornato nella terra natia, Ian Anderson a finalmente ritrovato le energie, conferitegli in gran parte dalla bella Jennie Franks, avvenente segretaria della Chrysalis, con la quale il nostro convolerà poi a nozze a Febbraio del 1970 presso L'Ufficio Del Registro Di Watford. Una sola settimana a contatto con le persone che conosce, immerso nel suo habitat naturale e più che altro la compagnia della bella Jennie, bastarono a cancellare tutto il malumore accumulato negli Stati Uniti. Andando avanti troviamo un bellissimo interludio strumentale, dove gli eterei sospiri del flauto aleggiano come fantasmi in una casa infestata, manifestandosi anche nella strofa successiva, mettendo raffinati contrappunti al cantato di Ian Anderson, il quale continua ad evidenziare il forte sentore di disagio dovuto all'estenuante vita on the road nel Nuovo Continente, titubante sulle proprie possibilità di poter continuare ad andare avanti. La voglia di tornare quanto prima a casa è grande. Il bridge ravviva nuovamente l'atmosfera, spazzando via la stanchezza e spalancando le porte al ritorno dell'inciso, dove la linea vocale si fa più brillante evidenziando come la futura moglie sia una inesauribile fonte di ricarica per il Menestrello Scozzese. Al minuto 03:28 incontriamo un altro raffinato intermezzo strumentale, dove un inquietante partitura di flauto si alterna con un energico assolo di chitarra, il tutto ricamato da tetri accordi di pianoforte e un grande lavoro dietro al set delle percussioni. Dopo un altro passaggio di ritornello troviamo una versione alternativa di quest'ultimo, rallentano i BPM e spinto dai filler di Mr. Bunker il brano sembra sfumare lentamente verso l'epilogo, ma c'è tempo ancora per una bellissima coda strumentale, dove energici fraseggi di chitarra duellano a lungo con gli spettrali aliti del flauto, accompagnati da una incessante marcia tribale della sezione ritmica e da un vigoroso strumming con la sei corde acustica. Se questo era l'antipasto, non vediamo l'ora di assaggiare le portate successive.

Nothing To Say

La successiva "Nothing To Say (Nulla Da Dire)" è una melanconica ballata folk contaminata da energiche spruzzate elettriche, dove il Cantastorie Di Dunfermline ostenta tutto il suo disappunto nei confronti di una società dove regna l'egoismo e non vengono presi in considerazione i pensieri degli altri, specie nel caso non collimino. Ma il nostro ha trovato la giusta soluzione per porre rimedio al problema, ha deciso di tenere per se le proprie idee ed i propri pensieri, fingendo di non avere niente da dire, come dice chiaramente nel titolo. Nella breve introduzione, supportati da una delicata marcia sul rullante, basso e chitarra esternano le proprie idee, annunciando la strofa, dove un bellissimo intreccio fra due chitarre acustiche ed il pianoforte offre su un piatto d'argento le basi per cantare a Ian Anderson, che con una linea vocale melanconica ci colpisce dritti al cuore cantando dei mali principali della società, l'egoismo e l'ipocrisia. Di fronte ad un conflitto bellico, c'è sempre chi vota per la pace e chi per la guerra, ignorando il pensiero di coloro che purtroppo sono coinvolti direttamente. Il nostro ha le sue teorie, ma se le tiene ben strette, se le esternasse, sarebbe l'unico a perdere qualcosa, mentre gli altri ne guadagnerebbero. Il chorus si fa più energico, grazie ad un cadenzato tema all'unisono della chitarra distorta e del basso, dove il nostro rimarca che non ha niente da dire. Ma il pezzo forte del brano è la strofa, che ritorna con tutta la sua bellezza e dove Ian Anderson tenta di districarsi fra i muri di bugie che dividono la società. Ritorna l'inciso, con le acide trame elettriche e la voce effettata di Ian Anderson che conferma che non ha niente da dire, deciso a tenere per se i propri pensieri. Queste liriche sono facilmente trasportabili ai giorni nostri, dove molti amano ostentare i propri pensieri sui social network, senza badare se il loro pensiero può essere inappropriato o offensivo, pensando che la rete sia un limbo dove tutto è lecito e tutto è concesso. Bene, ultimamente il sottoscritto la pensa come Ian Anderson, molto spesso è meglio non avere nulla da dire e tenersi i propri pensieri per se. Nella strofa successiva, Anderson sembra aver fatto un viaggio proprio ai giorni nostri, vomitando disdegno verso l'ipocrisia e su chi ama sviscerare odio verso chi la pensa diversamente, confessando poi nell'inciso finale che un tempo anche lui era così, ma per fortuna è cambiato e ora non ha più nulla da dire. I nostri vanno a chiudere con una emozionante coda dove un melanconico tema di chitarra va ad incantonarsi fra le cristalline note arpeggiate che piovono giù come luccicanti glitter e i melanconici fraseggi del pianoforte. Ian Anderson ricama con cantilenati vocalizzi rimarcando ancora una volta che non ha niente da dire, mentre lentamente Martin Barre genera uno struggente assolo di chitarra che magicamente ci accompagna verso una lenta sfumatura in fader, purtroppo proprio sul più bello. Chapeau.

