INSOMNIUM

In the Halls of Awaiting

2002 - Candlelight Records

A CURA DI
EMANUELE RIVIERA
08/06/2016
TEMPO DI LETTURA:
7,5

Introduzione Recensione

Nel presente episodio redatto dal sottoscritto riavvolgeremo le lancette del tempo per andare ad analizzare, con lo stile attento e scrupoloso che ci contraddistingue, il debutto discografico della melodic death metal band finlandese degli Insomnium. Abbiamo, come ricorderete, lasciato la band capitanata dal poderoso Niilo Sevanen alle prese con il sesto studio album, quel Shadows of The Dying Sun che, pur rappresentando un leggero passo indietro nella discografia della formazione originaria di Joensuu, ha comunque confermato il quartetto finnico come una della realtà moderne più interessanti in ambito melodic death e li ritroviamo ora, oltre un decennio prima, nell'importante momento della pubblicazione del loro primo full length. Siamo, dunque, a cavallo del nuovo millennio, un periodo particolare per il genere in cui, dopo l'iniziale, sfavillante boom legato ai primi incredibili lavori di band quali At The Gates, Dark Tranquillity, Eucharist ed In Flames, si stava già cominciando ad avvertire qualche piccola crepa all'interno di un meccanismo che, solo qualche anno prima, pareva rodato alla perfezione. Un discreto numero di band, con ardore misto ad irriverente sfrontatezza più che con effettive qualità, stava inseguendo l'onda del successo proponendo lavori realizzati in serie e privi di qualsiasi peculiarità degna di nota, mentre i nomi legati alla prima ondata del già ribattezzato Gothenburg Sound sperimentavano, con alterne fortune, nuove vie da percorrere per non essere fagocitate nel calderone fumante e nebuloso che andava profilandosi all'orizzonte, (i gruppi di Stanne e Friden in primis), ed altri erano già stati costretti allo scioglimento a causa di continue turbolenze a livello di line up e, certamente, anche per via dell'incapacità di gestire un successo planetario di tale portata, inaspettato e furibondo, (gli stessi At The Gates, oltre a nomi più di nicchia come i già citati Eucharist o i Ceremonial Oath, per non parlare dei monumentali The Moaning, arresisi dopo un solo, portentoso, album). La vicina Finlandia si incaricò, pertanto, di affiancare i convalescenti cugini di Svezia e condurre, con brillantezza e nuove tipicità che andranno sviluppandosi con il trascorrere degli anni, il melodic death nel nuovo millennio. La prima fase della carriera artistica degli Insomnium non è dissimile da quella di moltissime altre realtà in cerca di fama ed inizia, tra il 1999 ed il 2000, con il rilascio dei canonici due demo autoprodotti, (Demo 1999 e Underneath The Moonlit Waves), passaggio obbligato per qualsiasi entità emergente e desiderosa di farsi notare dalle principali etichette discografiche. L'eleganza e la ricercatezza di quei due primordiali lavori, seppur ancora grezzi, non passò inosservata e, nella prima metà del 2001, i nostri firmarono un contratto discografico importante con l'etichetta londinese della Candlelight Records. Essa stava vivendo un periodo non facile se è vero che, da un lato si era vista sfuggire di mano i formidabili Opeth degli esordi, (dopo aver comunque prodotto album del calibro di Orchid, Morningrise e My Arms, Your Hearse), e dall'altro il recente, (primo), scioglimento dei grandiosi Emperor di Ihsahn e Samoth aveva privato, nel volgere di breve tempo, la label d'oltremanica dei due nomi di punta all'interno del proprio roster. Ecco allora che il sagace Lee Barrett, ex bassista degli Extreme Noise Terror, colse al volo l'occasione per scritturare una promettente ed interessante realtà dedita al versante più romantico e melodico del metal con l'intento di risollevare le sorti della propria casa discografica, da sempre peraltro attenta e lungimirante nel lanciare nuove leve nel panorama musicale estremo. Trovata, in poco tempo, una certa stabilità a livello di formazione, ai tre membri originali, (Sevanen, Friman ed Hirovonen), si aggiunse, nella primavera del 2001, pure un secondo valido chitarrista che rispondeva al nome di Ville Vanni. I quattro, all'epoca poco più che maggiorenni, già si erano distinti nei sopracitati due demo per una sorprendente perizia compositiva che rimandava ai grandi classici della letteratura romantica europea di fine ottocento, (Novalis e Goethe, Rimbaud e Poe, solo per citare i nomi più importanti in questo ambito), accompagnata da una discreta, ancorché acerba, abilità con gli strumenti. Forti di una fama che andava progressivamente affermandosi nei circoli underground scandinavi e con alle spalle una solida base economica i quattro entrarono in sala prove nell'agosto del 2001 per quella che sarebbe stata la loro prima release su lunga distanza. Lo studio scelto per le registrazioni fu il Media Works sito nella cittadina originaria della band, ed il tecnico incaricato del missaggio fu tale Jone Vaananen: un profilo volutamente basso per una band agli esordi che scelse un ambiente famigliare e riservato e che ancora non era pienamente consapevole di quali potessero essere i propri talenti e le proprie debolezze. Il titolo scelto per il debutto discografico della band fu "In The Halls of Awaiting" e l'artista incaricato di realizzare l'artwork di copertina fu l'altrettanto poco conosciuto Ville Kasla, anche batterista di due formazioni apparentemente anonime quali i Draconia e gli Watch Me Fall. Se per i primi l'iniziale sensazione è suffragata dalla quasi totale assenza di informazioni reperibili, scorrendo le poche note biografiche relative ai secondi ecco una inaspettata novità. Tra i membri degli Watch Me Fall ecco comparire infatti sia Ville Vanni, nelle vesti di unico chitarrista, sia Niilo Sevanen, qui sgravato dal ruolo di bassista ed impegnato solo nelle vesti di cantante. Non solo, leggiamo inoltre che tale formazione ha dato alle stampe, (dopo l'immancabile rilascio di due demo tra il 1997 ed 1999), nel marzo del 2001 un album intitolato Worn e catalogato anch'esso come appartenente al filone melodico del death metal: alla luce di quanto detto possiamo senz'altro parlare di un vero e proprio progetto parallelo ai primi Insomnium ed interrotto solamente dodici mesi prima della pubblicazione di In The Halls of Awaiting, (avvenuta infatti solo a fine aprile del 2002). La copertina che Kasla ci propone rappresenta un tipico paesaggio nordico, tra i più affascinanti in assoluto per chi scrive, fin dalla tenera età. Sulle rive di uno dei mille laghi che costituisce la Finlandia si ergono altissimi e secolari esemplari di conifere che sembrano arrivare a toccare il cielo, quasi a volerlo stuzzicare con le proprie propaggini estreme in un ideale e romantico abbraccio tra cielo e terra. D'altro canto i riflessi che le maestose essenze vegetali offrono sulla superficie del lago suggeriscono pure una interconnessione tra la terra e l'acqua, elementi uno fondamentale per l'esistenza dell'altro, in una perfetta simbiosi naturale fulgida e vitale. Sullo sfondo invece alcuni esemplari, probabilmente i meno giovani, sono pericolosamente inclinati e paiono sul punto di crollare nel sottostante bacino idrico, quale segno ineluttabile del trascorrere del tempo, ma anche della straordinaria capacità della natura di auto-rigenerarsi per fare posto agli esemplari più forti e vigorosi e per garantire la sopravvivenza stessa della specie, secondo quelli che sono i principi fondamentali della teoria evolutiva di Darwin. Le tinte scelte per una simile rappresentazione sono anch'esse delicate e sfumate: una colorazione soffusa di indaco sullo sfondo lascia progressivamente posto a gradazioni più oscure e tetre in primo piano che creano un contrasto cromatico di grande impatto e forza visiva notevole. Nella successiva ora scarsa di musica che ci apprestiamo ad ascoltare gli Insomnium ci condurranno letteralmente per mano all'interno di quel bosco rappresentato in copertina, (quando ancora ciò non era diventato una moda dilagante tra le realtà musicali di quel Paese, fino al punto di divenire fonte di facile ironia e pungente satira in rete). Essi ci faranno assaporare l'aroma intenso del muschio selvatico che cresce rigoglioso sulle piante, ci offriranno l'opportunità di respirare l'aria ricca di ossigeno e satura della prima rugiada del mattino, cammineremo insieme a loro sopra ad un delicato e fitto tappeto erboso, troveremo ristoro nelle limpide e freschissime acque di uno degli innumerevoli laghi dislocati sul territorio nazionale finlandese.

