IN MALICE'S WAKE

Blackened Skies

2005 - Punishment 18 Records

A CURA DI
NIMA TAYEBIAN
22/01/2016
TEMPO DI LETTURA:
8,5

Introduzione Recensione

Stavolta ad essere oggetto della nostra analisi è un'Ep, solo un breve, conciso parto di quattro tracce partorito da una delle più promettenti realtà del circuito thrash australiano; territorio che, chi conosce a fondo quella determinata scena, ha già in mente per gruppi storici tipo Hobbs' Angel of DeathMortal Sin più molti altri, più giovani, la maggior parte dei quali raggruppati in un ambito che ormai da tempo rientra nell'etichetta "Revival Thrash" (Gli Envenomed di Brendan Farrugia, ma anche band come Harlott, Naberus e Damnations Day) ossia quell'ondata metallica che si ripropone, prendendo esempio dai vecchi maestri, di rinnovare e rinvigorire il genere citato, a volte peccando di "non eccessiva personalità", a volte proponendosi forti di un'anima strettamente propria. Genere questo su cui molti puristi, possibilmente, all'inizio davano un credito relativo, etichettando il "rinverdimento" come "operazione clone" (cosa che ad intervalli pare si ripresenti in differenti ambiti: mi basti citare il revival heavy portato avanti da "new defenders" come i sempre australiani Elm Street ed altri) ma che con il tempo ha saputo creare una nutrita schiera di nuovi, agguerriti baluardi del genere thrash, talvolta capaci di rivaleggiare con le "band ispiratrici". E' questo il caso, a mio modesto parere, della band di oggi, gli In Malice's Wake, che con l'Ep "Blackened Skies" partono già benissimo mostrando i denti oltre che tanta classe e personalità, che troverà poi un'opportuna rifinitura (da intendersi come maturazione, crescita) nei successivi dischi (al momento in cui scrivo sono usciti ben tre loro full, ossia "Eternal Nightfall" del 2008, "The Thrashening" del 2011 e "Light Upon The Wicked" del 2015). Quattro tracce abbiamo detto: sicuramente non tantissime se ci si volesse fare un'idea della loro bravura, ma già particolarmente indicative di tutto quel che verrà poi. Naturalmente se dovessi scrivere una recensione non conoscendo il resto del loro materiale, potrei mettere quel voto "relativamente alto" (che meritano) ma con la solita riserva, dato che sono in molti i gruppi a partire bene e poi perdersi nel nulla. Ma un buon inizio come quello che sto per analizzare corrisponde perfettamente ad un solido punto di partenza che vedrà i nostri avanzare fieri e vigorosi, crescere benissimo e non tradire minimamente le aspettative di tutti quei fan che volevano, desideravano, agognavano una serie di album uno meglio dell'altro, uno più incisivo dell'altro, con quel quid aggiuntivo che non verrà mai a mancare. Dunque un'entrata in scena trionfale coronata in seguito da una gragnola di dischi