Alive And Well And Living In

 "Alive And Well And Living In (Viva E Vegeta E In Casa)" è un brano decisamente più breve rispetto alle due precedenti tracce. John Evans tesse una incisiva partitura di pianoforte che sarà l'ossatura della prima strofa. La sezione ritmica accompagna in maniera delicata, mentre decisi contrappunti di flauto sottolineano i versi d'amore dedicati dal Poeta Scozzese nei confronti una figura femminile. Istintivamente, vista la traccia di apertura, è facile pensare che le poetiche liriche siano rivolte ancora una volta verso Jennie Franks, ma alcuni versi ci portano nella direzione di un'altra figura femminile ben cara a Ian Anderson, la madre. Nel inciso, gli strumenti suonano più energicamente, grazie ai caustici riff di chitarra seguiti all'unisono dal basso che rimpiazzano il pianoforte. E' proprio nel ritornello che l'indizi ci portano verso la madre di Anderson, le liriche dipingono una donna stanca, che ha bisogno di riposare, tanto da mettere un cuscino sopra il telefono per attutirne gli squilli, una donna sempre pronta ad ascoltare e a consolare chi ha voglia di piangere. L'inciso si chiude con un brillante fraseggio di puro folk rock che apre le porte ad un breve interludio strumentale dove il brano cala nuovamente d'intensità. Sull'onda della delicata ritmica dai sentori jazz, uno svolazzante flauto introduce nuovamente la strofa, dove torna protagonista il pianoforte di John Evans. Chorus e strofe continuano ad alternarsi fino al minuto 01.50, dove ha inizio una raffinata coda strumentale dai sentori progressive. Sempre sulle orme della ritmica jazzata, John Evans fa centro con un classicheggiante assolo di pianoforte, ricamato da preziosi intarsi con la sei corde acustica e da leggiadri aliti di flauto. A seguire ritroviamo il folkeggiante tema all'unisono che ci accompagna verso un dolce finale lasciato nelle delicate mani del nuovo arrivato.