Ill - Starred Son

Il compito di aprire l'album è affidato al brano intitolato "Ill - Starred Son (Il figlio sfortunato)" introdotto da un soffuso e lugubre arpeggio di chitarre di straordinaria magniloquenza. Dopo appena una ventina di secondi, però, i ritmi si fanno impetuosi e la voce di Sevanen si erge granitica in uno scenario divenuto in breve tempo aspro ed arcigno. La descrizione lirica, che inizia prima in sordina e poi più incalzante, prende le mosse sulle languide note di una triste nenia il cui eco risuona in lontananza tra valli e boschi, un lutto che ancora non si placa, lo percepiamo nitidamente come un vento impetuoso che sferza giorno e notte le rive di un lago. Le chitarre hanno un incedere sostenuto ed il tiro della canzone è piuttosto convincente nella sua intelaiatura portante. All'interno di un mondo cattivo ed ingiusto il giovane ragazzo, rifiutato da tutti, vaga nella solitudine più completa e nemmeno lontano da tutti trova un minimo di conforto. Egli si contorce nel dolore per poter espiare il proprio peccato originale di essere venuto al mondo da reietto, la sua condizione di diversità provoca in lui atroci sofferenze, si muove senza una meta nei pressi di acque minacciose ed oscure, sotto le onde al chiaro di luna, (viene riproposto il verso che dava il titolo al secondo, affascinante demo prodotto dalla band), si domanda il perché di tanti e tali patimenti. Il nostro figlio disgraziato, il piccolo nato morto giace sotto un tumulo silenzioso conficcato in una terra timorosa per il segreto che dovrà custodire. Incontriamo, a partire dal minuto 01:26, il primo momento di break e sentiamo in maniera più nitida pure l'incedere della batteria di Hirvonen: siamo lontani dagli standard del genere, non vi è la potenza distruttrice dei blast beats, il lavoro dietro le pelli del nostro è puntuale ed omogeneo impostato su cadenze briose ma non dirompenti. Ritroviamo, per un attimo, il flebile sibilo della voce parlata di Niilo che già ci aveva accolti ad inizio brano. Siamo ora nei panni della madre del bimbo, stanca di dover provare un dolore insopportabile, gravata da un peso troppo oneroso da reggere così a lungo. Per lei è impossibile vedere qualsiasi forma di luce in fondo ad una simile oscurità, le acque ritornano ad essere placide e a scorrere immobili di fronte a lei. Dopo la seconda ripetizione del refrain centrale, a partire dal minuto 02:53, il momento migliore del brano: una quindicina di secondi di grande atmosfera condotti dalla abile mano di Friman che degradano, infine, in un lancinante urlo a squarciagola da parte del singer, una diatriba tra l'animo gentile e raffinato del combo finlandese e quello più selvaggio e sanguigno, presente ancora in forze agli inizi della loro carriera. L'ultima porzione del testo si manifesta come una autentica implorazione agli dei, una supplica ad essi affinché siano benigni con la donna inconsolabile perché privata del proprio figlio nel momento in cui l'ha messo al mondo, con la speranza che ella possa riabbracciarlo ed accarezzarlo con l'amore unico e senza confini che solo una madre è in grado di offrire, una volta che anch'essa avrà attraversato il confine tra la vita terrena e quella ultraterrena. L'album si apre dunque con una traccia vera e propria, un unicum fin qui nella carriera degli Insomnium che, a partire dal successivo lavoro, preferiranno aprire i loro lavori con pezzi semistrumentali corredati da brevi descrizioni liriche declamate a voce o interamente acustici come nel caso del seguente Since The Day It All Came Down.