ottimi, capaci di suscitare nel sottoscritto - thrasher incallito - un impeto di gioia e commozione (non capita spesso di ascoltare un gruppo così avvincente). Ma che genere di thrash fanno i nostri? Insomma, se dovessimo a grandi linee dare un'idea del loro retaggio, a chi potremmo riferirci? Ascoltando i loro brani non è difficile cogliere in primis l'influenza di band come i Testament, ma aleggiano in maniera preponderante anche sani effluvi teutonici, Sodom in primis (ma anche Destruction, per quanto l'influenza dei primi sia ben più evidente). Dunque se siete amanti della tipologia di thrash portata avanti dai gruppi di cui sopra, non potete farvi sfuggire il thrash proposto dagli australiani In Malice's Wake, il cui retaggio è memore sicuramente delle band appena citate, ma che in più sa aggiungere l'elemento personalità che, purtroppo, a tante band manca. Non che la cosa sia lesiva per il genere "revival" (è logico che in questa branca quel che conta è più il "prodotto incisivo" che la personalità in se) ma il fatto che una band possa appoggiarsi sulle proprie gambe è importante per mantenere quel certo distacco da clichè e deja vù che alla lunga potrebbero stufare. E in più fa si che questa abbia anche un maggiore spessore artistico rispetto a chi si limita a citare (talvolta ai limiti del plagio). Dunque non è semplicemente l'Ep in questione ad essere consigliato, ma bene o male tutti i dischi partoriti dai nostri sino ad oggi. Concluderei con poche, semplici parole sulla band, messa in piedi da Shaun (Voce, chitarra) e Mark Farrugia (batteria) nel 2002, i quali nel corso degli anni avranno modo (come specificato inizialmente) di dare alla luce ben tre album, un'Ep (oggetto della nostra recensione), una demo (del 2003) e un live del 2014 ("Visions Of Live Destruction"). I nostri, epigoni della prima schiera thrash (e immaginiamo anche futuri maestri), dotati di un'encomiabile serietà (è evidente ascoltando quanto proposto che per questi ragazzi il thrash non è semplice musica, ma un verbo da seguire) raccolgono i frutti di tanti sforzi arrivando a suonare in sede live con Maestri - M maiuscola d'obbligo - come i Destruction e i Testament. Il presente è rappresentato da quel "Light Upon The Wicked" già accennato in precedenza, uscito alcuni mesi prima rispetto a queste note vergate sul mio taccuino elettronico, e che rappresenta un'ulteriore conferma del loro perfetto stato di salute. Un disco che ancora una volta ci fa ben presagire riguardo a quello che potrà essere il loro futuro, che non mancherà - ne sono sicuro - di riservarci molte ottime sorprese. Comunque, considerando che trovo ci sia rimasto ben poco da dire, tornerei all'argomento primario, ossia l'Ep "Blackened Skies", che ora analizzeremo con una certa attenzione.