Son

Nonostante la breve durata, "Son (Figlio)" è un brano dai molteplici cambi ritmici che mettono in mostra una graduale avvicinamento alle sonorità progressive dell'epoca. Nelle liriche Anderson affronta il rapporto con i genitori, in particolare con il padre, un uomo vecchio stampo che ha fatto di tutto per educare al meglio il proprio figlio, spesso con metodi bruschi e duri, ma che alla lunga hanno dato i suoi frutti. Il brano inizia con un acido impatto sonoro, il rullante scandisce il tempo in maniera incessante, chitarra basso e pianoforte danno vita ad un intreccio a cui si accoda immediatamente Ian Anderson, che con una linea vocale saccente ricorda i vecchi insegnamenti del padre, che esigeva sempre il massimo rispetto, che critica i divertimenti dei giovani rimembrando i "suoi tempi", esortando il giovane Ian a metter su famiglia quanto prima, insomma, più o meno tutti i discorsi che ognuno di noi ha già sentito in passato. La strofa continua con tutta la sua ossessività fino al minuto 01:17, quando il brano inizia a sfumare precocemente in fader. Improvvisamente i nostri ripartono, ma il brano cambia completamente veste, quasi da farci pensare di essere già passati alla traccia successiva. Una squillante chitarra acustica quasi oscura una dolce trama di pianoforte, accompagnando il Cantastorie Di Dunfermline, che segue la strada melodica della sei corde in pieno stile stornello romano, togliendosi qualche sassolino dalla scarpa, ricordando quando il padre metteva in discussione i suoi voleri, ovvero l'intraprendere una carriera da musicista. In mezzo alla strofa emerge uno spagnoleggiante strumming che ritroviamo successivamente, a fare da bridge ad un nuovo cambio di atmosfera. Clive Bunker torna a scandire il tempo con la sua marcia ossessiva, la chitarra elettrica  è nuovamente protagonista con una dura progressione di accordi e taglienti contrappunti sul cantato di Ian Anderson, che è pronto a riconoscere che molti dei consigli impartiti dal padre sono stati utili ed efficienti per costruirsi una vita più che dignitosa, chiudendo in maniera ironica con una delle frasi più classiche dette dai genitori di un tempo, "Quando cresci, se farai il bravo ti compreremo una bicicletta". Nel brusco finale, gli strumenti sembrano impazziti, sparando a velocita ipersonica una quantità industriale di note nel breve spazio di quattro secondi.

For Michael Collins, Jeffrey and Me

Di ben altra pasta è la successiva "For Michael Collins, Jeffrey And Me (Per Michael Collins, Jeffrey E Me)" una perla acustica che impreziosisce ulteriormente l'album, dove nel titolo, Ian Anderson omaggia ancora una volta l'amico Jeffrey Hammond, inconscio che solo qualche mese più avanti lo raggiungerà nella band, sostituendo Glen Cornick al basso e rimanendoci fino al 1975. Ma non finiscono qui gli omaggi in questa raffinata ballata acustica, nel titolo, il nostro oltre a dedicarsi trovare spazio per se stesso, omaggia un altro grande figura storica, l'astronauta Michael Collins, passato alla storia per aver condotto l'Apollo 11 nello spazio senza però aver poggiato piede sulla Luna. Il brano si apre con un prezioso e triste fraseggio con la sei corda acustica, ricamato in maniera quasi impercettibile da una seconda traccia di chitarra acustica. In maniera quasi timorosa, Ian Anderson recita alcuni versi, colmi di profonde licenze poetiche di difficile interpretazione, che distogliendosi dal titolo puntano ad evidenziare i difetti della società, dove il potere del denaro primeggia sui valori morali che minacciosamente sembrano abbandonare l'Inghilterra, argomento affrontato in maniera più dettagliata dai Genesis qualche anno più avanti. Successivamente troviamo una manciata di vigorose pennate in strumming, ricamate da un tetro accordo di pianoforte e preziosi fraseggi di chitarra a fare da bridge annunciando il chorus, dove entra in scena anche la sezione ritmica. Messo in secondo piano in quanto a volumi, Glen Cornick fa comunque un grande lavoro di sottofondo alle quattro corde, dando un'anima alla interessante ritmica di Bunker, ricca di sinuosi filler. Ma ad emergere sono ancora le due chitarre, che accompagnano brillantemente Ian Anderson, che stavolta in piena sintonia con il titolo, dedica alcuni versi al Michael Collins, che se pur non nominato direttamente, viene coinvolto. Il celebre pilota americano è curiosamente nato al numero 16 di via Tevere a Roma, il 31 Ottobre del 1930, in quanto che il padre in quel momento era impiegato presso all'ambasciata statunitense in Italia. Considerato uno dei migliori astronauti della Nasa, dopo un piccolo problema all'ernia che ne mise in forse la sua carriera, gli fu affidato il compito di pilotare il Modulo Lunare Apollo, meglio conosciuto con l'acronimo LEM (Lunar Excursion Module), nella storica missione che il 20 Luglio del 1969 portò sul nostro bellissimo satellite l'Apollo 11 e gli altri due astronauti Neil A. Armstrong e Buzz Aldrin. Per ironia della sorte, Michael dopo aver portato a termine la missione, fu l'unico dei tre astronauti a non mettere piede sulla superfice lunare. Ian Anderson si immedesima nel pilota, immaginandosi tutta la sua frustrazione nel vedere i colleghi calpestare il suolo lunare e la sua sfrenata voglia di raggiungerli. Un tranquillo arpeggio eseguito con la chitarra acustica annuncia la terza ed ultima strofa, dove cala nuovamente la tensione. Le preziose trame delle due chitarre acustiche vengono ricamate da un dolce tappeto di pianoforte e soffusi fraseggi di basso e chitarra elettrica, mentre Clive Bunker accarezza con classe il set dei piatti. Ian Anderson dipinge lo stupore dell'intero Pianeta nel vedere lo strabiliante atterraggio dell'Apollo 11 sulla Luna, un avvenimento che ha lasciato un segno indelebile nl cuore della gente in quel periodo e che sovente troviamo nelle liriche dei gruppi progressive dell'epoca. Il nostro con una velata vena polemica, sottolinea come tramite l'apporto di denaro sporco, l'uomo è riuscito a portare il suo seme nello spazio. Un raffinato climax ci porta verso il festoso inciso, che non varia né musicalmente né liricamente rispetto al precedente, accompagnandoci verso il mellifluo finale.