Song of The Storm

Il brano che segue rappresenta, probabilmente, un lieve passo indietro rispetto a quanto mostrato nell'opener: "Song of The Storm (La canzone della tempesta)", si muoverà seguendo un canovaccio canonico e fin troppo debitore dei nomi storici del settore. Lungo gli oltre quattro minuti di durata si respirerà una certa carenza di personalità, comunque comprensibile per una band al debutto su lunga distanza e che, anche negli anni immediatamente successivi, farà fatica ad emanciparsi totalmente dai gloriosi "cugini" di Svezia. Momenti più energici e grintosi si alternano ad altri più pacati e gentili nell'iniziale porzione della traccia che appare ricalcare fin troppo fedelmente la prima, ancora non "drammatica", virata stilistica degli In Flames dell'accoppiata di fine millennio Colony - Clayman. Ci apprestiamo a bollare con un giudizio negativo questo brano quando ecco che, quasi inaspettato, giunge forse uno dei momenti migliori dell'intero album: il breakdown che troviamo al minuto 03:10 è qualcosa di semplicemente clamoroso, il gruppo tira letteralmente il freno a mano e per una ventina di secondi staziona con precisione maniacale sopra ad un paio di elementari accordi cadenzati, regolari, mentre la batteria accompagna il tutto con il caratteristico suono intermittente dei piatti. Il passaggio in oggetto dovrebbe essere preso da esempio da decine di moderne band ascrivibili al filone del techinical death-core, a parole fattesi alfiere del breakdown, ma in realtà capaci solamente, (e a volte pure nemmeno troppo bene), di rigurgitare all'infinito riff tritaossa a mille all'ora, certamente potenti e demolitori nella loro martellante cadenza ma pure incredibilmente uguali l'uno all'altro. Terminato il "pit stop", dal minuto 03:32, ci troviamo di fronte ad una ultima sezione più convincente grazie, soprattutto, ad un ritrovato dinamismo della parte strumentale, trascinata verso l'alto dal preciso lavoro dei due omonimi chitarristi. Di fronte ad una componente ritmica ancora troppo spigolosa e, per certi versi, derivativa ciò che si staglia nell'orizzonte è la grandezza della narrazione lirica: un autentico inno alla grandezza della natura che affonda le sue radici nella letteratura appassionata e sognatrice di Lord Byron e nella pittura paesaggista americana del XIX secolo, pionieristica nella sua corsa inarrestabile verso l'ovest selvaggio e sconosciuto. Respiriamo a pieni polmoni di questa atmosfera fatata, mentre il vento inizia a crescere d'intensità, percepiamo con trepidazione una certa elettricità nell'aria e, nella proverbiale calma prima della tempesta, odiamo gli ultimi canti degli uccelli che si rifugiano in tutta fretta tra le fronde degli alberi allorquando si scatenano i primi fragorosi boati nel cielo. Il cielo si fa oscuro, il ruggito dei tuoni diviene intenso e riusciamo a distinguere solo il tipico sospiro degli alberi che assistono impassibili allo scatenarsi degli eventi, la maestosità del cielo si manifesta in un intermittente bagliore di luce. Solo un uomo coraggioso e fermo nei propositi osa assalire la tempesta che ora imperversa furibonda, egli grida ferocemente nel vento, gettando il suo guanto di sfida alle forze della natura. La burrasca ha colmato con la sua rabbia la tempesta ingigantendola ulteriormente e l'uomo ardimentoso è sollevato da terra in breve tempo, simile ad un filo d'erba inerme. Semplicemente eccezionale l'ultima strofa che fa riferimento alla periodicità con cui gli eventi atmosferici più catastrofici si ripetono ed al difficile rapporto tra l'uomo e la natura; due figure a loro modo testarde e destinate, inesorabilmente, ad entrare in conflitto. La natura ha versato lacrime sufficienti a colmare i mille laghi della Finlandia, ha modellato gli innumerevoli fiumi del profondo nord con il pianto cui l'uomo, troppe volte, l'ha costretta violando il suo equilibrio primordiale con interventi scriteriati e deleteri. Tematiche queste che, oltre ad essere quanto mai attuali visti gli scenari apocalittici che si profilano in un futuro ormai prossimo in materia di cambiamenti climatici, effetto serra e riscaldamento globale del Pianeta, mi sono particolarmente care vista la natura dei miei studi universitari, riallacciandosi, inoltre a quanto in Francia stavano elaborando i formidabili Gojira dei fratelli Duplantier, altro gruppo da me particolarmente apprezzato, anche in virtù di simili liriche impegnate ed ambientaliste.

Medeia

Dopo uno dei momenti più sofferti dell'album ecco arrivare, indiscutibilmente, uno degli apici massimi: è la volta della struggente e tragica "Medeia (Medea)", che riporta in auge il mito di quella che, senza ombra di dubbio, è una delle figure più controverse e discusse della mitologia greca classica. La nipote della maga Circe, dalla quale aveva ereditato poteri magici ed il cui nome stesso significa "astuzie" era, inoltre, figlia del potente re della Colchide, Eeta. Innamoratasi perdutamente di Giasone, interessato alla ricerca del famigerato Vello d'oro e bramoso di potere, ella non si fece scrupoli di nessuna natura pur di aiutare il proprio uomo a raggiungere il solo scopo di una vita intera. In un primo tempo, ella, si rese protagonista dell'uccisione del fratello Apsirto e dello zio di Giasone, Pelia, ingannando subdolamente le figlie e sacrificandolo tra atroci sofferenze. Tradita in seguito dallo stesso Giasone, Medea non finirà di macchiarsi di sanguinosi delitti: prima provoca la morte della promessa sposa del capo degli Argonauti, Glauce, inviandole come dono nuziale un mantello intriso di un micidiale veleno che causerà il decesso pure del padre della giovane, Creonte, e poi si sporcherà le mani con il più atroce dei crimini rinnegando la sua natura intrinseca di madre ed uccidendo i due figli avuti da Giasone per impedirgli di avere una successione diretta al trono. Placata la sua sete di vendetta, dopo una fuga rocambolesca fuga che la portò anche ad Atene tornò, infine, nella sua terra natale, la Colchide, e fece pace con l'anziano padre. Inevitabile che di fronte ad un simile scenario contradditorio e degenere gli Insomnium alzino la posta in gioco ed elevino In The Halls of Awaiting su di un livello superiore. L'apertura è affidata ad un sibilo remoto, una sorta di audace transizione spazio - temporale tra la Finlandia dei primi anni duemila e la Grecia del periodo d'oro del classicismo, al quale segue una prima, incantevole, sezione chitarristica di una quarantina di secondi. L'urlo ferale e assai lugubre di Sevanen muta, in un istante, le coordinate della contesa e ci catapulta con irruenza nel più atroce dei drammi. L'apporto della batteria è massiccio fin dalle prime battute e si respira un'energia positiva, vitale che certamente giova alla resa globale del pezzo. La prima porzione della narrazione lirica si mantiene, tuttavia, su scenari ancora umanamente sopportabili: viene descritto, infatti, lo stato d'animo di sofferenza della tradita Medea, il suo cuore, un tempo fonte inesauribile d'amore, è ora ricolmo di un odio insanabile. Già all'orizzonte aleggiano, tuttavia, inquietanti, presagi di vendetta quando si fa riferimento ai sensi di colpa che agiteranno la mente del povero Giasone, il suo tradimento sarà motivo sufficiente a dilaniare le sue notti di sinistri presagi futuri e a privarlo di un sonno ristoratore. I riff di chitarra crescono di tono suonando per noi come un inequivocabile campanello d'allarme, la sete di vendetta che Medea nutre in seno sta per essere sanata. Il fugace break centrale, al minuto 02:37, è perfettamente calato all'interno dell'immane tragedia che sta per compiersi. Ecco che l'inconfondibile timbrica gutturale di Sevanen ci svela, con enfasi quasi teatrale, l'orrendo destino che attende i due giovani, (Mermero e Fere), eredi designati al trono del padre. Presto essi, coloro i quali rappresentano l'amore più grande per l'infedele ed opportunista Giasone, faranno compagnia alla stessa Medea nei sogni più oscuri, non proveranno loro il dolore che ella ha avvertito per un amore violato perché saranno ingannati ed uccisi dalla stessa donna che li aveva messi al mondo. Incalzante e sostenuto anche il finale di brano allorquando Medea ripensa a quanto vano sia stato l'amore che ha donato al proprio sposo, quanto arido e vuoto sia divenuto il suo cuore una volta venuta meno la fiducia incondizionata che aveva riposto in lui. Ella garantisce che non sarà la sola il cui destino riserverà sventure in futuro, il dolore reciproco legherà le due anime che non troveranno pace, fino alla fine dei tempi. Un brano il cui aggettivo più calzante è brillante, perfetto sia per descrivere la sezione strumentale, ottimamente bilanciata tra la coppia di chitarre precisa e dinamica e la batteria muscolosa al punto giusto, sia, ancor di più, per esprimere quale coinvolgimento e quale trasporto emozionale susciti una simile, struggente vicenda. Medea e Giasone, benché personaggi mitologici, assumono sembianze umane grazie ad una così minuziosa e dettagliata caratterizzazione psicosomatica: siamo in grado di percepire i loro tormenti interiori più reconditi, possiamo cogliere lo strazio che, certamente pure una figura ambigua come la nipote della maga Circe, ha provato nel momento in cui, dopo iniziali tentennamenti, ha vinto la sua essenza stessa di madre dando la morte ai propri figli e, d'altro canto, possiamo immaginare l'atroce dolore del padre, lontano dai figli nell'ora fatale della loro morte, avvertiamo, con chiarezza, il senso di colpa che entrambi, pur con motivazioni differenti, avranno accusato di fronte ad una simile tragedia che li ha accomunati nell'eternità.