To Run With Darkness..

Si inizia benissimo con "To Run With Darkness.. (Correre Con l'Oscurità)", prima traccia di questa stringata collezione di piccole gemme. Il brano parte in sordina con un preambolo della durata di appena una trentina di secondi, una sorta di introduzione dai toni lievemente inquietanti e quasi ambient. Dal trentaduesimo secondo l'impalpabile frangente iniziale lascia spazio ad un ricamo strumentale in cui una prima trama chitarristica (appena screziata da essenziali colpi alla batteria) viene presto gemellata da un secondo ricamo che si adagia sul precedente guitar work, ripetuto ad libitum. Al minuto esatto, finita questa sorta di nuova "parte introduttiva", prende il via il vero e proprio brano, dai connotati decisamente terremotanti (da notare come prima della partenza del brano si sia deciso di dare spazio prima ad una parte estremamente soffusa ed algida, quasi impalpabile, per poi dare spazio ad un lavoro strumentale di "media intensità", più fisico rispetto a quanto sentito in precedenza e meno intenso rispetto a quanto deve succedere. Un'autentica strategia del climax atta a generare tensione gradualmente). Le prime battute, dal minuto in poi, sono affidate alla sola chitarra, che parte in quarta vergando un riff "circolare" la cui reminiscenza è da cercarsi nel più canonico quanto godibilissimo thrash vecchia scuola. Pochi secondi dopo si aggiunge anche la batteria, dapprima essenziale (con pochi cronometrici rintocchi a scandire il tempo), quindi totalmente cooprotagonista della tessitura, veloce, decisa, in perfetta sincronia con il deflagrante rifferama. La texture si fa dunque incalzante, con il riffing di base ripetuto cronometricamente sino al subentrare della voce (a un minuto e ventiquattro), quando ci si assesta su ritmiche non eccessivamente dissimili rispetto a quanto sentito in precedenza (si echeggia il precedente lavoro alla chitarra e si mantiene la tensione) ma soggette a una certa variazione atta a rendere il riffing "quasi in sospeso" (il riff muta la sua circolarità, dunque, e si rimodella per avere maggiore adiacenza con il cantato). Riguardo alla voce possiamo dire che la voce di Shaun è un'"apocalisse" (nel senso "contemporaneo" del termine, che nulla c'entra con il concetto biblico che ha a che fare con la "rivelazione"): sporca e cavernosa, "raschiata" come quella di un paludoso mostro con una metastasi alla gola, ben si sposa con queste ritmiche ferine. Al minuto e tre quarti si ritorna al rifferama di base, accompagnato da un urlazzo animalesco. La voce scandisce ancora pochi isterici digrignamenti prima che, al subentrare del secondo minuto, si entri in un cambio di tempo. La chitarra, superata questa soglia, mette in campo un giro di chitarra quadrato e vertiginoso. La batteria rimane in sordina i primi secondi, per poi fungere da deciso accompagnamento all"ascia". Dieci secondi dopo si cambia ancora. La chitarra si presta ad un cesellamento che ha come reminiscenza tanto metal classico, sfoggiando a più riprese un'enfasi ottantiana e retrò, e scivolando in accordi più lunghi nei frangenti cantati. A due minuti e mezzo vi è un reprise del rifferama udito dal minuto in poi, che ci porta ad un frangente la cui struttura del tutto simile a quanto ascoltato sino ai due minuti. Con una puntualità cronometrica, a tre minuti e quindici secondi esatti ritorniamo in seno al giro vertiginoso di chitarra sentito dai due minuti in poi, mantenendo la struttura in un'adiacenza totale con quello che potremmo definire "il troncone precedente". Così, a quasi tre minuti e mezzo fa di nuovo la sua comparsa quel giro ottantiano alternato alla voce rauca del singer. Oltrepassati i quattro minuti fa la sua comparsa un solo guitar che ancora una volta subodora pesantemente di effluvi retrò (molto ottantiano, decisamente di reminiscenza classic metal). Finale affidato ad un ripescaggio del main riff. A livello testuale ci troviamo al cospetto di una song che parla di dannazione eterna, e, quasi sicuramente, come si evince da alcune parti del testo, di vampirismo ("Abbraccio il nero manto del cielo oscuro,/la coltre della notte, laddove la luce muore./Un'eterna sete brucia in me."). Il protagonista si trova emarginato dal giorno, confinato nella notte più nera, lontana da quasiasi sprazzo di luce solare, destinato a vagare nell'ombra in eterno. Immortale - come tutti i vampiri, del resto - alla ricerca di vittime che possano sfamare la sua sempiterna sete, in un peregrinare continuo che lo porta ad isolarsi nella sua tetra maledizione ("La lussuria e la sete sorgono nel mentre il crepuscolo si tramuta in notte,/ e le ombre crescono, oscure e minacciose./ Ancora quello stimolo, cado in tentazione, non conosco controllo../ Sono consumato da questo desiderio, non v'è più luce../ Corro con l'oscurità, per sempre.."). 