To Cry You A Song

 "To Cry You A Song (Urlarti Una Canzone)" è un interessante brano dove i nostri mixano la grinta dell'hard rock con i virtuosismi del progressive rock. Il brano inizia con un tema eseguito all'unisono dal basso e dalle chitarre, che sarà il main theme della canzone e che per molti ricorda troppo da vicino quello di "Had to Cry Today" del supergruppo britannico Blind Faith, anche se più volte Martin Barre ha tenuto a precisare che si tratta solo di pura casualità e che non c'è alcun tentativo di plagio nei confronti del riff partorito dalla micidiale coppia Eric Clapton-Steve Winwood. Ma torniamo al nostro brano, nella prima strofa, Ian Anderson viene lasciato solo, a cantare in maniera suggestiva di un volo in aereo, che molti hanno visto in maniera appropriata come un volo dovuto ad un'esperienza lisergica dovuta all'uso di sostanze stupefacenti. Ma il volo di cui canta il Menestrello Scozzese, ricamato da decisi contrappunti all'unisono di tutti gli strumenti, è il sospirato volo di ritorno verso casa, dopo il tormentoso tour americano. Nella seconda strofa, il tema portante si fa più presente, sostenendo Ian Anderson che ci canta con soddisfazione tutta la sua gioia una volta sceso a terra, solcando le vie illuminate di Londra a bordo di un taxi e cantando a squarciagola una canzone. Dopo un breve bridge strumentale arriva l'inciso, dove facendosi largo tra gli interminabili filler di batteria e i taglienti accordi della sei corde, Anderson ostenta tutta la sua gioia dovuta al ritorno a casa, ora si sente come un uccello libero che vola in un celo azzurro illuminato dal Sole, sono bastati pochi minuti nel suo habitat naturale per far cambiare in maniera repentina il suo umore. A seguire incontriamo un prolungato interludio strumentale che urla progressive da tutti i pori. I nostri si lasciano andare in una serie di virtuosismi, dove ad emergere sono quelli del Batterista Di Luton. Anche le pastose vibrazioni del basso tornano a farsi sentire come nel precedente album. Martin Barre si fa largo con un acido assolo di chitarra che sembra non volersi staccare dal cordone ombelicale della musica psichedelica. Nella strofa successiva, il nostro dipinge l'incontro con Jennie Franks come una visione angelica, la gioia è talmente tanta che il Cantastorie Scozzese non sa se sta sognando o se è tutto vero. Dopo un altro passaggio del ritornello troviamo un altro incredibile intermezzo strumentale, ricco di virtuosismi da parte di tutti gli strumentisti. Durante l'assolo di chitarra, Glen Cornick tiene testa a Martin Barre con una serie di sinuose scale dando vita ad un epico duello senza né vinti né vincitori. Dopo un effimero passaggio del tema portante, il Chitarrista Di Birmingham prosegue l'assolo, abusando degli effetti a pedale che conferiscono una dimensione disorientante e lisergica ai suoi virtuosi fraseggi. Nella strofa conclusiva, Ian Anderson continua a esternare la sua gioia, dipingendo le vie illuminate di Londra ed esternando l'estasi provata nel rivedere gli occhi angelici di Jennie, che dopo un prolungato tempo di astinenza sembrano incredibilmente ancora più dolci del solito.