Dying Chant

Troviamo ora, in quarta posizione all'interno della tracklist, "Dying Chant (Canto morente)" introdotta da un riff che suona 100% Insomnium; in esso si respira nella sua interezza la doppia anima della band finlandese. Da un lato riconosciamo la durezza incrollabile di quel sound e dall'altro non possiamo non constatare pure la ariosità di tale proposta scenica. La coppia di sei corde composta dai due omonimi Ville, (possiamo ipotizzare che la fantasia quanto a nomi propri non sia una prerogativa tipica di latitudini così estreme), disegna un tessuto armonico piuttosto sostenuto e deciso fin dalle prime battute e il brano assume subito un carattere frizzante e spigliato. Il primo stacco viene posto, tuttavia, dopo appena una quarantina di secondi e ci consente di notare pure l'egregio apporto che la batteria offre alla causa comune: Hirvonen, pur non essendo tra i virtuosi delle pelli, è determinato nel suo incedere e riesce a districarsi con mestiere grazie ad una ritmica malinconica in mid tempo che diverrà una caratteristica peculiare lungo tutta la carriera della band. La melodia prende, ancora una volta, il sopravvento quando siamo poco sotto al secondo minuto: la transizione in questo caso appare fin troppo repentina e denota una certa immaturità, naturale per ragazzi poco più che ventenni, ma la dolcezza che i quattro musicisti riescono a conferire a questa porzione di brano è davvero ragguardevole. Lo stacco acustico che pareva estemporaneo e fugace si protrae, viceversa, per oltre un minuto in cui fa capolino anche, seppur sullo sfondo, pure il basso di Niilo. Si avverte un certo retrogusto folk in questo intermezzo: le lande desolate e perennemente ghiacciate poste al confine tra la Finlandia e la Russia sembrano lo scenario ideale per ambientare un simile tessuto compositivo. Del resto, per loro stessa ammissione, i primi Insomnium hanno trovato negli In Flames di Lunar Strain una tra le maggiori fonti di ispirazione e, se è vero come e vero che qui non si respira l'aurea magica di black metal che permeava il debutto dell'allora gruppo guidato da Mikael Stanne, è altrettanto vero che il suddetto full length era intriso di contaminazioni folk tipiche delle propaggini più settentrionali del Continente. A partire dal minuto 03:15 un ulteriore cambio di ritmo riporta le coordinate del brano su quelle inizialmente elaborate: le chitarre si fanno nuovamente potenti e serrate, ben coadiuvate dalla ormai conosciuta timbrica di Sevanen, certamente non originale, ma diligente e corposa quanto basta. La sezione lirica è piuttosto scarna e canonica per il genere. Il protagonista narrante si appresta a lasciare questo mondo ed il suo sguardo ritorna indietro nel tempo: egli avverte un grande vuoto dentro di lui scavato dagli anni, il tempo trascorso ha scalfito il suo viso con profonde cicatrici arse in profondità fino all'interno della sua anima ed il suo aspetto fisico è sfiorito della bellezza che fu un tempo. Il nostro uomo, solo e triste, riconosce la presenza della morte al suo fianco ed, in attesa del momento fatidico della sua dipartita, si lascia andare ad un pianto copioso sia per ciò che ha compiuto in vita, sia per ciò di cui si è privato. Travolto da ricordi che lo fanno soffrire e fiducioso in un aldilà benevolo, egli rivolge la sua preghiera estrema verso le altezze celestiali: il suo desiderio è quello di una salvezza divina, l'ultimo desiderio con il quale si congeda da questo mondo è che la sua anima possa riposare in pace senza ulteriori angosce. Con uno scatto estremo di orgoglio personale egli fa notare al suo interlocutore divino come non abbia mai mostrato rimpianto alcuno e non abbia mai sentito la necessità di chiedere perdono, non ha mai ceduto a richieste lusinganti né tantomeno a preghiere di supplica, per questo egli implora una salvezza gloriosa nell'istante in cui dona la vita al Padre Eterno. 