Blackened Skies

 A seguire troviamo la title track, ossia "Blackened Skies (Cieli Neri)", che non sposta di tanto il tiro rispetto alla traccia precedente, tranne per il fatto di puntare maggiormente su tessiture evocative rispetto ad un lancinante assalto all'arma bianca. La violenza  si stempera, in questo caso, in una maggiore ricercatezza melodica che si concretizza in un nugolo di ottime, ricercate tessiture chitarristiche inserite sapientemente in un brano che non ha più bisogno di gettarsi in violente accelerazioni preferendo colpire l'ascoltatore al cuore con trame irrorate di fragranti effluvi di epos. Ad aprire le danze sono roboanti note di chitarra elettrica sorde, secche, ripetute più e più volte. La batteria si inserisce molto dimessa, per scandire il tempo. Al diciassettesimo secondo si inserisce un serpeggiante intarsio chitarristico che va ad adagiarsi sulla struttura di base, generando un effetto ansiogeno, di "attesa", come se qualcosa di tremendamente grosso stesse per deflagrare sotto ai nostri piedi. A quasi quarantacinque secondi subentra un nuovo riff, dinamico, scattante, forte di un certo impatto e destinato a rafforzare la componente evocatica del brano, mai parossistico ed equilibrato nel distribuire una certa carica di violenza nei giusti momenti. Verso il cinquantacinquesimo secondo il riff si rafforza con un cesellamento chitarristico di una certa forza destinato a rafforzare ulteriormente la carica melodica del brano. Con il subentrare della voce (verso il minuto e sette) ritorna in campo prepotentemente il riff già sentito dal quarantacinquesimo secondo, che, in linea con quanto ascoltato prima, va ad includere ad un certo punto il medesimo cesellamento melodico (quello sentito dal cinquantacinquesimo secondo in poi). Dal minuto e trentacinque circa subentra un nuovo intarsio di chitarra, trasognato e sibilante, che entra in scena dopo un'ultimo urlo catacombale di Shaun, per ergersi a protagonista di questo nuovo frangente: voce e batteria infatti vengono messe in sordina in un primo momento per ritornare in scena dieci secondi dopo. E la voce, dal minuto e quarantacinque in poi accompagna questo desolante intarsio sibilante. A quasi due minuti un solo guitar, appendice e trasformazione dei precedenti cesellamenti di chitarra, dai quali si libera come un liberatorio, catartico svolazzo pindarico. Verso i due minuti e dieci si ritorna a quello che ormai possiamo considerare il main riff (quello sentito dai quarantacinque secondi in su). A due minuti e venti ritorna la voce, adagiandosi su quel rifferama, che come in precedenza, ad un certo punto, esplode in un'infioriscenza cromata (lo stesso cesellamento melodico udito dal cinquantacinquesimo secondo). E dai due minuti e cinquanta circa torna nuovamente quel serpeggiante giro di chitarra udito dal minuto e trentacinque. Il tutto segue una struttura rodata che ci porta, superati i tre minuti e dieci ad un altro solo guitar non eccessivamente dissimile dal precedente. A tre minuti e trentotto il tutto evapora in fade out. Il brano sembrerebbe finito, ma non è così: pochi secondi dopo emerge un nuovo giro di chitarra, echeggiando attraverso una soluzione cristallina il giro udito dal minuto e mezzo. Tale giro, sviluppandosi con il passare dei secondi e non loopandosi su se stesso, ci regala - ora si - una fine perfetta. Stavolta, a livello testuale, si parla della fine del mondo, della fine di tutto: dopo secoli di imperitura civiltà umana (a sottendere l'umanità dei protagonisti del pezzo ci pensa un verso, cioè "L'umanità è caduta ed è stata sottomessa" ) si arriva alla fine, all'estinzione, dovuta ad una fine del mondo (un "apocalisse" nel senso più moderno del termine) non aspettata ma alla fine inevitabile. E dopo tanto sfarzo, tanta arroganza, con architetture a testimoniare la grandezza umana, quel che inizia a farsi strada è il nulla, che prende il via da un totale oscuramento del cielo ("L'oscurità si manifesta su di noi,/ quaggiù la confusione è moltissima../ il giorno del giudizio è arrivato,/ guarda lì, in alto.. il cielo totalmente nero!!/ Ormai il tutto è un nulla esteso a perdita d'occhio,/ una terra di nessuno a dir poco sconfinata./ Viviamo senza un motivo, moriamo senza un motivo./ Un tempo qui c'erano gigantesche città, simbolo del nostro potere,/ della nostra vanità. Adesso il nulla.. solo ricordi consumati."). 