A Time For Everything

Pur essendo la traccia più breve, "A Time For Everything (Un Tempo Per Ogni Cosa)" nasconde quelle che a mio avviso sono le liriche più interessanti dell'album, che in qualche maniera esulano da quelle che fino ad ora sono state le tematiche portanti. Il Cantastorie Di Dunfermline fa un viaggio nel tempo che lo porta alla soglia dei suoi 50 anni (all'epoca ne aveva 22), ripercorrendo poi in maniera retrospettiva la sua vita passata, stipulando un bilancio e considerando ciò che avrebbe potuto essere ma non lo è stato per diverse ragioni. Il brano inizia con un esotico intreccio fra il flauto e la chitarra. Le atmosfere folk rock proseguono nella strofa, dove pur rispettando la rigorosa legge del "ogni cosa a suo tempo" il nostro ha dei rimpianti riguardo a quella che è stato il proprio percorso, desiderando di poter tornare indietro per poter cambiare alcuni eventi che hanno segnato in qualche maniera la sua vita. A seguire incontriamo un interludio strumentale che vede protagonista il flauto con una ammaliante melodia, di quelle da fischiettare sotto la doccia, ripresa in maniera sporca dalla chitarra elettrica. Successivamente Martin Barre tesse un timido assolo di chitarra i cui fraseggi proseguono nella strofa successiva, dove il nostro tira le somme dei suoi primi cinquant'anni. Tutto sommato, come per gran parte degli esseri umani, in fondo, le gioie e le lacrime finiscono sempre in pareggio. Sarebbe bello poter tornare indietro e cancellare i momenti tristi, in modo da avere un cinquantennio contornato solamente di gioie, ma purtroppo il passato rimane, c'è un tempo per ogni cosa. Durante questa strofa, Martin Barre lascia in sustain una pungente nota per oltre dieci secondi, che in maniera disturbante si insinua nel nostro cervello. Nella coda finale ritroviamo il bellissimo assolo di flauto, il Pifferaio Magico ci trasporta lontano con esotiche trame, ricamate dal preziosi intarsi di chitarra e da melensi vocalizzi. Quando la canzone sembra proseguire verso lidi ambient, un brusco finale ci desta dal sogno, ponendo fine al brano in maniera inappropriata, in quanto non so se volutamente o meno, il netto taglio di chiusura non ha certo una precisione chirurgica.