The Elder

Altro momento topico è la traccia che chiude la prima sezione di In The Halls of Awaiting: "The Elder (Il Vecchio)" è l'ideale compimento di una porzione di album caratterizzata da una certa omogeneità sia a livello di contenuti che di durata media dei pezzi, (siamo sempre di poco sotto ai cinque minuti complessivi) e, in linea di massima, da una qualità media dei brani leggermente superiore rispetto a quanto incontreremo nella seconda. A fini promozionali è stato girato, inoltre, un malinconico videoclip in cui una graziosa biondina dai tratti tipicamente nordici preme il tasto play di un walkman ed inizia l'ascolto di una altrettanto "vetusta" anonima musicassetta, (oggetti entrambi che appartengono alla preistoria sonora, buoni giusto per riempire i banchi di qualche romantico antiquario al giorno d'oggi). La coppia di chitarre ricama un arpeggio fine e delicato, sottofondo perfetto per un melodioso inserimento di basso che fa capolino dopo pochi secondi appena. La deflagrazione acustica avviene al minuto 0:43, ed il detonatore che la fa brillare in tutta la sua forza distruttrice è un urlo poderoso e virile dello stesso leader del gruppo che segue il primo, energico inserimento della batteria di Hirvonen. Al minuto 01:27 nuovo cambio di passo e torna a farla da padrona la melodia più squisita, la voce guida diventa sfumata, lontana al punto da farsi quasi impercettibile: siamo costretti a voltarci in giro, simili alla ragazza del videoclip, come disorientati, per riuscire a capire da quale direzione un simile accordo provenga, siamo inquieti, ma al tempo stesso profondamente affascinati, di fronte a così improvvise variazioni di tempo. Ecco ora l'entrata in scena del maestoso del coro centrale accompagnato da una sezione lirica veramente eccezionale che analizzeremo in seguito. La traccia è un continuo crescendo di emozioni e di sensazioni sempre mutevoli: in una frazione di secondo passiamo da feroci growl animaleschi a raffinati e quasi timidi vocalizzi sottovoce, il tutto sempre splendidamente accompagnato dalla sezione ritmica di una band che dimostra tutto il suo talento e la sua freschezza giovanile, pur senza esibirsi in virtuosismi tecnici o in fantasmagorici assoli di sorta. Altro esempio di quanto appena detto al minuto 02:45: immediatamente dopo la terza stanza proposta in growl a ritmi folli, la successiva, ultima strofa viene declamata con un flebile sospiro appena accennato in un formidabile alternarsi di alti e bassi che, fin dal debutto discografico, sarà un vero marchio di fabbrica in casa Insomnium. Da rimarcare pure l'incantevole outro finale, esattamente dal minuto 03:40, introdotto da un rabbioso riff di chitarra che precede un ultimo minuto altamente spettacolare. Dicevamo poco fa del testo: esso non possiede il dono dell'originalità in quanto riporta ai versi epici del Kalevala, l'epopea nazionale finlandese a firma Elias Lonnrot, di cui già un decennio prima i connazionali magici Amorphis si fecero eccezionali interpreti, ma brilla per l'incredibile fascino racchiuso in versi di straordinaria poeticità neo - romantica. Viene presentata, più nel dettaglio, la figura principale del poema, il saggio Vainamoinen, scaldo di natura semidivina e figlio della vergine dell'aria, Ilmatar. Egli, nel refrain centrale, viene descritto simile ad un gorgo profondo in acque oscure, uno sguardo nell'ombra perenne degli abeti: destriero del vento in grado di convogliare nere nubi cariche di pioggia, è padrone indiscusso del suo regno arcano e remoto. Per sempre ivi dimorerà come unico ed antico dominatore che tutto conosce.

Black Waters

"Black Waters (Acque nere)" apre una seconda porzione di album che, come accennato poco sopra, pare scemare un filo quanto a carica e vigore. L'iniziale incipit, sopra al quale si muoverà sostanzialmente l'intero brano, è troppo simile a quanto già proposto in precedenza e abbastanza privo di carattere. Gli Insomnium sono pur sempre una band al debutto sulla lunga distanza, e paiono ancora indecisi su che direzione prendere per meglio definire il proprio sound. La struttura portante si mantiene pressoché identica fino al minuto 02:20 allorquando si registra il primo, pur breve cambio di passo grazie all'inserimento di un impeccabile riff più ragionato. Dopo una trentina di secondi, registriamo un ulteriore stacco parlato ad opera del vocalist, utile a spezzare un canovaccio fatto di urla ferali e cavernose che, onestamente, stava iniziando a diventare abbastanza monotono. Una seconda sezione ritmica generalmente più interessante, perché leggermente più variegata, completa quella che è una onesta traccia di melodic death metal finlandese certamente gradevole nel suo scorrere fluido e regolare ma, tendenzialmente, poco attraente e senza picchi particolari degni di nota lungo i cinque minuti esatti della propria durata, (pericolosi accostamenti, specie nel comparto vocale, possono essere fatti pure con i vicini di casa Kalmah dell'altrettanto imponente singer Pekka Kokko). La sezione lirica, viceversa, è ancora una volta degna di un encomio particolare per la ricercatezza con la quale vengono scelte le parole, elementi finemente accostati l'un l'altro con la nobile finalità di formare stupende pagine di un libro destinato ad essere letto da un palcoscenico il più ampio possibile. Simili alle tessere di un puzzle i vocaboli vanno ad incastonarsi alla perfezione l'uno nell'altro a formare un mirabile quadro d'insieme armonioso ed omogeneo. Non ci spostiamo, peraltro, da scenari desolanti ed infelici fatti di profonda disperazione interiore, gravosi rimorsi che affollano la nostra mente, analoghi ad instancabili tarli che, senza sosta, erodono il legno degli alberi e propositi di morte quale sola ed unica fonte per la remissione dei propri peccati. La mente cupa ed ombrosa, il corpo stanco di celarsi sotto capelli neri come la pece sono le prime due immagini che vengono proposte. Il volto rigato da fiumi di lacrime causate da un conflitto ancora irrisolto, il fastidioso gracidare dei corvi nel cielo disturba i nostri pensieri, (ancora un richiamo ad Edgar Allan Poe). Il contrasto tra una mano calda e un palmo freddo come la morte, le parole riecheggiano vanamente nell'aria ora che il nostro amato interlocutore se ne è andato per sempre. Il colore nero è il solo che tinge giornate svuotate di qualsiasi emozione pulsante, pure l'ultimo lembo del nostro corpo è divenuto ora arido, rinsecchito. Abbiamo versato lacrime in grande quantità, abbiamo chiesto perdono per un passato non sempre meritorio ma certi torti subiti sono troppo pesanti da essere cancellati in noi stessi, talune ingiustizie non potranno essere perdonate. Un uomo spossato che ha raggiunto il punto del non ritorno osserva minacciose acque oscure dinanzi a sé: egli si avvia, con il capo chino, verso le coste scoscese di Manala, (il regno dei morti nella tradizione mitologica finlandese), ove sarà liberato dei suoi peccati, purificato nel corpo e dove il suo sonno sarà cullato dall'ondeggiare perenne e, fattosi improvvisamente calmo, di acque nere. "Questo percorso conduce nel buio"