A Dusk Covers Day

Si continua con "A Dusk Covers Day (Il Crepuscolo cala sul giorno)", che inizia, un po' come accaduto nel primo brano (ma con le dovute differenze), in maniera soffice e soffusa, attraverso un ipnotico giro di chitarra acustica tanto mesto quanto capace di trasportarci verso strani lidi mentali inesplorati. Al trentesimo secondo, è una nota di chitarra elettrica prolungata a farci uscire dallo stato di narcotico torpore. E noi ascoltatori, Eloi in balia dell'anestetizzante loto, ora è come se venissimo assaliti di colpo dai Morlock (citazione da "La Macchina Del Tempo" di H.G.Wells). Un crepitio di batteria accompagna questa lunga nota tirata allo spasmo, e al quarantaduesimo secondo si incomincia a correre. La trama si fa veloce, la chitarra impone un riff molto dinamico ben coadiuvata dalla batteria. Rispetto alle trame molto melodiche del brano precedente qui si ricomincia a pestare, ma non esimendosi dal mettere in campo una bella melodia, quasi epica, di reminiscenza ottantiana (un buon tre quarti di true power - quello americano, non il ruffianissimo neo power - e un quarto, immancabile di cromie thrash). Il rifferama viene reiterato ancora ed ancora, sino a mesmerizzare la mente dell'ascoltatore. A un minuto e cinque subentra la voce, sempre particolarmente animalesca, mentre in sottofondo il rifferama rimane quasi il medesimo, con poche significative variazioni di sorta. A un minuto e ventotto, con l'uscita di scena della sezione vocale, la batteria impone un'accelerazione, coadiuvata dalla chitarra, che saetta un nuovo incalzante riffing destinato a perdurare anche con il ritorno in scena della voce (1 minuto e 40). A un minuto e cinquanta nuovo cambio di tempo e nuovo riffing a sostenere questo differente troncone. C'è quasi un botta e risposta tra un intarsio algido di chitarra e marziali mitragliate alla batteria. Il clima si fa maestoso, quasi epico e battagliero. Tale parte perdura sino ai due minuti e dodici, quando un nuovo gioco di chitarra e batteria si impone nella texture sonora. Ora la chitarra preferisce perdersi in giri meccanici culminanti con note allungate. La batteria esegue egregiamente il suo compito, non solo di supportare la chitarra e contribuire alla creazione di una buona base ritmica, ma esibendo una certa varietà (cosa non scontata in molti gruppi thrash). A due minuti e trentacinque si ritorna in seno al riff di partenza (quello dal quarantaduesimo secondo, che ora possiamo etichettare come "main riff"). E ci rincanaliamo in un frangente speculare a quanto sentito oltrepassata la soglia dei quaranta secondi, con annessi e connessi, cambi di tempo, di riff etc. Nulla da aggiungere su questa nuova parte, molto simile alla prima, tranne quel che possiamo udire dai quattro minuti e quindici in su: un'ultima nota allungata allo spasmo, un fragoroso gioco di batteria che sembrerebbe concludere il brano (quanti brani si concludono con variegati e fragorosi giochi "alle pelli"? Assai...) ma il brano non finisce qui (stesso escamotage del brano precedente), infatti è un interessante solo gutar a trasportarci deliziati alla fine del brano: dapprima meccanicamente reiterato ma sicuramente affascinante, quindi molto lirico e ottantiano (concedetemi pure "vagamente maideniano"). Il testo del brano è tutto incentrato su una sorta di "amarcord" del protagonista, che rimembra su un passato altresì dolce, rispetto all'aspro presente (tematica questa che ci può ricordare non pochi prodotti "burzumiani"). E la memoria si perde in frangenti ancora vivi per il protagonista, ma ormai appartenenti ad un tempo che fu. Un passato quasi mitico ora soppiantato da un presente triste, spoglio, forse in diretta continuazione con il testo del precedente brano, in cui si vedeva avvicinarsi in maniera funesta la fine del mondo. Forse, e dico forse, l'apocalisse è ormai sopraggiunto, la disperazione ha coperto il mondo, la gioia ha smesso di baluginare dagli sguardi ormai assenti dei pochi sopravvissuti.Il presente, quel che rimane, è solo dolore, disperazione, ed andare avanti è sempre una sorta di sfida ("Ho guardato le stelle brillare nell'oscurità per tanto di quel tempo../ ho percepito la tristezza che proveniva dai ricordi di un dolce passato./ Un passato ancora vivo nella mia mente, ma morto per il resto del mondo./ Perso, ormai, coperto dalle sabbie del tempo./ La tristezza colma il vuoto di questi ricordi ormai bruciati,e un freddo Vuoto rimbomba, nel mentre che il crepuscolo abbraccia il giorno./ Sopravvivere, oggi, vuol dire morire ancora da vivi...").