Inside

"Inside (Dentro)" fu pubblicata come singolo il 10 Giugno del 1970, si tratta di una calorosa ballata folk con il flauto protagonista assoluto che ha il potere di trasportarci indietro nel tempo, precisamente nel bel mezzo di una festa medievale. Le liriche seguono in linea di massima la tematica principale dell'album, ovvero la voglia di ritornare a casa, ma stavolta il Cantastorie Scozzese descrive tutta la gioia che prova una volta rientrato all'interno delle quattro mura domestiche. I nostri partono subito con quello che sarà il tema portante, ovvero una armonia che rievoca atmosfere medievali grazie agli spensierati sospiri del flauto. Lo stanco accompagnamento ritmico viene ravvivato dalle pastose note del basso, che vibrano quasi oscurando le delicate partiture della chitarra. Clive Bunker accentua l'atmosfera medievale stendendo un delicato tappeto con il glockenspiel, atavico strumento a percussione antenato dello xilofono. Con una linea vocala da menestrello, Ian Anderson descrive tutta la sua gioia nel ritornare fra le mura domestiche, dove torna a godersi la vita, assaporando le magiche essenze dei gesti quotidiani. Nell'inciso, la sezione ritmica accelera, dando un po' di brio al brano, nella linea vocale di Anderson si respira una gioia primaverile, lui si sente felice stando semplicemente seduto in un angolo della sua amata casa. Se pur il suo caffè non sia dei migliori, bevuto nel suo soggiorno ha un sapore speciale. Dopo un breve stacco con il tema portante guidato dal flauto, torna la seconda strofa, dove la gioia aumenta quando Ian invita vecchi amici a bere il caratteristico the delle cinque, dove ovviamente non può mancare il suo migliore amico, Jeffrey Hammond, che per l'ennesima volta viene citato in un testo. Un altro suggestivo aspetto del ritorno a casa sono le passeggiate serali nel parco, con i sospiri del vento che nelle tenebre suonano come una dolce e rilassante musica. A seguire troviamo un intermezzo strumentale, dove Ian Anderson replica le melodie del flauto con vocalizzi d'altri tempi. Nella strofa successiva il Cantastorie Di Dunfermline ci canta tutta la magia di una cena fra amici, dove non importa essere cuochi eccellenti, l'importante è passare una serata insieme, a mangiare e bere buon vino. Con l'ultima strofa si conclude anche la giornata, con i nostri che si addormentano beatamente contando le pecore, svegliandosi il mattino successivo per affrontare un'altra fantastica giornata.

Play In Time

Con "Play In Time (Suonare A Tempo)" Ian Anderson ci parla della sua difficoltà di trovare un metodo compositivo ben delineato e della sua mutazione stilistica. Si tratta del brano più aggressivo del paltter, con taglienti trame di flauto che si intrecciano con trascinati cavalcate degli strumenti e effetti allucinanti. Si comincia con il tema portante guidato dal flauto e seguito in maniera omofona dalla chitarra, una tagliente melodia facile da immagazzinare e pronta per essere fischiettata. Successive si aggiunge il basso, che si muove sulla medesima lunghezza d'onda della sei corde, seguendo la trascinante cavalcata di Mr. Bunker. Nella strofa il flauto si ammutolisce lasciando il campo agli strumenti a corda affiancati dall'organo e alla voce di Anderson, che canta di come nascono le sue composizioni, sovente durante la notte, quando l'ispirazione prende il posto del sonno. Gli piacerebbe avere un metodo compositivo più lineare e meno stressante, ma lui sa che deve cogliere al volo l'ispirazione nel preciso istante in cui si manifesta, giorno o notte che sia. Nello stralunato ritornello a comandare sono allucinanti suoni generati dalla chitarra e dalla tastiera, suoni che sembrano provenire da una minacciosa creatura aliena che tenta di dialogare con Anderson, deciso a portare avanti il suo messaggio musicale e la sua visione di fare musica. Nella strofa successiva, il Madman Flautist ci racconta della sua mutazione stilistica, partita dal blues, quasi subito accantonato in virtù di un folk rock che gli veniva direttamente dal cuore. Spesso gli risulta difficile trasmettere al resto della band le sue idee musicale, non è facile dire ai colleghi quello che devono fare con i propri strumenti come se si parlasse al meno dotato degli allievi. A seguire torna il disturbante ritornello, con gli strumenti che stridulano come gli artigli una creatura mostruosa in procinto di catturarci, che sfrega le unghie su una superfice metallica per terrorizzarci ulteriormente. Il flauto soffia impazzito, come se stesse fuggendo insieme alle lisergiche note sparate dalla chitarra di Barre. Al minuto 02:33 gli effetti si fanno ancora più allucinanti, ricamati da un tema all'unisono, poi dopo un breve assolo dove chitarra e flauto si intrecciano, ritroviamo il tema portante sentito nell'introduzione, che ci libera finalmente la mente da quella terrificante babele di infernali suoni metallici. I nostri continuano fino alla fine con il main theme, sporcato da alieni suoni che fuoriescono dalle tastiere.