Shades of Deep Green

Il roboante incipit che apre la successiva "Shades of Deep Green (Sfumature di Verde Intenso)", brano la cui durata supera i sette minuti complessivi e comincia a tratteggiare possibili scenari di sviluppo futuri per la band di Friman e soci, lungo una via che li condurrà verso il cosiddetto "sorrowful melodic death metal", etichetta che è stata appiccicata addosso al combo di Joensuu a partire dal successivo studio album e caratterizzato da composizioni mediamente lunghe, pur se non particolarmente intricate da un punto di vista strettamente tecnico. La batteria pare aver acquisito una certa potenza nel suo incedere e ciò conferisce subito un discreto tiro al pezzo. Il buon Niilo procede nella narrazione lirica con una certa cadenza regolare e non eccessivamente sostenuta, quasi a voler proferire con nitidezza ogni singola parola. Primo stacco acustico al minuto 01:07 e, ormai classico, morbido inserimento vocale del singer che precede di pochi secondi il primo passaggio dal refrain centrale, durante il quale i ritmi crescono in maniera progressiva, senza digradare però in maniera eccessiva. Il sound degli Insomnium è ragionato, vi è del costrutto di fondo non indifferente, sulla scia di quanto proposto dai pionieri del death metal più raffinato, la proposta dei quattro finlandesi punta ad arrivare al cuore delle persone, il desiderio è quello di suscitare un vortice di emozioni nell'ascoltatore che, nelle intenzioni del gruppo, dovrebbe divenire parte integrante delle melodie stesse. Tuttavia la porzione centrale del brano non riesce a convincere più di tanto, intrappolata nell'ormai noto schema costituito da parti più tirate alternate ad altre tenui che, a lungo andare, rischia di farsi stucchevole. Il combo finlandese pare evidenziare quella che, pure in futuro, sarà una delle maggiori criticità all'interno della propria proposta musicale: l'allungarsi delle canzoni denota, infatti, una certa ridondanza nelle sezioni strumentali, abbastanza simili tra di loro, non così tecniche da meritare menzioni particolari e, in definitiva, (soprattutto nella prima parte di carriera), piuttosto monocorde. Decisamente più interessante risulta essere la coda del brano, un ultimo minuto e mezzo ricco di contaminazioni folk e guidato da una malinconica chitarra acustica che si fa progressivamente più distante e remota: il naturale richiamo alla memoria per gli appassionati del melodic death metal della prima ora non può che essere la straordinaria outro a firma In Flames del brano Ever Dying contenuto nel monumentale Ep Subterranean risalente al lontano 1995. Il pezzo racconta di un ideale e romantico cammino nella natura più selvaggia alla ricerca della persona amata, oggi distante da noi. Lungo cunicoli stretti ed ombrosi ci muoviamo al crepuscolo nel ricordo di una donna ora perduta. Le ombre della sera si allungano su di noi, mentre la luna e le stelle prendono il posto del sole andato a riposare, nella notte torniamo a respirare il profumo della nostra amata. In tonalità di verde intenso possiamo annegare nuovamente nei suoi occhi teneri, nella foschia della sera siamo in grado di sentire tutta l'esile grazia femminile che, un tempo, era al nostro fianco. Cessa il soffio del vento e silenziano gli uccelli dal loro canto incessante, le acque tetre giacciono nella valle e le lancette del tempo smettono di girare: fissiamo nella nostra mente quel ricordo così grazioso e suadente di chi non c'è più. Vorremmo indugiare ancora nel crepuscolo della sera ma la crudele realtà delle cose però ci impone di continuare il nostro viaggio da soli, erranti in un mondo ostile viviamo questi angosciosi momenti colmi di desideri insanabili, il vuoto che la di lei dipartita ha causato è incolmabile. Né la rugiada scintillante tra le brughiere, né il sussurro del vento tra le valli, solo le sfumature del verde intenso ci ricordano ancora di lei.

The Bitter End

Proseguiamo, quindi, con "The Bitter End (La fine Amara)", aperta da un celestiale e gentile ricamo armonico di una tastiera, opera di tale Varpu Vahtera, già compagno di Sevanen e Vanni negli Watch Me Fall, che sembra provenire da qualche album dei connazionali Nightwish, e che sfocia poco dopo in un roccioso muro sonoro eretto dai due chitarristi e magistralmente introdotto, a sua volta, dall'ormai immancabile ringhio strepitante del vocalist. Un ritmo orecchiabile e abbastanza classico per gli standard del genere si sovrappone ad un retrogusto folk anche qui ben presente e il sound proposto denota, in questo caso, una certa maturità di fondo. Probabilmente consapevoli di non essere particolarmente dotati da un punto di vista tecnico, Friman e soci optano, saggiamente, per una proposta diretta e lineare dove a brillare sono i continui cambi di tempo, costruiti con semplicità disarmante e per questo ancor più meritevoli di attenzione. Controprova di quanto appena detto è il nuovo breakdown collocato al minuto 01:14 e simile, anche se meno epico, a quello già proposto nella precedente Song of The Storm: sono sufficienti un paio di accordi ben assestati per mutare, in un attimo, le coordinate stilistiche del pezzo. In questo caso è proprio durante questa momento della durata di una ventina di secondi appena che il gruppo decide di iniziare la narrazione lirica, affidata ovviamente al growl grezzo e tenebroso di Niilo. L'incedere è sorprendentemente brioso per quegli che sono gli standard tipici della band e ciò non può che ricadere positivamente sul giudizio finale di questa "Fine amara", ballata romantica permeata lungo tutto il suo sviluppo dalle sopracitate contaminazioni folkloristiche tipiche delle sterminate praterie careliane. Una replica in miniatura di quanto appena descritto poco sopra la ritroviamo al minuto 03:10 quando le ritmiche si fanno meno intense e maggiormente atmosferiche, siamo vicini alla conclusione dell'album e la band ha di certo recuperato parte delle energie che parevano essersi smarrite nella precedente accoppiata di pezzi. Finalmente le atmosfere sono speranzose e meno opprimenti, la sezione chitarristica è ariosa e ci consente di allungare lo sguardo verso spazi lontani, i cieli sopra le nostre teste si aprono, seppur parzialmente e gli orizzonti divengono meno angoscianti. Ritrovato ottimismo che respiriamo, almeno nella prima parte, pure nella sezione lirica a corredo, la cui caratterizzazione di fondo riporta alla precedente Shades of Deep Green. Apriamo gli occhi in una oscurità che non ci spaventa come credevamo, esili fiori fragili si posano tutto intorno a  te, la bellezza di questo momento crepuscolare non si può descrivere a parole, ci illudiamo che quanto credevamo potesse esistere solo nei sogni sia invece, incredibilmente, reale, tangibile. Troviamo ristoro nei pressi di acque gelide sognando di poter stringere tra le braccia una volta ancora la nostra sposa, la luce dei suoi occhi brilla nella sua interezza solo per noi. Non facciamo però in tempo a godere appieno di questa apparente serenità poiché la seconda sezione del brano è di tutt'altro tenore, e facilmente ce ne accorgiamo dal tono più serio e cupo del vocalist che ben si adatta al mutato contesto generale. Ora, infatti, è il momento del lutto, il dolore si è impossessato del nostro cuore, tutto ciò che di più prezioso avevamo è perduto per sempre, il silenzio notturno è amaro e tale resterà fino alla fine dei nostri giorni, ella, attraversato un cielo fattosi ora più scuro, apparterrà per sempre a me. Il dolore è ancora una volta al centro della narrazione lirica, la difficile elaborazione di un lutto attraverso ricordi piacevoli e sogni illusori. Sevanen, che all'epoca lavorava in libreria, palesa tutto il suo interesse per tematiche così particolari, che tanti manuali di psichiatria hanno riempito nel corso dei secoli. Se a ciò aggiungiamo che il giovane Ville Vanni, per un certo periodo, si è finanziato gli studi universitari occupandosi di autopsie, ecco spiegato il rapporto quasi morboso, pur se dai lineamenti gentili, degli Insomnium con la morte, tematica peraltro assai cara ad altre due, stratosferiche band finlandesi quali gli Amorphis ed i Sentenced, cui i nostri guardavano con un certo interesse ad inizio carriera, (come dargli torto del resto?)