Weak In Numbers

 L'ultima "Weak In Numbers (Debolezza nei Numeri)" inizia mettendo in campo un giro di chitarra elettrica ansiogeno, da colonna sonora di qualche bel filmetto dell'orrore, accompagnata da una batteria sicuramente essenziale, da accompagnamento. Quindi niente velocità o funambolismi, il tutto si riduce all'essenziale per permettere alla chitarra di esprimere al massimo il proprio mortifero suono. A quasi trenta secondi pur restando la stessa traccia di base si impone un'accelerazione, che ci porta al cinquantesimo secondo ad una rullata di batteria e ad un cambio di riff. A subentrare è un giro ancora particolarmente ansiogeno, ma al contempo venato di epos, veloce, incalzante, coadiuvato da una batteria che ancora una volta sa mantenersi particolarmente varia. A un minuto e tre secondi si cambia di misura: pur mantenendo lo stesso rifferama di base la velocità aumenta (l'incremento di bpm è dettato dalle pelli, ancora pregne di una invidiabile varietà ma capaci ora di accelerare considerevolmente il passo). Dopo un lungo frangente esclusivamente strumentale, al minuto e venticinque fa finalmente la sua comparsa Shaun, con la sua triturante voce, che ora si presta anche a interessantissime modulazioni: sentire per credere lo shriek a un minuto e ventinove, poi destinato ad alternarsi con il suo "normale" range vocale, ossia il simil-growl usato in tutto l'arco del disco. A un minuto e quarantanove variazione nel riff, capace di richiamare certe architetture heavy e melodeath. Tale riff viene ripetuto più volte (quattro) prima di un'ennesimo cambio (preceduto da un ricamo di basso). Il riff che si va a sostituire al precedente risulta lo stesso sentito dal minuto e tre secondi. La nuova parte, ne consegue, segue gli stessi schemi uditi da quel particolare momento in poi. Verso i tre minuti e sette ancora un accordo prolungato di chitarra che potrebbe farci pensare ad una possibile chiusura del brano. Ma Dai tre minuti e un quarto siamo funestati (molto piacevolmente) da una gragnola marziale di colpi di batteria. Una appendice molto militaresca, ancora "disturbata" dal lungo accordo che fatica a spegnersi, trasformandosi invece cesellamento di chitarra che presupporrebbe nuove "invenzioni", ma che dopo poco entra nell'oblio. L'impostazione marziale dettata dalla batteria continua incessante, e ai tre minuti e quaranta si sviluppa un preambolo di chitarra che culmina con un grandioso, bellissimo solo accompagnata da una batteria che cambia il tempo ma mantiene la sua impostazione marziale, meccanica, con un eco post-thrash/groove. La batteria cessa il suo lavoro meccanico ai tre minuti e cinquantaquattro per tornare dunque entro coordinate più canoniche (ma la varietà non viene mai a mancare, nulla puzza di banale o trito. E già posso dire "magari tutti i gruppi thrash avessero un batterista come Mark!") mentre il solo si sviluppa lirico nel suo incedere volando libero nell'etere come uno stormo di fenici, con la stessa classe, bellezza e accecante luminosità. Ed è questo ultima grande prova (da brividi!) che ci porta al termine del brano. Il testo ha come fulcro il "j'accuse" del protagonista nei confronti di un subdolo personaggio capace di rubare fama, successo e personalità a molte persone dotate di un autentico valore, cosa che l'abbietto personaggio del brano non ha, essendo solo capace di parassitare l'"essenza vitale" dalle persone che lo circondano. Quindi riuscire ad avere gloria ed onori a discapito di molte altre persone che le avrebbero effettivamente meritate perchè più valide, più dotate. La sua infida personalità fa si che questi si circondi di un nutrito gruppo di persone, che lo considerano una sorta di "leader naturale". Un uomo forte di una personalità deviata, ma magnetica, simulacro, rappresentazione di tanti politici, politicanti, santoni, guru (Hitler, Manson, Jim Jones) che si sono succeduti nel secolo scorso. E metafora di come l'uomo segua il "potere": gli scaltri sfruttandolo a proprio favore, i deboli facendosene assoggettare per essere guidati, avendo purtroppo una personalità fragile e latitante ("La tua coscienza è morta assieme alla tua umanità,/ non avevi abbastanza forza per lottare affinché i tuoi sogni si realizzassero../ così hai deciso di rubare a chi invece ci è riuscito!/ Stringi fra le tue braccia la codardia e la debolezza,/ proprio come quegli sciocchi codardi che ti vengono dietro./ Sei la condanna per le vite di molti../ tu e quelli come te siete tutti uguali!!/ Sei accecato dalla cupidigia,/ ma senza il tuo branco sei solo un povero e debole sciacallo!").