Sossity You're A Woman

L'album si chiude con "Sossity You're A Woman (Sossity: Sei Una Donna)", una raffinata ballata melanconica dall'aria barocca. Il titolo lascerebbe presagire ad una canzone d'amore dedicata ad una donna, invero c'era cascato anche Martin Barre, che chiamò la sua nuova barca "Sossity", in quanto ne parlava come se fosse la sua ragazza. Ma poi venne fuori che la parola "sossity" non era affatto una ragazza, ma una licenza che si era preso Ian Anderson per giocare intorno alla parola società (britannica), la vera protagonista delle liriche. A quel punto, il povero Martin, vendette la sua barca. Un solenne tappeto di organo trasporta una preziosa escursione con la chitarra acustica, che nella strofa rimane l'unica compagna di Ian Anderson, il quale con una linea vocale che lascia trasparire una malevola sensazione di disagio ci canta della società britannica degli anni '70, una società puritana, dominata da un moralismo intransigente e che si atteggia vestita di un bianco candido e cerca di mascherare le sue scarpe sporche. Con il volto sorridente, la società ha mandato tutti al lavoro, creando degli automi che inseguono un punteggio. In maniera polemica Anderson esige una risposta dalla società, una risposta spoglia dalle patetiche menzogne che purtroppo stanno prendendo il sopravvento, prendendo il posto degli atavici valori morali che dalla notte dei tempi hanno contraddistinto la Terra Di Albione. Nell'inciso il brano si ravviva, le esotiche trame del flauto ed uno squillante piattello che trilla veloce e minaccioso come un letale serpente a sonagli, ci trasportano nel bel mezzo di un affascinante villaggio sioux, con un grande totem, lo sciamano e i fumi dei calumet che si librano nell'aria. Trasportato da un tappeto di organo, il Cantastorie Scozzese recita due aforismi lapidari: "Società sei una donna, azienda sei una donna", parole forti che vanno a scomodare un certo William Shakespeare, che nel suo "Amleto" recitava "Fragilità, il tuo nome è donna!". Ian Anderson attribuisce alla società e alle aziende l'incostanza attribuita sovente al carattere femminile. Tanto per rimanere in ambito Shakespeariano, "la donna è come l'onda o ti sostiene o ti affonda", ed è proprio questo che fa la società britannica, affonda chi non si attiene alle sue rigide regole colme di menzogne, tutti ma non Ian Anderson, che dopo uno struggente intermezzo acustico, nella strofa successiva con fierezza ostenta la sua libertà nei confronti di una società che sta preoccupatamene invecchiando, una donna troppo vecchia per attirare le attenzioni del ribelle Ian Anderson. Per l'ultima volta torna l'inciso, con le sue magiche atmosfere dal sapore esotico che rievocano i nativi americani. In chiusura, i nostri ci accompagnano verso il finale con un suggestivi fraseggi di chitarra acustica, alla quale è concesso l'onere di porre un prezioso sigillo all'album.