Journey Unknown

Ci accoglie ora "Journey Unknown (Viaggio sconosciuto)", che prosegue sulla buona strada intrapresa nel pezzo precedente grazie a movenze sostenute e dinamiche. Con la massima franchezza che sempre ci caratterizza possiamo affermare, invero, che la traccia non eccelle quanto ad originalità, piuttosto similare nella sua struttura a molteplici altre proposte che popolavano il mercato discografico nei primi anni duemila, non ultima la stessa The Bitter End ascoltata solo pochi minuti fa. Le chitarre conducono una melodia certamente accattivante e di facile presa per i primi due minuti abbondanti, (si avvertono lontani echi della produzione più modesta degli Amon Amarth), ma non tali da far gridare al miracolo. Il primo scossone degno di nota lo si avverte al minuto 02:22: arpeggi gentili ed eterei fanno capolino per una ventina di secondi, elegante esempio di felice, anche se già sentita, transizione sonora. Nuova accelerazione al minuto 03:10 e via tutto d'un fiato verso la conclusione del pezzo tra pregevoli riff chitarristici ed energiche percussioni di piatti. L'intenzione della band era, con ogni probabilità, quella di comporre un pezzo non eccessivamente lungo che potesse assumere le sembianze di una epica cavalcata in perfetta tradizione nordica ma il risultato convince solo a metà. In definitiva, in relazione ad una certa similitudine con il pezzo precedente, siamo di fronte ad una discreta accoppiata di pezzi, abbastanza canonici per gli standard del melodic death metal dell'epoca e tipici di una band giovane che ancora deve formarsi pienamente quanto a personalità e stile proprio. Gli Insomnium, d'altro canto, ritrovano una certa capacità di sintesi che male non fa e paiono tirare il fiato per qualche momento per meglio prepararsi al gran finale che ci aspetta nel breve volgere di qualche momento. Una produzione piuttosto modesta penalizza l'esito complessivo del brano, i suoni nel complesso risultano non perfettamente bilanciati e, oltre al classico disinteresse per il basso, ne risulta penalizzata anche la prestazione alla batteria di Hirvonen, già di per sé non particolarmente lungimirante peraltro. Prendiamo il via, correndo attraverso il cosmo in direzione dell'ignoto, ci dirigiamo verso la luce dell'aldilà sotto un cielo che è illuminato dalle fiamme verdeggianti dell'aurora boreale. L'universo mi paralizza le braccia con il suo abbraccio ed il mio corpo è in auto-dissolvimento, percepisco nitidamente il silenzio del mondo tutt'intorno. Oggetti indefiniti si muovono vorticosi, la dimensione temporale degli eventi si fa indefinita e pure le proporzioni effettive delle cose viene alterata mentre io cado verso il basso, senza incontrare ostacoli. Attraverso una fitta nebbia, con immenso stupore misto a costernazione, la visione si fa più nitida e posso finalmente interrompere il mio folle viaggio e trovare ristoro in un rilassante silenzio, grandi occhi sopra di me mi sorvegliano ed io mi inchino con devozione. L'arco del cielo sopra di me è perfettamente delineato nei suoi contorni, gli astri della notte brillano di una intensa luce propria: chiudo gli occhi per un momento e mi viene rivelata la grandezza dell'esistenza tutta, fino all'eternità il corso degli eventi posso osservare, sono sveglio per la prima volta dopo un lungo sonno.