Conclusioni

Cosa aggiungere dunque, che non abbiate già intuito nel corso di tutta la mia - più che ottimistica - recensione? Molto poco: il mio entusiasmo per un parto del genere è sicuramente alle stelle, e credo che se molti gruppi attuali suonassero in questa maniera, e avessero la stessa capacità di coinvolgimento (e aggiungerei: se avessero un vocalist/chitarrista micidiale come Shaun, e un batterista graziato dal Dio del Metallo come Mark) si assisterebbe ad una nuova AUTENTICA età dell'oro per il genere thrash, con punte che potrebbero dare parecchio filo da torcere anche ai maestri. E' bello sentire al giorno d'oggi un gruppo che suona con tanta convinzione e soprattutto con le idee molto chiare, senza voler sembrare il clone di questa e di quell'altra band. Certo, lo abbiamo detto, le influenze di certi grandi maestri si possono palesare durante l'ascolto di questo Ep, ma talmente è tanta la forza dei brani, e talmente sono diluiti certi "richiami primari" che quel che sentiamo, mettendo il cd nel nostro stereo, alla fine è orgogliosamente e rigorosamente un prodotto degli "In Malice's Wake", e non di un gruppo di imitatori. Poi da notare la difficoltà, in media, di un gruppo, di riuscire a convincere pienamente già solo attraverso un semplice Ep. di partenza. Normalmente un prodotto del genere serve più che altro come "riscaldamento" per tutto quel che verrà (o che potrebbe venire) ma i nostri, grazie a questo "Blackened Skies" modellano un mini disco perfetto, coinvolgente, esplosivo. Tutto quel che un vero thrasher vorrebbe sentire in un micro-parto del genere. Dunque poca roba ma tanta qualità, a dimostrazione che la ricetta della perfezione talvolta risiede nell'essenzialità. Infatti puntando su uno stringato lotto di pezzi estremamente riusciti ed evitando qualsiasi pappardella è possibile mantenere sempre alta l'attenzione, cosa che, come abbiamo appena visto, i nostri sono riusciti a fare molto bene. Dunque ragazzi miei, se siete dei thrashers, se amate il genere e lo seguite dagli albori, ma anche se siete dei neofiti e cercate un prodotto capace di prendervi al primo colpo... puntate tranquillamente su questo "Blackened Skies", primo assaggio di quello che i nostri faranno nel corso di una non lunghissima ma comunque brillante carriera, destinata ne tempo a regalarci altri parti di ottima fattura. Promossi senza riserva alcuna! Bravissimi ragazzi.

1) To Run With Darkness..
2) Blackened Skies
3) A Dusk Covers Day
4) Weak In Numbers
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