Conclusioni

Nonostante "Benefit" non contenga nessun brano che con il tempo è diventato un classico della band, all'epoca riuscì a consolidare la band, ottenendo risultati soddisfacenti ai botteghini, raggiungendo la posizione numero 3 degli album più venduti in patria ed una più che dignitosa undicesima posizione negli Stati Uniti, conseguendo rispettivamente un disco d'oro ed un disco di platino. Infatti ad eccezione di "To Cry You A Song", raramente altri brani sono riusciti a trovar posto nelle innumerevoli raccolte pubblicate dalla band nel corso degli anni. Ma nonostante questo piccolo dettaglio, secondo il mio sindacabilissimo parere, abbiamo fra le mani un grande album che contiene almeno cinque sei brani di pregevole fattura e che a me piace molto, vuoi per la sua cupezza, vuoi per le piacevoli venature progressive che timidamente inizano ad affiorare. Con questo album Ian Anderson si conferma leader assoluto della band, essendone l'assoluto compositore nonché il produttore. Non a caso, nel colossal "Armageddon", diretto da Michael Bay, spicca una battuta ben presto diventata leggendaria per chi ascolta musica hard rock, ovvero quando Owen Wilson, durante un dialogo recita "Ciò che mi fa perdere le staffe sono quelli che pensano che Jethro Tull sia un musicista del complesso." Alla risposta "Chi è Jethro Tull?", l'espressione del biondo attore di Dallas è tutto un programma. Ma torniamo a noi, dopo questa piacevole deviazione cinematografica. Eravamo rimasti con un Ian Anderson sempre più protagonista nel gruppo, vera e propria anima della band, dove oltra a comporre e cantare suona egregiamente anche flauto e chitarre, non disdegnando le tastiere. Ma stavolta le escursioni del Pifferaio Magico sono assai meno invadenti rispetto al passato, lasciando il giusto spazio a Martin Barre, che con il suo inconfondibile stile dona un'anima dura e cupa all'album. Eccezionalmente abile con la sei corde acustica, spesso tira fuori dal cilindro riff taglienti e memorabili, mentre a mio avviso fa un passo indietro sotto il profilo degli assolo. Anche il basso di Glen Cornick è meno invadente rispetto ai precedenti lavori, non so se per una scelta in fase di produzione oppure per i malumori che iniziavano a manifestarsi e che a breve porteranno alla sua esclusione della band. Sembra che il folcloristico bassista non riesca a stare dietro all'evoluzione musicale di Ian Anderson, rimanendo ancorato alle sonorità dei primi due album. Tutt'altro discorso per il compagno di sezione ritmica Clive Bunker, che invece sembra sposare in pieno il progetto musicale Andersoniano, trovando sempre la giusta soluzione, sorprendendoci più volte con geniali arrangiamenti del tutto originali. Se pur accreditato solo come ospite sul disco, anche John Evans (o Evan?) merita una citazione, in quanto ben presto diventerà un membro ufficiale della band. Le sue partiture di pianoforte e di organo vanno a collocare la tessera mancante del puzzle che delinea le nuove sonorità della band. Ma il suo apporto sarà fondamentale per gli album a seguire, quando Ian Anderson in fase di composizione saprà di avere molte frecce in più a disposizione per il proprio arco su cui contare. "Benefit" è venuto alla luce il 20 Aprile del 1970, distribuito dalla Chrysalis in Europa, mentre gli Stati Uniti, l'Oceania ed il Giappone hanno dovuto attendere il primo Maggio del medesimo anno prima che la Reprise lo mettesse in commercio. Le registrazioni sono state effettuate fra il Dicembre del 1969 ed il Gennaio del 1970 presso i Morgan Studios di Londra. La produzione è opera di Ian Anderson e di Terry Ellis, che come per il precedente album è l'ideatore del titolo e della copertina, anche se è doveroso sottolineare che stavolta l'artwork non ha avuto il medesimo impatto di quello di "Stand Up". In primo piano troviamo una cornice color grigio di un'ampia porta, che nella parte centrale alta ha un intarsio con il logo della band. Su un caldo parquet color ciliegio troviamo la rappresentazione cartonata dei nostri nelle loro classiche posizioni assunte in sede live, mentre alle loro spalle, su uno sfondo nero, attraverso una gigantesca finestra, i quattro musicisti albionici ammirano la versione in cartone di loro stessi. In basso, il titolo del platter.  Tirando le somme, "Benefit" a posteriori si rivelerà uno degli album più fondamentali della discografia Tulliana, l'album con il quale prende forma la loro idea definitiva di musica. Un album ingiustamente sottovalutato, inopportunamente dalla band stessa, che lo considera un mero lavoro di transizione, ma che io intendo rivalutare, consigliandolo a tutti quelli che per un motivo o per l'altro se lo sono perso per strada.

1) With You There to Help Me
2) Nothing To Say
3) Alive And Well And Living In
4) Son
5) For Michael Collins, Jeffrey and Me
6) To Cry You A Song
7) A Time For Everything
8) Inside
9) Play In Time
10) Sossity You're A Woman
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