In The Halls of Awaiting

E giungiamo così, dopo tre quarti d'ora esatti di musica gradevole ed altamente evocativa, alla summa massima di questo "In The Halls of Awaiting (Nelle Sale di Attesa)": l'omonima title track è una lunga suite di quasi 11 minuti che sfiora la definizione di capolavoro assoluto. Poche altre volte si era assistito, in passato, a chiusure di album tanto poderose nel loro corposo sviluppo, magnifici echi legati ai primi, formidabili lavori degli Opeth echeggiano sommessi e raffinati durante tutto l'incedere del brano che, a buon diritto, può essere considerato come la miglior traccia in assoluto della prima parte della carriera dei nostri. L'apertura viene affidata ad un educato arpeggio che dura una trentina di secondi circa, durante i quali la nostra mente è libera di viaggiare in una nuova dimensione, alta, di natura mistica. Le chitarre ci acciuffano per il rotto della cuffia, mentre siamo ad un passo dallo spiccare il volo verso altezze celesti e ci riportano a terra, in direzione della più cupa malinconia e della profonda disperazione dell'animo. Saggia è la decisione di iniziare la narrazione delle vicende ivi contenute con la voce parlata, recitata come se si trovasse di fronte ad un pubblico discreto da parte del buon Niilo. La band scava in una dimensione altamente introspettiva e tocca picchi forse irraggiungibili quanto a malinconiche atmosfere tratteggiate. In un continuo alternarsi di raffinate parti acustiche al altre più massicce e gagliarde si snoda l'epica vicenda di "tolkieniana" ispirazione che racconta delle peregrinazioni disperate del mortale Beren, i suoi patimenti d'amore e la sua estenuante rincorsa all'amata ed immortale elfa Luthien, usignolo della notte così come il giovane la chiamava prima ancora di conoscere il suo nome. Una spiccata dose di sperimentalismo pervade il brano e sullo sfondo pare stagliarsi pure l'imperiale figura di Ihsahn con la sua clamorosa With Strenght I Burn fatta di continui cambi di registro e di arcane orchestrazioni di stampo barocco pronte ad esplodere in un assolo mozzafiato in chiusura di brano, quale sommo apice di un inarrestabile climax ascendente. Al minuto 04:45 parte una favolosa sezione acustica di quasi due minuti, pregna di una dolcezza sconfinata, quasi commuovente, anche magistralmente accompagnata dall'inserimento delle tastiere, già  incontrate in precedenza, e che affonda le radici nel gothic metal dei Katatonia più ispirati. Gli Insomnium ci hanno quasi condotto alle lacrime di fronte ad un simile trasporto emotivo e sentimentale quando, al minuto 08:11, l'estremo urlo leonino di Sevanen ci ridesta dal nostro stato di ipnosi pressoché catartico. Ecco che l'ingombrante paragone con gli Emperor azzardato poco fa riemerge, (peraltro pure le vicende narrate risultano essere abbastanza assimilabili tra loro, Tolkien la penna ispiratrice per Sevanen e soci, Goethe con il suo paladino Faust a impostare la scenografia di fondo per il duo Ihsahn - Samoth), al minuto 08:42 quando si staglia nell'aria l'unico, grandioso, assolo di tutto l'album: una ventina di secondi magistrali in cui assaporiamo tutta l'epicità della chitarra solista, in altri frangenti soffocata da strutture fin troppo chiuse e lineari. L'ultimo minuto e mezzo è affidato alle note gentili di un piano, eccellente mezzo attraverso il quale confezionare una nuova outro da brividi a fior di pelle. La label distributrice, forse ritemprata dal sentire nuovamente atmosfere che rimandano a Forest of October o Black Rose Immortal della band di Akerfeldt, offre il meglio di sé e confeziona un suono omogeneo e nitido in tutte le molteplici sfumature che lo compongono. In questo frangente non si avverte certo il peso della durata complessiva del brano, anzi la canzone trasuda energia e dinamismo in tutto il suo percorso, non vi è un passaggio simile a quello successivo e nulla è lasciato al caso, la banalità non alberga a casa Insomnium, in questo frangente. Le prime due strofe dipingono in maniera superba scenari incantanti del profondo Nord, la sensibilità di questi giovani ragazzi è incantevole. I cieli dalle colorazioni rosso intense fanno da sfondo al dramma narrato, le stelle escono alla distanza sopra a montagne color cremisi, la notte si posiziona alta nel cielo ed io avverto la tristezza in fondo all'anima, il mio cuore pulsa veloce, carico di ansie sconosciute. Rive nebbiose tutto attorno, si respira la calma serafica in boschi primordiali ed ombrosi, il cielo dipinge archi carichi di pioggia imminente. Passato è il lutto pur se ne indossiamo ancora il colore nero addosso, oltre il mare incantato mi riposo con malinconia, al mio fianco le tenebre più oscure. Gli anni della solitudine trascorrono lenti, gravosi, svanito il mio solo amore mi sono smarrito nel buio ma non ho ceduto a demoni che mi hanno aggredito minacciosi. Struggente fino alle lacrime la conclusione in cui ritroviamo la speranza di un amore eterno, indissolubile: attraverso la nebbia filtra la luce più bella di tutte, la carezza che ho aspettato per l'eternità mi cinge dolcemente il volto nel momento in cui l'oscurità della notte cede il passo alle prime luci del mattino.

Conclusioni

Magistrale debutto sulla lunga distanza per i finlandesi Insomnium, capaci fin dal primo album, di stagliarsi poderosamente al di sopra della stragrande maggioranza di band dedite al versante melodico del death metal, proliferate come funghi nei primi anni duemila. Se la componente strumentale a volte suona ancora grezza e non propriamente originale, ciò che incanta maggiormente è la sezione lirica dell'album. Le dieci canzoni, scritte a quattro mani dalla coppia Sevanen - Friman, delineano incantevoli e melanconici paesaggi nordici costellati da mille laghi ghiacciati e da sconfinati boschi odorosi. Le parole ora scandite quasi timidamente, ora schiumanti di una rabbia primordiale conducono l'ascoltatore in una discesa continua a scavare all'interno del proprio io: un ego fatto di passioni che non possono essere saziate, dolorosi lutti che lasciano cicatrici profonde in noi, animi irrequieti  e perennemente in cammino alla ricerca di una felicità che non potrà mai essere colta appieno. Certamente dotati di una cultura generale fuori dal comune, i quattro giovani musicisti lasciano spazio alle emozioni più autentiche, genuine che si susseguono senza sosta, un attimo prima blande e placide e l'attimo dopo acute e vigorose. Nel complesso, in sede di giudizio finale, incide in maniera negativa una produzione non all'altezza: i suoni appaiono in più di un'occasione alterati da un fastidioso riverbero che penalizza sia le sezioni di chitarre sia quelli di drumming. L'etichetta distributrice conferma un deficitario stato di forma e lascia piuttosto a desiderare per quasi tutta la durata dell'album salvo poi riportare la barra del timone a dritta durante l'ultima, epica traccia. Proprio la lunga title track, insieme alla drammatica Medeia ed alla malinconica The Elder compongono l'ideale podio di questo In The Halls Of Awaiting, album le cui tracce sono comunque tutte meritevoli di una sufficienza piena in pagella. Il quartetto finlandese non inventa certo nulla di nuovo, le strutture dei pezzi sono decisamente canoniche e lineari, il solo assolo presente in tutto l'album collocato a due minuti scarsi dalla conclusione di esso ne è la riprova più tangibile, ma si dedicano anima e corpo al felice esito del lavoro nella sua globalità e già questo merita un encomio di questi tempi. Non mancano passaggi meno riusciti, alcuni spezzoni risultano troppo simili a quanto già ampiamente sperimentato anni prima a Gothenburg e dintorni e qualche brano si dilunga forse eccessivamente ma nel complesso ciò incide solo in minima parte sulla resa nel tempo dell'album. Onore dunque a questi Insomnium la cui marcata identità appare già delineata, pur se ancora non definita con nitidezza, nei suoi lineamenti cardine: formidabile poeticità dei pezzi composti, atmosfere pregne di malinconia e di sofferenza dell'animo, riff eleganti e relativamente semplici, cadenze in mid tempo mai eccessivamente debordanti e raffinate sfumature di folk sullo sfondo. Se la Finlandia assumerà il ruolo di nuova guida del moderno death metal melodico, gli Insomnium si candidano di diritto ad esserne i suoi alfieri più meritevoli.

1) Ill - Starred Son
2) Song of The Storm
3) Medeia
4) Dying Chant
5) The Elder
6) Black Waters
7) Shades of Deep Green
8) The Bitter End
9) Journey Unknown
10) In The Halls of Awaiting
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